martedì 13 novembre 2012

Rileggendo Karl Löwith sui rapporti tra cristianesimo e storia. Indicazioni per la Dottrina sociale della Chiesa





di S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi

“La debolezza del cristianesimo moderno è di essere tanto moderno e così poco cristiano da assumere il linguaggio, i metodi e i risultati delle nostre ricerche profane – nell’illusione che le invenzioni moderne siano semplicemente degli strumenti neutrali, che possono essere cristianizzati da scopi morali, se non religiosi. In realtà esse sono il risultato del trionfo dello spirito laico e della fiducia dell’uomo in se stesso” (Karl Löwith)


Karl Löwith è soprattutto conosciuto in ambito cattolico per la sua teoria della natura originariamente cristiana delle moderne filosofie della storia. Egli ha mostrato – credo in modo forse insuperabile – come tutte le filosofie della storia che iniziano da Voltaire e arrivano a Hegel, Marx, Proudhon, Comte eccetera, sono derivazioni immanenti della visione trascendente della storia propria del cristianesimo. Esse sono la sostituzione della provvidenza con il progresso. Löwith è letto dal mondo cattolico come colui che ha dimostrato che il processo moderno di secolarizzazione non è anticristiano ma deriva dal cristianesimo. In questo modo cristianesimo e secolarizzazione, cristianesimo e modernità si rappacificano.

Questa interpretazione del pensiero di Karl Löwith è corretta, ma è insufficiente, in quanto trascura – a mio parere – due altre componenti del suo pensiero di non residuale importanza che, se considerate adeguatamente, mutano sostanzialmente il quadro di riferimento. Vorrei quindi procedere in questo modo: dapprima riassumerò le tesi di Löwith, dopo di che metterò in luce i due aspetti del suo pensiero che mi sembrano trascurati, quindi cercherò di trarre qualche conclusione utile per la Dottrina sociale della Chiesa. Mi rifarò soprattutto al testo: ”Significato e fine della storia. I presupposti teologici della teologia della storia” (Il Saggiatore, Milano 2010, prima edizione Chicago 1977).

La filosofia della storia è l’interpretazione sistematica della storia alla luce di un significato ultimo. Per questo essa ha bisogno della teologia della storia come storia della salvezza. Così è stato, infatti, da Agostino a Bossuet. Anche la filosofia moderna della storia, che inizia con Voltaire, trae origine, come la fede biblica, da un compimento futuro, ma lo secolarizza: “la fede nel progresso ha sostituito quella nella provvidenza”.

Il Manifesto di Karl Marx è “un messaggio escatologico e nel suo atteggiamento critico è profetico”, la sua storia segreta è “lo spirito religioso del profetismo”. Lo sfruttamento corrompe come il peccato originale, la fine del mondo capitalistico borghese è un giudizio finale, da una parte ci sono i proletari figli della luce e dall’altra i figli delle tenebre, il popolo eletto del proletariato ha una funzione universale e redentrice. Ne consegue la liquidazione definitiva della coscienza religiosa, non nella forma della critica alla religione, che era già stata fatta, ma nella forma della lotta contro i presupposti naturali e storici della religione, come per esempio la famiglia: “dopo che si è compreso che la famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è la prima che deve essere criticata teoricamente e sovvertita nella pratica».

Lasciando stare Hegel, nel quale è particolarmente evidente la secolarizzazione del cristianesimo, due altre figure acquistano una notevole importanza: Proudhon e Voltaire.

Il primo, come teorico del progresso, è il critico più radicale della provvidenza: “l’uomo deve sostituirsi a Dio” e l’ateismo umanitario è “l’ultima tappa della liberazione morale e intellettuale dell’uomo, e serve insieme alla verificazione di tutti quei dogmi che sono stati distrutti dall’analisi razionale, dall’infaticabile Satana che indaga incessantemente”. Proudhon riconosce come Dio padre l’angelo caduto e afferma “tocca ora a noi l’insegnamento della teologia”.

Scrivendo nel 1756 l’Essai sur le moeurs et l’esprit des nations, Voltaire fonda la filosofia della storia su un motivo antireligioso: ”la scure è posta alla radice dell’albero”. Con lui “il significato e lo scopo della storia stanno nel miglioramento della condizione umana mediante la ragione, nel rendere l’uomo meno ignorante, migliore e più felice”.

E’ a questo punto, davanti a questi esiti totalmente anticristiani della filosofia moderna della storia che Löwith esprime gli altri due aspetti del suo pensiero a cui facevo riferimento sopra. La domanda è inevitabile: “Anche presupponendo che l’idea del progresso si lasci dedurre dalla speranza cristiana, rimane ancora da chiederci: come potrebbe il cristianesimo produrre conseguenze anticristiane? E’ esso progressista in se stesso e perciò in grado di dar vita alla fede secolare nel progresso come ad una creatura illegittima, o è invece progressista in un senso completamente diverso da quello del mondo post cristiano?” (p. 133).

Prima di esaminare la risposta che Löwith dà a queste radicali domande, esamino un punto delicato: c’è un momento nella storia del pensiero moderno in cui la filosofia moderna della storia abbandona irreversibilmente l’origine cristiana? Credo di riscontrare questo punto nella interpretazione che Löwith dà del pensiero di Comte.

Anche il positivismo è una secolarizzazione del cristianesimo, in quanto la provvidenza qui è sostituita da una “evoluzione” che comporta ordine e progresso. L’aspetto più interessante del pensiero di Comte non è però questo, quanto che “per sostituire all’assolutismo teologico il relativismo scientifico egli fu costretto a porre la relatività stessa come principio assoluto” (p. 91). “La nuova filosofia di Comte è un relativismo in senso radicale e letterale, in quanto si volge esclusivamente allo studio di relazioni” (p. 92).

Ecco allora i due aspetti solitamente trascurati da parte cattolica del pensiero di Löwith: il primo è che l’esito della secolarizzazione moderna del cristianesimo è anticristiana, il secondo è che questo distacco dall’origine si ha soprattutto con Comte e non è per caso che ai giorni nostri è proprio il positivismo a porsi radicalmente come posizione “senza Dio”.

Torniamo allora alla ingombrante e lucida domanda di Löwith vista sopra: il cristianesimo è progressista in sé oppure no? Se la risposta è sì, allora vuol dire che il progressismo secolarizzato è figlio suo, anche se illegittimo, e la secolarizzazione moderna può dirsi cristiana. Se la risposta è no vuol dire che la secolarizzazione moderna è per sua natura intimamente anticristiana e il cristianesimo, accettandola o abbracciandola, perde se stesso. Come si vede, considerare Karl Löwith solo come colui che avrebbe dimostrato l’ascendenza cristiana delle moderne filosofie della storia è alquanto riduttivo.

La risposta di Löwith è no, il cristianesimo non è progressista. Ne deriva, quindi, non un abbraccio tra cristianesimo e secolarizzazione moderna, ma una drammatica opposizione che Löwith esprime con affermazioni che dovrebbero comunque suscitare preoccupazione nei cristiani: “La debolezza del cristianesimo moderno è di essere tanto moderno e così poco cristiano da assumere il linguaggio, i metodi e i risultati delle nostre ricerche profane – nell’illusione che le invenzioni moderne siano semplicemente degli strumenti neutrali, che possono essere cristianizzati da scopi morali, se non religiosi. In realtà esse sono il risultato del trionfo dello spirito laico e della fiducia dell’uomo in se stesso” (p. 136).

Vediamo allora perché egli risponde di no. Osserveremo che la risposta non è pienamente condivisibile, ma che tuttavia contiene importanti insegnamenti.

Secondo Löwith il cristianesimo non è progressista perché non è interessato al progresso in questo mondo. “I Vangeli non promettono futuri miglioramenti nella nostra condizione umana, bensì il prossimo avvento del regno di Dio in opposizione al regno di questo mondo” (p. 134). “La redenzione non si ottiene attraverso uno sviluppo graduale delle nostre capacità naturali, ma attraverso una decisa conversione” (p. 134).

“Originariamente il cristianesimo non pretendeva di modificare la storia del mondo, annunciava soltanto un nuovo cielo e una nuova terra dopo la fine di questo mondo” (p. 241). Il mondo moderno crede nel progresso perché non accetta l’idea di una rivelazione assoluta, ossia che in Cristo la storia abbia già raggiunto la sua perfezione. Dopo Cristo non ci può più essere progresso, se confrontato con Cristo; ma nemmeno prima di Cristo ci poteva essere progresso, dato che Cristo non è il frutto dell’evoluzione precedente del genere umano. Non solo il cristianesimo non è una religione del progresso, ma non crede nemmeno nel progresso della religione. Non c’è senso a pensare che oggi lo stato della religione sia progredito rispetto a quello della Chiesa delle origini. Si può pensare al cristianesimo come progressista, ma allora bisogna accettare la posizione di Gioacchino da Fiore secondo cui “tutto è sottoposto ad un mutamento, anche la Chiesa e la sua dottrina” (p. 181).

Löwith ritiene che “la storia profana non ha alcuna importanza immediata. Qualsiasi cosa accada tra il presente e la fine è irrilevante in confronto all’alternativa tra l’accettazione e il rifiuto del messaggio cristiano” (p. 192). ”Quello che veramente importa nella storia non è la transitoria grandezza degli imperi, bensì la redenzione e la dannazione” (p. 194). “La Chiesa sta in relazione con gli avvenimenti profani, per quel tanto che essi servono al fine trascendente di costruire la casa di Dio” (p.195). E cita Agostino: “Per quel che riguarda infatti questa vita mortale, che si svolge e si conduce in pochi giorni, che cosa importa sotto quale impero viva l’uomo che deve morire, se quelli che comandano non lo costringono ad azioni empie ed inique?” (p.197).

Ecco allora il paradosso: la secolarizzazione moderna ha mutuato l’idea di progresso dal cristianesimo, ma il cristianesimo non era progressista. Il cristianesimo ne è stato l’occasione ma non il motivo. Con la conseguenza che nella società secolarizzata di oggi tutto e in un certo modo cristiano e tutto è anche anticristiano.

Quando il cristianesimo si interessa del mondo e del progresso, snatura se stesso. Löwith concorda con molte affermazioni di Buckhardt: un “cristianesimo diluito fino a diventare un umanitarismo generico, dove il sacerdote è in primo luogo un uomo di cultura, poi un teologo filosofante e infine un uomo angosciato, non può fare appello agli uomini come religione beatificante” (p. 49). Il cristianesimo deve mantenere il conflitto con il saeculum e non deve essere il promotore della cultura laica. A fare la differenza sono il peccato originale e la Croce.

Dicevo che la risposta di Löwith non è pienamente condivisibile. Ne consegue infatti una indifferenza per la vita nel mondo - “la teologia del Nuovo Testamento è sostanzialmente indifferente alla teoria politica di questo mondo” (p. 215) - che non è cristiana, perché la provvidenza di Dio misteriosamente si esercita anche per i bisogni umani dei suoi figli. E’ vero che da un punto di vista essenziale l’uomo “agli inizi della storia non era meno uomo di quanto lo sarà alla fine” (p. 217), ma ciò non significa che l’umanità non sviluppi un lecito e doveroso sforzo per migliorare le condizioni umane sul piano materiale e morale. Lo sviluppo materiale della civiltà può non avere influenza sulla salvezza eterna e in certi casi può addirittura essere dannoso per la salvezza delle anime, ma questo accade perché non è mai solo materiale e quindi in senso cristiano il concetto di “progressio” non è mai equivalente a sviluppo o a evoluzione. Alla religione cristiana interessa tutto l’uomo e la salvezza riguarda tutte le sue dimensioni.

Quella di Löwith è una storia che rimane “cieca” perché secondo lui “non risultano” né empiricamente né per fede, i positivi influssi del cristianesimo su di essa: “Come storia del mondo la storia dopo Cristo non è qualitativamente diversa da quella prima di Cristo … La storia in tutti i tempi, è una storia di azioni e di sofferenze, di prepotenze e di umiliazioni, di peccato e di morte … La storia è la scena di una vita intensissima, che lascia dietro di sé sempre nuove rovine” (p. 217). Lo stacco tra la storia di questo mondo e la proposta cristiana è talmente forte da fargli sostenere l’inutilità del cristianesimo per la storia di questo mondo: Cristo non ha cambiato niente: “Il cristianesimo come religione storica è fallito. Il mondo è ancora come ai tempi di Alarico” (p. 219). Cristo ha invece cambiato tutto anche qui e nella storia ci sono prepotenze e umiliazioni ma anche carità e santità. Löwith è del parere che per il cristianesimo “la storia è priva di un senso proprio” (p. 206), ma non è così: essa è priva di un senso ultimo, non di un senso proprio. L’unica vocazione dell’uomo e la finale ricapitolazione di tutte le cose in Cristo conferiscono un senso anche alla storia umana di questo mondo, anche se non è il senso ultimo, che appartiene all’eternità.

Bisogna però riconoscere che la lezione di Löwith contiene anche utili insegnamenti per chi si occupa di Dottrina sociale della Chiesa. L’accomodamento al mondo è una tentazione potente, la smania di adeguarsi al progresso mondano e di appagarsi di esso è forte e suadente, l’idea di presentare il cristianesimo come l’anima di un umanitarismo filantropico universale è tanto diffusa quanto letale per la fede cristiana. Possono quindi risultare utili una critica al “cristianesimo moderno che, per rimanere accettabile, vive di un compromesso col mondo” (p. 49) e la consapevolezza che ci sarà un conflitto permanente con il saeculum. E’ questo un aspetto che talvolta gli attori della Dottrina sociale della Chiesa tendono a trascurare in cerca di un concordismo talvolta forzato con i successi del progresso e i traguardi della civiltà.

La secolarizzazione è accolta da molti cristiani come conseguente al cristianesimo e quindi come cristiana. Mi sembra che l’idea di Löwith secondo cui, invece, essa ha esiti totalmente anticristiani, dovrebbe produrre salutari ripensamenti. La secolarizzazione moderna è ben di più e ben di peggio di una “eresia cristiana”.
Löwith insiste sul fatto che questa storia è per il cristianesimo solo un interim tra l’evento della caduta e l’evento della redenzione finale. Ricordare questo è utile per evitare le conseguenze negative della contrapposta idea di Gioacchino, ossia che ci sia un unico cursus temporis. Ma è evidente che, prese in se stesse, ambedue le posizioni sono inaccettabili. Il cristianesimo non è essenziale storicità come sosteneva Gioacchino, e nemmeno essenziale astoricità come sembra ritenere Löwith.

E’ dal mantenimento di ambedue le dimensioni che trova giustificazione la Dottrina sociale della Chiesa. Se il cristianesimo è essenzialmente storico sarà il progresso del mondo a garantire il regno di Dio sulla terra. Se il cristianesimo è essenzialmente astorico l’andamento del mondo è cosa indifferente. La Dottrina sociale della Chiesa non trova spazio nella posizione di Löwith, ma nemmeno in quella di Gioacchino da Fiore. Il mondo non arriva per proprio impulso alla soluzione definitiva e non c’è “compimento della storia nella storia” (p. 183), per questo non c’è bisogno di una Chiesa spiritualizzata rispetto ai suoi impegni mondani, ben sapendo che questi impegni mondani debbono sempre fare i conti con il misterium iniquitatis. Con il che sono anche fatti i conti con la secolarizzazione.



http://www.vanthuanobservatory.org   1 ottobre 2012

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