Nella nostra [di Chiesa e post concilio] traduzione da Rorate Caeli. “Perché il latino è la lingua appropriata per il culto cattolico romano” — Testo completo della conferenza tenuta dal Dr. Kwasniewski a Cleveland. La seguente conferenza si è tenuta il 4 giugno 2022 a Independence (una frazione di Cleveland), in Ohio, su invito di Una Voce Greater Cleveland. Nella parte in cui parla della Vigilia di Pentecoste, il discorso include numerosi riferimenti al grande mistero che si celebra in questa festività.
Precedenti: Uwe Michael Lang. Il Latino come lingua liturgica del Rito Romano [qui]; Memoria Ufficiale FIUV n. 7: Il latino come lingua della liturgia [qui]; Maria Guarini. Il Latino. Una lingua sacra da preservare [qui]; indice articoli sul Latino qui.
Precedenti: Uwe Michael Lang. Il Latino come lingua liturgica del Rito Romano [qui]; Memoria Ufficiale FIUV n. 7: Il latino come lingua della liturgia [qui]; Maria Guarini. Il Latino. Una lingua sacra da preservare [qui]; indice articoli sul Latino qui.
Cleveland, Ohio
4 giugno 2022
Il dilemma che verte sulla lingua in cui si dovrebbe celebrare la liturgia cristiana è molto più complesso di quanto la maggioranza della gente percepisca a prima vista. Dato che il razionalismo ci ha fatto il lavaggio del cervello, tendiamo a presumere che l’unico proposito di una lingua — quello di utilizzare parole in generale — sia quello di consentire alle persone di trasmettere le loro idee. La lingua avrebbe dunque una funzione utilitaristica, e questa sarebbe l’unica giustificazione della sua esistenza e del suo uso.
Certo, è vero che utilizziamo parole per trasmettere idee tra di noi. Ma una lingua ha delle funzioni più elevate. Per esempio, la poesia mette l’accento sulla bellezza, sui suoni, sulle associazioni di idee e sui significati intrinseci e profondi della lingua; vuole essere un testimone e la rivelazione di una parte del “mistero dell’esistenza”. È per questo che essa è spesso di difficile comprensione, ma gratifica di più quando la si capisce e — nel caso della poesia di più alta qualità — contiene sempre elementi di ciò che è ineffabile o inesprimibile, il carpire un pensiero o la visione di un’esperienza che non possono essere espressi dalle parole.
O si consideri le ninne nanne, le filastrocche o le canzoni senza senso che si cantano per divertirsi o per intrattenere i bambini piccoli o per farli addormentare. In questo caso lo scopo che si persegue non è quello di comunicare un significato determinato, bensì il trasmettere la sensazione di stare insieme, il conforto, la rassicurazione, o semplicemente il benessere: in questo caso, la lingua diventa piuttosto uno strumento per veicolare sentimenti e sensazioni.
O si considerino le preghiere che la Chiesa eleva a Dio: è cosa buona e giusta che chi offre la propria preghiera comprenda cosa sta dicendo, ma dato che la preghiera è rivolta dalla Chiesa a Dio, il suo proposito non è la comprensione umana — come se questo fosse il suo scopo —, bensì la supplica umile ed efficace a Dio. Egli, o la Sua grazia e le Sue benedizioni, è il proposito della preghiera: pertanto, quel che conta di più è il contenuto oggettivo, la bontà della preghiera in sé piuttosto che il fatto che chi la pronuncia o chi la ascolta carpisca perfettamente il suo significato. Nel suo straordinario libro The Traditional Mass: History, Form, and Theology of the Classical Roman Rite [La Messa tradizionale: storia, forma e teologia del rito romano classico], che citerò ripetutamente, Michael Fiedrowicz scrive:
Per poter comprendere l’essenza e il significato di una lingua sacra, è importante essere coscienti del fatto che essa possiede molteplici funzioni, In primo luogo è un mezzo di comunicazione che permette la trasmissione di pensieri o informazioni. Da questo punto di vista l’intelligibilità è vitale. Ma aldilà di questo, una lingua è una forma di espressione. Per mezzo della lingua, l’uomo può dar voce alle sue sensazioni e alle sue esperienze, e persino al suo essere più profondo. Pertanto, per esempio cantare una canzone non trasmette alcuna informazione, bensì esprime sentimenti, crea un’atmosfera e crea un clima di unità in un gruppo di persone. Considerata dal punto di vista della linguistica, la preghiera appartiene più al mondo dell’espressione che a quello della comunicazione, e questo vale non solo per la preghiera personale, ma anche per quella collettiva. Nella misura in cui la lingua sacra della liturgia è diretta principalmente a Dio, essa non ha realmente lo scopo di impartire informazioni nel senso della comunicazione umana. In questo caso la lingua serve piuttosto come un ponte tra il mondo profano e la trascendenza di Dio. Essendo un tipo di discorso allo stesso tempo umano e stilizzato, la lingua sacra cerca di creare un’atmosfera che rifletta ed evochi allo stesso tempo un certo atteggiamento religioso nelle persone che pregano. [1]
Nella misura in cui vi è un determinato contenuto da comunicare, l’uso del latino non è una barriera insuperabile per la comprensione. Come spiega il Dr. Joseph Shaw:
Né il non udire né l’uso del latino nella pratica creano una barriera per la comprensione tra i partecipanti al culto e la liturgia, dato che i membri della congregazione possono consultare il messale, i foglietti o testi online sui loro cellulari — tradotti in una vasta varietà di lingue — per capire cosa si sta dicendo. D’altro canto, essi distinguono la liturgia come qualcosa di speciale e la distinguono dalla vita quotidiana. Quando entriamo — per così dire — nel territorio del latino, facciamo il nostro ingresso in uno spazio spirituale. In questo modo il latino rafforza potentemente l’atmosfera creata dall’architettura sacra e le forme appropriate di una chiesa, i paramenti speciali indossati dal clero, il tipo di musica specifico della Messa e così via. In realtà il latino della Messa non è mai stato la lingua della strada o degli oratori pubblici. Non solo esso è spesso fiorito e poetico, ma è anche contraddistinto dall’influsso del greco e dell’ebraico e fa un uso esteso di ripetizioni e arcaismi intenzionali. Si è sempre voluto che fosse ciò che è realmente: una lingua diversa, sacra, da utilizzarsi solo nella liturgia.
Non è necessario comprendere parola per parola il testo latino così come viene pronunciato per percepire — ed esserne commossi — il carattere solenne di cui riveste la liturgia. Il significato del testo può essere immediatamente disponibile per chi partecipa al culto nella sua forma stampata, ma l’impressione suscitata dalla forma del testo, il fatto che esso sia proclamato in una lingua antica e sacra, di una magnificenza e di una solennità uniche, è un altro fattore di considerevole importanza. [2]Predicare per mezzo di parole e segni
Oggi, ovviamente, è la Vigilia di Pentecoste, una festività così grande agli occhi della Chiesa che nel rito latino della Chiesa cattolica che risale al tardo VI secolo veniva celebrata per otto giorni (ossia, un’ottava), una tradizione che continua ad essere osservata ancor oggi ogni volta che si celebra con la forma del rito romano. Un mio amico mi ha raccontato una volta che aveva espresso il suo amore per la Messa tradizionale in latino a un diacono, il quale gli rispose sbuffando: “La Pentecoste mostra che gli apostoli hanno parlato a ciascuno nella sua lingua, non in latino”. Questo fraintendimento liturgico della Pentecoste e del dono delle lingue, che si può udire spesso in diversi modi e in diversi contesti, merita una replica.
Ciò che gli Atti degli Apostoli mostrano è il fatto che gli apostoli hanno predicato alla gente in molte lingue. Nella narrazione della Pentecoste non vi è alcun riferimento al culto nel tempio o nella sinagoga, o alla liturgia eucaristica e al Divino Officio che si è sviluppato da essi e li ha soppiantati. Per quanto ne so, si è sempre avuta l’abitudine di predicare nelle lingue locali nelle Messe in latino, eccezion fatta per contesti accademici altamente specializzati. Il dono delle lingue viene concesso per l’evangelizzazione, l’apologetica e la catechesi — non per il culto liturgico.
Inoltre, è sempre utile ricordare che per quanto la predicazione possa essere utile, la Chiesa ha sviluppato nel corso dei secoli molte altre modalità di espressione che si sono rivelate altrettanto o addirittura più efficaci per l’evangelizzazione. Permettetemi di fornirvene un esempio. In un libro intitolato Truth in Many Tongues [La verità in molte lingue], Daniel Wasserman Soler ha studiato il modo in cui i missionari utilizzavano le lingue locali nell’impero spagnolo del XVI secolo. L’autore afferma:
Dobbiamo lasciarci alle spalle la presupposizione capillarmente diffusa nella nostra epoca … e propagata dalla riforma protestante … secondo cui la parola scritta e quella parlata costituiscano lo strumento fondamentale e migliore per insegnare la religione alla gente. … I primi vescovi di Città del Messico, del Guatemala e di Oaxaca riferirono al Re Carlos I che i sermoni potevano non essere la chiave per la conversione dei nativi americani: “Confermiamo, Vostra Maestà, che i Nativi sono molto edificati dal servizio devoto, dalle cerimonie e dalle decorazioni ornamentali, forse anche di più che dai sermoni”. Dunque, secondo molti sacerdoti una combinazione di ornamenti vivaci, l’aroma fragrante dell’incenso, il senso di inclusione in una comunità e l’esempio fornito da sacerdoti pii e imitatori di Cristo può rivelarsi uno strumento di conversione religiosa più potente che la predicazione da sola.
In un certo senso, ciò risulta del tutto ovvio quando lo si afferma, ma al giorno d’oggi vi sono molte persone intrappolate nelle grinfie di un razionalismo inconscio e non si rendono conto di quante cose sono veicolate dal linguaggio non verbale e dagli elementi emotivi e sovra-razionali della lingua stessa!
Una lingua non è mai “semplicemente” una lingua; la sua storia culturale, i suoi tratti e i suoi vincoli con le opere classiche composte per mezzo di essa, lo stesso suo suono che raggiunge l’udito — tutto ciò si trasmette insieme alla lingua, e crea spesso un impatto altrettanto forte — e a volte persino più forte — che il suo contenuto concettuale. Nel momento in cui ascoltiamo “In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti, Amen. Introibo ad altare Dei”, siamo trasportati immediatamente in un’altra dimensione; è quasi come quando l’angelo ha afferrato il profeta Abacuc per i capelli e lo ha trasportato a Babilonia, salvo che siamo trasportati nella direzione opposta: il fedele è trasportato da Babilonia alla Terra Santa, dalla valle di lacrime al Santo dei Santi. [3] Fiedrowicz osserva:
Anche qui la Chiesa dimostra di possedere una profonda comprensione della natura umana, poiché in questo modo essa aiuta i suoi fedeli a distaccarsi dalla loro lingua quotidiana, in cui ogni parola rievoca realtà profane, e di sentire — anche in modo sensibile — quel “completamente Altro” che ogni forma di pietà ricerca. … La lingua sacra stende un delicato velo sulle verità della Fede che protegge i santi misteri e elude la comprensione frettolosa. … Una lingua che non è comunemente compresa fa capire al fedele di trovarsi di fronte a un mistero che elude la trasparenza totale. Al contrario, la lingua vernacolare crea una comprensione che è una contraffazione assolutamente irreale. [4]
Negli ultimi sessant’anni di sviati abusi e riforme liturgici è stata posta sin troppa enfasi sulla lingua vernacolare (ossia, una lingua particolare parlata da un gruppo di persone), come se si trattasse della chiave magica per accedere alla partecipazione. Innanzitutto, qualsiasi lingua vernacolare esclude immediatamente tutti coloro che non la parlano — ivi comprese le persone che parlano un registro più basso della stessa lingua, così come anche coloro la cui formazione permetterebbe invece di comprenderne registri più alti e dunque più appropriati per il culto, e che si possono sentire frustrati da traduzioni che utilizzano toni piatti, smorti, grigi, moderni. [vedi] [5]
Quel che i riformatori sembrano aver dimenticato è il fatto che esiste uno strumento universale non verbale accessibile a tutta l’umanità: il linguaggio dei simboli. Tanto che si tratti di colori, o di azioni, o di suoni, o di profumi o di altri segni religiosi, questo vocabolario ha un effetto sulle coscienze che a volte lascia persino stupefatti. Ci ispira riverenza senza parlare di essa; ci suscita tristezza o gioia senza menzionarle con parole trite o elaborate. Una pianeta nera, le candele non sbiancate, un catafalco e la ripetizione della formula “Requiem aeternam” mi comunica istantaneamente molte più cose sul significato della liturgia per i defunti che cento libri sul tema.
Sì, il latino liturgico è “strano”, nel senso che non è qualcosa di quotidiano, familiare, facile, al nostro livello o a nostra disposizione; esso evoca la trascendenza e la maestà di Dio, l’universalità del Suo regno, l’antica profondità della Fede. Ma col passare del tempo abbiamo cominciato a vedere in questa lingua separata dalle altre un segno onorifico, la sperimentiamo come una promotrice di riverenza e troviamo in essa un invito alla preghiera. Quando ci tuffiamo in una piscina, nel momento in cui tocchiamo la superficie dell’acqua sappiamo — non solo razionalmente, ma anche visceralmente — di trovarci in un nuovo mezzo e che dobbiamo nuotare. Allo stesso modo, quando udiamo i canti o le preghiere recitate in latino, sappiamo di trovarci in un nuovo mezzo e che dobbiamo pregare.
La “lingua sacra” come fenomeno universale
Ben lungi dall’essere una tradizione esclusiva della Chiesa occidentale, la prassi di utilizzare una lingua sacra nei riti religiosi è già prominente nella storia della salvezza, come sottolinea Shaw:
La tradizione del canto gregoriano (vedi) risale al Tempio di Gerusalemme [nella cantillazione: lo stesso Discorso della Montagna, al pari dei testi ebraici più antichi del Pentateuco, è costruito sulla cantillazione. -ndT], in cui si dice che venivano impiegati cantori professionali (2 Cr 5, 15); l’uso del latino ricorda l’uso dell’ebraico come lingua sacra quando la lingua quotidiana del popolo ebraico era diventata l’aramaico; l’enfasi della liturgia tradizionale sul sacerdote, sull’altare e sul sacrificio rievoca l’atmosfera dell’antico culto ebraico, fatto che viene a volte notato dagli ebrei convertiti al cristianesimo…
Come ebrei, essi [gli Apostoli] erano cresciuti pregando e cantando i Salmi in ebraico oltre che nella loro lingua madre. Non si rintraccia alcuna parola critica nei confronti delle lingue sacre nella Scrittura, e le liturgie primitive non utilizzavano affatto il linguaggio della strada. Nelle aree grecofone la Chiesa poteva usare il registro sacro creato dalla traduzione dei Septuaginta della Bibbia: una variante diversa di greco già vecchia di due secoli e infarcita di ebraismi. La liturgia in latino non emerse finché le traduzioni latine della Bibbia non crearono qualcosa di simile e, a quel punto, sorse la liturgia in un latino sacro con un vocabolario specializzato, ricolmo di arcaismi, prestiti lessicali e altre peculiarità; analogamente, il copto liturgico è una lingua arcaica infarcita di termini greci e scritta in alfabeto greco. Per quanto riguarda la lingua slava ecclesiastica e la lingua del Messale Glagolitico, le loro origini e la loro storia non sono riconducibili alla semplice idea della “lingua in uso in quel tempo” e, in ogni caso, esse diventarono subito lingue liturgiche per persone che non erano in grado di comprenderle. Rimangono culturalmente connesse ai popoli che usufruiscono di esse, ma non sono loro immediatamente comprensibili. [6]
O si consideri le ninne nanne, le filastrocche o le canzoni senza senso che si cantano per divertirsi o per intrattenere i bambini piccoli o per farli addormentare. In questo caso lo scopo che si persegue non è quello di comunicare un significato determinato, bensì il trasmettere la sensazione di stare insieme, il conforto, la rassicurazione, o semplicemente il benessere: in questo caso, la lingua diventa piuttosto uno strumento per veicolare sentimenti e sensazioni.
O si considerino le preghiere che la Chiesa eleva a Dio: è cosa buona e giusta che chi offre la propria preghiera comprenda cosa sta dicendo, ma dato che la preghiera è rivolta dalla Chiesa a Dio, il suo proposito non è la comprensione umana — come se questo fosse il suo scopo —, bensì la supplica umile ed efficace a Dio. Egli, o la Sua grazia e le Sue benedizioni, è il proposito della preghiera: pertanto, quel che conta di più è il contenuto oggettivo, la bontà della preghiera in sé piuttosto che il fatto che chi la pronuncia o chi la ascolta carpisca perfettamente il suo significato. Nel suo straordinario libro The Traditional Mass: History, Form, and Theology of the Classical Roman Rite [La Messa tradizionale: storia, forma e teologia del rito romano classico], che citerò ripetutamente, Michael Fiedrowicz scrive:
Per poter comprendere l’essenza e il significato di una lingua sacra, è importante essere coscienti del fatto che essa possiede molteplici funzioni, In primo luogo è un mezzo di comunicazione che permette la trasmissione di pensieri o informazioni. Da questo punto di vista l’intelligibilità è vitale. Ma aldilà di questo, una lingua è una forma di espressione. Per mezzo della lingua, l’uomo può dar voce alle sue sensazioni e alle sue esperienze, e persino al suo essere più profondo. Pertanto, per esempio cantare una canzone non trasmette alcuna informazione, bensì esprime sentimenti, crea un’atmosfera e crea un clima di unità in un gruppo di persone. Considerata dal punto di vista della linguistica, la preghiera appartiene più al mondo dell’espressione che a quello della comunicazione, e questo vale non solo per la preghiera personale, ma anche per quella collettiva. Nella misura in cui la lingua sacra della liturgia è diretta principalmente a Dio, essa non ha realmente lo scopo di impartire informazioni nel senso della comunicazione umana. In questo caso la lingua serve piuttosto come un ponte tra il mondo profano e la trascendenza di Dio. Essendo un tipo di discorso allo stesso tempo umano e stilizzato, la lingua sacra cerca di creare un’atmosfera che rifletta ed evochi allo stesso tempo un certo atteggiamento religioso nelle persone che pregano. [1]
Nella misura in cui vi è un determinato contenuto da comunicare, l’uso del latino non è una barriera insuperabile per la comprensione. Come spiega il Dr. Joseph Shaw:
Né il non udire né l’uso del latino nella pratica creano una barriera per la comprensione tra i partecipanti al culto e la liturgia, dato che i membri della congregazione possono consultare il messale, i foglietti o testi online sui loro cellulari — tradotti in una vasta varietà di lingue — per capire cosa si sta dicendo. D’altro canto, essi distinguono la liturgia come qualcosa di speciale e la distinguono dalla vita quotidiana. Quando entriamo — per così dire — nel territorio del latino, facciamo il nostro ingresso in uno spazio spirituale. In questo modo il latino rafforza potentemente l’atmosfera creata dall’architettura sacra e le forme appropriate di una chiesa, i paramenti speciali indossati dal clero, il tipo di musica specifico della Messa e così via. In realtà il latino della Messa non è mai stato la lingua della strada o degli oratori pubblici. Non solo esso è spesso fiorito e poetico, ma è anche contraddistinto dall’influsso del greco e dell’ebraico e fa un uso esteso di ripetizioni e arcaismi intenzionali. Si è sempre voluto che fosse ciò che è realmente: una lingua diversa, sacra, da utilizzarsi solo nella liturgia.
Non è necessario comprendere parola per parola il testo latino così come viene pronunciato per percepire — ed esserne commossi — il carattere solenne di cui riveste la liturgia. Il significato del testo può essere immediatamente disponibile per chi partecipa al culto nella sua forma stampata, ma l’impressione suscitata dalla forma del testo, il fatto che esso sia proclamato in una lingua antica e sacra, di una magnificenza e di una solennità uniche, è un altro fattore di considerevole importanza. [2]Predicare per mezzo di parole e segni
Oggi, ovviamente, è la Vigilia di Pentecoste, una festività così grande agli occhi della Chiesa che nel rito latino della Chiesa cattolica che risale al tardo VI secolo veniva celebrata per otto giorni (ossia, un’ottava), una tradizione che continua ad essere osservata ancor oggi ogni volta che si celebra con la forma del rito romano. Un mio amico mi ha raccontato una volta che aveva espresso il suo amore per la Messa tradizionale in latino a un diacono, il quale gli rispose sbuffando: “La Pentecoste mostra che gli apostoli hanno parlato a ciascuno nella sua lingua, non in latino”. Questo fraintendimento liturgico della Pentecoste e del dono delle lingue, che si può udire spesso in diversi modi e in diversi contesti, merita una replica.
Ciò che gli Atti degli Apostoli mostrano è il fatto che gli apostoli hanno predicato alla gente in molte lingue. Nella narrazione della Pentecoste non vi è alcun riferimento al culto nel tempio o nella sinagoga, o alla liturgia eucaristica e al Divino Officio che si è sviluppato da essi e li ha soppiantati. Per quanto ne so, si è sempre avuta l’abitudine di predicare nelle lingue locali nelle Messe in latino, eccezion fatta per contesti accademici altamente specializzati. Il dono delle lingue viene concesso per l’evangelizzazione, l’apologetica e la catechesi — non per il culto liturgico.
Inoltre, è sempre utile ricordare che per quanto la predicazione possa essere utile, la Chiesa ha sviluppato nel corso dei secoli molte altre modalità di espressione che si sono rivelate altrettanto o addirittura più efficaci per l’evangelizzazione. Permettetemi di fornirvene un esempio. In un libro intitolato Truth in Many Tongues [La verità in molte lingue], Daniel Wasserman Soler ha studiato il modo in cui i missionari utilizzavano le lingue locali nell’impero spagnolo del XVI secolo. L’autore afferma:
Dobbiamo lasciarci alle spalle la presupposizione capillarmente diffusa nella nostra epoca … e propagata dalla riforma protestante … secondo cui la parola scritta e quella parlata costituiscano lo strumento fondamentale e migliore per insegnare la religione alla gente. … I primi vescovi di Città del Messico, del Guatemala e di Oaxaca riferirono al Re Carlos I che i sermoni potevano non essere la chiave per la conversione dei nativi americani: “Confermiamo, Vostra Maestà, che i Nativi sono molto edificati dal servizio devoto, dalle cerimonie e dalle decorazioni ornamentali, forse anche di più che dai sermoni”. Dunque, secondo molti sacerdoti una combinazione di ornamenti vivaci, l’aroma fragrante dell’incenso, il senso di inclusione in una comunità e l’esempio fornito da sacerdoti pii e imitatori di Cristo può rivelarsi uno strumento di conversione religiosa più potente che la predicazione da sola.
In un certo senso, ciò risulta del tutto ovvio quando lo si afferma, ma al giorno d’oggi vi sono molte persone intrappolate nelle grinfie di un razionalismo inconscio e non si rendono conto di quante cose sono veicolate dal linguaggio non verbale e dagli elementi emotivi e sovra-razionali della lingua stessa!
Una lingua non è mai “semplicemente” una lingua; la sua storia culturale, i suoi tratti e i suoi vincoli con le opere classiche composte per mezzo di essa, lo stesso suo suono che raggiunge l’udito — tutto ciò si trasmette insieme alla lingua, e crea spesso un impatto altrettanto forte — e a volte persino più forte — che il suo contenuto concettuale. Nel momento in cui ascoltiamo “In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti, Amen. Introibo ad altare Dei”, siamo trasportati immediatamente in un’altra dimensione; è quasi come quando l’angelo ha afferrato il profeta Abacuc per i capelli e lo ha trasportato a Babilonia, salvo che siamo trasportati nella direzione opposta: il fedele è trasportato da Babilonia alla Terra Santa, dalla valle di lacrime al Santo dei Santi. [3] Fiedrowicz osserva:
Anche qui la Chiesa dimostra di possedere una profonda comprensione della natura umana, poiché in questo modo essa aiuta i suoi fedeli a distaccarsi dalla loro lingua quotidiana, in cui ogni parola rievoca realtà profane, e di sentire — anche in modo sensibile — quel “completamente Altro” che ogni forma di pietà ricerca. … La lingua sacra stende un delicato velo sulle verità della Fede che protegge i santi misteri e elude la comprensione frettolosa. … Una lingua che non è comunemente compresa fa capire al fedele di trovarsi di fronte a un mistero che elude la trasparenza totale. Al contrario, la lingua vernacolare crea una comprensione che è una contraffazione assolutamente irreale. [4]
Negli ultimi sessant’anni di sviati abusi e riforme liturgici è stata posta sin troppa enfasi sulla lingua vernacolare (ossia, una lingua particolare parlata da un gruppo di persone), come se si trattasse della chiave magica per accedere alla partecipazione. Innanzitutto, qualsiasi lingua vernacolare esclude immediatamente tutti coloro che non la parlano — ivi comprese le persone che parlano un registro più basso della stessa lingua, così come anche coloro la cui formazione permetterebbe invece di comprenderne registri più alti e dunque più appropriati per il culto, e che si possono sentire frustrati da traduzioni che utilizzano toni piatti, smorti, grigi, moderni. [vedi] [5]
Quel che i riformatori sembrano aver dimenticato è il fatto che esiste uno strumento universale non verbale accessibile a tutta l’umanità: il linguaggio dei simboli. Tanto che si tratti di colori, o di azioni, o di suoni, o di profumi o di altri segni religiosi, questo vocabolario ha un effetto sulle coscienze che a volte lascia persino stupefatti. Ci ispira riverenza senza parlare di essa; ci suscita tristezza o gioia senza menzionarle con parole trite o elaborate. Una pianeta nera, le candele non sbiancate, un catafalco e la ripetizione della formula “Requiem aeternam” mi comunica istantaneamente molte più cose sul significato della liturgia per i defunti che cento libri sul tema.
Sì, il latino liturgico è “strano”, nel senso che non è qualcosa di quotidiano, familiare, facile, al nostro livello o a nostra disposizione; esso evoca la trascendenza e la maestà di Dio, l’universalità del Suo regno, l’antica profondità della Fede. Ma col passare del tempo abbiamo cominciato a vedere in questa lingua separata dalle altre un segno onorifico, la sperimentiamo come una promotrice di riverenza e troviamo in essa un invito alla preghiera. Quando ci tuffiamo in una piscina, nel momento in cui tocchiamo la superficie dell’acqua sappiamo — non solo razionalmente, ma anche visceralmente — di trovarci in un nuovo mezzo e che dobbiamo nuotare. Allo stesso modo, quando udiamo i canti o le preghiere recitate in latino, sappiamo di trovarci in un nuovo mezzo e che dobbiamo pregare.
La “lingua sacra” come fenomeno universale
Ben lungi dall’essere una tradizione esclusiva della Chiesa occidentale, la prassi di utilizzare una lingua sacra nei riti religiosi è già prominente nella storia della salvezza, come sottolinea Shaw:
La tradizione del canto gregoriano (vedi) risale al Tempio di Gerusalemme [nella cantillazione: lo stesso Discorso della Montagna, al pari dei testi ebraici più antichi del Pentateuco, è costruito sulla cantillazione. -ndT], in cui si dice che venivano impiegati cantori professionali (2 Cr 5, 15); l’uso del latino ricorda l’uso dell’ebraico come lingua sacra quando la lingua quotidiana del popolo ebraico era diventata l’aramaico; l’enfasi della liturgia tradizionale sul sacerdote, sull’altare e sul sacrificio rievoca l’atmosfera dell’antico culto ebraico, fatto che viene a volte notato dagli ebrei convertiti al cristianesimo…
Come ebrei, essi [gli Apostoli] erano cresciuti pregando e cantando i Salmi in ebraico oltre che nella loro lingua madre. Non si rintraccia alcuna parola critica nei confronti delle lingue sacre nella Scrittura, e le liturgie primitive non utilizzavano affatto il linguaggio della strada. Nelle aree grecofone la Chiesa poteva usare il registro sacro creato dalla traduzione dei Septuaginta della Bibbia: una variante diversa di greco già vecchia di due secoli e infarcita di ebraismi. La liturgia in latino non emerse finché le traduzioni latine della Bibbia non crearono qualcosa di simile e, a quel punto, sorse la liturgia in un latino sacro con un vocabolario specializzato, ricolmo di arcaismi, prestiti lessicali e altre peculiarità; analogamente, il copto liturgico è una lingua arcaica infarcita di termini greci e scritta in alfabeto greco. Per quanto riguarda la lingua slava ecclesiastica e la lingua del Messale Glagolitico, le loro origini e la loro storia non sono riconducibili alla semplice idea della “lingua in uso in quel tempo” e, in ogni caso, esse diventarono subito lingue liturgiche per persone che non erano in grado di comprenderle. Rimangono culturalmente connesse ai popoli che usufruiscono di esse, ma non sono loro immediatamente comprensibili. [6]
Possiamo infatti osservare che ogni chiesa cristiana antica ha sviluppato una lingua sacra e delle frasi idiomatiche per il culto: la Chiesa greca ortodossa utilizza ancora il greco della koiné, i russi usano la lingua slava ecclesiastica, gli etiopi il ge’ez, i copti il copto letterario, etc. Il fatto che alcuni cristiani orientali si siano adattati a varianti vernacolari moderne è un’anomalia storica che non dovrebbe essere presa assolutamente come norma, anche se non è da condannare. Il mondo cristiano orientale ha sempre posseduto una varietà linguistica molto più ampia di quella del mondo occidentale, che è rimasto tenacemente ancorato al latino per più di 1600 anni — un lasso di tempo più lungo rispetto a qualsiasi altro per una singola lingua cultuale che sia stata utilizzata in qualsiasi altra tradizione, se si eccettua l’uso dell’ebraico da parte degli ebrei e quello del greco da parte dei greci ortodossi. Non è certo sorprendente, pertanto, il fatto che sia sorta l’idea secondo cui le tre grandi lingue sacre sono l’ebraico, il greco e il latino, sulla base della scritta in tre lingue che Ponzio Pilato fece apporre sulla Croce di Nostro Signore Gesù Cristo.
In realtà l’uso di una lingua speciale, a parte, per gli atti religiosi va ben oltre i confini del giudaismo e della cristianità apostolica, come spiega Fiedrowicz:
Il fenomeno della lingua sacra si trova in tutte le religioni. Una lingua siffatta veniva utilizzata dagli oracoli greci dell’antichità e si ritrova nelle antiche preghiere pagane di Roma, le cui formule risalgono alla remota antichità e a volte erano diventate inintelligibili persino ai sacerdoti, anche se venivano ancora usate per rimanere fedeli alla tradizione ancestrale. Ai tempi di Cristo, gli ebrei usavano l’antico ebraico per i loro servizi, anche se era incomprensibile per il popolo. Nelle sinagoghe, solo le letture e poche preghiere ad esse riferite venivano trascritte nella lingua madre aramaica; i grandi testi delle preghiere ufficiali venivano recitati in ebraico. Anche se Cristo ha attaccato energicamente il formalismo dei farisei per altri aspetti, Egli non ha mai messo in questione tale pratica. Dato che il pasto pasquale era celebrato principalmente con preghiere in ebraico, anche l’Ultima cena è stata caratterizzata da elementi di una lingua sacra. È pertanto possibile che Cristo abbia pronunciato le parole della consacrazione eucaristica nella lingua sacra ebraica. Anche altre religioni mondiali riconoscono lingue sacre che differiscono dal linguaggio quotidiano. I musulmani usano l’arabo classico per le loro preghiere. [E nessuna traduzione del Corano dall’arabo — sia pur essendo accettata come testo di diffusione della dottrina islamica, più o meno valido a seconda delle competenze linguistiche e teologiche del traduttore — è considerata un testo sacro, bensì solo l’originale. — N.d.T.] I buddisti utilizzano il pali e gli induisti il sanscrito.
Persino all’interno della cristianità si sono formate varie lingue dedicate al culto. Così, i greci ortodossi celebrano la loro liturgia in greco antico e i russi nella lingua slava ecclesiastica. Va anche menzionato l’uso dell’armeno, del copto e del sirio. Anche se originariamente tutte queste erano certamente lingue vive e vernacolari, col passare del tempo esse si sono allontanate sempre di più dalla lingua quotidiana e hanno alla fine assunto il carattere di lingua appropriata per il culti. Persino le cerimonie anglicane usano il melodico inglese elisabettiano che si trova nel Book of Common Prayer. [7]
Questa notevole uniformità della prassi nel corso di migliaia di secoli e in tutti i continenti e le culture, anche quando sono molto distanti tra di loro e quando — fino a poco tempo fa — non erano in contatto l’uno con l’altro, rivela una comune e profonda consapevolezza che sorge all’interno della natura umana che si confronta con la realtà evidente dell’esistenza di una fonte divina primordiale da cui sgorga la realtà o di un’invisibile dimensione spirituale della realtà stessa con cui dobbiamo metterci in relazione in modi diversi rispetto a quelli che usiamo negli affari o nelle attività della prosaica vita quotidiana. Fiedrowicz ne indica la ragione soggiacente:
Se sono esistite — e continuano a esistere — lingue sacre in numerose culture e in quasi tutte le epoche della storia, ciò rivela un bisogno umano fondamentale. Sullo sfondo si staglia un’esperienza religiosa particolare che plasma e trasforma il modo di parlare e il linguaggio. È l’esperienza di una realtà soprannaturale, divina, trascendente e completamente altra a cui l’uomo cerca di rispondere utilizzando una lingua che si differenzi dalle forme del linguaggio quotidiano per mezzo di una stilizzazione sacrale. È qui che si trovano le origini delle cosiddette lingue ieratiche o “sacerdotali”. Ben lungi dal creare una barriera linguistica, la lingua sacra fa presente che la religione ha “qualcos’altro” da dire all’essere umano. La lingua sacra evita che quest’ultimo abbassi il divino al suo livello, e fa sì — al contrario — che egli si elevi verso il divino, che tuttavia non si rivela e non si espone completamente alla comprensione umana, ma indica piuttosto un mistero. [8]
Lo stesso autore, anch’egli sacerdote e professore di latino e greco classici, nonché di filosofia patristica, aggiunge, identificando “le caratteristiche di una lingua sacra”:
(1) un distanziamento intenzionale dalle parole del linguaggio colloquiale, che permette di percepire la “completa alterità” del divino; (2) una tendenza arcaizzante o almeno conservatrice in favore di espressioni antiquate e l’adesione a determinate formule stilistiche dei secoli precedenti, come si addice al culto di un Dio eterno e immutabile; (3) l’uso di forestierismi che evocano associazioni di idee religiose, come per esempio le forme ebraiche e aramaiche delle parole alleluia, Sabaoth, osanna, amen, maranatha nei libri in greco del Nuovo Testamento; e infine (4) stilizzazioni sintattiche e fonetiche (p. es. parallelismi, allitterazioni, rime e finali di frasi ritmici) che strutturano chiaramente il flusso dei pensieri, sono memorizzabili, possono essere facilmente richiamate alla mente e perseguono una tono esteticamente alto. [9]I livelli di linguaggio
Possiamo comprendere meglio perché il latino è la lingua corretta e appropriata per la liturgia cattolica romana a partire da una verità che ognuno conosce avendone fatta l’esperienza personale. Ogni volta che si parla una lingua, la si parla in quello che i linguisti definiscono un “registro”, che significa un livello di formalità, accuratezza o sofisticazione che va da un estremo più basso di rozzezza, informalità e gergalità a un altro più alto di dizione poetica intessuta in modo intricato. I vari parlanti possono usare la loro madre lingua in vari “registri” a seconda del contesto e del livello di educazione. In modo analogo, possiamo affermare che le lingue in sé si presentano dietro diversi “registri”.
Al livello più basso vi sono il gergo e i pidgins (un pidgin viene definito come un “mezzo di comunicazione grammaticalmente semplificato che si crea tra due o più gruppi che non hanno una lingua in comune: normalmente, il suo vocabolario e la sua grammatica sono limitati e traggono elementi da diverse lingue”).
Un po’ più in alto vi è il linguaggio vernacolare quotidiano. La notevole differenza che si presenta a questo stadio della lingua è il fatto che le aspettative linguistiche siano significativamente più alte per quanto riguarda l’uso, la pronuncia, la grammatica, lo stile e così via. Espressioni con cui ce la si può cavare con il gergo non sono “permesse” in molti contesti quotidiani.
Ancora più in alto troviamo le cosiddette lingue di prestigio. Ovviamente per alcuni si tratta delle loro lingue madri, mentre altri altri le scelgono come seconda o terza lingua per via dell’alta reputazione di cui esse godono. Il francese è stata una lingua di prestigio per più di mille anni. Per molti secoli il latino è stato una lingua di prestigio in Europa, così come il greco classico lo è stato per i romani. Si noti che a questo livello le aspettative linguistiche sono ancora più alte, dato che si suppone che queste lingue contraddistinguano un certo livello di educazione, di cultura, di urbanità. I russi del XIX secolo parlavano francese per dimostrare di essere cosmopoliti e membri dell’alta società.
Ancora più in alto, al più elevato livello di aspettative, vi sono le lingue riservate. Gli esempi che possono venire in mente sono stati tutti precedentemente lingue di prestigio, e attualmente il loro uso è quasi esclusivamente riservato a scopi religiosi: l’ebraico, il greco classico, il latino, il siriaco, la lingua slava ecclesiastica e — al di fuori della cristianità — il sanscrito e l’arabo coranico. Queste lingue sono riverite perché per mezzo di esse esprimiamo la nostra reverenza; sono diventate riservate a (o ad ogni modo specialmente associate con) i contesti sacri.
Si può anche operare una distinzione tra una lingua franca e una lingua di prestigio. Una lingua franca viene adottata da persone che parlano altre lingue come un mezzo di comunicazione comune per fini pratici, come nel caso in cui un italiano e un giapponese trattano di affari in inglese. Ma una lingua di prestigio si studia oltre a ciò per ragioni culturali. In altre parole, si può decidere di studiare una lingua di prestigio anche quando non vi è alcuna necessità pratica associata. Dato che le lingue riservate escono fuori sempre dai ranghi delle lingue di prestigio, nemmeno esse sono usate per ragioni pratiche. In breve: i registri linguistici più bassi di una lingua tendono ad essere di natura più pratica, mentre quelli più alti sono più culturali, cerimoniali e numinosi.
Una lingua non è solo una questione di comunicazione pratica; essa è anche l’incarnazione di un pensiero e di un’opera d’arte, un’espressione altissima della nostra razionalità, della spiritualità e della trascendenza. Per esempio, non si scrive poesia per mere ragioni pratiche. Una parte di ciò che rende prestigiosa una lingua è la profondità, la sottigliezza e l’ampiezza delle espressioni che vi si trovano a causa della sua ricca storia: ciò è ancora più vero nel caso delle lingue riservate che — essendo state utilizzate per secoli o addirittura per millenni nelle preghiere — sono pregne di associazioni sacrali. In un certo senso la lingua si è fusa con l’atto, col rito, col contenuto. È diventata essa stessa un simbolo che supporta e adorna altri simboli.
Una volta carpite queste distinzioni, possiamo notare che la transizione dal latino come lingua vernacolare al latino come lingua di prestigio per diventare infine una lingua riservata è un processo naturale che si è verificato anche nel caso di altre lingue, per un fenomeno che si osserva in tutto il mondo e in tutto l’arco della storia.
Ora, quando la sacra liturgia si svolge già in una lingua riservata, ogni modifica che viene perpetrata implica necessariamente un passo verso il basso, linguisticamente parlando — probabilmente anche molto in basso, come affermeremmo normalmente nel caso della “vernacolarizzazione”, ossia del passaggio a un registro più basso. Non solo si perderanno ingenti quantità del contenuto concettuale della lingua riservata, ma anche il suo intero ethos, la sua atmosfera, la sua risonanza, le sue associazioni simboliche, e si perderà anche il suo status sacrale. Alla fine ciò che si perde è molto di più di una lingua: si perde una cultura, uno spazio psicologico, un ambito spirituale, un intero mondo con le sue radici storiche, le sue qualità uniche e i suoi potenti vantaggi.
Il rispetto della provvidenza liturgica di Dio
È impressionante considerare cos’hanno insegnato i pontefici romani a proposito del latino. Nel 1922 Papa Pio XI ha scritto: “La Chiesa … per la sua stessa natura richiede una lingua universale, immutabile e non vernacolare”. Nel 1947, Papa Pio XII ha proclamato nella sua enciclica Mediator Dei: “L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina”. Nel 1962, alla vigilia del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII promulgò la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia in difesa del latino come linguaggio appropriato per gli studi, i documenti e la liturgia del rito latino. Egli afferma:
La lingua della Chiesa dev’essere non solo universale ma anche immutabile. Le lingue moderne sono soggette al cambiamento, e nessuna di esse è superiore alle altre in quanto ad autorità. Dunque, se le verità della Chiesa cattolica fossero affidate a un numero indeterminato di esse, il significato di tali varietà — proprio per via della varietà delle lingue — non si manifesterebbe a tutti con sufficiente chiarezza e precisione. Inoltre, nessuna lingua sarebbe in grado di servire come norma comune e costante da cui estrarre il significato esatto delle altre versioni. Ma proprio il latino è una lingua siffatta. È stabilito e immutabile. Ha cessato da tempo di essere soggetto a quelle alterazioni di significato delle parole che sono il risultato naturale dell’uso quotidiano, popolare…
[L]a Chiesa cattolica possiede una dignità che supera di gran lunga quella di ogni altra società umana, poiché è stata fondata da Nostro Signore Gesù Cristo. È pertanto del tutto appropriato che la lingua che essa usa sia nobile, maestoso e non vernacolare. Inoltre, la lingua latina “può essere definita veramente cattolica”. È stata consacrata dall’uso costante da parte della Sede Apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e dev’essere considerata “un tesoro … di valore incomparabile”.
Da molte parti è stata recentemente sollevata un’obiezione contro l’uso del latino, e molti si chiedono quale sia la posizione della Sede Apostolica su questo punto. Abbiamo pertanto deciso di emanare tempestivamente le direttive contenute in questo documento, in modo da assicurare che l’antico e ininterrotto uso del latino sia mantenuto e, ove necessario, ripristinato.
È degno di menzione il fatto che questa Costituzione — pur essendo stata ignorata dai progressisti e dai modernisti e, dopo un po’, persino dai conservatori — non è mai stata rescissa o contraddetta dai papi posteriori in nessun documento di comparabile autorità. Le verità universali che essa contiene non cessano di essere valide per il mero fatto che il clero non voglia mettere in pratica le sue normative pratiche — così come le verità universali contenute nel motu proprio Summorum Pontificum restano valide nonostante gli sforzi di carattere pratico che Papa Francesco o l’Arcivescovo Roche stanno profondendo per sopprimere la liturgia tradizionale della Chiesa romana.
Potremmo sentirci tentati di sorvolare l’affermazione di Pio XII e di Giovanni XXIII secondo la quale l’uso del latino salvaguarda l’ortodossia, e invece essa merita un momento di attenzione. I due pontefici si riferiscono ovviamente alle formule tradizionali in latino utilizzate nella liturgia, nella Vulgata, negli scritti del Padri della Chiesa occidentale, nei canoni e nei decreti dei concili ecumenici, nel diritto canonico e in tutti i documenti del Magistero. Questo corpo di insegnamenti in latino è sorprendentemente omogeneo e costante nel corso dei secoli. Chiunque conosca bene il latino può scegliere uno qualsiasi di questi testi — che coprono un periodo di più di duemila anni — e comprenderlo. Questo primato di continuità nell’uso di una singola lingua stabile è un evento unico nella storia dell’umanità e dà valore a quanto i pontefici affermano su di essa.
D’altro canto, la traduzione dei libri liturgici in lingua vernacolare ha dimostrato la validità di tali affermazioni a contrario: siamo oberati da esempi di traduzioni semplificate fino a rasentare l’idiozia, o erronee, o teologicamente problematiche, e di accesi e costanti dibattiti sul registro linguistico da utilizzare nelle traduzioni ufficiali. [vedi nota di Chiesa e post-concilio (*)] La terrificante versione della Bibbia che è stata inflitta ai cattolici americani, la New American Bible, non è nemmeno scritta in un inglese corretto; come ha affermato Anthony Esolen, è scritta in “nabbish”. [Neologismo creato a partire dall’acronimo NAB che sta, appunto, per New American Bible. — N.d.T.] Tanto nel caso dei testi dottrinali come in quello dei testi liturgici, il vernacolo tende a provocare incessantemente mal di testa, mal di orecchie e mal di cuore. [10]
Il latino è un elemento cruciale della tradizione cattolica — non al suo fianco ma al suo interno; si tratta effettivamente dello strumento per mezzo del quale la tradizione è stata trasmessa al mondo occidentale. Fa parte delle risorse che Dio ha fornito per il bene della Sua Chiesa. Anche se ogni contemporaneo fosse d’accordo sul fatto che il latino debba essere completamente abolito, non per questo esso cesserebbe di far parte della Tradizione: ciò è un fatto indiscutibile e immutabile. Possiamo comparare il caso del latino a quello del celibato. La legge ecclesiastica secondo cui un sacerdote non si può sposare deriva dalla Tradizione. Oggi molti “esperti” affermano di “sapere” che il celibato è la causa del basso numero di vocazioni. Insieme al sacerdozio femminile, il celibato è uno dei campi di battaglia preferiti dei modernisti, e i progressisti dànno per scontato che vi si dovrebbe essere contrari. Eppure esso fa parte della Tradizione, e pertanto è irreversibile. Da questo punto di vista il latino è molto simile al celibato. Pur essendo utilizzato nella liturgia non perché l’abbia prescritto la legge divina ma quella della Chiesa, fa pur tuttavia parte della Tradizione (così come lo sono il greco, la lingua slava ecclesiastica, il siriaco, l’armeno, etc. per le Chiese orientali) e dovrebbe pertanto essere preservato indipendentemente dalle opinioni personali dei contemporanei.
L’errore che ha portato all’abolizione del latino è stato di natura neoscolastica e cartesiana — vale a dire, il concetto secondo cui il contenuto della Fede cattolica non abbia corpo e non sia incarnato, bensì sia qualcosa di astratto dalla materia. Così, molti cattolici credono che la Tradizione consista solo in un certo numero di contenuti concettuali che sono tramandati, indipendentemente dal modo in cui li si tramanda. Ma ciò è falso. Lo stesso latino è uno degli elementi tramandati, insieme ai contenuti di tutto ciò che è scritto o cantato in latino. Inoltre, come abbiamo visto, la Chiesa stessa ha riconosciuto questo punto in molte occasioni, mettendo in risalto l’importanza del latino col tesserne le lodi, riconoscendo in esso un segno efficace dell’unità, della cattolicità, dell’antichità e della permanenza della Chiesa latina.
Il latino possiede pertanto una funzione quasi sacramentale: così come il canto gregoriano è “l’icona musicale del cattolicesimo romano” (Joseph Swain), il latino è la sua “icona linguistica”. I riformatori liturgici prigionieri del razionalismo hanno trattato il latino come una mera contingenza, come se fosse l’involucro di un prodotto che si getta via dopo la sua apertura. In realtà, è paragonabile più esattamente alla pelle del corpo umano: la pelle si trova, sì, in superficie, ma se la si rimuove il risultato è catastrofico. Il che mi fa arrivare al Vaticano II e al Novus Ordo.
Il Vaticano II e il latino del Novus Ordo
Molti cattolici di tutto il mondo — ivi compresi, a quanto pare, vescovi e cardinale — sembrano non essere consapevoli del fatto che gli insegnamenti di Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e altri papi siano stati echeggiati e confermati dalla Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (36.1); “Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi” (54); “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina” (101.1). Il Concilio ha aperto, sì, le porte a un uso più esteso del vernacolo, ma non ha ordinato l’uso del vernacolo, e chiaramente la costituzione è stata accettata da una grande maggioranza solo perché i vescovi si sono sentiti rassicurati dal fatto che la riforma sarebbe stata moderata, non una rivoluzione.
Contrariamente a quanto sostiene Papa Francesco, in realtà la maggioranza dei vescovi che hanno partecipato al Concilio Vaticano II, se si legge attentamente la trascrizione dei loro discorsi, hanno sostenuto il mantenimento del latino, opzione per la quale hanno anche votato nel documento finale. [11] Oggi, grazie alle scrupolose ricerche di storici come Yves Chiron, sappiamo che Bugnini — che fu alla testa della composizione di Sacrosanctum Concilium — era entrato in accordi coi suoi compagni di squadra molto prima dell’inizio del Concilio per scatenare la rivoluzione, una volta che esso fosse terminato, e che in modo machiavellico consigliò l’uso di un linguaggio vago, ambiguo e che si prestasse a molteplici interpretazioni, pieno di lacune che potessero essere successivamente sfruttate — cosa che si è verificata realmente più tardi.
Così, anche il Vaticano II ha ufficialmente confermato che il latino è la lingua della liturgia e ha operato solo una cauta apertura al vernacolo, specialmente nelle parti relativi alle istruzioni, tutto ciò che è venuto di seguito, col supporto di Paolo VI, ha vanificato o neutralizzato tale conferma, e l’allontanamento di Paolo VI tanto dalla Tradizione come dal Concilio stesso non è mai stata contrastata da nessuno dei suoi successori. Questa è una delle ragioni per cui il latino non apparirà mai di nuovo in modo significativo nel Novus Ordo: Paolo VI gli ha fatto ciao ciao con la manina e solo i tradizionalisti, che aderiscono alla liturgia preconciliare, si sono azzardati a mettere in discussione il suo sano giudizio per il fatto di aver intrapreso una completa reinvenzione del culto divino della Chiesa cattolica.
Il Novus Ordo è stato creato per la massima intelligibilità, per la massima facilità di comprensione. Il suo proposito era quello di rimuovere ogni possibile barriera alla comprensione dei fedeli, che avrebbero dovuto vedere, udire e conoscere tutto quello che viene detto e fatto in ogni momento, istantaneamente e senza alcuna preparazione o riflessione. Non è l’intento di questa conferenza spiegare cosa c’è di sbagliato in questo schema e nell’idea soggiacente: basti menzionare il fatto che nell’intera storia della cristianità apostolica occidentale e orientale e nella storia di tutte religioni del mondo questo non è stato mai il modo in cui si è concepito il culto divino. Ad ogni modo, se questa trasparenza immediata e totale è l’obiettivo da raggiungere, tutto dev’essere semplificato, trasposto nel linguaggio corrente e reso visibile e udibile. Quindi il sacerdote sarà orientato verso il popolo, avrà un microfono, non ci sarà molto silenzio, succederà solo una cosa alla volta, etc.
Se si segue questo paradigma per il culto, allora è abbastanza ovvio che il latino — e anche il canto gregoriano — non vi troverà posto, almeno nel 99% delle congregazioni. Il Novus Ordo in latino “non è né carne né pesce” (per usare un’espressione di Joseph Shaw): non ha né l’accessibilità istantanea per cui il Novus Ordo è stato designato, né la solennità, la ricchezza simbolica e la profondità cerimoniale del rito tridentino, elementi che aumentano la nostra percezione del mistero e la nostra ricettività nei confronti di verità che non possono essere ridotte a meri pacchetti linguistici.
In breve, il latino si addice alla Messa antica come le vetrate colorate si addicono a una chiesa gotica, o come l’oro si addice a un calice, o il silenzio si confà al canone romano; non funziona coi principi strutturali della nuova Messa.
Tuttavia, l’accessibilità del Novus Ordo è doppiamente illusoria e ingannevole. In primo luogo, il suo approccio verbale ci induce subdolamente a credere di aver compreso o di essere in grado di comprendere il culto divino e i misteri di Cristo. Dato che la sua modalità di partecipazione attiva si basa molto sull’apparenza esteriore, su voci e su corpi in movimento, possiamo partecipare a un’intera cerimonia di questo genere senza aver mai ponderato o pregato interiormente, senza aver mai provato meraviglia, sorpresa o timore reverenziale. La Messa in latino non ha questo problema: in essa vi sono frequenti e varie incitazioni ad atti di preghiera, e la partecipazione che vi viene richiesta è piuttosto una partecipazione del cuore e della mente. In secondo luogo, il Novus Ordo è accessibile solo a quanti parlano una determinata lingua vernacolare e possono comprenderla quando la ascoltano. In un mondo multiculturale e laddove entrano in gioco fattori come una scarsa capacità di elocuzione, strumenti inefficienti di diffusione del suono o rumore di fondo, la maledizione della torre di Babele può cadere velocemente su di noi. Vorrei soffermarmi un momento su questo punto.
Annullare la maledizione della torre di Babele
Il Padre Louis Bouyer ha sottolineato: “Ogni tradizione religiosa descrive il linguaggio come un dono degli dei che rende possibile l’esistenza della società continuando a mantenerla unita, come i fili di un tessuto. Al contrario, il libro della Genesi vede nella frammentazione del linguaggio in varie lingue che non si comprendono tra di loro una maledizione inviata dal Cielo su una società peccaminosa”. [12]
La prima Pentecoste cristiana, nove giorni dopo l’ascensione di Nostro Signore al Cielo, è presentata negli Atti degli Apostoli come un annullamento della maledizione della torre di Babele. La maledizione originaria che colpì uomini invasati di ambizione fece sì che la loro progenie si dividesse in società che parlavano mille lingue diverse. Anche se persino i ricchi frutti poetici di un vasto numero di lingue può essere visto come una benedizione voluta da Dio, la difficoltà e spesso l’impossibilità di stabilire un discorso comune tra animali razionali è indiscutibilmente una maledizione. Tale maledizione si rinnova ogni volta che ci troviamo di fronte a una liturgia in cui l’uso di espressioni vernacolari che ci sono ignote ci dice effettivamente: “Queste parole non sono rivolte a te; sono solo per loro; per quel popolo”.
Quando le tradizioni liturgiche sviluppano un linguaggio comune per il culto pubblico, compiono un atto di ritorno simbolico alla condizione precedente alla caduta del Giardino dell’Eden, in cui gli esseri umani parlavano una sola lingua. Nella liturgia in latino non ci troviamo di fronte a un vernacolo straniero che ci esclude; al contrario, udiamo il suono di una singola voce che appartiene all’intera Chiesa riunita in preghiera, che accoglie tutte le nazioni e tutti i popoli in una sola celebrazione.
In alcune diocesi può succedere che la Messa Novus Ordo sia celebrata in quindici lingue differenti: ogni gruppo linguistico si trasforma così in un’isola ripiegata su se stessa che non si mischia quasi mai con gli altri gruppi. Ma vi sono anche parrocchie multietniche e multilingui che celebrano la Messa in latino in cui proprio la Messa è l’autentica forza unificatrice per tutti i sottogruppi, formando tra di loro legami di relazioni fraterne e permettendo loro di mischiarsi anche dal punto di vista sociale. Quanti di noi hanno partecipato a una Messa in latino e visto bianchi, persone di colore, asiatici, ispanici, varie etnie e nazionalità, tutte riunite in un unico atto di culto cattolico, ossia universale? Come ha sottolineato Giovanni XXIII, il latino appartiene allo stesso tempo a tutti e a nessuno in particolare. Nel corso della storia la liturgia in latino è sempre stata una forza integratrice di diversi gruppi etnici e culturali, e continua tutt’oggi a costruire ponti di questo tipo.
Ho sperimentato in modo molto forte questa realtà non molto tempo fa, quando ho visitato la Polonia per tenervi una conferenza. Nonostante il mio cognome, che è polacco quanto i pierogi e la kielbasa [Piatti tipici polacchi. — N.d.T.], ho pronunciato ben poche parole in polacco, che è generalmente considerato una lingua molto difficile da apprendere. Sono stato circondato per giorni da rumori incomprensibili a cui tutti meno io sapevano rispondere (fortunatamente durante la conferenza mi erano stati forniti degli auricolari che mi trasmettevano la traduzione simultanea in inglese). In uno dei giorni della mia visita ho fatto un’escursione con un gruppo di amici al Castello Wawel, uno dei luoghi più belli e storici della città di Cracovia, per raggiungere la cappella laterale in cui un sacerdote della Fraternità Sacerdotale di San Pietro avrebbe celebrato la Messa bassa.
Siamo arrivati giusto nel momento in cui la Messa stava cominciando. Le parole confortevoli in latino sono cadute come una pioggia rinfrescante sulle mie orecchie, o come un raggio di luce che trapassa la nebbia impenetrabile della lingua straniera di una remota contrada. In quel momento ci trovavamo nella contrada di Dio. Il sacerdote ha celebrato la Messa intenzionalmente con un tono di voce facilmente udibile, permettendomi di non perderne nemmeno una parola. Sfortunatamente, le goffe e illecite prescrizioni della Traditionis Custodes hanno fatto sì che il Lezionario e il Vangelo venissero proclamati esclusivamente in polacco, il che mi ha fatto piombare di nuovo, improvvisamente, in una nebbia di incomprensibilità e mi ha ricordato che il vernacolo include certamente i locali ma esclude gli estranei. Quella è stata l’unica parte della Messa che ha perso la sua cattolicità che abbraccia tutto il mondo in favore di un localismo più angusto. Al termine del Vangelo l’officiante ha detto: “Laus tibi Christe”, e tutto è rientrato nella norma. Il resto della Messa si è svolto alternandosi tra momenti in cui il latino si ergeva sulla superficie del silenzio e una quiete avvolgente in cui il Verbo si è fatto carne di nuovo, sull’altare, nel potere della Sua Incarnazione, Passione, Morte, Resurrezione e Ascensione.
Quella Messa nella cappella laterale di Wawel è stato un perfetto esempio di liturgia come realtà sincronica e diacronica allo stesso tempo: sincronica, perché mi sono sentito subito, immediatamente a casa nella stessa liturgia che viene celebrata in tutte le parti del mondo dove la Tradizione è conservata come un tesoro — un’esperienza che ho fatto ormai dozzine di volte durante i miei viaggi; diacronica, perché era sostanzialmente la stessa liturgia che è sempre stata celebrata nella maggior parte degli altari della cristianità occidentali nel corso dei secoli. Alcuino, della corte di Carlomagno; Sant’Anselmo di Canterbury; San Tommaso d’Aquino, Sant’Edmondo Campion; San Carlo Borromeo; San Giovanni Vianney; San Vincenzo di Paola; San Padre Pio; San Carlo di Foucauld — tutti costoro si sarebbero sentiti a casa loro. Con la Messa tradizionale in latino, lungo i secoli e in tutto il mondo, si è sempre a casa. Il miracolo che almeno per alcuni momenti sacri annulla il caos di Babele richiede la forte stabilità e la coerenza interna della grande liturgia romana, la cui lingua presta al rito cattolico latino il suo stesso nome.
Il latino, come la Fede, viene “dall’esterno”
Le nostre “lingue madri” ci vengono trasmesse dalle nostre madri terrene: quando siamo ancora nei loro grembi, la loro voce è la prima cosa che udiamo, e quando veniamo al mondo udiamo la stessa voce adagiati sul suo petto. Il nostro vernacolo quotidiano è qualcosa di cui, in un certo senso, la natura stessa ci equipaggia per mezzo di un’immersione nella cultura familiare che non richiede alcuno sforzo. Tale lingua rappresenta l’ordine naturale in cui viviamo e ci muoviamo e svolgiamo la nostra esistenza naturale.
Ora, così come il battesimo — o rinascita — raggiunge il cristiano dall’esterno (poiché, come scrive Joseph Ratzinger, “nessuno nasce cristiano, nemmeno all’interno di un mondo cristiano e avendo genitori cristiani. L’essere cristiani avviene esclusivamente come una nuova nascita. L’essere cristiani comincia col battesimo, che è una morte e resurrezione, non con la vita biologica”), anche la lingua sacra del culto che celebriamo ci viene dall’esterno, dalla nostra madre Chiesa, che ci insegna una nuova lingua cristiana — una “lingua madre” soprannaturale — che rappresenta l’ordine soprannaturale in cui viviamo, ci muoviamo e svolgiamo la nostra esistenza soprannaturale. I cattolici che partecipano al rito in latino possiedono una lingua sacra che ricevono “dall’esterno”, come nel caso della rinascita battesimale.
La liturgia cristiana dovrebbe trasmetterci in qualche modo la consapevolezza del fatto che quando entriamo nel tempio del Signore non parliamo un linguaggio meramente naturale, ma un linguaggio soprannaturale, la lingua dei santi, degli angeli e di Dio. Ovviamente, non è obbligatorio che tale lingua sia il latino — come si è notato sopra, nei riti apostolici tradizionali vi sono molte lingue sacre —, ma non dovrebbe essere il vernacolo quotidiano dei sentimenti terreni e della piazza del mercato, e nemmeno quello del lessico tecnico delle discipline accademiche. Dovrebbe essere separata dalle altre da secoli di uso consacrato al culto divino; in questo modo, essa aiuta i fedeli a mettere da parte le cure terrene e a consacrare porzioni simboliche del loro tempo solo a Dio. Una lingua liturgica tradizionale ci ricorda che la nostra adozione nella famiglia di Dio è più fondamentale e definitiva rispetto alla nostra famiglia terrena, alla nostra cittadinanza, alla nostra nazionalità o alla nostra razza.
È importantissimo anche il fatto che una prassi utilizzata dalla Chiesa cattolica occidentale per più di 1600 anni — ossia da quasi tutti tra le migliaia di nostri santi canonizzati — non può essere condannata senza automaticamente negare che lo Spirito Santo abbia guidato la Chiesa alla pienezza della verità (cfr. Gv 16, 13). Lo Spirito Santo, Che ha dato agli apostoli la capacità di parlare nella lingua di ciascuno di coloro che li udiva quando hanno predicato a tutte le nazioni, ha dato anche in eredità alla Chiesa occidentale il latino liturgico, tramandato di secolo in secolo con venerazione sempre più grande. Ciò che è stato stabilito per scelta è stato confermato dall’uso e preservato dalla pietà. Le forme di culto sviluppate nel corso dei secoli con ricchezza di contenuti e pregnanza hanno reso sempre più improbabile la possibilità di essere rapidamente duplicate o adattate in una lingua straniera; ciò ha reso il latino ancora più prezioso e degno di essere coltivato. Sullo sfondo dei vari esperimenti di vernacolarizzazione a partire dalla metà del XX secolo — esperimenti che potrebbero essere definiti giustamente “babelizzazione” —, un numero sempre maggiore di persone sta cominciando a comprendere che questo retaggio unico e unificante del latino rimane ancor oggi prezioso e degno di essere coltivato.
E non dovremmo nemmeno sorvolare sul fatto cruciale che nessun vernacolo moderno è in grado di rendere tutto ciò che è contenuto nelle preghiere tradizionali in latino. Tradurre è tradire; a maggior ragione se si sta parlando di un vasto tesoro di latino liturgico di 1600 anni di antichità. Un messale utilizzato da un fedele può dare un’idea abbastanza buona del contenuto, ma la preghiera in latino dice di più, lo dice meglio, in modo più sottile, pieno e impressionante. È una differenza importante? Assolutamente sì. La persona a cui ci stiamo rivolgendo principalmente è Dio, ed è molto importante come Gli parliamo. Quando Gli offriamo preghiere solenni, belle, di alto valore ed espresse santamente, ciò Gli è gradito come il sacrificio di un agnello senza difetti, come il Logos senza difetti Che si è offerto sulla Croce. Il semplice fatto che un numero ingente di santi uomini e donne abbiano assolutamente le stesse parole sulle loro labbra nel corso dei secoli le dota di un’efficacia speciale. Santa Matilde del Santissimo Sacramento ha affermato che la corte celeste dei beati gioisce ogni volta che ascolta le stesse parole con cui ha pregato quando si trovava sulla terra.
Conclusione
Un modo in cui possiamo valutare i disastri provocati dall’abbandono del latino è quello di considerarne gli effetti intellettuali e teologici. La grande maggioranza degli scritti della cristianità occidentale in tutti i settori — teologia, esegesi, diritto canonico, liturgia, agiografia, etc. — era composta in latino, e la grande maggioranza di questa letteratura non è ancora stata tradotta. I progressisti estremisti che hanno fatto la guerra al latino nella metà del XX secolo sapevano molto bene cosa stavano facendo: essi volevano distruggere il ponte che univa i cattolici al loro retaggio, alla loro Tradizione, alla loro memoria collettiva. La tanto vantata “modernizzazione” della Chiesa poteva essere realizzata solo se il passato fosse stato dimenticato e sigillato in modo inaccessibile dietro un muro di incomprensibilità. La perdita del latino ha pertanto avuto ramificazioni che vanno ben al di là dei santuari delle nostre chiese, anche se è lì che notiamo di più la sua presenza o assenza. Il prosperare dell’eresia è direttamente proporzionale a quello dell’amnesia, dell’anarchia e delle innovazioni. La crisi liturgica è solo una parte della più ampia crisi dell’identità cattolica, che ha molto più a che vedere con il linguaggio di quanto molti siano in grado di percepire.
Seguendo questo punto, credo sia importante che i cattolici riconoscano che tutti noi dovremmo imparare almeno un po’ di latino. Esso non perderà il suo ruolo storico, il suo carattere speciale e la sua funzione sacra se lo capiamo come lingua (mistero non è sinonimo di mistificazione). Quando si capisce il latino della liturgia, non per questo diventa meno piacevole; al contrario, l’apprezzamento aumenta perché si può assaporare il suo significato e la sua bellezza. Ciò non è necessario per un culto fruttifero, ma è un autentico vantaggio che dovremmo aver cura di acquisire. Il latino era un tempo una materia di insegnamento basica per tutti gli studenti cattolici e molte persone lo imparavano a livelli molto alti, anche coloro che non dovevano diventare sacerdoti o religiosi. Se ci teniamo alla nostra Tradizione e al nostro retaggio, dovremo assicurarci che questa lingua sia inclusa nelle nostre scuole domestiche e nei curricula delle scuole private.
Si ricordi che l’ebraico era una lingua morta fino a quando il movimento sionista e lo Stato di Israele lo hanno riportato in vita come lingua parlata; oggi, milioni di persone lo parlano fluentemente. I musulmani studiano l’arabo classico perché valorizzano il proprio retaggio. È imbarazzante e vergognoso che ai cattolici importi molto di meno che agli ebrei e ai musulmani un retaggio che è incommensurabilmente più vero, migliore e più glorioso rispetto al loro! [13]
Se qualcuno dev’essere biasimato per questo disastrosa situazione, quel qualcuno è la gerarchia della Chiesa, quei pastori che, tradendo la loro divina vocazione, non hanno tramandato fedelmente la Tradizione che era stata loro affidata e non hanno mosso nemmeno un dito per correggere un catastrofico collasso culturale.
In termini pratici, non è difficile acquisire una conoscenza basica della lingua latina usata nella liturgia. Anche solo assistendo regolarmente alla Messa e ad altre cerimonie e usando un messale, cominceremo a far nostra una rudimentale conoscenza del vocabolario. Siamo sinceri: non è difficile seguire il Gloria e il Credo! I fedeli più zelanti potranno procurarsi una buona grammatica di latino o iscriversi a un corso online. Fortunatamente ci sono già a disposizione molte persone che stanno riportando in vita questa lingua, anche nella sua forma parlata. È scontato che i primi a imparare il latino dovrebbero essere i bambini, dato che la capacità di apprendimento di una lingua, in generale, è molto più facile nella tenera età che da adulti. Cantare il canto gregoriano — in modo informale a casa o come membri di un coro — è un modo importante e piacevole di acquisire familiarità col tesoro del latino ecclesiastico. Raccomando per esempio di cantare le antifone mariane stagionali a casa come parte delle devozioni serali: l’Alma Redemptoris Mater, l’Ave Regina Caelorum, il Regina Coeli e il Salve Regina.
Non dobbiamo aver paura di affermare con coraggio che è cosa buona, giusta e ideale usare il latino nella sacra liturgia, vale a dire, nel culto solenne, pubblico, formale, ufficiale della Chiesa cattolica romana. Le ragioni in proposito sono così numerose e schiaccianti, la sostanza e l’autorità della Tradizione sono così incontestabili che non c’è alcun modo di refutare la conclusione secondo cui mantenere l’uso del latino è un obbligo serio di fronte a Dio e abbandonarlo una seria deviazione dalla Sua provvidenza liturgica. Nel mezzo della diversità culturale, la Chiesa cattolica ha la sapienza necessaria per riconoscere il potere spirituale degli elementi centrali di unità che ci rendono una cosa sola professando l’unica vera Fede e omaggiando la Santissima Trinità. Possiamo sperare e pregare che, col tempo, i leader della nostra Chiesa prenderanno iniziative per recuperare ciò che riforme sconsiderate avevano follemente gettato via. Noi, da parte nostra, siamo in grado di esprimere a Dio la nostra gratitudine mantenendo e promovendo le sane tradizioni della Chiesa latina._________________________
[1] Fiedrowicz, Traditional Mass, [La Messa tradizionale], p. 155.
[2] Shaw, How to Attend the Extraordinary Form [Come partecipare alla forma straordinaria], pp. 26–28.
[3] Per quanto riguarda la “sacra atmosfera”, si può aggiungere che la concentrazione, la disciplina e la serietà della congregazione in una Messa tradizionale in latino viene supportata — e supporta a sua volta — dal clima creato da e all’interno della liturgia, in un classico “circolo virtuoso”. Come nel classico dilemma dell’uovo e della gallina, non si può mai sapere cosa venga prima: è la natura oggettiva della liturgia e delle sue cerimonie, rubriche, musiche che spiega quel comportamento e continua a suscitarlo.[4] Fiedrowicz, pp. 163, 164, 165.
[5] Quando riesce a trovarla, questo gruppo si sente — naturalmente, viene da dire — attratto dalla liturgia dell’ordinariato anglicano.[6] https://www.hprweb.com/2020/02/the-novus-ordo-at-50-loss-or-gain/.
[7] Fiedrowicz, pp. 153–54.
[8] Ibid., p. 154.
[9] Ibid., pp. 154–55.
[10] La guerra scatenata da Traditionis Custodes ha a che vedere con qualcosa di molto più fondamentale rispetto alla Messa tradizionale in latino. Francesco sta cercando di eliminare un intero modo di essere cattolici anche per le persone che non vanno mai alla messa in latino. Il liturgista inglese Clifford Howell soleva affermare che l’uso del vernacolo nella liturgia mirava a un nuovo ordine mondiale che non si sarebbe potuto esprimere negli stessi termini del latino. Ora mi rendo conto del fatto che quel che egli voleva dire è che essenzialmente la nuova liturgia è un movimento sociale basato sul rifiuto totale della visione del mondo cattolica. La Messa antica era troppo alternativa rispetto all’ideologia di questo movimento perché le si potesse permettere di continuare a esistere.[11] Si veda per esempio: https://www.newliturgicalmovement.org/2017/09/the-council-fathers-in-support-of-latin.html.
[12] Invisible Father [Padre invisibile], p. 47.
[13] La nostra generale mancanza di interesse nei confronti del nostro retaggio sacro si erge contro di noi per condannarci nello stesso modo in cui Gesù affermò che la regina del sud si sarebbe sollevata in giudizio contro gli ebrei perché era venuta da molto lontano, facendo molti sforzi, solo per vedere Salomone. E quali sforzi facciamo noi per contemplare i doni che Dio ci ha elargito?
[Traduzione per Chiesa e post-Concilio di Antonio Marcantonio]
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Nota di Chiesa e post-concilio
(*) Nei tempi più recenti, abbiamo bevuto l'amaro calice del motu proprio Magnum principium (9.9.2017), che modifica il can. 838 del Codice di diritto canonico, riguardante le competenze della Santa Sede, delle Conferenze episcopali e dei Vescovi diocesani nell’ordinamento della liturgia. Si tratta di un colpo di spugna all’istruzione Liturgiam authenticam (7.5.2001), già temuto e preconizzato (qui), “sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana”. Di fatto siamo al 'rompete le righe' anche col decentramento alle Conferenze episcopali della preparazione dei libri liturgici, che mina l'unità e l'universalità de La Catholica.
Richiede attenzione il seguente passaggio della Correctio papale [qui - qui] alle affermazioni del card. Sarah in un documento [qui appoggiato dal card. Muller qui] che attenuava la svolta rivoluzionaria della Lettera Apostolica : «Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgiam Authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Tale affermazione unita all’altra secondo cui una traduzione liturgica “fedele” «implica una triplice fedeltà» – al testo originale, alla lingua della traduzione, alla comprensibilità dei destinatari – lascia intendere che Magnum Principium è considerato come l’inizio di un processo che può portare molto lontano in direzione di una vera e propria devolution liturgica. I ‘processi’ innescati come mine vaganti sono più d’uno e la frammentazione nella Chiesa acquista velocità sia sulla dottrina che sulla morale e ora sulla liturgia, fons et culmen di tutto.
In realtà l’uso di una lingua speciale, a parte, per gli atti religiosi va ben oltre i confini del giudaismo e della cristianità apostolica, come spiega Fiedrowicz:
Il fenomeno della lingua sacra si trova in tutte le religioni. Una lingua siffatta veniva utilizzata dagli oracoli greci dell’antichità e si ritrova nelle antiche preghiere pagane di Roma, le cui formule risalgono alla remota antichità e a volte erano diventate inintelligibili persino ai sacerdoti, anche se venivano ancora usate per rimanere fedeli alla tradizione ancestrale. Ai tempi di Cristo, gli ebrei usavano l’antico ebraico per i loro servizi, anche se era incomprensibile per il popolo. Nelle sinagoghe, solo le letture e poche preghiere ad esse riferite venivano trascritte nella lingua madre aramaica; i grandi testi delle preghiere ufficiali venivano recitati in ebraico. Anche se Cristo ha attaccato energicamente il formalismo dei farisei per altri aspetti, Egli non ha mai messo in questione tale pratica. Dato che il pasto pasquale era celebrato principalmente con preghiere in ebraico, anche l’Ultima cena è stata caratterizzata da elementi di una lingua sacra. È pertanto possibile che Cristo abbia pronunciato le parole della consacrazione eucaristica nella lingua sacra ebraica. Anche altre religioni mondiali riconoscono lingue sacre che differiscono dal linguaggio quotidiano. I musulmani usano l’arabo classico per le loro preghiere. [E nessuna traduzione del Corano dall’arabo — sia pur essendo accettata come testo di diffusione della dottrina islamica, più o meno valido a seconda delle competenze linguistiche e teologiche del traduttore — è considerata un testo sacro, bensì solo l’originale. — N.d.T.] I buddisti utilizzano il pali e gli induisti il sanscrito.
Persino all’interno della cristianità si sono formate varie lingue dedicate al culto. Così, i greci ortodossi celebrano la loro liturgia in greco antico e i russi nella lingua slava ecclesiastica. Va anche menzionato l’uso dell’armeno, del copto e del sirio. Anche se originariamente tutte queste erano certamente lingue vive e vernacolari, col passare del tempo esse si sono allontanate sempre di più dalla lingua quotidiana e hanno alla fine assunto il carattere di lingua appropriata per il culti. Persino le cerimonie anglicane usano il melodico inglese elisabettiano che si trova nel Book of Common Prayer. [7]
Questa notevole uniformità della prassi nel corso di migliaia di secoli e in tutti i continenti e le culture, anche quando sono molto distanti tra di loro e quando — fino a poco tempo fa — non erano in contatto l’uno con l’altro, rivela una comune e profonda consapevolezza che sorge all’interno della natura umana che si confronta con la realtà evidente dell’esistenza di una fonte divina primordiale da cui sgorga la realtà o di un’invisibile dimensione spirituale della realtà stessa con cui dobbiamo metterci in relazione in modi diversi rispetto a quelli che usiamo negli affari o nelle attività della prosaica vita quotidiana. Fiedrowicz ne indica la ragione soggiacente:
Se sono esistite — e continuano a esistere — lingue sacre in numerose culture e in quasi tutte le epoche della storia, ciò rivela un bisogno umano fondamentale. Sullo sfondo si staglia un’esperienza religiosa particolare che plasma e trasforma il modo di parlare e il linguaggio. È l’esperienza di una realtà soprannaturale, divina, trascendente e completamente altra a cui l’uomo cerca di rispondere utilizzando una lingua che si differenzi dalle forme del linguaggio quotidiano per mezzo di una stilizzazione sacrale. È qui che si trovano le origini delle cosiddette lingue ieratiche o “sacerdotali”. Ben lungi dal creare una barriera linguistica, la lingua sacra fa presente che la religione ha “qualcos’altro” da dire all’essere umano. La lingua sacra evita che quest’ultimo abbassi il divino al suo livello, e fa sì — al contrario — che egli si elevi verso il divino, che tuttavia non si rivela e non si espone completamente alla comprensione umana, ma indica piuttosto un mistero. [8]
Lo stesso autore, anch’egli sacerdote e professore di latino e greco classici, nonché di filosofia patristica, aggiunge, identificando “le caratteristiche di una lingua sacra”:
(1) un distanziamento intenzionale dalle parole del linguaggio colloquiale, che permette di percepire la “completa alterità” del divino; (2) una tendenza arcaizzante o almeno conservatrice in favore di espressioni antiquate e l’adesione a determinate formule stilistiche dei secoli precedenti, come si addice al culto di un Dio eterno e immutabile; (3) l’uso di forestierismi che evocano associazioni di idee religiose, come per esempio le forme ebraiche e aramaiche delle parole alleluia, Sabaoth, osanna, amen, maranatha nei libri in greco del Nuovo Testamento; e infine (4) stilizzazioni sintattiche e fonetiche (p. es. parallelismi, allitterazioni, rime e finali di frasi ritmici) che strutturano chiaramente il flusso dei pensieri, sono memorizzabili, possono essere facilmente richiamate alla mente e perseguono una tono esteticamente alto. [9]I livelli di linguaggio
Possiamo comprendere meglio perché il latino è la lingua corretta e appropriata per la liturgia cattolica romana a partire da una verità che ognuno conosce avendone fatta l’esperienza personale. Ogni volta che si parla una lingua, la si parla in quello che i linguisti definiscono un “registro”, che significa un livello di formalità, accuratezza o sofisticazione che va da un estremo più basso di rozzezza, informalità e gergalità a un altro più alto di dizione poetica intessuta in modo intricato. I vari parlanti possono usare la loro madre lingua in vari “registri” a seconda del contesto e del livello di educazione. In modo analogo, possiamo affermare che le lingue in sé si presentano dietro diversi “registri”.
Al livello più basso vi sono il gergo e i pidgins (un pidgin viene definito come un “mezzo di comunicazione grammaticalmente semplificato che si crea tra due o più gruppi che non hanno una lingua in comune: normalmente, il suo vocabolario e la sua grammatica sono limitati e traggono elementi da diverse lingue”).
Un po’ più in alto vi è il linguaggio vernacolare quotidiano. La notevole differenza che si presenta a questo stadio della lingua è il fatto che le aspettative linguistiche siano significativamente più alte per quanto riguarda l’uso, la pronuncia, la grammatica, lo stile e così via. Espressioni con cui ce la si può cavare con il gergo non sono “permesse” in molti contesti quotidiani.
Ancora più in alto troviamo le cosiddette lingue di prestigio. Ovviamente per alcuni si tratta delle loro lingue madri, mentre altri altri le scelgono come seconda o terza lingua per via dell’alta reputazione di cui esse godono. Il francese è stata una lingua di prestigio per più di mille anni. Per molti secoli il latino è stato una lingua di prestigio in Europa, così come il greco classico lo è stato per i romani. Si noti che a questo livello le aspettative linguistiche sono ancora più alte, dato che si suppone che queste lingue contraddistinguano un certo livello di educazione, di cultura, di urbanità. I russi del XIX secolo parlavano francese per dimostrare di essere cosmopoliti e membri dell’alta società.
Ancora più in alto, al più elevato livello di aspettative, vi sono le lingue riservate. Gli esempi che possono venire in mente sono stati tutti precedentemente lingue di prestigio, e attualmente il loro uso è quasi esclusivamente riservato a scopi religiosi: l’ebraico, il greco classico, il latino, il siriaco, la lingua slava ecclesiastica e — al di fuori della cristianità — il sanscrito e l’arabo coranico. Queste lingue sono riverite perché per mezzo di esse esprimiamo la nostra reverenza; sono diventate riservate a (o ad ogni modo specialmente associate con) i contesti sacri.
Si può anche operare una distinzione tra una lingua franca e una lingua di prestigio. Una lingua franca viene adottata da persone che parlano altre lingue come un mezzo di comunicazione comune per fini pratici, come nel caso in cui un italiano e un giapponese trattano di affari in inglese. Ma una lingua di prestigio si studia oltre a ciò per ragioni culturali. In altre parole, si può decidere di studiare una lingua di prestigio anche quando non vi è alcuna necessità pratica associata. Dato che le lingue riservate escono fuori sempre dai ranghi delle lingue di prestigio, nemmeno esse sono usate per ragioni pratiche. In breve: i registri linguistici più bassi di una lingua tendono ad essere di natura più pratica, mentre quelli più alti sono più culturali, cerimoniali e numinosi.
Una lingua non è solo una questione di comunicazione pratica; essa è anche l’incarnazione di un pensiero e di un’opera d’arte, un’espressione altissima della nostra razionalità, della spiritualità e della trascendenza. Per esempio, non si scrive poesia per mere ragioni pratiche. Una parte di ciò che rende prestigiosa una lingua è la profondità, la sottigliezza e l’ampiezza delle espressioni che vi si trovano a causa della sua ricca storia: ciò è ancora più vero nel caso delle lingue riservate che — essendo state utilizzate per secoli o addirittura per millenni nelle preghiere — sono pregne di associazioni sacrali. In un certo senso la lingua si è fusa con l’atto, col rito, col contenuto. È diventata essa stessa un simbolo che supporta e adorna altri simboli.
Una volta carpite queste distinzioni, possiamo notare che la transizione dal latino come lingua vernacolare al latino come lingua di prestigio per diventare infine una lingua riservata è un processo naturale che si è verificato anche nel caso di altre lingue, per un fenomeno che si osserva in tutto il mondo e in tutto l’arco della storia.
Ora, quando la sacra liturgia si svolge già in una lingua riservata, ogni modifica che viene perpetrata implica necessariamente un passo verso il basso, linguisticamente parlando — probabilmente anche molto in basso, come affermeremmo normalmente nel caso della “vernacolarizzazione”, ossia del passaggio a un registro più basso. Non solo si perderanno ingenti quantità del contenuto concettuale della lingua riservata, ma anche il suo intero ethos, la sua atmosfera, la sua risonanza, le sue associazioni simboliche, e si perderà anche il suo status sacrale. Alla fine ciò che si perde è molto di più di una lingua: si perde una cultura, uno spazio psicologico, un ambito spirituale, un intero mondo con le sue radici storiche, le sue qualità uniche e i suoi potenti vantaggi.
Il rispetto della provvidenza liturgica di Dio
È impressionante considerare cos’hanno insegnato i pontefici romani a proposito del latino. Nel 1922 Papa Pio XI ha scritto: “La Chiesa … per la sua stessa natura richiede una lingua universale, immutabile e non vernacolare”. Nel 1947, Papa Pio XII ha proclamato nella sua enciclica Mediator Dei: “L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina”. Nel 1962, alla vigilia del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII promulgò la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia in difesa del latino come linguaggio appropriato per gli studi, i documenti e la liturgia del rito latino. Egli afferma:
La lingua della Chiesa dev’essere non solo universale ma anche immutabile. Le lingue moderne sono soggette al cambiamento, e nessuna di esse è superiore alle altre in quanto ad autorità. Dunque, se le verità della Chiesa cattolica fossero affidate a un numero indeterminato di esse, il significato di tali varietà — proprio per via della varietà delle lingue — non si manifesterebbe a tutti con sufficiente chiarezza e precisione. Inoltre, nessuna lingua sarebbe in grado di servire come norma comune e costante da cui estrarre il significato esatto delle altre versioni. Ma proprio il latino è una lingua siffatta. È stabilito e immutabile. Ha cessato da tempo di essere soggetto a quelle alterazioni di significato delle parole che sono il risultato naturale dell’uso quotidiano, popolare…
[L]a Chiesa cattolica possiede una dignità che supera di gran lunga quella di ogni altra società umana, poiché è stata fondata da Nostro Signore Gesù Cristo. È pertanto del tutto appropriato che la lingua che essa usa sia nobile, maestoso e non vernacolare. Inoltre, la lingua latina “può essere definita veramente cattolica”. È stata consacrata dall’uso costante da parte della Sede Apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e dev’essere considerata “un tesoro … di valore incomparabile”.
Da molte parti è stata recentemente sollevata un’obiezione contro l’uso del latino, e molti si chiedono quale sia la posizione della Sede Apostolica su questo punto. Abbiamo pertanto deciso di emanare tempestivamente le direttive contenute in questo documento, in modo da assicurare che l’antico e ininterrotto uso del latino sia mantenuto e, ove necessario, ripristinato.
È degno di menzione il fatto che questa Costituzione — pur essendo stata ignorata dai progressisti e dai modernisti e, dopo un po’, persino dai conservatori — non è mai stata rescissa o contraddetta dai papi posteriori in nessun documento di comparabile autorità. Le verità universali che essa contiene non cessano di essere valide per il mero fatto che il clero non voglia mettere in pratica le sue normative pratiche — così come le verità universali contenute nel motu proprio Summorum Pontificum restano valide nonostante gli sforzi di carattere pratico che Papa Francesco o l’Arcivescovo Roche stanno profondendo per sopprimere la liturgia tradizionale della Chiesa romana.
Potremmo sentirci tentati di sorvolare l’affermazione di Pio XII e di Giovanni XXIII secondo la quale l’uso del latino salvaguarda l’ortodossia, e invece essa merita un momento di attenzione. I due pontefici si riferiscono ovviamente alle formule tradizionali in latino utilizzate nella liturgia, nella Vulgata, negli scritti del Padri della Chiesa occidentale, nei canoni e nei decreti dei concili ecumenici, nel diritto canonico e in tutti i documenti del Magistero. Questo corpo di insegnamenti in latino è sorprendentemente omogeneo e costante nel corso dei secoli. Chiunque conosca bene il latino può scegliere uno qualsiasi di questi testi — che coprono un periodo di più di duemila anni — e comprenderlo. Questo primato di continuità nell’uso di una singola lingua stabile è un evento unico nella storia dell’umanità e dà valore a quanto i pontefici affermano su di essa.
D’altro canto, la traduzione dei libri liturgici in lingua vernacolare ha dimostrato la validità di tali affermazioni a contrario: siamo oberati da esempi di traduzioni semplificate fino a rasentare l’idiozia, o erronee, o teologicamente problematiche, e di accesi e costanti dibattiti sul registro linguistico da utilizzare nelle traduzioni ufficiali. [vedi nota di Chiesa e post-concilio (*)] La terrificante versione della Bibbia che è stata inflitta ai cattolici americani, la New American Bible, non è nemmeno scritta in un inglese corretto; come ha affermato Anthony Esolen, è scritta in “nabbish”. [Neologismo creato a partire dall’acronimo NAB che sta, appunto, per New American Bible. — N.d.T.] Tanto nel caso dei testi dottrinali come in quello dei testi liturgici, il vernacolo tende a provocare incessantemente mal di testa, mal di orecchie e mal di cuore. [10]
Il latino è un elemento cruciale della tradizione cattolica — non al suo fianco ma al suo interno; si tratta effettivamente dello strumento per mezzo del quale la tradizione è stata trasmessa al mondo occidentale. Fa parte delle risorse che Dio ha fornito per il bene della Sua Chiesa. Anche se ogni contemporaneo fosse d’accordo sul fatto che il latino debba essere completamente abolito, non per questo esso cesserebbe di far parte della Tradizione: ciò è un fatto indiscutibile e immutabile. Possiamo comparare il caso del latino a quello del celibato. La legge ecclesiastica secondo cui un sacerdote non si può sposare deriva dalla Tradizione. Oggi molti “esperti” affermano di “sapere” che il celibato è la causa del basso numero di vocazioni. Insieme al sacerdozio femminile, il celibato è uno dei campi di battaglia preferiti dei modernisti, e i progressisti dànno per scontato che vi si dovrebbe essere contrari. Eppure esso fa parte della Tradizione, e pertanto è irreversibile. Da questo punto di vista il latino è molto simile al celibato. Pur essendo utilizzato nella liturgia non perché l’abbia prescritto la legge divina ma quella della Chiesa, fa pur tuttavia parte della Tradizione (così come lo sono il greco, la lingua slava ecclesiastica, il siriaco, l’armeno, etc. per le Chiese orientali) e dovrebbe pertanto essere preservato indipendentemente dalle opinioni personali dei contemporanei.
L’errore che ha portato all’abolizione del latino è stato di natura neoscolastica e cartesiana — vale a dire, il concetto secondo cui il contenuto della Fede cattolica non abbia corpo e non sia incarnato, bensì sia qualcosa di astratto dalla materia. Così, molti cattolici credono che la Tradizione consista solo in un certo numero di contenuti concettuali che sono tramandati, indipendentemente dal modo in cui li si tramanda. Ma ciò è falso. Lo stesso latino è uno degli elementi tramandati, insieme ai contenuti di tutto ciò che è scritto o cantato in latino. Inoltre, come abbiamo visto, la Chiesa stessa ha riconosciuto questo punto in molte occasioni, mettendo in risalto l’importanza del latino col tesserne le lodi, riconoscendo in esso un segno efficace dell’unità, della cattolicità, dell’antichità e della permanenza della Chiesa latina.
Il latino possiede pertanto una funzione quasi sacramentale: così come il canto gregoriano è “l’icona musicale del cattolicesimo romano” (Joseph Swain), il latino è la sua “icona linguistica”. I riformatori liturgici prigionieri del razionalismo hanno trattato il latino come una mera contingenza, come se fosse l’involucro di un prodotto che si getta via dopo la sua apertura. In realtà, è paragonabile più esattamente alla pelle del corpo umano: la pelle si trova, sì, in superficie, ma se la si rimuove il risultato è catastrofico. Il che mi fa arrivare al Vaticano II e al Novus Ordo.
Il Vaticano II e il latino del Novus Ordo
Molti cattolici di tutto il mondo — ivi compresi, a quanto pare, vescovi e cardinale — sembrano non essere consapevoli del fatto che gli insegnamenti di Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e altri papi siano stati echeggiati e confermati dalla Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (36.1); “Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi” (54); “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina” (101.1). Il Concilio ha aperto, sì, le porte a un uso più esteso del vernacolo, ma non ha ordinato l’uso del vernacolo, e chiaramente la costituzione è stata accettata da una grande maggioranza solo perché i vescovi si sono sentiti rassicurati dal fatto che la riforma sarebbe stata moderata, non una rivoluzione.
Contrariamente a quanto sostiene Papa Francesco, in realtà la maggioranza dei vescovi che hanno partecipato al Concilio Vaticano II, se si legge attentamente la trascrizione dei loro discorsi, hanno sostenuto il mantenimento del latino, opzione per la quale hanno anche votato nel documento finale. [11] Oggi, grazie alle scrupolose ricerche di storici come Yves Chiron, sappiamo che Bugnini — che fu alla testa della composizione di Sacrosanctum Concilium — era entrato in accordi coi suoi compagni di squadra molto prima dell’inizio del Concilio per scatenare la rivoluzione, una volta che esso fosse terminato, e che in modo machiavellico consigliò l’uso di un linguaggio vago, ambiguo e che si prestasse a molteplici interpretazioni, pieno di lacune che potessero essere successivamente sfruttate — cosa che si è verificata realmente più tardi.
Così, anche il Vaticano II ha ufficialmente confermato che il latino è la lingua della liturgia e ha operato solo una cauta apertura al vernacolo, specialmente nelle parti relativi alle istruzioni, tutto ciò che è venuto di seguito, col supporto di Paolo VI, ha vanificato o neutralizzato tale conferma, e l’allontanamento di Paolo VI tanto dalla Tradizione come dal Concilio stesso non è mai stata contrastata da nessuno dei suoi successori. Questa è una delle ragioni per cui il latino non apparirà mai di nuovo in modo significativo nel Novus Ordo: Paolo VI gli ha fatto ciao ciao con la manina e solo i tradizionalisti, che aderiscono alla liturgia preconciliare, si sono azzardati a mettere in discussione il suo sano giudizio per il fatto di aver intrapreso una completa reinvenzione del culto divino della Chiesa cattolica.
Il Novus Ordo è stato creato per la massima intelligibilità, per la massima facilità di comprensione. Il suo proposito era quello di rimuovere ogni possibile barriera alla comprensione dei fedeli, che avrebbero dovuto vedere, udire e conoscere tutto quello che viene detto e fatto in ogni momento, istantaneamente e senza alcuna preparazione o riflessione. Non è l’intento di questa conferenza spiegare cosa c’è di sbagliato in questo schema e nell’idea soggiacente: basti menzionare il fatto che nell’intera storia della cristianità apostolica occidentale e orientale e nella storia di tutte religioni del mondo questo non è stato mai il modo in cui si è concepito il culto divino. Ad ogni modo, se questa trasparenza immediata e totale è l’obiettivo da raggiungere, tutto dev’essere semplificato, trasposto nel linguaggio corrente e reso visibile e udibile. Quindi il sacerdote sarà orientato verso il popolo, avrà un microfono, non ci sarà molto silenzio, succederà solo una cosa alla volta, etc.
Se si segue questo paradigma per il culto, allora è abbastanza ovvio che il latino — e anche il canto gregoriano — non vi troverà posto, almeno nel 99% delle congregazioni. Il Novus Ordo in latino “non è né carne né pesce” (per usare un’espressione di Joseph Shaw): non ha né l’accessibilità istantanea per cui il Novus Ordo è stato designato, né la solennità, la ricchezza simbolica e la profondità cerimoniale del rito tridentino, elementi che aumentano la nostra percezione del mistero e la nostra ricettività nei confronti di verità che non possono essere ridotte a meri pacchetti linguistici.
In breve, il latino si addice alla Messa antica come le vetrate colorate si addicono a una chiesa gotica, o come l’oro si addice a un calice, o il silenzio si confà al canone romano; non funziona coi principi strutturali della nuova Messa.
Tuttavia, l’accessibilità del Novus Ordo è doppiamente illusoria e ingannevole. In primo luogo, il suo approccio verbale ci induce subdolamente a credere di aver compreso o di essere in grado di comprendere il culto divino e i misteri di Cristo. Dato che la sua modalità di partecipazione attiva si basa molto sull’apparenza esteriore, su voci e su corpi in movimento, possiamo partecipare a un’intera cerimonia di questo genere senza aver mai ponderato o pregato interiormente, senza aver mai provato meraviglia, sorpresa o timore reverenziale. La Messa in latino non ha questo problema: in essa vi sono frequenti e varie incitazioni ad atti di preghiera, e la partecipazione che vi viene richiesta è piuttosto una partecipazione del cuore e della mente. In secondo luogo, il Novus Ordo è accessibile solo a quanti parlano una determinata lingua vernacolare e possono comprenderla quando la ascoltano. In un mondo multiculturale e laddove entrano in gioco fattori come una scarsa capacità di elocuzione, strumenti inefficienti di diffusione del suono o rumore di fondo, la maledizione della torre di Babele può cadere velocemente su di noi. Vorrei soffermarmi un momento su questo punto.
Annullare la maledizione della torre di Babele
Il Padre Louis Bouyer ha sottolineato: “Ogni tradizione religiosa descrive il linguaggio come un dono degli dei che rende possibile l’esistenza della società continuando a mantenerla unita, come i fili di un tessuto. Al contrario, il libro della Genesi vede nella frammentazione del linguaggio in varie lingue che non si comprendono tra di loro una maledizione inviata dal Cielo su una società peccaminosa”. [12]
La prima Pentecoste cristiana, nove giorni dopo l’ascensione di Nostro Signore al Cielo, è presentata negli Atti degli Apostoli come un annullamento della maledizione della torre di Babele. La maledizione originaria che colpì uomini invasati di ambizione fece sì che la loro progenie si dividesse in società che parlavano mille lingue diverse. Anche se persino i ricchi frutti poetici di un vasto numero di lingue può essere visto come una benedizione voluta da Dio, la difficoltà e spesso l’impossibilità di stabilire un discorso comune tra animali razionali è indiscutibilmente una maledizione. Tale maledizione si rinnova ogni volta che ci troviamo di fronte a una liturgia in cui l’uso di espressioni vernacolari che ci sono ignote ci dice effettivamente: “Queste parole non sono rivolte a te; sono solo per loro; per quel popolo”.
Quando le tradizioni liturgiche sviluppano un linguaggio comune per il culto pubblico, compiono un atto di ritorno simbolico alla condizione precedente alla caduta del Giardino dell’Eden, in cui gli esseri umani parlavano una sola lingua. Nella liturgia in latino non ci troviamo di fronte a un vernacolo straniero che ci esclude; al contrario, udiamo il suono di una singola voce che appartiene all’intera Chiesa riunita in preghiera, che accoglie tutte le nazioni e tutti i popoli in una sola celebrazione.
In alcune diocesi può succedere che la Messa Novus Ordo sia celebrata in quindici lingue differenti: ogni gruppo linguistico si trasforma così in un’isola ripiegata su se stessa che non si mischia quasi mai con gli altri gruppi. Ma vi sono anche parrocchie multietniche e multilingui che celebrano la Messa in latino in cui proprio la Messa è l’autentica forza unificatrice per tutti i sottogruppi, formando tra di loro legami di relazioni fraterne e permettendo loro di mischiarsi anche dal punto di vista sociale. Quanti di noi hanno partecipato a una Messa in latino e visto bianchi, persone di colore, asiatici, ispanici, varie etnie e nazionalità, tutte riunite in un unico atto di culto cattolico, ossia universale? Come ha sottolineato Giovanni XXIII, il latino appartiene allo stesso tempo a tutti e a nessuno in particolare. Nel corso della storia la liturgia in latino è sempre stata una forza integratrice di diversi gruppi etnici e culturali, e continua tutt’oggi a costruire ponti di questo tipo.
Ho sperimentato in modo molto forte questa realtà non molto tempo fa, quando ho visitato la Polonia per tenervi una conferenza. Nonostante il mio cognome, che è polacco quanto i pierogi e la kielbasa [Piatti tipici polacchi. — N.d.T.], ho pronunciato ben poche parole in polacco, che è generalmente considerato una lingua molto difficile da apprendere. Sono stato circondato per giorni da rumori incomprensibili a cui tutti meno io sapevano rispondere (fortunatamente durante la conferenza mi erano stati forniti degli auricolari che mi trasmettevano la traduzione simultanea in inglese). In uno dei giorni della mia visita ho fatto un’escursione con un gruppo di amici al Castello Wawel, uno dei luoghi più belli e storici della città di Cracovia, per raggiungere la cappella laterale in cui un sacerdote della Fraternità Sacerdotale di San Pietro avrebbe celebrato la Messa bassa.
Siamo arrivati giusto nel momento in cui la Messa stava cominciando. Le parole confortevoli in latino sono cadute come una pioggia rinfrescante sulle mie orecchie, o come un raggio di luce che trapassa la nebbia impenetrabile della lingua straniera di una remota contrada. In quel momento ci trovavamo nella contrada di Dio. Il sacerdote ha celebrato la Messa intenzionalmente con un tono di voce facilmente udibile, permettendomi di non perderne nemmeno una parola. Sfortunatamente, le goffe e illecite prescrizioni della Traditionis Custodes hanno fatto sì che il Lezionario e il Vangelo venissero proclamati esclusivamente in polacco, il che mi ha fatto piombare di nuovo, improvvisamente, in una nebbia di incomprensibilità e mi ha ricordato che il vernacolo include certamente i locali ma esclude gli estranei. Quella è stata l’unica parte della Messa che ha perso la sua cattolicità che abbraccia tutto il mondo in favore di un localismo più angusto. Al termine del Vangelo l’officiante ha detto: “Laus tibi Christe”, e tutto è rientrato nella norma. Il resto della Messa si è svolto alternandosi tra momenti in cui il latino si ergeva sulla superficie del silenzio e una quiete avvolgente in cui il Verbo si è fatto carne di nuovo, sull’altare, nel potere della Sua Incarnazione, Passione, Morte, Resurrezione e Ascensione.
Quella Messa nella cappella laterale di Wawel è stato un perfetto esempio di liturgia come realtà sincronica e diacronica allo stesso tempo: sincronica, perché mi sono sentito subito, immediatamente a casa nella stessa liturgia che viene celebrata in tutte le parti del mondo dove la Tradizione è conservata come un tesoro — un’esperienza che ho fatto ormai dozzine di volte durante i miei viaggi; diacronica, perché era sostanzialmente la stessa liturgia che è sempre stata celebrata nella maggior parte degli altari della cristianità occidentali nel corso dei secoli. Alcuino, della corte di Carlomagno; Sant’Anselmo di Canterbury; San Tommaso d’Aquino, Sant’Edmondo Campion; San Carlo Borromeo; San Giovanni Vianney; San Vincenzo di Paola; San Padre Pio; San Carlo di Foucauld — tutti costoro si sarebbero sentiti a casa loro. Con la Messa tradizionale in latino, lungo i secoli e in tutto il mondo, si è sempre a casa. Il miracolo che almeno per alcuni momenti sacri annulla il caos di Babele richiede la forte stabilità e la coerenza interna della grande liturgia romana, la cui lingua presta al rito cattolico latino il suo stesso nome.
Il latino, come la Fede, viene “dall’esterno”
Le nostre “lingue madri” ci vengono trasmesse dalle nostre madri terrene: quando siamo ancora nei loro grembi, la loro voce è la prima cosa che udiamo, e quando veniamo al mondo udiamo la stessa voce adagiati sul suo petto. Il nostro vernacolo quotidiano è qualcosa di cui, in un certo senso, la natura stessa ci equipaggia per mezzo di un’immersione nella cultura familiare che non richiede alcuno sforzo. Tale lingua rappresenta l’ordine naturale in cui viviamo e ci muoviamo e svolgiamo la nostra esistenza naturale.
Ora, così come il battesimo — o rinascita — raggiunge il cristiano dall’esterno (poiché, come scrive Joseph Ratzinger, “nessuno nasce cristiano, nemmeno all’interno di un mondo cristiano e avendo genitori cristiani. L’essere cristiani avviene esclusivamente come una nuova nascita. L’essere cristiani comincia col battesimo, che è una morte e resurrezione, non con la vita biologica”), anche la lingua sacra del culto che celebriamo ci viene dall’esterno, dalla nostra madre Chiesa, che ci insegna una nuova lingua cristiana — una “lingua madre” soprannaturale — che rappresenta l’ordine soprannaturale in cui viviamo, ci muoviamo e svolgiamo la nostra esistenza soprannaturale. I cattolici che partecipano al rito in latino possiedono una lingua sacra che ricevono “dall’esterno”, come nel caso della rinascita battesimale.
La liturgia cristiana dovrebbe trasmetterci in qualche modo la consapevolezza del fatto che quando entriamo nel tempio del Signore non parliamo un linguaggio meramente naturale, ma un linguaggio soprannaturale, la lingua dei santi, degli angeli e di Dio. Ovviamente, non è obbligatorio che tale lingua sia il latino — come si è notato sopra, nei riti apostolici tradizionali vi sono molte lingue sacre —, ma non dovrebbe essere il vernacolo quotidiano dei sentimenti terreni e della piazza del mercato, e nemmeno quello del lessico tecnico delle discipline accademiche. Dovrebbe essere separata dalle altre da secoli di uso consacrato al culto divino; in questo modo, essa aiuta i fedeli a mettere da parte le cure terrene e a consacrare porzioni simboliche del loro tempo solo a Dio. Una lingua liturgica tradizionale ci ricorda che la nostra adozione nella famiglia di Dio è più fondamentale e definitiva rispetto alla nostra famiglia terrena, alla nostra cittadinanza, alla nostra nazionalità o alla nostra razza.
È importantissimo anche il fatto che una prassi utilizzata dalla Chiesa cattolica occidentale per più di 1600 anni — ossia da quasi tutti tra le migliaia di nostri santi canonizzati — non può essere condannata senza automaticamente negare che lo Spirito Santo abbia guidato la Chiesa alla pienezza della verità (cfr. Gv 16, 13). Lo Spirito Santo, Che ha dato agli apostoli la capacità di parlare nella lingua di ciascuno di coloro che li udiva quando hanno predicato a tutte le nazioni, ha dato anche in eredità alla Chiesa occidentale il latino liturgico, tramandato di secolo in secolo con venerazione sempre più grande. Ciò che è stato stabilito per scelta è stato confermato dall’uso e preservato dalla pietà. Le forme di culto sviluppate nel corso dei secoli con ricchezza di contenuti e pregnanza hanno reso sempre più improbabile la possibilità di essere rapidamente duplicate o adattate in una lingua straniera; ciò ha reso il latino ancora più prezioso e degno di essere coltivato. Sullo sfondo dei vari esperimenti di vernacolarizzazione a partire dalla metà del XX secolo — esperimenti che potrebbero essere definiti giustamente “babelizzazione” —, un numero sempre maggiore di persone sta cominciando a comprendere che questo retaggio unico e unificante del latino rimane ancor oggi prezioso e degno di essere coltivato.
E non dovremmo nemmeno sorvolare sul fatto cruciale che nessun vernacolo moderno è in grado di rendere tutto ciò che è contenuto nelle preghiere tradizionali in latino. Tradurre è tradire; a maggior ragione se si sta parlando di un vasto tesoro di latino liturgico di 1600 anni di antichità. Un messale utilizzato da un fedele può dare un’idea abbastanza buona del contenuto, ma la preghiera in latino dice di più, lo dice meglio, in modo più sottile, pieno e impressionante. È una differenza importante? Assolutamente sì. La persona a cui ci stiamo rivolgendo principalmente è Dio, ed è molto importante come Gli parliamo. Quando Gli offriamo preghiere solenni, belle, di alto valore ed espresse santamente, ciò Gli è gradito come il sacrificio di un agnello senza difetti, come il Logos senza difetti Che si è offerto sulla Croce. Il semplice fatto che un numero ingente di santi uomini e donne abbiano assolutamente le stesse parole sulle loro labbra nel corso dei secoli le dota di un’efficacia speciale. Santa Matilde del Santissimo Sacramento ha affermato che la corte celeste dei beati gioisce ogni volta che ascolta le stesse parole con cui ha pregato quando si trovava sulla terra.
Conclusione
Un modo in cui possiamo valutare i disastri provocati dall’abbandono del latino è quello di considerarne gli effetti intellettuali e teologici. La grande maggioranza degli scritti della cristianità occidentale in tutti i settori — teologia, esegesi, diritto canonico, liturgia, agiografia, etc. — era composta in latino, e la grande maggioranza di questa letteratura non è ancora stata tradotta. I progressisti estremisti che hanno fatto la guerra al latino nella metà del XX secolo sapevano molto bene cosa stavano facendo: essi volevano distruggere il ponte che univa i cattolici al loro retaggio, alla loro Tradizione, alla loro memoria collettiva. La tanto vantata “modernizzazione” della Chiesa poteva essere realizzata solo se il passato fosse stato dimenticato e sigillato in modo inaccessibile dietro un muro di incomprensibilità. La perdita del latino ha pertanto avuto ramificazioni che vanno ben al di là dei santuari delle nostre chiese, anche se è lì che notiamo di più la sua presenza o assenza. Il prosperare dell’eresia è direttamente proporzionale a quello dell’amnesia, dell’anarchia e delle innovazioni. La crisi liturgica è solo una parte della più ampia crisi dell’identità cattolica, che ha molto più a che vedere con il linguaggio di quanto molti siano in grado di percepire.
Seguendo questo punto, credo sia importante che i cattolici riconoscano che tutti noi dovremmo imparare almeno un po’ di latino. Esso non perderà il suo ruolo storico, il suo carattere speciale e la sua funzione sacra se lo capiamo come lingua (mistero non è sinonimo di mistificazione). Quando si capisce il latino della liturgia, non per questo diventa meno piacevole; al contrario, l’apprezzamento aumenta perché si può assaporare il suo significato e la sua bellezza. Ciò non è necessario per un culto fruttifero, ma è un autentico vantaggio che dovremmo aver cura di acquisire. Il latino era un tempo una materia di insegnamento basica per tutti gli studenti cattolici e molte persone lo imparavano a livelli molto alti, anche coloro che non dovevano diventare sacerdoti o religiosi. Se ci teniamo alla nostra Tradizione e al nostro retaggio, dovremo assicurarci che questa lingua sia inclusa nelle nostre scuole domestiche e nei curricula delle scuole private.
Si ricordi che l’ebraico era una lingua morta fino a quando il movimento sionista e lo Stato di Israele lo hanno riportato in vita come lingua parlata; oggi, milioni di persone lo parlano fluentemente. I musulmani studiano l’arabo classico perché valorizzano il proprio retaggio. È imbarazzante e vergognoso che ai cattolici importi molto di meno che agli ebrei e ai musulmani un retaggio che è incommensurabilmente più vero, migliore e più glorioso rispetto al loro! [13]
Se qualcuno dev’essere biasimato per questo disastrosa situazione, quel qualcuno è la gerarchia della Chiesa, quei pastori che, tradendo la loro divina vocazione, non hanno tramandato fedelmente la Tradizione che era stata loro affidata e non hanno mosso nemmeno un dito per correggere un catastrofico collasso culturale.
In termini pratici, non è difficile acquisire una conoscenza basica della lingua latina usata nella liturgia. Anche solo assistendo regolarmente alla Messa e ad altre cerimonie e usando un messale, cominceremo a far nostra una rudimentale conoscenza del vocabolario. Siamo sinceri: non è difficile seguire il Gloria e il Credo! I fedeli più zelanti potranno procurarsi una buona grammatica di latino o iscriversi a un corso online. Fortunatamente ci sono già a disposizione molte persone che stanno riportando in vita questa lingua, anche nella sua forma parlata. È scontato che i primi a imparare il latino dovrebbero essere i bambini, dato che la capacità di apprendimento di una lingua, in generale, è molto più facile nella tenera età che da adulti. Cantare il canto gregoriano — in modo informale a casa o come membri di un coro — è un modo importante e piacevole di acquisire familiarità col tesoro del latino ecclesiastico. Raccomando per esempio di cantare le antifone mariane stagionali a casa come parte delle devozioni serali: l’Alma Redemptoris Mater, l’Ave Regina Caelorum, il Regina Coeli e il Salve Regina.
Non dobbiamo aver paura di affermare con coraggio che è cosa buona, giusta e ideale usare il latino nella sacra liturgia, vale a dire, nel culto solenne, pubblico, formale, ufficiale della Chiesa cattolica romana. Le ragioni in proposito sono così numerose e schiaccianti, la sostanza e l’autorità della Tradizione sono così incontestabili che non c’è alcun modo di refutare la conclusione secondo cui mantenere l’uso del latino è un obbligo serio di fronte a Dio e abbandonarlo una seria deviazione dalla Sua provvidenza liturgica. Nel mezzo della diversità culturale, la Chiesa cattolica ha la sapienza necessaria per riconoscere il potere spirituale degli elementi centrali di unità che ci rendono una cosa sola professando l’unica vera Fede e omaggiando la Santissima Trinità. Possiamo sperare e pregare che, col tempo, i leader della nostra Chiesa prenderanno iniziative per recuperare ciò che riforme sconsiderate avevano follemente gettato via. Noi, da parte nostra, siamo in grado di esprimere a Dio la nostra gratitudine mantenendo e promovendo le sane tradizioni della Chiesa latina._________________________
[1] Fiedrowicz, Traditional Mass, [La Messa tradizionale], p. 155.
[2] Shaw, How to Attend the Extraordinary Form [Come partecipare alla forma straordinaria], pp. 26–28.
[3] Per quanto riguarda la “sacra atmosfera”, si può aggiungere che la concentrazione, la disciplina e la serietà della congregazione in una Messa tradizionale in latino viene supportata — e supporta a sua volta — dal clima creato da e all’interno della liturgia, in un classico “circolo virtuoso”. Come nel classico dilemma dell’uovo e della gallina, non si può mai sapere cosa venga prima: è la natura oggettiva della liturgia e delle sue cerimonie, rubriche, musiche che spiega quel comportamento e continua a suscitarlo.[4] Fiedrowicz, pp. 163, 164, 165.
[5] Quando riesce a trovarla, questo gruppo si sente — naturalmente, viene da dire — attratto dalla liturgia dell’ordinariato anglicano.[6] https://www.hprweb.com/2020/02/the-novus-ordo-at-50-loss-or-gain/.
[7] Fiedrowicz, pp. 153–54.
[8] Ibid., p. 154.
[9] Ibid., pp. 154–55.
[10] La guerra scatenata da Traditionis Custodes ha a che vedere con qualcosa di molto più fondamentale rispetto alla Messa tradizionale in latino. Francesco sta cercando di eliminare un intero modo di essere cattolici anche per le persone che non vanno mai alla messa in latino. Il liturgista inglese Clifford Howell soleva affermare che l’uso del vernacolo nella liturgia mirava a un nuovo ordine mondiale che non si sarebbe potuto esprimere negli stessi termini del latino. Ora mi rendo conto del fatto che quel che egli voleva dire è che essenzialmente la nuova liturgia è un movimento sociale basato sul rifiuto totale della visione del mondo cattolica. La Messa antica era troppo alternativa rispetto all’ideologia di questo movimento perché le si potesse permettere di continuare a esistere.[11] Si veda per esempio: https://www.newliturgicalmovement.org/2017/09/the-council-fathers-in-support-of-latin.html.
[12] Invisible Father [Padre invisibile], p. 47.
[13] La nostra generale mancanza di interesse nei confronti del nostro retaggio sacro si erge contro di noi per condannarci nello stesso modo in cui Gesù affermò che la regina del sud si sarebbe sollevata in giudizio contro gli ebrei perché era venuta da molto lontano, facendo molti sforzi, solo per vedere Salomone. E quali sforzi facciamo noi per contemplare i doni che Dio ci ha elargito?
[Traduzione per Chiesa e post-Concilio di Antonio Marcantonio]
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Nota di Chiesa e post-concilio
(*) Nei tempi più recenti, abbiamo bevuto l'amaro calice del motu proprio Magnum principium (9.9.2017), che modifica il can. 838 del Codice di diritto canonico, riguardante le competenze della Santa Sede, delle Conferenze episcopali e dei Vescovi diocesani nell’ordinamento della liturgia. Si tratta di un colpo di spugna all’istruzione Liturgiam authenticam (7.5.2001), già temuto e preconizzato (qui), “sull’uso delle lingue volgari nella pubblicazione dei libri della liturgia romana”. Di fatto siamo al 'rompete le righe' anche col decentramento alle Conferenze episcopali della preparazione dei libri liturgici, che mina l'unità e l'universalità de La Catholica.
Richiede attenzione il seguente passaggio della Correctio papale [qui - qui] alle affermazioni del card. Sarah in un documento [qui appoggiato dal card. Muller qui] che attenuava la svolta rivoluzionaria della Lettera Apostolica : «Il Magnum Principium non sostiene più che le traduzioni devono essere conformi in tutti i punti alle norme del Liturgiam Authenticam, così come veniva effettuato nel passato». Tale affermazione unita all’altra secondo cui una traduzione liturgica “fedele” «implica una triplice fedeltà» – al testo originale, alla lingua della traduzione, alla comprensibilità dei destinatari – lascia intendere che Magnum Principium è considerato come l’inizio di un processo che può portare molto lontano in direzione di una vera e propria devolution liturgica. I ‘processi’ innescati come mine vaganti sono più d’uno e la frammentazione nella Chiesa acquista velocità sia sulla dottrina che sulla morale e ora sulla liturgia, fons et culmen di tutto.
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