sabato 14 luglio 2012

Il luogo dell’anima

 
di padre Giovanni Cavalcoli




La psicologia moderna nata da Cartesio affronta espressamente una questione pressoché ignorata dalla psicologia medioevale, ossia quella del luogo dell’anima, ovvero se l’anima occupa uno spazio o si trova nel luogo, sì che le realtà tra le quali o nelle quali l’anima vive ed esiste, compreso il corpo stesso che essa anima, possano considerarsi in qualche modo “fuori” dell’anima e del suo atto di pensare.

S.Tommaso conosce certamente una res extra animam e una res in anima, ciò che poi successivamente si sarebbe chiamato “l’essere “ e il “pensiero”, ovvero la “cosa in sé” e l’“idea della cosa”. Ma questa distinzione appariva evidente e non si sentiva il bisogno di fondarla o chiarirla o approfondirla facendo intervenire il problema della collocazione dell’anima nel luogo in rapporto con altri corpi (animati o inanimati) nello spazio.

Come ci ricordano gli storici della filosofia, il realismo gnoseologico era dato per scontato e a nessuno veniva in mente di identificare, come sarebbe cominciato ad avvenire con Cartesio, l’essere con l’essere pensato, secondo quel motto di Berkeley poi divenuto famoso, esse est percipi.
Era ovvio che la realtà è fuori del pensiero e distinta dal pensiero, seppure in armonia col pensiero e che il pensiero può coglierla nell’idea rappresentandola veramente come è in se stessa. S.Tommaso, nella famosa definizione della verità, parla come è noto di un’adaequatio fra il pensiero e l’essere (De Ver.,1,1), il che dà per pacifica la distinzione reale tra i due termini, mentre dedica appena un articolo della Summa Theologiae (I,85,2) a chiedersi se ciò che noi conosciamo sono le species delle cose o le cose stesse e, dopo aver scartato con sicurezza la prima tesi per la seconda, passa senz’altro ad argomenti. Non c’è dubbio che l’Aquinate, dopo l’avvento dell’idealismo , attento come’era i problemi del suo tempo, avrebbe dedicato enormemente più spazio (come hanno fatto i suoi discepoli moderni) all’esame della questione ed alla confutazione degli errori annessi.

Insomma, la psicologia medioevale era certamente consapevole che l’anima ha un rapporto con lo spazio, ma non si interrogava ulteriormente come e quale fosse questo rapporto, giacchè l’interesse per la questione dello spazio si limitava a considerare il rapporto di questo col corpo e non con l’anima.
Cartesio conferma la visione medioevale del rapporto del corpo con la spazio, tanto che, come è noto, egli designa il corpo umano come res extensa. Si conferma così che il corpi, corpo umano compreso, sono nello spazio. Nasce tuttavia impellente la questione del rapporto che l’anima possa avere con lo spazio. La concezione cartesiana dell’uomo e dell’anima presenta su questo argomento una netta e chiara presa di posizione: mentre il corpo per definizione ha rapporto con lo spazio, l’anima, la res cogitans, per definizione non ha rapporto con lo spazio.
Bisogna dare atto a Cartesio della sua sensibilità per la caratteristica dello spirito e del pensiero di trascendere lo spazio e di non essere affatto una cosa spaziale. Senonchè la risposta cartesiana al problema del rapporto dell’anima con lo spazio appare troppo drastica e perciò unilaterale e falsa.Cartesio infatti dimentica come l’anima non sia solo spirito ma anche forma sostanziale del corpo, per cui essa, in quanto forma del corpo non può non essere là dov’è il corpo.

La cosa sorprende, se si pensa che il Concilio di Viennes del 1312 aveva definito come verità di fede la dottrina dell’anima come “forma del corpo”, mentre il cattolico Cartesio non ne tiene alcun conto, per seguire una via sua che si rivelerà un vicolo cieco: uno dei casi che mostrano come l’allontanarsi dagli insegnamenti della Chiesa fa cadere nell’errore.
Infatti anima e corpo formano la persona, formano l’io. Se io, anima e corpo, sono adesso a Bologna, vuol dire non sono a Torino o a Milano. E dunque non solo il mio corpo ma anche la mia anima adesso è a Milano, anche se è vero che col pensiero e la volontà posso attingere l’eterno e l’infinito.
Viceversa la concezione cartesiana dell’anima implica una tale indipendenza dell’anima nei confronti del corpo, che l’anima appare come assolutamente separata dallo spazio e quindi non collocata e nel luogo, come potrebbe essere una sostanza angelica o addirittura divina.
Del resto, questa concezione dell’anima è coerente con la gnoseologia cartesiana, la quale, come si è detto, non dà come evidenza originaria ed indiscutibile l’esistenza delle cose esterne nello spazio e neppure quindi l’esistenza del corpo umano come esterno all’atto del pensiero col quale l’io pensa se stesso e il proprio stesso corpo. In tal senso Cartesio abbandona la visione medioevale delle cosa materiale come esistente oggettivamente nello spazio, fuori dell’atto del pensiero che la pensa.

Cartesio finisce certamente per ammettere l’esistenza delle cose esterne nello spazio, compreso il proprio corpo e quello degli altri, ma solo passando attraverso il cogito. Per lui, come è noto, il punto di partenza del conoscere e la certezza iniziale non sono dati dall’evidenza della realtà materiale fuori del mio atto di pensarla, ma è lo stesso cogito, è il mio esser certo di pensare, che poi non è un vero pensare, ma è un dubitare per la verità forzato, giacchè Cartesio pretende di partire da un dubbio irragionevole circa la verità dei corpi nello spazio fuori dell’anima.
Se dunque il cartesianismo solleva la questione della collocazione dell’anima, parte col piede sbagliato, per cui la risolve male negando all’anima qualunque collocazione e concependo quindi il pensiero come un qualcosa che non ha davanti a se un essere, un reale, una cosa in sé nello spazio (si tratti delle cose o del proprio corpo), ma il pensiero viene inteso come avente originariamente per oggetto se stesso e le proprie idee, dalle quali soltanto adesso occorrerà, per dimostrazione, affermare eventualmente l’esistenza di un reale sensibile esterno nello spazio.

E’ vero che in Cartesio resta la visione medioevale del corpo come res extensa; tuttavia il principio delcogito tende a sottrarre allo spazio non solo l’anima ma anche la corporeità intesa come essere non fuori dal pensiero, non davanti al pensiero, non indipendente dal pensiero, ma al contrario come essere pensato, come “idea”, che adesso diventa il primum cognitum in sostituzione della quidditas rei materialis, nello spazio e fuori del pensiero, di tomistica memoria.
Se di spazio si continuerà a parlare, dopo Cartesio – vedi Kant – questo “spazio” non è più qualcosa di oggettivo esterno al pensare, qualcosa di sensibile appartenente alla cosa in sé, che adesso diventa inconoscibile in se stessa, ma adesso lo spazio sarà una “forma a priori della sensibilità” e quindi lo spazio sarà inglobato nell’orizzonte del pensato e dell’ideale (“fenomeno”), che sempre più tende ad immanentizzare il reale sino a che non si giungerà alla famosa identificazione hegeliana di ideale e reale, di pensiero e di essere, caratteristica dell’idealismo assoluto.
Questo errore di Cartesio di isolare l’anima dallo spazio dipende dal fatto che egli, ignorando la funzione dell’anima di essere forma del corpo, riduce altresì la funzione del pensare all’essenza stessa dell’anima. Definire l’anima come res cogitans non si può dire per la verità che sia sbagliato, ma è espressione vaga ed approssimativa che può condurre all’errore, come di fatto è avvenuto per Cartesio, in quanto in questa concezione sembra volersi identificare il poter pensare, cosa effettivamente caratterizza l’essenza dell’anima con lo stesso atto del pensare, cosa che non sempre emana dall’anima e non per questo l’anima non è anima.
In Cartesio sembra che l’anima si risolva nell’atto del pensare, cosa che per la verità non è proprio dell’uomo ma è solo privilegio divino. Per la costituzione ontologica della persona, come ho detto in un recente articolo, è sufficiente ammettere la potenza, almeno radicale, di pensare, anche se di fatto il soggetto non pensa. Per questo un soggetto come l’embrione, che di fatto non pensa, è già da considerarsi persona.

Così nella visione cartesiana troppo potere vien dato all’anima, mentre, per quanto riguarda il corpo, se da una parte esso è svalutato a causa dello scetticismo circa la conoscenza sensibile, dall’altra si rischia il materialismo vedendo il corpo come un’altra res o sostanza completa e distinta dall’anima. Da qui il famoso “dualismo” antropologico cartesiano.
Nel cartesianismo l’anima viene così privata del suo luogo e diventa impensabile, nell’ambito della teologia, parlare, seppure in senso analogico, di un “luogo” dell’anima separata, come il paradiso, l’inferno e il purgatorio. Inspiegabili altresì diventano le apparizioni di defunti, per esempio anime del purgatorio, fatti non certo riconosciuti dal dogma e tuttavia attestati da credibili testimonianze di santi e uomini di Dio.
Viceversa, nella visione cartesiana della morte, questa non comporta il fatto che l’anima il corpo lasci il suo il corpo e quindi il luogo dove essa si trova, ma la morte del corpo sussistente da sé (res extensa) separatamente dall’anima, diventa un enigma insolubile, tanto che non si vede come il corpo possa morire, visto che il corpo sussiste per conto proprio indipendentemente dall’anima spirituale, a meno che non supporre – cosa assurda – che il corpo abbia a sua volta un’anima corporea per conto suo distinta dall’anima spirituale (res cogitans).

In realtà il corpo umano vivo è un corpo animato, è l’uomo stesso, anima e corpo, non è un’altra entità completa in se stessa che si contrappone all’anima concepita come un’altra sostanza completa in se stessa che non ha nessun bisogno del corpo e del senso per giungere alla verità. Al contrario, la conoscenza umana certamente è capace di elevarsi alla conoscenza spirituale e di Dio stesso, ma solo partendo dai sensi e servendosi dei sensi. Solo lo spirito puro – l’angelo e Dio – parte dalla propria autocoscienza (cogito) e su questa base conosce le cose sensibili. Per noi è l’inverso: solo partendo dalle cose sensibili possiamo giungere alla conoscenza dei gradi massimi della realtà ed alla coscienza di noi stessi.

L’antropologia idealista cartesiana, ancor oggi viva e diffusa, finisce, sul piano morale, col dare troppa libertà all’anima nei confronti del corpo, ignorando le sue leggi e le sue esigenze. Da qui per esempio l’egoismo che porta a sfruttare o dominare gli altri o ad ignorare i bisogni materiali degli altri o i disordini sessuali, che non prestano attenzione ai fini e alle leggi naturali dell’attività sessuale, o le manipolazioni genetiche, che ritengono la corporeità come una specie di massa informe che l’uomo potrebbe mutare e formare a suo piacimento senza la considerazione di alcuna legge o finalità insite nella natura stessa del corpo umano.
L’anima certo ha una grandissima dignità, è creata ad immagine di Dio, capace di pensare e di agire liberamente; ma nel contempo la corporeità non si può considerare come semplice “espressione” dell’anima quasi fosse totalmente a disposizione della volontà e non piuttosto una realtà esterna al pensiero e indipendente dal pensiero, in quanto creata anch’essa da Dio con propri fini e leggi che siamo tenuti e rispettare.
Espressioni proprie dell’anima spirituale sono i fatti dello spirito. Il corpo ha sue proprie espressioni di tipo motorio, fisico o psicofisico. Confondere i due piani di espressione vuol dire confondere il corpo con lo spirito: o ridurre questo a quello o quello a questo. Certamente l’anima spirituale si manifesta indirettamente anche attraverso il corpo (pensiamo il linguaggio); ma vi sono espressioni del corpo che non sono propriamente quelle dell’anima spirituale.
Il corpo certo in qualche modo è “nell’anima” nel senso che essa lo fa vivere, è presente in tutte le sue parti, lo “contiene” in quanto lo conosce e lo deve governare in obbedienza alla volontà di Dio. Ma più radicalmente l’anima è nel corpo, è soggettata nel corpo, e in tal senso essa, insieme col suo corpo, si trova in un certo luogo accanto ad altri corpi, tra i quali vi sono i corpi delle altre persone.

Secondo il racconto genesiaco Dio non dà un corpo ad un’anima preesistente – questa è la concezione platonica – ma dà l’anima a un corpo preesistente, il che lascia spazio, fra l’altro, alla possibilità di una concezione evoluzionistica dell’origine dell’uomo, che salvi la spiritualità dell’anima. L’anima dà vita al corpo, ma anche il corpo, da parte sua, sostenta l’anima e le consente di animare il corpo. Mens sana in corpore sano.
La realtà esterna all’anima – la natura – non si confonde con quanto l’anima pensa di questa realtà, non è semplicemente al servizio dell’anima quasi essa fosse un dio o il centro di tutto, ma è quella realtà creata da Dio di per sé indipendente dall’anima, che certo è per essa intellegibile e dalla quale l’anima trae la sua idea della natura, che così diventa disponibile all’intervento dell’uomo finalizzato ad un dominio sulla stessa natura per il bene dell’uomo stesso.

Come il corpo aggiunge all’anima quella corporeità che essa non può emanare da sé ma è creata da Dio, così l’anima sopravviene, creata da Dio, a una corporeità che la precede – lo zigote – e alla quale essa si aggiunge per animarla e farne una persona umana. La Bibbia stessa descrive questo processo creativo con le famose parole: “Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente “(Gn 2,7).
Certo dobbiamo evitare il materialismo che risolve la persona nelle sue componenti materiali o la pone come vertice dell’autotrascendenza della materia, ma dobbiamo anche evitare quella presunzione che ci porta a voler disporre della corporeità in maniera arbitraria o egoistica quasi fosse una semplice nostra idea o un parto della nostra mente,– salvo poi a lasciarci dominare dalle passioni – e non piuttosto una entità precedente al pensiero e indipendente dal pensiero e che il pensiero è tenuto a riconoscere e governare saggiamente nel rispetto della volontà di quel Creatore che ha creato e l’anima e il corpo, il mondo fisico e quello delle altre persone.




Libertà e Persona

 

 

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