mercoledì 21 novembre 2012

Ermeneutica del Concilio: riflessioni sull'equivoco di fondo









Questo articolo, di don Antonio Ucciardo, continua il discorso aperto da mons. Antonio Livi, su questo sito, nella rubrica Ermeneutica del Concilio. Esso sofferma la propria attenzione sull’importanza di leggere l’“evento Vaticano II” all’interno della Chiesa, e quindi tendendo ben presente la parola dei Pontefici che si sono succeduti dopo quell’assise. Emblematico è il riferimento ad una delle tante udienze che Paolo VI tenne proprio soffermandosi sulla questione dell’ermeneutica; qui il papa ribadisce l’unicità del messaggio salvifico di Cristo e della Santa Chiesa, mettendo in guardia da riduzionismi, come quello sociologico.

Quindi anche in questo articolo risuona alta la voce del Magistero, che indica ai fedeli la via da seguire, evitando estremismi di ogni genere. Ciò è espresso con maggior chiarezza dall’Istruzione Donum Veritatis, dove, al n.12, leggiamo: «La libertà di ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa disponibilità ad accogliere la verità così come essa si presenta al termine di una ricerca, nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle esigenze di un metodo che corrisponda all’oggetto studiato. In teologia questa libertà di ricerca si iscrive all’interno di un sapere razionale il cui oggetto è dato dalla Rivelazione, trasmessa ed interpretata nella Chiesa sotto l’autorità del Magistero, ed accolta dalla fede. Trascurare questi dati, che hanno un valore di principio, equivarrebbe a smettere di fare teologia.»  
(Giovanni Covino)


di don Antonio Ucciardo

La questione ermeneutica risulta determinante nello sforzo di comprensione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Se non fosse sufficiente l'autorevole presa di posizione di Benedetto XVI (1), dalla quale ha avuto inizio una ricomprensione sottratta finalmente alla clandestinità e all'ostracismo, ci basterebbe sapere che siamo di fronte a testi. Essi trasmettono dati che derivano da un patrimonio molto ricco di teologia, sono comprensibili soltanto in un'ottica di fede, tentano di esporre in un modo diverso rispetto ai Sinodi precedenti l'immutabile deposito di cui la Chiesa è custode (2), ma si tratta pur sempre di testi. Da questo punto di vista non dovrebbe essere un'impresa titanica il tentativo di leggerli secondo i criteri dell'ermeneutica. Tanto più che la distanza ravvicinata rende meno labile la linea di demarcazione che, inevitabilmente, viene ad essere tracciata tra un autore e il suo lettore. Il fatto che poi si tratti di un linguaggio comune nell'ambito della fede, rende questa linea addirittura quasi del tutto inesistente. Perché l'autore è in realtà il soggetto Chiesa, dinanzi al quale spariscono gli estensori materiali e i padri che hanno votato. Allo storico e al teologo risulta oltremodo opportuno considerare anche gli aspetti secondari, e persino quelli marginali, dell'elaborazione dei testi. Nessuna operazione del genere risulta improduttiva, se si vuole inquadrare il Concilio in una determinata fase della vita della Chiesa. Non si può capire, per esempio, perché il Vaticano I abbia privilegiato il pronunciamento sul primato del Romano Pontefice rispetto ad altre questioni che pure necessitavano di trattazione nell'ambito della riflessione sulla Chiesa, senza considerare ciò che avveniva sulla scena europea. Così, ancora, si può comprendere soltanto da studi collaterali perché il Vaticano II abbia scelto di tacere sul comunismo in anni di profonda sofferenza di ampie zone della Chiesa. È chiaro, tuttavia, che la dottrina esposta dall'assise rappresenta una chiara sconfessione dei principi ideologici che sottostanno a quella filosofia e alle sue attuazioni concrete nell'ambito sociale e politico. Insomma, per quanto complessa possa apparire ad una prima lettura, l'ermeneutica del Concilio non è affatto proibitiva. Bisogna però che essa sia limitata, come ogni ermeneutica, ai testi e non agli aspetti secondari. Questi possono essere richiamati, ed anche doverosamente, ma soltanto ai fini di una comprensione adeguata degli stessi testi, e non certamente per immaginare una serie di testi che avrebbero potuto prendere forma, ma che di fatto esistono soltanto nella mente di chi esula dal dettato del Concilio. Conosciamo già, e fin troppo bene, quell'ermeneutica che nella Scrittura distingue il dato rivelato da impressioni meramente umane e da rielaborazioni successive, che finiscono per alterare la lettura corretta. Il Gesù della storia, per esempio, ha mai pensato ad un primato da dare a Pietro? Non è più plausibile ipotizzare che al Gesù post-pasquale venga attribuita la concessione di poteri che servono a quel gruppo per avere consistenza e compattezza agli occhi degli Ebrei? Pietro è stato rimproverato da Gesù, ed ha persino rinnegato il suo Maestro. Questi possono essere dati certi, sui quali si è poi costruita l'immagine del Pietro chiamato a legare e a sciogliere. Tuttavia un'altra ermeneutica può riconoscere che gli episodi sconcertanti, mantenuti nei vangeli, attestano la veridicità dei racconti, e perciò anche l'attribuzione del potere nella fase pre-pasquale. Come si vede, l'ermeneutica non ricopre un ruolo indifferente nella lettura di un testo ispirato. È solo sulla base di una lettura distorta dei dati, completamente avulsa da una visione di fede, che si è potuta ingenerare una divisione apparentemente innocua nella lettura della persona e del mistero di Gesù. Non stiamo richiamando quest'aspetto soltanto per un fine esemplificativo. È chiaro che alcune questioni devono essere poste ed analizzate, e che lacristologia necessita di una gesuologia. Cosa , tuttavia, finisce per affermarsi del Gesù sezionato in questo modo? Soltanto un evento! Così che tutti possono ritrovarsi in questa figura, sia chi lo considera Dio, sia chi pensa ad un uomo visitato da Dio o ad un predicatore capace di dire cose che segnano uno spartiacque nella storia. Un evento, cioè un messaggio capace di imporsi al di là delle aspettative concrete dello stesso Gesù. Non dimentichiamo che per alcuni illustri studiosi Gesù terminò la sua missione con la massima delle frustrazioni, giacché il Regno annunciato non venne. Per altri, addirittura, Egli annunciò questo regno, ma poi venne la Chiesa, con tutto ciò che comporta una simile impostura. Un evento, quindi; nient'altro che una carica profetica di incalcolabile portata nel cuore della storia: amare i nemici, perdonare tutti, amarsi gli uni gli altri, accogliere i poveri e i sofferenti. 

Ora, mutatis mutandis, si direbbe che la stessa cosa sia avvenuta con il Vaticano II. La categoria comprensiva è diventata quella dell'Evento. Ciò risulta in modo evidente da numerose prese di posizione, scientifiche o meno. E giustifica anche il costante richiamo alla continuità, al dovere di leggere il Concilio alla luce di tutta la Tradizione. Quando il Papa parla di Concilio, allude chiaramente ai testi e non ad un evento. L'evento c'è, indubbiamente, ed è il singolare momento di grazia che il Signore ha donato alla Sua Chiesa. Ciò è stato richiamato più volte da tutti i Papi che si sono succeduti in questi cinque decenni. È un evento il carattere pastorale, è un evento la singolare esperienza di comunione del consesso di vescovi più numeroso della storia, è un evento l'attenzione del mondo intero, ormai dotato di mezzi di comunicazione di massa, per quel Concilio. Non solo un evento, quindi, ma più eventi, come le facce di un unico diamante. Ma il Concilio non è questo, pur essendo anche questo! Oggi è un diletto leggere, anche indipendentemente da motivi strettamente teologici e catechetici, pagine mirabili sugli anni successivi al Concilio di Nicea. Ma è chiaro per tutti che il Concilio di Nicea è costituito dai suoi canoni, e non da altro. Per il Vaticano II è accaduto, invece, l'esatto contrario: i testi non contano, mentre conta l'evento. E difatti non mancano definizioni di ogni genere, alcune delle quali desunti persino da testi magisteriali e piegati al proprio fine: Profezia, Sogno, Pentecoste, Primavera, Slancio, Apertura al mondo, Balzo, Libertà, Fine della Chiesa costantiniana, etc.. Si comprende, perciò, perché il Papa abbia additato la necessità di tornare ai testi anche nel momento celebrativo del Cinquantennio: «ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento» (3).

Affermato che il Concilio è stato anche un evento, possiamo ritenere affidabile quale criterio ermeneutico proprio la categoria dell'evento? Va precisato, prima di ogni cosa, che l'evento non è una realtà materiale. Si compone di cose che possono essere udite, viste, percepite, lette. Non è per nulla vero che soltanto un testo può trasmettere il senso dell'evento, ma occorre sempre una testimonianza dell'evento che possa evitare letture arbitrarie. La nostra fede si è propagata, da subito, per la testimonianza di coloro che avevano visto il Signore Risorto. Solo che la predicazione e la testimonianza vertono su fatti concreti: "ha detto questo, ha fatto questo, ha chiesto questo". In un certo senso, come attesta il proposito di raccontare gli avvenimenti espresso dall'evangelista Luca (cfr. Lc 1,1), è l'ordine che regge tutto. Le parole di Gesù, consegnate alla catechesi orale e con buona probabilità anche a scritti che precedono i vangeli, si fissano, in modo chiaro, e finiscono per determinare la lettura dell'evento. L'averlo visto Risorto dà luce alle parole dal Lui dette prima, ma non determina la creazione di quelle parole. Troviamo quindi, all'inizio stesso del cristianesimo, alcune parole, che confluiranno poi nei testi. Non tutte, ma solo quelle necessarie a comprendere l'evento ed il suo reale significato (cfr. Gv 20, 30-31). Sono le parole, in altri termini, a guidare alla comprensione dell'evento. In ambito profano non mancano esempi similari. Se volessimo raccontare la Rivoluzione Francese, potremmo guardare all'evento in se stesso e racchiuderlo nelle celebri espressioni che sembrano aver rifondato la storia stessa. Se andiamo però ad indagare accuratamente sui testi, tanto dei suoi teorici, quanto delle sue pubbliche deliberazioni, comprendiamo cosa si intendesse esattamente per libertà o per uguaglianza. La ricostruzione storica non può avvenire, pertanto, sulla scia emotiva dell'evento, bensì sui testi in nostro possesso. Altri fattori possono illuminare la comprensione, ma l'evento reale è fissato, per sempre, sui testi.

Prescindendo da una visuale di fede, non possiamo trattare il Concilio in modo diverso rispetto a qualunque evento storico. Il fatto che esso sia poi un evento che chiama in causa la fede, deve renderci estremamente attenti, perché le coordinate di comprensione e di lettura non derivano dall'assemblea dei vescovi, ma da Colui che della Chiesa è il fondatore. Assumiamo, quindi, delle coordinate che sono già definite da un centro immodificabile, al quale devono ricondurre tutti gli sviluppi successivi. L'esperienza del Beato John Henry Newman avrebbe dovuto insegnare qualcosa! Infatti, non risulta da alcun testo del Concilio che i padri volessero modificare quel centro. Anzi, nemmeno pensavano di poterlo fare. Essi stessi applicavano un'ermeneutica al deposito ricevuto per rendere comprensibile il tesoro della fede nelle mutate condizioni dei tempi. Il loro metodo, e nessun altro, dovrebbe guidare anche nell'ermeneutica riservata ai loro testi. Essi per primi guardarono alla Tradizione, vale a dire a ciò «che in ogni luogo, sempre e da tutti è stato creduto» (4). Essi stessi vollero guardare in avanti, ma per trasmettere le ricchezze di quella Tradizione con metodi e con linguaggio adatti alle nuove circostanze. Non volevano, né potevano, rifondare la Chiesa. Nemmeno agli inizi vi fu una presunzione del genere, come ha ricordato Benedetto XVI in apertura dell'ultimo Sinodo dei Vescovi: «noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione» (5). 

I testi stessi, dunque, rappresentano l'ermeneutica del Concilio. I padri si sono resi conto perfettamente di essere stati chiamati a vivere un evento, e ne hanno fissato i tratti determinanti nei documenti prodotti. Non possiamo pertanto applicare al Concilio la sovrabbondanza dell'evento rispetto ai testi che lo fissano. Anche perché l'evento non mirava a cambiare alcunché. Il solo mutamento era insito nel carattere stesso dell'assise, che, per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa, voleva avere un linguaggio pastorale e non dogmatico nel senso meramente tecnico del termine e della sua applicazione ai Concili. Cosa è sopravvenuto, allora? Di quale evento vogliono parlare i fautori dell'ermeneutica della rottura? Possiamo fidarci delle parole del Papa che ha concluso il Concilio. Stranamente, nessuno di quei fautori si cura di esaminare l'ermeneutica che Paolo VI ha personalmente fatto del Concilio in diverse occasioni. Il criterio di una seria ermeneutica vuole - lo abbiamo ricordato- che assuma un particolare rilievo la testimonianza di chi ha visto, sentito, scritto. A ridosso dell'evento, il Papa che ha approvato i documenti conciliari, avviava quella singolare ermeneutica dell'ermeneutica che è sopravvissuta fino ad oggi nei pronunciamenti magisteriali. Nella Catechesi all'Udienza generale del 3 dicembre 1969 Paolo VI afferma: «Noi vi supponiamo tutti buoni e fedeli, e desiderosi d’incontrare il volto della Chiesa vera; un volto giovane e vivo, un volto bello, come un volto di sposa, la sposa di Cristo, “senza alcuna macchia, senza difetti, santa e immacolata” (cfr. Eph. 5, 27), come dice San Paolo, e come il Concilio ci aveva lasciato sperare. Invece pare a Noi d’intravedere nei vostri cuori un doloroso stupore: dov’è la Chiesa, che noi amiamo, che noi desideriamo? Quella d’ieri era forse migliore di quella d’oggi? E quella di domani, quale sarà? Un senso di confusione sembra diffondersi anche nelle file dei migliori figli della Chiesa, talora anche fra i più studiosi e fra i più autorevoli. Si parla tanto di autenticità; ma dove la possiamo trovare, mentre tante cose caratteristiche, alcune anche essenziali, sono messe in questione? Si parla tanto di unità: e molti cercano d’andare per conto proprio. Di apostolato: e dove sono gli apostoli generosi e entusiasti, mentre le vocazioni diminuiscono, e fra il Laicato cattolico stesso si affievolisce la coesione e lo spirito di conquista? Si parla tanto di carità, e si respira in certi ambienti stessi ecclesiali un fiato critico ed amaro, che non può essere quello del vento di Pentecoste. E che dire della marea avversaria alla religione, alla Chiesa, che sale intorno a noi? Un senso d’incertezza percorre, come un brivido febbrile, il corpo ecclesiale; è mai possibile che questo paralizzi nella Chiesa cattolica il suo carisma caratteristico, quello della sicurezza e del vigore?». Fin qui l'analisi. Diremmo un'ermeneutica dell'evento, così come richiedono gli apostoli della rottura: non vi sono testi, ma soltanto una lettura globale dei frutti evidenti dell'evento nella vita della Chiesa. Più avanti, però, il Papa risponde a questa sua ermeneutica con un'altra ermeneutica, sempre ascrivibile al campo degli eventi: «La diffusione della parola vera e sana - della predicazione sacra, della scuola fondata su principii cristiani, della stampa improntata al nome cattolico, o relativa al magistero della Chiesa - può essere l’antidoto opportuno alla vertigine delle troppe voci rumorose, che riempiono oggi le correnti della pubblica opinione.

La quale tende oggi a prodursi anche con un metodo, che possiamo chiamare nuovo, quello dell’inchiesta sociologica. È di moda; e si presenta con la severità del metodo, che pare del tutto positivo e scientifico, e con l’autorità del numero; così che il risultato d’un’inchiesta tende a diventare decisivo, non solo nell’osservazione d’un fatto collettivo, ma nell’indicazione d’una norma da adeguare al risultato stesso. Il fatto diventa legge. Potrebbe essere un fatto negativo, e l’inchiesta tende egualmente a giustificarlo come normativo. Senza tener conto che l’oggetto d’un’inchiesta è, di solito, parziale e quasi isolato dal contesto sociale e morale, in cui è inserito, e che riguarda spesso l’aspetto soltanto soggettivo, cioè quello dell’interesse privato o psicologico, del fatto osservato; non quello dell’interesse generale e d’una legge da compiere. L’inchiesta allora può generare un’incertezza morale, socialmente assai pericolosa. Sarà sempre utile come analisi d’una situazione particolare; ma per noi, seguaci del regno di Dio, essa dovrà sottoporre i suoi risultati a criteri diversi e superiori, come quelli delle esigenze dottrinali della Fede e della guida pastorale sui sentieri del Vangelo. Questo ci fa riflettere se i malanni, dei quali soffre oggi nel suo interno la Chiesa, non siano principalmente dovuti alla contestazione, tacita o palese, della sua autorità, cioè della fiducia, dell’unità, dell’armonia, della compagine nella verità e nella carità, secondo la quale Cristo l’ha concepita e istituita, e la tradizione per noi l’ha sviluppata e trasmessa» (6).

Una citazione lunga, ma necessaria. Alcune parole vanno evidenziate: «il risultato d’un’inchiesta tende a diventare decisivo, non solo nell’osservazione d’un fatto collettivo, ma nell’indicazione d’una norma da adeguare al risultato stesso. Il fatto diventa legge». Se applichiamo quest'analisi al nostro discorso, possiamo dire che l'evento viene letto sulla base di fattori ad esso estranei, e che la lettura sostituisce ciò che l'evento ha voluto produrre. È chiaro che per adeguare il Concilio alle istanze che chiedono di diventare legge, occorre prescindere dai testi e dalle ermeneutiche relative ai testi, che possono venire da chi ha la responsabilità di quanto in essi è fissato. Un vero e proprio ammutinamento, avvenuto in nome del Concilio. Il passo successivo è quello di evitare che ai testi si possa ricorrere in futuro. Occorre pertanto una vera e propria ermeneutica parallela che si imponga. Lo "spirito" del Concilio comincia ad aleggiare. Un preteso Concilio parallelo viene a sostituirsi al vero Concilio della Chiesa Cattolica. In tal modo, non siamo più davanti all'ermeneutica del Concilio: siamo passati a qualcosa di radicalmente diverso.




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Note

(1) Cfr. Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005.
(2) «Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale». B. Giovanni XXIII, Discorso per l'Apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962.
(3) Benedetto XVI, Omelia nella S. Messa per l'apertura dell'Anno della Fede, 11 ottobre 2012.
(4) S. Vincenzo di Lerins, Commonitorium, 2.
(5) Benedetto XVI, Meditazione nel corso della Prima Gongregazione Generale del XIII Sinodo dei Vescovi, 8 ottobre 20012.
(6) Paolo VI, Catechesi del 3 dicembre 1969.




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