venerdì 27 luglio 2012

Humanae vitae: rigore, tenerezza e coraggio contro la tecnocrazia






di Andreas Hofer

La liberazione totale è il processo che costruisce la prigione perfetta.
(Nicolás Gómez Dávila)

Il 25 luglio 1968, nel pieno della Contestazione studentesca, col suo ripudio della morale dei comandamenti, Paolo VI pubblicava infatti uno dei documenti più coraggiosi nella storia della Chiesa: l’enciclica Humanae vitae, con la quale papa Montini ribadiva il «no» del magistero petrino alla logica contraccettiva, sfidando non solo l’opinione pubblica e i poteri del «mondo» ma anche un vasto quanto inedito dissenso interno.
Il papa, pesantemente colpito, ne rimarrà segnato: non pubblicherà più alcuna enciclica nei dieci anni a venire (il famoso “decennio senza encicliche”).

Una soprendente difesa

A difesa dell’Humanae vitae si schiereranno in campo ecclesiale il filosofo Jean Guitton e il grande teologo gesuita Jean Daniélou. Ma un sorprendente sostegno giungerà, inaspettato, da una zona estranea all’ecumene cattolico: quello di Max Horkheimer, fondatore della celebre Scuola di Francoforte.
Guitton, dopo aver meditato e letto più volte l’enciclica, scriverà che essa «partecipava a un non so che di netto, sull’essenziale, ed anche di condiscendente, d’umano, di tenero, che è il profumo del Vangelo. Elle est ferme, mais non fermée. Essa è ferma ma non chiusa. Se parla della via stretta, mostra che la via stretta è la beatitudine profonda e pura, è la via aperta verso l’avvenire» (J. Guitton, Rilettura dell’enciclica, «L’Osservatore Romano», 6 settembre 1968, p. 4).
Secondo Daniélou invece l’enciclica aveva affrontato una questione di immensa portata, perché sull’amore e il matrimonio si sarebbe giocata «una delle più grandi battaglie dei nostri tempi», fomentata dalla «congiura dei tecnocrati e dei liberartari», dove l’aspirazione dei primi «ad estendere al campo della famiglia la loro volontà universale di pianificazione» si era ormai sposata alla volontà dei secondi di promuovere «la libertà sessuale» come «una delle forme principali della contestazione». Aveva dunque dimostrato Paolo VI uno «straordinario coraggio nell’affrontare tutte queste forze, per andare contro corrente». Con la sua enciclica papa Montini si era fatto portatore delle aspirazioni migliori della protesta giovanile contrastando la riduzione della sessualità a «semplice prodotto della società dei consumi, di cui si tratta d’organizzare razionalmente l’uso», associandosi così alla «rivolta contro la tecnocrazia» (J. Daniélou, Le sacré de l’amour, in Tests, Beauchesne, Paris 1968, pp. 73-76).
E proprio a questa chiave di lettura si allaccerà l’analisi di Horkheimer.
Smaltita l’illusione marxista, il pensatore francofortese preconizza da tempo l’avvento di un «mondo amministrato» (verwaltete Welt) assai prossimo al Brave New Word, la distopia tecnocratica vagheggiata da Aldous Huxley.
Convinto che il suo ruolo di “intellettuale critico” gli prescriva di indicare alla società il prezzo da pagare per il “progresso” delle tecniche contraccettive, concentra la propria riflessione sulla pillola anticoncezionale, che considera un decisivo step intermedio in direzione di una società tecnocratica.

La morte dell’amore

Non il matrimonio – come vuole il mantra in voga nella “società liquida” – ma la pillola scava la tomba dell’amore, sostiene Horkheimer nel libro-intervista La nostalgia del totalmente altro: «L’amore si fonda sulla nostalgia, sulla nostalgia della persona amata. Esso non è libero dalla dimensione sessuale. Quanto più è grande la nostalgia dell’unione con la persona amata, tanto più grande è l’amore. Se si toglie il tabù della dimensione sessuale, cade la barriera che produce continuamente la nostalgia, e così l’amore perde la sua base. […] La pillola trasforma Giulietta e Romeo in un pezzo da museo. Mi permetta di dirlo in forma drastica: oggi Giulietta spiegherebbe al suo Romeo che deve prendere ancora in tutta fretta la pillola, prima di accostarsi a lui. […] Ritengo … mio dovere rendere attenti gli uomini sul prezzo che devono pagare per questo progresso e questo prezzo è l’accelerazione della perdita della nostalgia, e alla fine la morte dell’amore» (M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro, trad. it., Queriniana, Brescia 2001 (ed. or. 1970), pp. 87-88).

Bisogno e desiderio

A ridosso della pubblicazione dell’Humanae vitae il fondatore della Scuola di Francoforte si era già chiesto se le implicazioni sociali della commercializzazione su larga scala della pillola non avessero comportato «una conversione della quantità in qualità» nella storia della regolazione delle nascite. Non si è infatti prodotta, novità assoluta, «una situazione in cui, almeno nelle città, praticamente ogni giovane donna può in qualsiasi momento dormire con qualunque uomo le piaccia, e viceversa, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza aver necessità di fastidiosi preliminari? [...] Le conseguenze culturali non sono lontane. Non solo per le relazioni umane ma anche per la scomparsa dell’istinto di sublimazione. Con la sua enciclica, per quanto sia fondata sull’ortodossia cattolica, Paolo VI ha più ragione di quanto lui stesso forse sappia» (M. Horkheimer, Ist die Pille das Ende der Liebe? (settembre 1968), in Nachgelassene Schriften (1949-1972). Notizien, in Gesammelte Schriften, vol. XIV, Fischer, Frankfurt am Main 1988, p. 496).

Ha trovato così concreta realizzazione, osserva Horkheimer, la «teoria del “bicchiere d’acqua”», secondo l’espressione con cui Lenin aveva apostrofato gli esiti banalizzanti della posizione “libertina” di Aleksandra Kollontaj, una delle prime apostole della “liberazione sessuale”.
Almeno in quell’occasione il patriarca sovietico aveva visto giusto: assimilare l’esercizio della sessualità al semplice soddisfacimento di un bisogno fisiologico, come voleva la Kollontaj, equivaleva effettivamente a ridurre la relazione sessuale all’atto di bere un semplice bicchiere d’acqua.

Una visione realmente disperante e deprimente, quella della Kollontaj, dimentica del fatto che conservazione e riproduzione, i processi biologici fondamentali, solo nell’animale assumono il tono della necessità implacabile e cadono sotto il regno dell’automatismo cieco.
L’animale non si impone di digiunare. Non può, coscientemente, impedirsi di mangiare come di riprodursi.
Ma mentre l’animale ha dei bisogni, nell’uomo il bisogno può tramutarsi in desiderio. Quando ciò accade il bisogno soggiace a una trasfigurazione, il cangiamento in desiderio comporta un mutamento di natura poiché «al bisogno si aggiunge il senso dell’infinitudine», scrive il solito Guitton, e «l’istinto è invaso dall’infinito» (J. Guitton, La famiglia e l’amore, trad. it., Paoline, 1986, p. 17).
Il bisogno, limitato e finito, cede il passo al desiderio, illimitato e infinito. Prova ne sia la possibilità, nell’uomo, che l’istinto perda la misura conducendolo alla rovina e al vizio schiavizzante (ne è esempio l’insaziabile auri sacra fames dell’avaro).
In rapporto al mondo animale l’uomo perde in sicurezza e stabilità quel che guadagna in libertà. Nell’ordine del bisogno il nutrimento sazia la fame, in quello del desiderio talora accade invece che la bevanda accresca la sete.
Indicibile presenza del desiderio nell’uomo, pellegrino dell’Assoluto, è il richiamo della Fonte inesausta, la sola che possa soddisfarne la sete d’infinito…

Eclissi della fedeltà e consumismo dell’amore

Promuovendo l’equivalenza dell’amore e del bisogno a paradigma della relazione sessuale, la pillola sferra un colpo diretto all’idea della vita a due come fedeltà, responsabilità e promessa. A differenza del rapporto mercenario, che esclude l’amore-impegno col provvedere al mero appagamento degli impulsi sessuali, la famiglia fondata sul matrimonio è imperniata sulla «fedeltà sessuale» (sexuelle Treue), osserva Horkheimer. La pillola «rimuove in gran parte gli ostacoli posti fino ad ora sulla via del soddisfacimento dei desideri sessuali. Poiché oggi tutti possono disporre di tutti non si addiviene più alla nostalgia per la persona amata, da cui solo si dispiega l’amore» (M. Horkheimer, Ehe, Prostitution, Liebe und die Pille (gennaio 1970), in Nachgelassene Schriften (1949-1972), cit., p. 537).

Si diffonde così nel mondo occidentale una sessualità meccanizzata, un’intimità sempre più indifferenziata e liquida, contraddistinta dall’intercambiabilità del partner, scelto sulla base di un’attrazione “epidermica”. Analogamente a quanto già rilevava Walter Benjamin a proposito dell’opera d’arte, la “riproducibilità tecnica” dell’atto sessuale svincolato dalla generazione rende la sessualità fruibile come bene di consumo, producendone la morte, insieme con la scomparsa dell’”aura” di mistero e del carattere di unicità e di elezione esclusiva dell’essere amato.

Christopher Lasch ha mostrato quanto amaro e decadente possa essere il destino che attende una relazionalità desostanzializzata e spersonalizzata, senza impegni e conseguenze, “ipotetica” e revocabile, con data di scadenza. Si apre la strada alla riduzione dei protagonisti delle relazioni intime a prodotti intercambiabili. La fungibilità sessuale esige l’equiparazione di uomini e donne alla stregua di indistinguibili articoli di consumo. Ma la libertà di scegliere tra prodotti fungibili è una libertà illusoria, puramente formale, una libertà che nega se stessa riducendo la persona a oggetto da consumare (Cfr. C. Lasch, L’io minimo, trad. it., Feltrinelli, Milano 2006 (ed. or. 1984), p. 24).

La rivoluzione contraccettiva

Con la diffusione generalizzata della pillola si verifica un vero e proprio salto di qualità, per il quale non è eccessivo spendere la parola “rivoluzione”.
I demografi ci dicono che la pillola, congiuntamente ad altri sofisticati metodi anticoncezionali come la sterilizzazione chirurgica e la spirale, segna il passaggio dalla prima (XIX-prima metà del XX secolo) alla seconda rivoluzione contraccettiva. La disponibilità di questi metodi infatti ha rovesciato lo status della fertilità femminile e sancito l’affermazione della scienza e della tecnica in ambito contraccettivo. Da una condizione in cui la donna è normalmente fertile, dove gli accorgimenti per impedire il concepimento vengono adottati generalmente dall’uomo e solo in concomitanza col rapporto sessuale, si passa a una situazione in cui essa diviene normalmente non fertile e questo stato viene modificato intenzionalmente solo qualora si desideri concepire un figlio.
La donna ora ha anche acquisito il controllo attivo della propria fertilità laddove in precedenza svolgeva un ruolo prevalentemente passivo (la strumentazione della prima rivoluzione contraccettiva – come il condom, ad esempio – cade sotto la diretta responsabilità maschile).

Un’innovazione che ancora una volta ha il suo prezzo da pagare, avverte Horkheimer, per il quale nella tecnicizzazione della sessualità è virtualmente contenuto uno scenario futuro di rigida irreggimentazione tecnocratica: «Con la scienza e con la tecnica l’uomo ha sottomesso le forze smisurate della natura. Se queste forze – per esempio, l’energia nucleare – non devono servire alla distruzione, devono essere prese sotto vigilanza da una amministrazione centrale veramente razionale. La farmaceutica moderna – per portare un altro esempio – ha reso manipolabile mediante la pillola i dinamismi della generazione umana. Un giorno avremo bisogno di una amministrazione delle nascite. Io credo che gli uomini in siffatto mondo amministrato non potranno sviluppare liberamente le loro capacità, ma si adatteranno a regole razionalizzate. Gli uomini del mondo futuro agiranno automaticamente: ad un segnale rosso si fermeranno, ad un segnale verde proseguiranno. Obbediranno a segnali» (La nostalgia del totalmente altro, cit., pp. 97-98).

La macchina sociale necessita d’un poco di immoralità come lubrificante.
(Nicolás Gómez Dávila)

L’età dell’amministrazione

Nulla concede Horkheimer ai facili entusiasmi e alle scintillanti promesse della liberalizzazione dei costumi, in cui vede il preludio di una nuova gabbia d’acciaio: «Nell’età amministrata e razionalistica verso cui si dirige la vita sociale, i rapporti personali che non si lasciano determinare in ogni dettaglio dal meccanismo sociale, ma anzi sarebbero in grado di contrastarlo, appariranno non solo pericolosi, ma anche assurdi. A che serve l’amicizia, se ogni momento del tempo libero e della professione, se il fine e i mezzi sono già stati indicati a priori nel modo più funzionale?L’amore ha perduto la sua ragion d’essere. I bisogni sessuali saranno regolati razionalmente, non c’è motivo perché assurgano alla forma superiore dell’anelito, così come coloro che hanno la fortuna di vivere nell’età del miracolo economico non hanno motivo di sognare il paese di Cuccagna. La passione erotica per una persona singola e determinata, per non parlare poi della fedeltà, sarebbe non solo patologica, mancanza di sano desiderio, nevrosi ossessiva o peggio, ma anche indecorosa; significherebbe pensare, sentire, agire sulla base di una fissazione sessuale, anziché della riflessione razionale» (M. Horkheimer, Taccuini 1950-1969, Marietti, Genova 1988, p. 169).

Fordismo procreativo

A dare forma letteraria al “mondo amministrato” paventato da Horkheimer aveva provveduto tempo addietro Aldous Huxley pubblicando nel 1932 Brave New World (Il mondo nuovo). In questo romanzo antiutopico e ferocemente ironico Huxley presenta una società temporalmente collocata in un immaginario settimo secolo dopo Ford. Geograficamente l’azione si svolge a Londra, una delle tante provincie di un nuovo onnipotente Stato mondiale.

Il Brave New World huxleyano può dirsi in effetti un ottimo esempio di “amministrazione razionale” delle nascite: una società basata sul dogma della «stabilità sociale» come norma di civiltà – idolo al quale ogni troppo “vacillante” libertà personale è sacrificata – e sul controllo centralizzato della riproduzione umana, extracorporea e serializzata, ispirata ai princìpi di una sorta di “fordismo procreativo”. Gli esseri umani vengono prodotti in vitro e allevati in speciali incubatori, mentre l’ingegneria genetica ne predetermina “scientificamente” l’”utilità sociale” garantendo l’uniformazione e la tipificazione del “prodotto”. Felice, assiduo al lavoro, consumatore di beni: queste le caratteristiche del cittadino modello, semplice cellulla-ingranaggio di questa “megamacchina sociale”.

La famiglia, eccezion fatta per alcune sparute, residue enclave “non civilizzate”, è scomparsa dall’orizzonte: madre, padre, marito, moglie, fratello, sorella, matrimonio, monogamia, esclusivismo, interesse personale e romanticismo, reputate parole oscene, sono state ricacciate nella preistoria dell’umanità, raffigurata come il reame della follia e della povertà, pregna di terrore e nera miseria. Peccati sommi, insieme alla solitudine e al desiderio di isolarsi dal corpo sociale, perché la legge di “solidarietà obbligatoria” del “mondo nuovo” prevede la dissoluzione dell’io individuale nel collettivo, sancita con lo slogan «ognuno appartiene a tutti gli altri», la massima scandita con solerte, ossessiva ripetitività in ogni momento della giornata.

Dirigismo riproduttivo e regime di “libertà condizionata”

Nel “mondo nuovo” l’educazione è sostituita dal condizionamento psico-fisico impartito dallo Stato attraverso l’ipnopedia, la ripetizione durante il sonno di slogan preregistrati, la cui funzione, assuefativa, è di indurre ciascuno ad accontentarsi del proprio stato. Le masse sono condizionate a odiare la natura e vige la proibizione del concepimento naturale (tanto che la parola «padre», per quanto «grossolana, una sconvenienza scatologica piuttosto che pornografica», viene considerata meno oscena di «madre» in ragione della superiore distanza emotiva in rapporto ai «segreti ripugnanti e immorali del parto»).

Fin dalla più tenera età le ragazze “non neutre” – cioè non sottoposte a sterilizzazione – vengono perciò addestrate all’uso di pratiche contraccettive (i cosiddetti «esercizi malthusiani»). Onde garantire la condizione di “infertilità naturale” ogni donna è poi munita di un’apposita «cintura malthusiana» provvista di anti-fecondativi (un’idea che certo troverebbe il gradimento di un apologeta del “dirigismo riproduttivo” qual è l’ineffabile Piergiorgo Odifreddi), i residui casi di “insuccesso contraccettivo” vengono risolti nel Centro di aborti ospitato da una fascinosa torre di vetro rosa. Naturalmente il cristianesimo, nemico giurato dell’ectogenesi, è detestato quanto l’aborrita «riproduzione vivipara».

Il regno della perfetta promiscuità

Attraverso processi di condizionamento e richiami ipnopedici all’interno del Brave New Worldimpera un regime di perfetta promiscuità sessuale: i legami individuali stabili di fatto sono proibiti.
Inutile dire che la castità, oggetto di riprovazione sociale, è considerata un pervertimento.
Un interdetto le cui ragioni Mustafà Mond, governatore e custode della “stabilità sociale” del “mondo nuovo”, espone con terrificante lucidità: «la castità vuol dire passione, vuol dire nevrastenia. E passione e nevrastenia vogliono dire instabilità. E instabilità vuol dire fine della civiltà. Non si può avere una civiltà durevole senza una buona quantità di amabili vizi».
Interdetta dunque ogni forma di ascesi, anche minima. Termini come fedeltà, impegno, promessa e rinuncia sono semplicemente privi di significato. È scoraggiato ogni differimento degli istinti, nel tentativo di estinguere in radice il fondamento stesso della fedeltà. La parola d’ordine è: «abbattere ogni intervallo di tempo tra il desiderio e il suo soddisfacimento». Abbattere ogni ostacolo, per preservare dal rischio di un “antiscientifico” coinvolgimento emotivo, sintomo di spessore interiore. «Giovani fortunati!», esclama trionfante il governatore. «Non è stata risparmiata nessuna fatica per rendere le vostre vite facili dal punto di vista emotivo; per preservarvi, nei limiti del possibile, dal provare qualsiasi emozione».

Felicità obbligatoria per tutti

Anche la “felicità” è obbligatoria: per assicurarla (o meglio: per renderla sostenibile) lo Stato fornisce gratuitamente ai “giovani fortunati” una droga euforizzante e antidepressiva (soma). L’età biologica dell’organismo umano d’altro canto è mantenuta artificialmente a uno stadio giovanile e in piena efficienza psico-fisica, salvo poi collassare all’età di sessant’anni (si può dire che si muoia perfettamente sani).
Abolito il ricordo del passato, giacché nel “mondo nuovo” si vive solo “al presente”, l’unico fine della vita essendo il mantenimento del benessere: la riduzione del desiderio umano a bisogno animale è un presupposto irrinunciabile e scontato.
La morte viene esorcizzata con sessioni di condizionamento in modo da renderla un fatto previsto dall’ordine naturale delle cose e poter essere così “igienicamente gestita” senza destare inquietudine, nemica della stabilità sociale. Né è concesso piangere la perdita di una persona cara: ciò implicherebbe la rivendicazione di un inaccettabile esclusivismo, in palese violazione dell’imperativo dell’uguaglianza (“ciascuno appartiene a tutti gli altri”). Per ovviare alla sofferenza c’è sempre il soma, la droga che assolve la funzione di anestetico della coscienza assicurando l’evasione in un mondo irreale e fittizio, lontano dal dolore. I cittadini in ogni caso subiscono un condizionamento che fa loro detestare la solitudine, così da non esporsi al rischio di pensare alla morte, a Dio o a una felicità ultraterrena.
Identico discorso per il “fanatismo della cultura”, represso con inaudita ferocia (il governatore Mond ricorda con sottile compiacimento il «famoso massacro del British Museum», dove «duemila fanatici della cultura furono asfissiati con solfuro di dicloretile»).

La rivolta dell’«omo salvatico»

In questa società dove libri e cultura sono banditi viene condotto, dopo essere stato prelevato da una riserva “non civilizzata” in cui la vita segue ancora gli usi e i costumi dell’età precedente, un “selvaggio” di nome John.
Il “selvaggio” inizialmente desta curiosità ma disillude presto le attese rigettando in blocco i valori della civiltà che lo ospita. John ama la lettura e la poesia, conosce e cita a memoria Shakespeare, crede in Dio, rifiuta con silvestre intransigenza la promiscuità e il soma.
Preghiera, bellezza, verità, libertà: di questo ha sete John, voce di un’umanità profonda e ancora autenticamente tale. Al punto che, fiero e dignitoso quanto un vero «omo salvatico», alla disumana, menzognera perfezione promessa da una felicità artificiosa e impersonale John mostra di preferire decisamente un’infelicità autentica e personale (spingendosi addirittura a rivendicare, in spregio a ogni convenzione borghese, «il diritto di essere infelice»).

Verso il “mondo nuovo”?

L’osservatore attento dei “segni dei tempi” difficilmente potrà contestare le osservazioni di chi, come Francesco Agnoli, ha fatto notare come molte delle realtà che Huxley aveva immaginato nel suo romanzo si siano realizzate o facciano comunque parte dell’agenda politica. Basti pensare che sebbene gli studiosi seri di demografia abbiano disinnescato da tempo la “bomba demografica” - e la popolazione mondiale si appresti ad affrontare piuttosto i rigori dell’inverno demografico – non è affatto cessata la propaganda contraccettiva degli organismi sovranazionali. E come proprio in Gran Bretagna, dove Huxley aveva ambientato il suo “mondo nuovo”, lo scarto tra la realtà e il romanzo si vada assottigliando sempre più, come ha documentato di recente undettagliatissimo volume di Gianfranco Amato.

Irrisa e avversata negli anni ’60, forse solo ora l’impavida presa di posizione di Paolo VI si sta rivelando profetica. Nella finzione letteraria di Huxley il romanzo si conclude tragicamente: il “selvaggio” John, esiliato, solo e braccato, viene spinto al suicidio senza alcun alleato a prenderne le difese.
Non così nel mondo reale, dove a schierarsi dalla parte dell’«omo salvatico» vi sarà sempre la Chiesa, capace, anche contro ogni umana speranza, come dimostrò papa Montini, di chinarsi con pietà e coraggio sulle realtà più umili, semplici e ordinarie – come l’amore tra un uomo e una donna – per cercare di proteggerle, consapevole di come l’unica vera resistenza possibile contro la disumanizzazione avanzante risieda nella salvaguardia di un capitale minimo di sostanza umana, di riserve naturali e di vitalità.

Come ha scritto Gustave Thibon, «la pietà verso il malato esige che non si abbia nessuna pietà per la malattia che lo uccide. Come si può amare l’ordine senza odiare il caos? Così la tenerezza conduce al rigore: si costruiscono bastioni per preservare la cattedrale e tutti i focolari raggruppati attorno ad essa. Amare in verità, non è intenerirsi su se stessi attraverso gli altri, come il borghese che, secondo Bernanos, unisce «il cuore duro alle budella sensibili». È voler salvare e saper difendere ciò che si ama».




 

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