domenica 18 giugno 2023

La fuga dalla verità e dalla realtà dell’uomo contemporaneo




Silvio Brachetta 

Sull’ultima trasmissione che ho condotto a Radio Maria [qui] è necessaria una sintesi scritta, per via dell’importanza del contenuto dei due libri a base del mio intervento. I libri sono i seguenti:
Dietrich von Hildebrand, La detronizzazione della verità, Cantagalli, Siena 2023, euro 15,00
Byung-Chul Han, Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi, Cles 2023, euro 10,00
L’homo sapiens – scrive Byung-Chul Han[1] – è sempre più «phono sapiens», cioè colui che vive sempre attaccato al telefono (in versione smartphone), alla ricerca maniacale d’informazioni, alla ricerca del gioco digitale o del divertimento informatico. Il phono sapiens non capisce, però, che l’informazione non lo conduce più alla realtà delle cose[2], ma alle cose trasformate in «infomi», ovvero in «agenti che elaborano informazioni».


Le informazioni, dice sempre Byung-Chul Han, «non sono un costrutto stabile» poiché manca loro «la saldezza dell’essere». L’informazione, di per sé, non sarebbe un male. Dovrebbe accompagnare l’uomo nella comprensione delle cose e del mondo. Però le cose si possono sì raggiungere con la parola (di cui l’informazione fa parte), ma attraverso una narrazione, una spiegazione, una storia che dà significato alle cose – attraverso un logos.


Al contrario, le informazioni che provengono dall’informatica e dalle tecnologie digitali sono «additive, non narrative», per cui «si possono contare, ma non raccontare». Per definizione, l’ordine digitale «è privo di storia e di memoria». In questo senso, l’«essere» digitale è immediatamente disponibile, mentre invece l’«essere» (in Heidegger) è sempre indisponibile: anzi, è fattibile solo quello che, nell’esistenza umana, è indisponibile. Se infatti l’essere fosse disponibile, sarebbe controllabile e manipolabile persino nell’essenza, che però non è soggetta a mutazione.


Per questo Byung-Chul Han è convinto che l’ordine digitale «defatticizza l’esistenza umana». E quando le cose non si fondano sulla stabilità dell’essere e la «fatticità» heideggeriana è negata, allora il reale è sostituito dal virtuale. Non è dunque in discussione l’utilità dei mezzi informatici, ma la deriva virtuale delle tecnologie digitali.


Non è troppo complicato da capire che la verità delle cose non si raggiunge attraverso un coacervo di dati caotici accostati gli uni agli altri, o attraverso una massa di affermazioni o negazioni tutte sganciate tra loro, come succede quasi sempre nel mondo dei mass media, della pubblicità, del giornalismo e delle telecomunicazioni. La verità «è fatticità e sfoggia una saldezza dell’essere». Se viene meno questa saldezza, si corre «dietro alle informazioni senz’approdare ad alcun sapere».


Per approdare al sapere è necessario invece un logos, un discorso (anche socratico), una storia, un racconto: è successo per la stessa Rivelazione (il cui Dio è il Logos), ma anche per tutte le grandi opere teologiche e filosofiche della storia.


Parente stretto dell’informazione, breve e isolata, è lo «slogan», a tutt’oggi gridato con arroganza e imposto nelle piazze. E proprio dello slogan ci parla Dietrich von Hildebrand[3], nel suo libro postumo, che vede una verità detronizzata e sostituita dalla menzogna. Hildebrand scrive questa sua opera nel 1943, dopo aver conosciuto l’impostura del Nazismo e del Comunismo.


Ebbene, scrive Hildebrand, i regimi totalitari fanno grande uso dello slogan, che si potrebbe chiamare informazione spiccia, informazione umorale, viscerale, non pensata. Lo slogan è «un’arma di propaganda» in cui «il significato delle parole è stato sostituito con l’effetto emotivo che esse creano nella mente del pubblico». Lo slogan è il risultato di una qualche elucubrazione ideologica, imposto dai pochi alle masse, che devono assorbirlo in modo acritico. Lo slogan fa perno sull’emozione, per renderlo di facile diffusione e per allontanare le masse dalla speculazione filosofica.


Il ricorso allo slogan, continua Hildebrand, provoca una «desostanzializzazione della mente umana». La mente umana perde la sua sostanza, che è quella di pensare. Non solo però nelle dittature Hildebrand vede questa perdita di pensare da parte della mente.


Anche la democrazia – attraverso un equivoco sull’uguaglianza tra le persone – produce una fitta rete di slogan, che sono nient’altro che le opinioni delle persone: esse devono essere tutte dello stesso peso e non c’è più un criterio oggettivo della verità.


Pur con argomenti diversi, Hildebrand e Byung-Chul Han trattano delle sorti della verità, sostituita «da un espediente», vuoi che si chiami «informazione digitale», vuoi che si chiami «slogan».


Entrambi prospettano un mondo (quello contemporaneo) che è sotto l’impero di una triade relativistica della conoscenza: l’informazione, lo slogan, l’opinione. Tornando al modo di esprimersi del filosofo sudcoreano, si direbbe che «il mondo fatto di informazioni viene regolato non dal possesso, bensì dall’accesso». Si può possedere qualcosa, ma solo se qualcuno ti autorizza ad usufruirne, mediante username o password.


Non è una cosa strana: venendo meno la realtà delle cose, viene meno anche la di loro proprietà privata. L’umanità potrà avere, tutt’al più, un accesso ad un mondo virtuale, dove non troviamo più le cose, ma quello che l’ideologia pensa siano le cose.


È noto, infatti, che i grandi media sono mossi da grandi capitali e relativi programmi di rivoluzione della realtà. Vengono dunque messe in discussione le stesse fondamenta etiche della vita: per mezzo dello slogan e delle informazioni manipolate ad arte, si cerca di annullare la famiglia, di annullare l’ordine naturale del vivere, di corrompere lo spirito dei bambini e dei giovani, di edificare una società disumana del vizio.


Hildebrand è molto diretto: «la detronizzazione della verità comporta la decomposizione della vita stessa dell’uomo»; «la mancanza di rispetto per la verità […] distrugge palesemente ogni morale, anche ogni ragionevolezza e ogni vita comunitaria»; «tutte le norme oggettive sono dissolte […]»; «viene ignorata ed eliminata la funzione essenziale di qualsiasi proposizione e opinione che pretenda di essere conforme all’essere».


Eppure la parte emotiva della mens, se non soggetta a sloga ideologici e non perduta nel caos delle informazioni sganciate tra loro, non solo non danneggia, ma rende possibile il pensiero umano.

Qua Byung-Chul Han considera tutta una tradizione metafisica che, da sant’Agostino, passa per san Bonaventura e approda a Brentano (ma anche a Husserl e Heidegger). La nostra anima, cioè, è un «medium affettivo», diffusivo, intenzionale – che spira (in quanto spirito), ovvero che esce da sé medesimo e si avventa sull’ente che si è manifestato.

L’anima si avventa con una particolare predisposizione, che non è la «predisposizione al dubbio» di tipo cartesiano, ma è lo «stato d’animo fondamentale» di Heidegger, il quale è «l’inizio di un filosofare effettivo e vitale». In questo stato d’animo vi è inclusa la «totalità», che connota la capacità metafisica di un soggetto e che è una «cornice che mette ordine».


L’intelligenza artificiale – e per questo virtuale – non pensa proprio perché non va «fuori di sé» come la mens umana, ma rimane confinata nella correlazione tra due cose. Non va a sintesi, non crea una terza cosa inaudita, non è il risultato di un sillogismo, non esprime un concetto. Non va nell’ananke sténai di Aristotele, non conclude.


Scrive Byung-Chul Han: l’intelligenza artificiale e virtuale «non si spinge oltre il precostituito per arrivare, così, all’ignoto», mentre per la mente umana la «totalità è una forma di conclusione».



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[1] È un filosofo e docente sudcoreano che vive in Germania. Classe 1959, Byung-Chul Han è uno studioso eclettico e di profonda introspezione su diverse discipline: teoria della cultura, antropologia, comunicazione di massa, etica e filosofia sociale. I corsivi nelle citazioni sono suoi. Di questo autore si è già occupato Stefano Fontana nel nostro sito: vedi QUI su questo stesso libro, e QUI sulla società palliativa.
[2] La «cosa» è semplicemente la «res» latina, che però non di esaurisce nel senso di «oggetto materiale». Il significato della «res» è ben più ampio: cosa, fatto, circostanza, realtà, causa, ragione, bene, patrimonio, attività, stato, ecc… La cosa, che qui è nominata, è tutto ciò che è l’oggetto della conoscenza umana, ovvero tutto ciò che «si pone» (Agazzi) e che il senso avverte. [3] Firenze 1889 – New York 1977. Filosofo e teologo tedesco, di fede cattolica. Allievo di Husserl, fu uno studioso tra i più acuti, utilizzando in modo sorprendente il metodo della fenomenologia, in etica e in filosofia. Lodato a ragione da Papa Pio XII è stato poi ghettizzato in epoca post-conciliare.








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