
Di Fabio Trevisan, 13 Gen 2025
Con questo volume edito da Rubbettino, dal titolo: Il suicidio dell’Occidente (pp. 200, € 19,00), Marcello Pera ha voluto affrontare, sin dall’Introduzione, il cosiddetto “tarlo dell’Occidente”, che nel suo incessante rodere, ha ripensato e rimodellato l’uomo non più come elemento dell’ordine ma come autore e padrone dell’ordine stesso, ravvisando nella modernità non solo un capovolgimento razionale, etico e politico ma soprattutto cogliendo in essa la negazione di ogni riferimento alla trascendenza, nella fattispecie a quella religione cristiana che sta all’origine della storia europea e dell’Occidente.
Non si trattava, come ha giustamente sottolineato Pera, di sostenere un credo religioso ma di cogliere nel cristianesimo una Weltanschauung pervasiva, diffusa capillarmente in ogni contesto sociale. Sulla modernità, sul conflitto tra liberalismo e cristianesimo, sulla ricerca della Verità e su quale via per uscire dai tentacoli della Rivoluzione, Marcello Pera ha chiesto il contributo specifico di altri autori, ecclesiastici e laici, configurando il libro come un’interessante raccolta di saggi, provocatori e talvolta audaci ma senz’altro stimolanti per una approfondita riflessione.
L’affievolirsi del cristianesimo
Il Card. Angelo Bagnasco [, sin dal titolo del suo intervento: “Con l’affievolirsi del cristianesimo è diventata problematica anche l’umanità”(pp. 7-20),ha voluto farci meditare con questa frase provocatoria di Karl Loewith (1897-1973), filosofo tedesco, che sintetizza l’esito drammatico di un’Europa indifferente delle sue origini, del suo stesso essere. “Un’Europa che ha smesso di credere in se stessa” secondo le parole del pensatore ceco Jan Patocka (1907-1977), che non ha saputo cogliere l’invito di Giovanni Paolo II ad aprirsi alla trascendenza, a non aver paura di Cristo.
Il Card. Angelo Bagnasco [, sin dal titolo del suo intervento: “Con l’affievolirsi del cristianesimo è diventata problematica anche l’umanità”(pp. 7-20),ha voluto farci meditare con questa frase provocatoria di Karl Loewith (1897-1973), filosofo tedesco, che sintetizza l’esito drammatico di un’Europa indifferente delle sue origini, del suo stesso essere. “Un’Europa che ha smesso di credere in se stessa” secondo le parole del pensatore ceco Jan Patocka (1907-1977), che non ha saputo cogliere l’invito di Giovanni Paolo II ad aprirsi alla trascendenza, a non aver paura di Cristo.
L’appello del Card. Bagnasco alla “cura dell’anima”, ossia alla ricerca autentica della verità, è anelito alla felicità in quanto costitutivo di ogni essere umano e pertanto è imprescindibile dalla ragione umana nella sua interezza, intendendola non solo nell’ambito ristretto della scienza e della tecnica ma allargandola anche a quello della metafisica. Il saggio del Card. Bagnasco, denso di citazioni e riferimenti bibliografici, ha preso spunto da una frase del poeta tedesco Novalis (1772-1801): “Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo, allora cesserebbe di essere” per ribadire innanzitutto quanto il cristianesimo non sia né un’ideologia né tantomeno una gnosi riservata a pochi eletti ma un incontro vivo e vero con la persona di Cristo, Verbo Incarnato.
Approfondendo il rapporto tra l’Europa e il cristianesimo, ha rimarcato quanto la fede e la ragione non siano antagoniste ma si vigilano e si aiutano a vicenda, affermando così la superiorità nella fede cristiana dell’uomo sulla natura e, nella sua universalità, ponendo la differenza tra civiltà e politica, e quindi tra universalità spirituale e particolarità politica. Parlando infine del profetismo cristiano, il Card. Bagnasco ha sottolineato quanto gli antichi profeti richiamassero il popolo alla verità e, nella loro fedeltà a Dio, potevano davvero servire il popolo.
Interessante e stimolante la riflessione su ciò che dovrebbe preoccupare e muovere la Chiesa stessa, in quanto missionaria: “La Chiesa non è preoccupata di essere moderna ma attuale, cioè di corrispondere alla segreta nostalgia del cuore umano, alla sua sottile e drammatica inquietudine”. Con questa frase il Card. Bagnasco ha voluto porre la rilevanza evangelica dell’annuncio che rinnova la vita per scuotere l’umanità e la stessa Europa chiusa in se stessa, incapace non solo di dare risposte ma anche di tenere in vita le grandi, essenziali domande di ogni tempo, di ogni persona.
L’arma del suicidio. La laicità
Nell’affrontare il tema della laicità, Marcello Pera (“L’arma del suicidio. La laicità”, pp. 35-58) ha sottolineato il paradosso della liberaldemocrazia: da un lato lo Stato liberaldemocratico si nutre di concetti cristiani quali l’uguaglianza e la fraternità e, dall’altro, la laicità chiede di prescindere dal cristianesimo. Analizzando in particolar modo il pensiero di Karl Popper (1902-1994) e il suo concetto di “società aperta”, Pera ne ha confutato le conclusioni: “Io penso che il liberalismo possa vivere senza la religione” rinvenibili nel razionalismo critico di Popper di chi coltiva “la speranza in un’autoliberazione attraverso il sapere”.
L’arma del suicidio. La laicità
Nell’affrontare il tema della laicità, Marcello Pera (“L’arma del suicidio. La laicità”, pp. 35-58) ha sottolineato il paradosso della liberaldemocrazia: da un lato lo Stato liberaldemocratico si nutre di concetti cristiani quali l’uguaglianza e la fraternità e, dall’altro, la laicità chiede di prescindere dal cristianesimo. Analizzando in particolar modo il pensiero di Karl Popper (1902-1994) e il suo concetto di “società aperta”, Pera ne ha confutato le conclusioni: “Io penso che il liberalismo possa vivere senza la religione” rinvenibili nel razionalismo critico di Popper di chi coltiva “la speranza in un’autoliberazione attraverso il sapere”.
Il già presidente del Senato ha colto nell’espressione laica “tutti gli uomini sono uguali” un altro modo per pronunciare la frase religiosa “tutti gli uomini sono figli di Dio”, evidenziando quanto la laicità non possa essere sufficiente e che le ragioni della ragion laica non siano laiche, il che sarebbe come dire che la fondazione dello Stato laico non è laica. Pera si è così potuto confrontare, sul rapporto tra liberalismo e cristianesimo, con tre classi di amici-nemici (amici personali, nemici intellettuali): la prima classe ha posto il liberalismo come problema, in quanto, per sua natura, esso è antireligioso e antisociale; la seconda classe, opposta alle tesi della prima, afferma essere l’epicureismo sorgente dell’individualismo liberale; la terza classe, quella accostabile a Popper e ai tanti liberaldemocratici moderni, in cui la mano invisibile del mercato o una sorta di evoluzionismo darwininano sostituisce la presenza di Dio, confuta quanto posto in esergo da Pera con una citazione tratta da Friedrich von Hayek: “Sono convinto che, se la frattura fra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non c’è alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali”.
Nell’indicare una fondazione cristiana dello Stato liberaldemocratico, Pera ha voluto sottolineare il ruolo civile, culturale, morale e politico della religione cristiana, riscontrandolo nel Trattato sul governo di John Locke (1632-1704) che è stato, a suo modo di vedere, staccato dal cristianesimo su cui Locke lo aveva fondato con un processo che ha portato dalla privatizzazione della fede alla sua emarginazione e quindi alla sua espulsione. In questa espulsione dei diritti di Dio (e dei conseguenti diritti dell’uomo) si può inscrivere il suicidio dell’Occidente, con un’Europa che non ha riconosciuto le radici giudaico-cristiane nella sua Costituzione, di un’Europa che promuove legislazioni che violano principi cristiani sostenendo l’aborto, l’eugenetica, l’eutanasia, l’identità di genere, ecc. e infine di un’Europa che non ha sostenuto un Papa (Benedetto XVI) che aveva espresso il convincimento che il cristianesimo fosse religione del logos e non della spada. Secondo Marcello Pera, con Benedetto XVI l’argine dell’ermeneutica della continuità non ha retto, facendo sì che nuove interpretazioni, nuovi modi di pensare si diffondessero nella Chiesa, provocando, alla fine il suicidio del cristianesimo come religione.
I diritti snaturati nell’età del relativismo
Partendo dalla parola “diritti”, che ha assunto nella società occidentale contemporanea un’aurea sacra, Eugenio Capozzi (“I diritti snaturati nell’età del relativismo”, pp. 59-90) ha operato una ricostruzione che riguardasse il lungo processo del costituzionalismo quale limite al potere attraverso il diritto. Rinvenendone le fonti nel contesto della polis greca e della res publica romana, ha osservato quanto i diritti prima della formazione dello Stato moderno fossero antecedenti anche come rispetto delle consuetudini (common law), nella contrapposizione tra politica e violenza, prefigurando così, ad esempio, nel De Regimine Principum di San Tommaso d’Aquino, la liceità della ribellione dei sudditi contro un sovrano destituito di autorità.
I diritti snaturati nell’età del relativismo
Partendo dalla parola “diritti”, che ha assunto nella società occidentale contemporanea un’aurea sacra, Eugenio Capozzi (“I diritti snaturati nell’età del relativismo”, pp. 59-90) ha operato una ricostruzione che riguardasse il lungo processo del costituzionalismo quale limite al potere attraverso il diritto. Rinvenendone le fonti nel contesto della polis greca e della res publica romana, ha osservato quanto i diritti prima della formazione dello Stato moderno fossero antecedenti anche come rispetto delle consuetudini (common law), nella contrapposizione tra politica e violenza, prefigurando così, ad esempio, nel De Regimine Principum di San Tommaso d’Aquino, la liceità della ribellione dei sudditi contro un sovrano destituito di autorità.
Capozzi ha analizzato quanto il concetto di “costituzionalismo”, inteso quale filosofia della libertà contro il potere arbitrario, sia derivato dal termine inglese constitution, per significare un sistema di garanzie a tutela dei diritti dei sudditi. Al contrario, con l’avvento della “divinizzazione” della sovranità statuale si aprì la strada, secondo Capozzi, alle “religioni politiche”, alle ideologie. Rispetto al costituzionalismo medioevale, quello moderno ha introdotto due essenziali novità: il recupero di una fondazione giusnaturalistica dei diritti, trascendente l’eredità storica di essi e l’elaborazione scritta di costituzioni in luogo delle consuetudini. Ciò ha permesso, alla fine del 1600 con Locke, di indicare diritti naturali comuni sintetizzabili nella triade “vita, libertà, averi” e arrivare così alla base del costituzionalismo moderno con la Dichiarazione di indipendenza delle colonie nordamericane del 1776 e nella genesi della federazione degli Stati Uniti con la Costituzione di Filadelfia del 1787. Con la rivoluzione francese del 1789 e con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ha osservato Eugenio Capozzi, si è pervenuti alla neutralizzazione totale dei corpi sociali, compiendo l’inclinazione statolatrica dell’assolutismo, lasciando sul campo del diritto e della politica l’individuo da una parte e lo Stato nazionale dall’altra. Anche le garanzie della libertà, ha sottolineato Capozzi, vengono così decapitate dal binomio statolatria-ideologia, da intendersi come religioni secolari.
L’excursus storico-culturale dell’autore è arrivato sino alla rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta, il cosiddetto ’68, che ha favorito una concezione dei diritti di tipo “liberazionista”, come superamento di costrizioni e oppressioni presunte o ereditate. Nelle società occidentali, ha concluso Eugenio Capozzi, un relativismo culturale, confinante con il nichilismo, ha invertito la nozione di “diritto”, snaturandone il senso, interpretandolo in modo opposto al significato storico dell’umanesimo occidentale.
La modernità è figlia del cristianesimo?
Il quesito che si è posto Raimondo Cubeddu sin dal titolo del suo saggio: “La modernità è figlia del cristianesimo?”, pp. 112, gli ha permesso, nel sottolineare come il cristianesimo abbia modellato nei secoli la storia, la cultura, i costumi dell’Occidente, quanta parte della modernità non fosse veramente una sua creatura, rinvenendo nella stessa modernità due anime incomponibili. La prima, denominata nomocrazia, ha concepitola realizzazione di un’associazione civile e politica fondata sulla convivenza tra le aspettative e le libertà individuali; la seconda, chiamata teleocrazia, ha inteso la realizzazione di finalità diverse, che trascendono la dimensione della libertà individuale. La tensione tra queste due anime, secondo Cubeddu, ha fatto emergere la crisi della “tarda modernità” con l’abbandono delle ideologie politiche del passato, mettendo al centro la questione cruciale di quanta diversità e libertà può tollerare un sistema perché possa funzionare. Se fino al Rinascimento sia indiscutibile la paternità cristiana dell’Europa, per Cubeddu le età successive hanno fatto affiorare un modo di pensare non cristiano, consistente nella riscoperta dell’epicureismo lucreziano, al punto da intravvedere nella modernità non tanto il risultato della secolarizzazione del cristianesimo, bensì del paradigma ateo ed edonistico lucreziano ed epicureo. In tal senso l’autore, attraverso una ricostruzione storica che ha cercato di individuare il dissidio tra la cosmologia cristiana e quella epicureo-lucreziana, ha delineato una teoria generale della nascita delle istituzioni antagonista a quella aristotelica e a quella cristiana. Secondo l’autore, nel delineare le tesi per uscire dalla sua crisi, la politica e lo Stato non dovrebbero preoccuparsi della salvezza delle anime ma piuttosto di limitarsi a garantire a ciascuno il diritto di poter migliorare la propria condizione: “Il liberalismo…non ritiene che la situazione di incertezza possa essere risolta dalla religione, dalla ragione, dalla scienza e tanto meno dai politici…” intravvedendo nell’individualismo del liberalismo fondato sulla cooperazione la possibile via d’uscita. La conclusione di Raimondo Cubeddu sta nella difesa di un liberalismo come filosofia politica, da intendersi come consapevolezza dei limiti della ragione, compreso quello della comprensione di un “essere superiore”.
Il liberalismo è compatibile col cristianesimo?
Per Don Samele Cecotti (“Il liberalismo è compatibile col cristianesimo?”, pp. 113-144) il liberalismo ha costituito la cifra ideologica della nuova Europa, al punto che le due guerre mondiali hanno rappresentato l’ultima tappa della rivoluzione liberale e quindi, in termini storici, cristianesimo e liberalismo si affrontarono in un duello all’ultimo sangue. Non solo Cecotti ha espresso l’inconciliabilità tra cristianesimo e liberalismo, ma ha rilevato e contraddistinto in quest’ultimo l’influsso del mondo protestante, specie di matrice calvinista. Anche nella Chiesa, ha osservato Don Cecotti, c’è stata una svolta liberale, una sorta di rivoluzione intra-ecclesiale, come attestato, anche ma non solo, dalla frase del cardinale Suenens: “Il Concilio è il 1789 nella Chiesa”. Nel ribadire l’incompatibilità tra liberalismo e cristianesimo, Don Samuele Cecotti è partito dalla naturale politicità dell’uomo (Aristotele) che la dottrina cattolica ha riconosciuto e da cui ha dedotto la naturalità della comunità politica. Natura che esprime il logos, la ratio, l’ordine impresso dal Creatore così come la legge naturale inscritta nel cuore e nella mente dell’uomo, riflesso della legge divina. Don Cecotti ha adeguatamente distinto tra lex naturalis e stato di natura, in quanto il primo presuppone il realismo gnoseologico-metafisico, mentre il secondo fa riferimento ad un mito e a un contratto sociale. Conseguenza di questi insegnamenti, dove traspare l’ordine divino, sono le concezioni dell’uomo, della famiglia, della società (anche di quelle cosiddette “intermedie”) finalizzate al perseguimento del vero bene comune, ossia del bene dell’uomo in quanto uomo. La dottrina politica cattolica, come asserito da Don Cecotti, escludendo in radice ogni giuspositivismo e l’idea stessa di sovranità, considerando l’autorità politica non sovrana, ma ministeriale e delegata, si contrappone a ogni sorta di naturalismo, ossia al concepire il diritto e la politica stessa a partire dall’artificio della natura pura. Essendo l’uomo creato in stato di grazia (precedente alla Caduta del peccato originale) non solo ha un bisogno radicale di Dio (vocazione soprannaturale) ma necessita che Cristo regni sugli uomini, sulle famiglie, sulla società intera, secondo il motto Instaurare omnia in Christo. Questo edificio vigoroso della cristianità , come rimarcato da Don Cecotti, è stato abbattuto dalla rivoluzione liberale, sancendone l’incompatibilità con il cristianesimo. Facendo propria l’espressione dello storico tedesco Ernst Nolte sulla guerra civile europea dal 1917 al 1945 (il “secolo breve”), Don Samuele Cecotti ha mostrato a ritroso le cause originali in Lutero, ispiratore di una vera e propria rivoluzione ecclesiale-ideologica-politica nel cuore dell’Europa, che ha portato alla formazione liberale dello Stato moderno. Stante l’irriducibile inconciliabilità tra liberalismo e vera dottrina cattolica, Don Cecotti ha concluso ipotizzando il suicidio del cristianesimo liberale, in quanto proprio di ogni rivoluzione è il morire mentre si afferma, offrendo un’unica alternativa possibile alla dissoluzione liberale quella rinvenibile nella restaurazione della cristianità.
Argomenti neoagostiniani contro il secolarismo
Riprendendo un recente volume di Marcello Pera: “Lo sguardo della Caduta. Agostino e la superbia del secolarismo”, Giovanni Catapano (“Argomenti neoagostiniani contro il secolarismo”, pp. 145-174) ha introdotto il tema dell’agostinismo politico legato al Santo d’Ippona, in particolare all’interpretazione del De civitate Dei, in cui l’autore riscontra come l’opposizione tra le due città riferite al pensiero di Agostino non si sovrappone a quelle tra Chiesa e Stato, rendendo possibile la distinzione tra doveri civili e doveri religiosi, in cui la sfera della politica è autonoma da quella religiosa. Sostenendo il ripudio di Agostino della “politica della perfezione”, utilizzando il concetto del saeculum come risultato di studi specifici anche di altri autori, Catapano ha sottolineato quanto l’agostinismo politico sia incessantemente critico verso ogni assetto umano, traducendosi in un atteggiamento di denuncia anti-ideologica e pragmatica. Lo stesso “agostinismo politico”, ha osservato Catapano non rappresenta qualcosa di univoco, quasi aprioristico, evidenziando successivamente quanto riscontrava Agostino nell’esaminare la realtà dei fatti, denunciandone un duplice difetto di ottimismo: il primo, quello etico, legato all’idea dell’auto-perfezionamento dell’uomo e al raggiungimento della felicità sulla terra; il secondo, legato alla sfera intellettuale, in cui l’anima razionale potesse compiere, da se stessa, la via che l’avrebbe portata a Dio.
La modernità è figlia del cristianesimo?
Il quesito che si è posto Raimondo Cubeddu sin dal titolo del suo saggio: “La modernità è figlia del cristianesimo?”, pp. 112, gli ha permesso, nel sottolineare come il cristianesimo abbia modellato nei secoli la storia, la cultura, i costumi dell’Occidente, quanta parte della modernità non fosse veramente una sua creatura, rinvenendo nella stessa modernità due anime incomponibili. La prima, denominata nomocrazia, ha concepitola realizzazione di un’associazione civile e politica fondata sulla convivenza tra le aspettative e le libertà individuali; la seconda, chiamata teleocrazia, ha inteso la realizzazione di finalità diverse, che trascendono la dimensione della libertà individuale. La tensione tra queste due anime, secondo Cubeddu, ha fatto emergere la crisi della “tarda modernità” con l’abbandono delle ideologie politiche del passato, mettendo al centro la questione cruciale di quanta diversità e libertà può tollerare un sistema perché possa funzionare. Se fino al Rinascimento sia indiscutibile la paternità cristiana dell’Europa, per Cubeddu le età successive hanno fatto affiorare un modo di pensare non cristiano, consistente nella riscoperta dell’epicureismo lucreziano, al punto da intravvedere nella modernità non tanto il risultato della secolarizzazione del cristianesimo, bensì del paradigma ateo ed edonistico lucreziano ed epicureo. In tal senso l’autore, attraverso una ricostruzione storica che ha cercato di individuare il dissidio tra la cosmologia cristiana e quella epicureo-lucreziana, ha delineato una teoria generale della nascita delle istituzioni antagonista a quella aristotelica e a quella cristiana. Secondo l’autore, nel delineare le tesi per uscire dalla sua crisi, la politica e lo Stato non dovrebbero preoccuparsi della salvezza delle anime ma piuttosto di limitarsi a garantire a ciascuno il diritto di poter migliorare la propria condizione: “Il liberalismo…non ritiene che la situazione di incertezza possa essere risolta dalla religione, dalla ragione, dalla scienza e tanto meno dai politici…” intravvedendo nell’individualismo del liberalismo fondato sulla cooperazione la possibile via d’uscita. La conclusione di Raimondo Cubeddu sta nella difesa di un liberalismo come filosofia politica, da intendersi come consapevolezza dei limiti della ragione, compreso quello della comprensione di un “essere superiore”.
Il liberalismo è compatibile col cristianesimo?
Per Don Samele Cecotti (“Il liberalismo è compatibile col cristianesimo?”, pp. 113-144) il liberalismo ha costituito la cifra ideologica della nuova Europa, al punto che le due guerre mondiali hanno rappresentato l’ultima tappa della rivoluzione liberale e quindi, in termini storici, cristianesimo e liberalismo si affrontarono in un duello all’ultimo sangue. Non solo Cecotti ha espresso l’inconciliabilità tra cristianesimo e liberalismo, ma ha rilevato e contraddistinto in quest’ultimo l’influsso del mondo protestante, specie di matrice calvinista. Anche nella Chiesa, ha osservato Don Cecotti, c’è stata una svolta liberale, una sorta di rivoluzione intra-ecclesiale, come attestato, anche ma non solo, dalla frase del cardinale Suenens: “Il Concilio è il 1789 nella Chiesa”. Nel ribadire l’incompatibilità tra liberalismo e cristianesimo, Don Samuele Cecotti è partito dalla naturale politicità dell’uomo (Aristotele) che la dottrina cattolica ha riconosciuto e da cui ha dedotto la naturalità della comunità politica. Natura che esprime il logos, la ratio, l’ordine impresso dal Creatore così come la legge naturale inscritta nel cuore e nella mente dell’uomo, riflesso della legge divina. Don Cecotti ha adeguatamente distinto tra lex naturalis e stato di natura, in quanto il primo presuppone il realismo gnoseologico-metafisico, mentre il secondo fa riferimento ad un mito e a un contratto sociale. Conseguenza di questi insegnamenti, dove traspare l’ordine divino, sono le concezioni dell’uomo, della famiglia, della società (anche di quelle cosiddette “intermedie”) finalizzate al perseguimento del vero bene comune, ossia del bene dell’uomo in quanto uomo. La dottrina politica cattolica, come asserito da Don Cecotti, escludendo in radice ogni giuspositivismo e l’idea stessa di sovranità, considerando l’autorità politica non sovrana, ma ministeriale e delegata, si contrappone a ogni sorta di naturalismo, ossia al concepire il diritto e la politica stessa a partire dall’artificio della natura pura. Essendo l’uomo creato in stato di grazia (precedente alla Caduta del peccato originale) non solo ha un bisogno radicale di Dio (vocazione soprannaturale) ma necessita che Cristo regni sugli uomini, sulle famiglie, sulla società intera, secondo il motto Instaurare omnia in Christo. Questo edificio vigoroso della cristianità , come rimarcato da Don Cecotti, è stato abbattuto dalla rivoluzione liberale, sancendone l’incompatibilità con il cristianesimo. Facendo propria l’espressione dello storico tedesco Ernst Nolte sulla guerra civile europea dal 1917 al 1945 (il “secolo breve”), Don Samuele Cecotti ha mostrato a ritroso le cause originali in Lutero, ispiratore di una vera e propria rivoluzione ecclesiale-ideologica-politica nel cuore dell’Europa, che ha portato alla formazione liberale dello Stato moderno. Stante l’irriducibile inconciliabilità tra liberalismo e vera dottrina cattolica, Don Cecotti ha concluso ipotizzando il suicidio del cristianesimo liberale, in quanto proprio di ogni rivoluzione è il morire mentre si afferma, offrendo un’unica alternativa possibile alla dissoluzione liberale quella rinvenibile nella restaurazione della cristianità.
Argomenti neoagostiniani contro il secolarismo
Riprendendo un recente volume di Marcello Pera: “Lo sguardo della Caduta. Agostino e la superbia del secolarismo”, Giovanni Catapano (“Argomenti neoagostiniani contro il secolarismo”, pp. 145-174) ha introdotto il tema dell’agostinismo politico legato al Santo d’Ippona, in particolare all’interpretazione del De civitate Dei, in cui l’autore riscontra come l’opposizione tra le due città riferite al pensiero di Agostino non si sovrappone a quelle tra Chiesa e Stato, rendendo possibile la distinzione tra doveri civili e doveri religiosi, in cui la sfera della politica è autonoma da quella religiosa. Sostenendo il ripudio di Agostino della “politica della perfezione”, utilizzando il concetto del saeculum come risultato di studi specifici anche di altri autori, Catapano ha sottolineato quanto l’agostinismo politico sia incessantemente critico verso ogni assetto umano, traducendosi in un atteggiamento di denuncia anti-ideologica e pragmatica. Lo stesso “agostinismo politico”, ha osservato Catapano non rappresenta qualcosa di univoco, quasi aprioristico, evidenziando successivamente quanto riscontrava Agostino nell’esaminare la realtà dei fatti, denunciandone un duplice difetto di ottimismo: il primo, quello etico, legato all’idea dell’auto-perfezionamento dell’uomo e al raggiungimento della felicità sulla terra; il secondo, legato alla sfera intellettuale, in cui l’anima razionale potesse compiere, da se stessa, la via che l’avrebbe portata a Dio.
Ricapitolando un altro libro di Pera: “Senza radici”, scritto nel 2004 con l’allora cardinale Joseph Ratzinger e riprendendo altri recenti volumi del già presidente del Senato, Catapano ha evidenziato quanto il pensiero di Agostino contenga in sé l’antidoto alla confusione tra Stato e Chiesa, proprio nella misura in cui nega la possibilità della costruzione della Città di Dio in terra. In un’ottica neoagostiniana, ha osservato Catapano, la sopravvivenza dell’Occidente dipende, in ultima analisi, dalla volontà di Dio e dalla Sua grazia: “Se la comunità politica migliore è quella in cui l’insieme dei buoni prevale sull’insieme dei malvagi e se si diventa cittadini nella città di Dio solo in virtù della grazia divina, allora è Dio che decide se una comunità politica sarà quella migliore oppure no”. Nella distinzione agostiniana tra “credere” e “comprendere”, dove si crede tutto ciò che si comprende, ma non si comprende tutto ciò che si crede, sta l’appello finale additato da Agostino e proposto da Catapano, in cui emerge il compito, per i difensori del ritorno alla fede cristiana nelle società politiche dell’Occidente, di giustificare argomentativamente la maggiore utilitas (utilitas credendi) del cristianesimo rispetto alla sua marginalizzazione.
La cultura della morte. Il caso Indi
Riprendendo alcuni autori come Roger Scruton e Oswald Spengler, che hanno usato termini come “suicidio” o “tramonto” dell’Occidente, Alfredo Mantovano (“La cultura della morte. Il caso Indi”, pp. 175-184”) ha centrato il suo saggio sulla “cultura della morte”, scorgendo nella vicenda di Indi Gregory un’espressione di questa cultura contro la vita. Evidenziando quanto il nesso fra l’eugenetica evoluzionista e l’eutanasia si è sempre palesato, non solo sul piano teorico, Mantovano ha individuato, nel drammatico percorso che ha portato alla morte di Indi, la dissoluzione dell’Occidente che, dalla sintesi tra la filosofia greca, il diritto romano e il personalismo cristiano è precipitato nell’incapacità di cogliere la persona come unica e irripetibile e conseguentemente di tutelarne l’esistenza. Mantovano ha rinvenuto nella vicenda di re Théoden nel Signore degli anelli la condizione del torpore attuale che, grazie a Gandalf, svela l’influenza negativa di Saruman attraverso il suo malfido consigliere Vermilinguo. Allo stesso tempo, l’accidia di Theoden viene riassunta da Mantovano a simbolo di chi, pur stando dalla parte giusta, rimane fermo. Al contrario, come i genitori di Indi, che il sacrificio della propria figlia ha portato la conversione cristiana e il ricevimento del Battesimo, così anche l’Occidente, uscendo dal torpore e non volendo assistere passivamente al suicidio della “cultura della morte”, potrà testimoniare le proprie radici cristiane in una cultura responsabile della vita.
L’Occidente non è pronto al sacrificio
Il saggio di Domenico Airoma (“L’Occidente non è pronto al sacrificio”, pp. 185-194) indica inizialmente tre premesse riguardo la nozione di Occidente: la prima, concerne un habitat culturale prima che un luogo geografico più o meno ristretto, ossia la nozione di “patria culturale” quale sintesi tra l’eredità di Atene, Roma e Gerusalemme; la seconda, riguarda la nozione di “suicidio” riferita all’Occidente, ovvero, mutuata da Gonzague de Reynold (1880-1970), “la patria non muore”, il che significa che ciò che muore è un falso Occidente; la terza, tratteggia la comprensione di questa “implosione” dell’Occidente e la conoscenza delle cause di questa dissoluzione di un Occidente relativista e secolarizzato. Non potendo limitarsi a una mesta orazione funebre, Airoma ha sollecitato, oltre che alla consapevolezza delle cause della crisi dell’Occidente, a risvegliare la nostalgia di un futuro che sta dinanzi a tutti noi per ritornare a proporre un orizzonte di verità. Riprendendo, secondo le parole dell’autore, la lucida analisi di Solzenicyn, che invitava a riprendere il vero senso della libertà contro gli effetti devastanti di una libertà intesa come autodeterminazione illimitata, Airoma ha citato altri autori (come il pensatore colombiano Gomez Dàvila o come il filosofo-contadino francese Gustave Thibon) per ritrovare il valore della vera dipendenza (da Dio) e l’autentico senso del limite. A presidio dell’autentica libertà, ha sostenuto Domenico Airoma, sta l’autentica custodia del cuore, inteso in senso non solo sentimentalistico: “Riconquistare il cuore dell’uomo è operazione prioritaria…l’uomo è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama”. Il tempo che stiamo vivendo, ha concluso Airoma, è tempo che richiede sacrificio ma che, secondo l’avvertimento di Solzenicyn, l’Occidente non ha saputo cogliere poiché non era pronto a sacrificarsi.
La cultura della morte. Il caso Indi
Riprendendo alcuni autori come Roger Scruton e Oswald Spengler, che hanno usato termini come “suicidio” o “tramonto” dell’Occidente, Alfredo Mantovano (“La cultura della morte. Il caso Indi”, pp. 175-184”) ha centrato il suo saggio sulla “cultura della morte”, scorgendo nella vicenda di Indi Gregory un’espressione di questa cultura contro la vita. Evidenziando quanto il nesso fra l’eugenetica evoluzionista e l’eutanasia si è sempre palesato, non solo sul piano teorico, Mantovano ha individuato, nel drammatico percorso che ha portato alla morte di Indi, la dissoluzione dell’Occidente che, dalla sintesi tra la filosofia greca, il diritto romano e il personalismo cristiano è precipitato nell’incapacità di cogliere la persona come unica e irripetibile e conseguentemente di tutelarne l’esistenza. Mantovano ha rinvenuto nella vicenda di re Théoden nel Signore degli anelli la condizione del torpore attuale che, grazie a Gandalf, svela l’influenza negativa di Saruman attraverso il suo malfido consigliere Vermilinguo. Allo stesso tempo, l’accidia di Theoden viene riassunta da Mantovano a simbolo di chi, pur stando dalla parte giusta, rimane fermo. Al contrario, come i genitori di Indi, che il sacrificio della propria figlia ha portato la conversione cristiana e il ricevimento del Battesimo, così anche l’Occidente, uscendo dal torpore e non volendo assistere passivamente al suicidio della “cultura della morte”, potrà testimoniare le proprie radici cristiane in una cultura responsabile della vita.
L’Occidente non è pronto al sacrificio
Il saggio di Domenico Airoma (“L’Occidente non è pronto al sacrificio”, pp. 185-194) indica inizialmente tre premesse riguardo la nozione di Occidente: la prima, concerne un habitat culturale prima che un luogo geografico più o meno ristretto, ossia la nozione di “patria culturale” quale sintesi tra l’eredità di Atene, Roma e Gerusalemme; la seconda, riguarda la nozione di “suicidio” riferita all’Occidente, ovvero, mutuata da Gonzague de Reynold (1880-1970), “la patria non muore”, il che significa che ciò che muore è un falso Occidente; la terza, tratteggia la comprensione di questa “implosione” dell’Occidente e la conoscenza delle cause di questa dissoluzione di un Occidente relativista e secolarizzato. Non potendo limitarsi a una mesta orazione funebre, Airoma ha sollecitato, oltre che alla consapevolezza delle cause della crisi dell’Occidente, a risvegliare la nostalgia di un futuro che sta dinanzi a tutti noi per ritornare a proporre un orizzonte di verità. Riprendendo, secondo le parole dell’autore, la lucida analisi di Solzenicyn, che invitava a riprendere il vero senso della libertà contro gli effetti devastanti di una libertà intesa come autodeterminazione illimitata, Airoma ha citato altri autori (come il pensatore colombiano Gomez Dàvila o come il filosofo-contadino francese Gustave Thibon) per ritrovare il valore della vera dipendenza (da Dio) e l’autentico senso del limite. A presidio dell’autentica libertà, ha sostenuto Domenico Airoma, sta l’autentica custodia del cuore, inteso in senso non solo sentimentalistico: “Riconquistare il cuore dell’uomo è operazione prioritaria…l’uomo è libero nell’esatta misura in cui dipende da ciò che ama”. Il tempo che stiamo vivendo, ha concluso Airoma, è tempo che richiede sacrificio ma che, secondo l’avvertimento di Solzenicyn, l’Occidente non ha saputo cogliere poiché non era pronto a sacrificarsi.
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