by Aldo Maria Valli, 09-09-2018
Vultum Dei quaerere e Cor Orans: tra ambiguità e incongruenze
(secondo di tre articoli)
Nel precedente articolo ci siamo occupati del rischio che i monasteri femminili stanno correndo, sotto il profilo della loro autonomia e quindi della loro stessa vita, a causa dei contenuti di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa del 29 giugno 2016, e di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, documenti che rendono obbligatoria l’affiliazione dei monasteri alle federazioni.
Proprio in Cor orans, balza agli occhi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “superino l’isolamento” (n. 7). Ma il fatto che un monastero si isoli, vista la sua natura, dovrebbe essere un valore da promuovere, non un limite da superare.
Troviamo poi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “promuovano l’osservanza regolare e la vita contemplativa” (n. 7), ma l’esperienza ha dimostrato che le federazioni non hanno fatto questo. In realtà esse hanno imposto uscite continue e confronti, hanno introdotto disturbi e squilibri, e in tal modo non hanno favorito la vita contemplativa, ma l’hanno piuttosto minata, perché uscite, riunioni, discussioni e corsi sono fattori che nulla hanno a che fare con la spiritualità di chi decide di ritirarsi dal mondo per vivere nella preghiera.
Ma il documento, soprattutto, mette a repentaglio l’autonomia giuridica del monastero. Leggiamo infatti che “l’autonomia giuridica deve essere costantemente verificata dalla Presidente [della federazione], a suo giudizio” (n. 43). Inoltre (n. 45) se le monache sono meno di cinque perdono il diritto di eleggere la propria superiora e “in tal caso la Presidente federale è tenuta a informare la Santa Sede” in vista della nomina di una “Commissione ad hoc”.
Proseguiamo. Al n. 54 leggiamo che l’affiliazione alla federazione “è una particolare forma di aiuto che la Santa Sede viene a stabilire in particolari situazioni in favore della comunità di un monastero sui iuris che presenta un’autonomia solo asserita, ma in realtà assai precaria o, di fatto, inesistente”. Ma quali sarebbero queste “particolari situazioni”? Chi le stabilisce? Secondo quali criteri? E chi può dire che un’autonomia è “solo asserita”? Se la presidente di una federazione stabilisce che una comunità ha un’autonomia “solo asserita” chi può assicurare che il suo sia un giudizio imparziale?
In realtà la preoccupazione principale sembra non quella di fare di tutto per garantire la vita delle comunità, ma di arrivare, attraverso lo strumento della federazione, alla loro soppressione. Leggiamo al n. 55: “L’affiliazione si configura come un sostegno di carattere giuridico che deve valutare se l’incapacità di gestire la vita del monastero autonomo in tutte le sue dimensioni sia solo temporanea o irreversibile, aiutando la comunità del monastero affiliato a superare le difficoltà o a disporre quanto è necessario per addivenire alla soppressione di detto monastero”. Capolavoro di ipocrisia: quello che è detto un “sostegno” per il “monastero autonomo” è invece, in pratica, l’organismo che ha su di esso il potere di vita o di morte.
E il potere della federazione è confermato al n. 56, dove si stabilisce che nella “Commissione ad hoc”, in parole povere un tribunale, dovrà entrare la “Presidente della Federazione”.
Un’espressione ambigua si trova al n. 70, dove scopriamo che “fra i criteri che possono concorrere a determinare un giudizio riguardo alla soppressione di un monastero” c’è la “fedeltà dinamica” nel vivere e trasmettere il carisma. Che significa “fedeltà dinamica”? La fedeltà è fedeltà. Se non c’è la fedeltà c’è l’infedeltà, il tradimento. Essere “dinamici”, nell’ottica di Cor orans, vuol dire forse adeguarsi al mondo? Cedere al modernismo? O piegarsi ai diktat della federazione?
Altra ambiguità al n. 72, dove, a proposito dei beni di un monastero soppresso, scopriamo che la Santa Sede può disporre di attribuirli “alla carità” oltre che alla federazione o alla “Chiesa locale”. Che significa “carità”? A chi andranno i beni? E in base a quali criteri?
Al n. 74 viene detto che la vigilanza “necessaria e giusta” sui monasteri deve essere “esercitata principalmente – se non esclusivamente – mediante la visita regolare di un’autorità esterna ai monasteri stessi”, e al n. 75 si precisa che tale compito spetta alla “Presidente della Congregazione monastica femminile”, “al superiore maggiore dell’Istituto maschile consociante” e “al vescovo diocesano”, ma al successivo n. 111 scopriamo che “la Presidente della Federazione, nel tempo stabilito, accompagna il Visitatore regolare nella visita canonica ai monasteri federati come convisitatrice”. In pratica, una supervisione che, ancora una volta, assegna un grande potere alla federazione.
Vediamola un po’ più di vicino, allora, questa federazione di monasteri. La sezione di Cor orans ad essa dedicata è la seconda, dove in primo piano viene messa (n. 86) l’esigenza che i monasteri “non rimangano isolati”, perché “valore irrinunciabile” è quello della “comunione”. Ma chi l’ha detto? La parola stessa, monastero, dal latino monastērĭum e dal greco antico μοναστήριον (monastḗrion), deriva da μόνος(mónos: solo, unico), e μονακός (monakós) vuol dire solitario, eremita. Il vero valore irrinunciabile del monastero non sta certamente nella comunione, né con altri monasteri né con altre realtà religiose, ma nella sua unicità e anche nel suo isolamento.
Ma le contraddizioni non finiscono qui. Al successivo n. 87 si dice che “la federazione è costituita da più monasteri autonomi che hanno affinità di spirito e di tradizione e, anche se non sono configurate necessariamente secondo un criterio geografico, per quanto possibile, non devono essere geograficamente distanti”. Di nuovo viene da chiedersi: perché? Che importanza può avere tutto questo? L’unico disegno che si vede dietro tali indicazioni, ancora, è di affermare il ruolo e la funzione della federazione. Un ruolo che arriva fino a garantire “l’aiuto nella formazione iniziale permanente” e promuovere “lo scambio di monache e di beni materiali”, con tanti saluti all’autonomia del monastero!
E a proposito di autonomia, enunciata a parole ma nei fatti negata, ecco che al n. 93 il documento svela le carte: “A norma di quanto disposto nella Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, tutti i monasteri inizialmente devono entrare in una Federazione”. Quell’”inizialmente” dice tutto: di fatto si tratta di un obbligo inderogabile. E l’affiliazione ha un significato precipuo: amministrare i beni dei monasteri.
Al n. 98 leggiamo: “Per tenere viva e rafforzare l’unione di monasteri (di nuovo: come se fosse questo lo scopo decisivo del monastero, ndr), attuando una delle finalità della Federazione, viene favorita tra i monasteri una certa comunicazione di beni, coordinata dalla Presidente federale”.
“Una certa comunicazione di beni”? Che significa? L’unica cosa chiara è che se ne deve occupare la federazione, nella persona della sua presidente.
E che dire del successivo n. 99? Eccolo: “La comunicazione dei beni in una federazione si attua mediante contributi, doni, prestiti che i monasteri offrono per altri monasteri che si trovano in difficoltà economica e per le esigenze comuni della Federazione”. Contributi, doni, prestiti? E chi decide chi dona a chi, chi presta a chi? E in quale misura? E per quali motivi? Ovviamente decide la federazione, che così acquisisce un ulteriore potere. Con tanti saluti, di nuovo, all’autonomia dei singoli monasteri.
Con gli esempi si potrebbe continuare a lungo. A un certo punto, sempre a proposito di beni (argomento principe), si stabilisce che presso la federazione dovrà essere costituito “un fondo economico (cassa federale)” il cui scopo è quello di “realizzare le finalità federative”. Quali? Non è chiaro. Molto chiaro è invece che il fondo sarà amministrato dalla presidente della federazione, specie per quanto riguarda (n. 109) “l’alienazione dei beni dei monasteri totalmente estinti”.
La presidente della federazione ha un potere enorme. Ma chi la controlla? Chi ha autorità su di lei? Al n. 110 scopriamo che sarà eletta “dall’Assemblea federale” e che “non è una Superiora maggiore”. Di fatto, la presidente della federazione sta al di sopra anche delle superiori maggiori, il che determina, di nuovo, un vulnus per l’autonomia e l’indipendenza del monastero, tanto è vero che (n. 141) ci saranno norme che le suddite saranno tenute ad osservare anche contro la volontà della propria abbadessa, e la presidente della federazione potrà addirittura decidere in merito al passaggio di una monaca da un monastero all’altro, anche a fronte di un rifiuto da parte della superiora maggiore (n. 122).
Pure a proposito delle visite (di ogni tipo: canoniche, materne, sororali) la discrezionalità della presidente della federazione (“ogni volta che la necessità lo richiede”) è totale. In più, al termine delle visite la presidente “indica per iscritto alla Superiora maggiore del monastero le soluzioni più adatte ai casi e alle situazioni emerse durante la visita e ne informa la Santa Sede” (n. 115). Insomma, la presidente comanda e la superiora esegue. E l’autorità del vescovo che fine ha fatto?
Nel successivo punto (n. 116) scopriamo poi che la presidente della federazione, durante la visita canonica, verifica che siano osservate “le norme applicative” stabilite da Vultum Dei quaerere. Ecco che cosa interessa. Non la vita di preghiera, non la penitenza, non il digiuno, non la qualità della vita fraterna, non le relazioni tra sorelle, non la fedeltà al carisma, ma l’aderenza alle nuove norme.
Circa, in particolare, la formazione iniziale, se la presidente scopre che, a suo insindacabile giudizio, qualcosa non va, come procede? Informa la superiora? Ne parla con le monache? No, “informerà la Santa Sede” (n. 117).
Che si tratti di un intervento dal significato punitivo lo si desume dall’uso ripetuto del verbo “deferire”. Se il monastero non si mostra disponibile e pronto ad accogliere tutti i comandi nel campo della formazione, la presidente “deferisce la cosa alla Santa Sede”, e lo stesso avviene “per coloro che sono chiamate a esercitare il servizio dell’autorità”. Insomma, controllo e dominio totali.
Interessante è poi scoprire che il potere della presidente della federazione arriva fino al punto di scegliere “i luoghi più adeguati” nei quali tenere i corsi di formazione (i monasteri non vanno bene? Pare di no. Infatti attualmente le federazioni scelgono luoghi “adeguati” quali alberghi e resort) e stabilire la durata dei corsi stessi. Quanto deve durare un corso? Una settimana? Un mese? Un anno? Non si sa. Ma niente paura: ci pensa la presidente della federazione.
Un’altra conseguenza chiara è che le monache dovranno uscire piuttosto spesso dal monastero. Stabilito (n. 133) che l’assemblea federale ha il compito di “promuovere un adeguato rinnovamento” (ma perché? Chi lo dice che il rinnovamento sia un valore?), il documento prevede ben tre tipi di assemblea: ordinaria, intermedia e straordinaria. In una logica che sembra appartenere più a un partito politico o a un sindacato che alla vita contemplativa, le monache sono coinvolte in un tourbillon di incontri assembleari che si aggiungono a tutte le altre uscite, per i corsi, le riunioni, le visite eccetera. Uno strano modo di tutelare e promuovere la vita di preghiera e contemplazione.
Molti altri sono i punti che negano nei fatti l’autonomia dei monasteri e ne mettono a rischio la vita religiosa. Si pensi alla figura della segretaria della federazione (che, come la presidente, dura in carica sei anni, contro i tre della maggior parte delle superiore dei monasteri), la quale può risiedere in un monastero di sua scelta, circostanza che ha determinato danni immensi: intrusioni, sotterfugi, confronti, conflitti tra segretaria e abbadessa.
In Cor orans la sezione dedicata alla separazione dal mondo (l’aspetto più significativo nella vita delle monache) è la terza, dove vediamo che la Santa Sede ha rimaneggiato l’istruzione Verbi sponsa del 1999.
Per i mass media è questa la parte che più delle altre ha fatto notizia, perché vi si trovano le norme sull’uso dei mezzi di comunicazione nei monasteri, ma dal punto di vista sostanziale ciò che conta è quanto si prevede a proposito di clausura papale, ovvero quella conforme alle norme stabilite dalla Sede apostolica.
Qui ciò che più colpisce è l’abolizione dell’aggettivo “grave” che in Verbi sponsa era ripetutamente usato a proposito di obbligatorietà della clausura, uscite e ingressi. Per esempio, se in precedenza si diceva che “la concessione della licenza di entrare e di uscire richiede sempre una causa giusta e grave” (VS n. 15), ora si parla soltanto di “giusta causa” (CO, n. 194).
Anche in questa sezione non mancano le contraddizioni (per esempio si dice che la vigilanza sull’osservanza della clausura spetta al vescovo diocesano o all’ordinario religioso, ma subito dopo si dice che in deroga a quanto disposto dal Codice di diritto canonico il vescovo e l’ordinario non intervengono nella concessione delle dispense) e le ambiguità, ma forse il vertice dello sconcerto lo si raggiunge nella sezione dedicata alla “formazione permanente” (altra definizione tratta dal mondo, come se fare la monaca fosse una professione) dove non si parla mai, ripeto mai, di preghiera. Si dice invece (n. 237) che “ogni monaca è incoraggiata ad assumere la responsabilità della propria crescita umana, cristiana e carismatica, attraverso il progetto di vita personale, il dialogo con le sorelle della comunità monastica, e in particolare con la Superiora maggiore, così come attraverso la direzione spirituale e gli appositi studi contemplati negli Orientamenti per la vita monastica contemplativa”. Ora, a parte la forma (gli studi contemplati per la vita contemplativa), provate a sostituire alla parola “monaca” la parola “manager”: vedrete che non cambierà gran che. La dimensione è tutta orizzontale, di tipo tecnico e funzionalistico. Non si parla di Dio, di adorazione, di vita di preghiera. Sembra che per fare la monaca l’importante sia frequentare “gli appositi studi”.
Il testo poi sembra non rendersi conto dei problemi pratici quando afferma (n. 263) che “compete alla Superiora maggiore con il suo Consiglio, tenendo conto di ogni singola candidata, stabilire i tempi e le modalità che l’aspirante trascorrerà in comunità e fuori dal monastero”. Si può immaginare il disturbo arrecato alla comunità monastica dal dentro-fuori, ma, soprattutto, viene da chiedersi: come può essere possibile questo doppio regime? Dove va a vivere una giovane quando è fuori se non è tanto ricca da permettersi un appartamento? E se poi viene chiamata a trascorrere alcuni mesi in monastero che cosa fa? Mantiene comunque un appartamento che non usa? Va in albergo? Va dai genitori? E se arriva dall’estero?
Il documento sembra scritto da chi non conosce, o non vuole conoscere, le reali condizioni di vita nei monasteri.
In un prossimo articolo le conclusioni di questo nostro excursus sulla vita e il destino dei monasteri alla luce delle nuove norme.
Aldo Maria Valli
Vultum Dei quaerere e Cor Orans: tra ambiguità e incongruenze
(secondo di tre articoli)
Nel precedente articolo ci siamo occupati del rischio che i monasteri femminili stanno correndo, sotto il profilo della loro autonomia e quindi della loro stessa vita, a causa dei contenuti di Vultum Dei quaerere, la costituzione apostolica sulla vita contemplativa del 29 giugno 2016, e di Cor orans, l’istruzione applicativa sulla vita contemplativa femminile, documenti che rendono obbligatoria l’affiliazione dei monasteri alle federazioni.
Proprio in Cor orans, balza agli occhi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “superino l’isolamento” (n. 7). Ma il fatto che un monastero si isoli, vista la sua natura, dovrebbe essere un valore da promuovere, non un limite da superare.
Troviamo poi la richiesta che i monasteri, tramite le federazioni, “promuovano l’osservanza regolare e la vita contemplativa” (n. 7), ma l’esperienza ha dimostrato che le federazioni non hanno fatto questo. In realtà esse hanno imposto uscite continue e confronti, hanno introdotto disturbi e squilibri, e in tal modo non hanno favorito la vita contemplativa, ma l’hanno piuttosto minata, perché uscite, riunioni, discussioni e corsi sono fattori che nulla hanno a che fare con la spiritualità di chi decide di ritirarsi dal mondo per vivere nella preghiera.
Ma il documento, soprattutto, mette a repentaglio l’autonomia giuridica del monastero. Leggiamo infatti che “l’autonomia giuridica deve essere costantemente verificata dalla Presidente [della federazione], a suo giudizio” (n. 43). Inoltre (n. 45) se le monache sono meno di cinque perdono il diritto di eleggere la propria superiora e “in tal caso la Presidente federale è tenuta a informare la Santa Sede” in vista della nomina di una “Commissione ad hoc”.
Proseguiamo. Al n. 54 leggiamo che l’affiliazione alla federazione “è una particolare forma di aiuto che la Santa Sede viene a stabilire in particolari situazioni in favore della comunità di un monastero sui iuris che presenta un’autonomia solo asserita, ma in realtà assai precaria o, di fatto, inesistente”. Ma quali sarebbero queste “particolari situazioni”? Chi le stabilisce? Secondo quali criteri? E chi può dire che un’autonomia è “solo asserita”? Se la presidente di una federazione stabilisce che una comunità ha un’autonomia “solo asserita” chi può assicurare che il suo sia un giudizio imparziale?
In realtà la preoccupazione principale sembra non quella di fare di tutto per garantire la vita delle comunità, ma di arrivare, attraverso lo strumento della federazione, alla loro soppressione. Leggiamo al n. 55: “L’affiliazione si configura come un sostegno di carattere giuridico che deve valutare se l’incapacità di gestire la vita del monastero autonomo in tutte le sue dimensioni sia solo temporanea o irreversibile, aiutando la comunità del monastero affiliato a superare le difficoltà o a disporre quanto è necessario per addivenire alla soppressione di detto monastero”. Capolavoro di ipocrisia: quello che è detto un “sostegno” per il “monastero autonomo” è invece, in pratica, l’organismo che ha su di esso il potere di vita o di morte.
E il potere della federazione è confermato al n. 56, dove si stabilisce che nella “Commissione ad hoc”, in parole povere un tribunale, dovrà entrare la “Presidente della Federazione”.
Un’espressione ambigua si trova al n. 70, dove scopriamo che “fra i criteri che possono concorrere a determinare un giudizio riguardo alla soppressione di un monastero” c’è la “fedeltà dinamica” nel vivere e trasmettere il carisma. Che significa “fedeltà dinamica”? La fedeltà è fedeltà. Se non c’è la fedeltà c’è l’infedeltà, il tradimento. Essere “dinamici”, nell’ottica di Cor orans, vuol dire forse adeguarsi al mondo? Cedere al modernismo? O piegarsi ai diktat della federazione?
Altra ambiguità al n. 72, dove, a proposito dei beni di un monastero soppresso, scopriamo che la Santa Sede può disporre di attribuirli “alla carità” oltre che alla federazione o alla “Chiesa locale”. Che significa “carità”? A chi andranno i beni? E in base a quali criteri?
Al n. 74 viene detto che la vigilanza “necessaria e giusta” sui monasteri deve essere “esercitata principalmente – se non esclusivamente – mediante la visita regolare di un’autorità esterna ai monasteri stessi”, e al n. 75 si precisa che tale compito spetta alla “Presidente della Congregazione monastica femminile”, “al superiore maggiore dell’Istituto maschile consociante” e “al vescovo diocesano”, ma al successivo n. 111 scopriamo che “la Presidente della Federazione, nel tempo stabilito, accompagna il Visitatore regolare nella visita canonica ai monasteri federati come convisitatrice”. In pratica, una supervisione che, ancora una volta, assegna un grande potere alla federazione.
Vediamola un po’ più di vicino, allora, questa federazione di monasteri. La sezione di Cor orans ad essa dedicata è la seconda, dove in primo piano viene messa (n. 86) l’esigenza che i monasteri “non rimangano isolati”, perché “valore irrinunciabile” è quello della “comunione”. Ma chi l’ha detto? La parola stessa, monastero, dal latino monastērĭum e dal greco antico μοναστήριον (monastḗrion), deriva da μόνος(mónos: solo, unico), e μονακός (monakós) vuol dire solitario, eremita. Il vero valore irrinunciabile del monastero non sta certamente nella comunione, né con altri monasteri né con altre realtà religiose, ma nella sua unicità e anche nel suo isolamento.
Ma le contraddizioni non finiscono qui. Al successivo n. 87 si dice che “la federazione è costituita da più monasteri autonomi che hanno affinità di spirito e di tradizione e, anche se non sono configurate necessariamente secondo un criterio geografico, per quanto possibile, non devono essere geograficamente distanti”. Di nuovo viene da chiedersi: perché? Che importanza può avere tutto questo? L’unico disegno che si vede dietro tali indicazioni, ancora, è di affermare il ruolo e la funzione della federazione. Un ruolo che arriva fino a garantire “l’aiuto nella formazione iniziale permanente” e promuovere “lo scambio di monache e di beni materiali”, con tanti saluti all’autonomia del monastero!
E a proposito di autonomia, enunciata a parole ma nei fatti negata, ecco che al n. 93 il documento svela le carte: “A norma di quanto disposto nella Costituzione apostolica Vultum Dei quaerere, tutti i monasteri inizialmente devono entrare in una Federazione”. Quell’”inizialmente” dice tutto: di fatto si tratta di un obbligo inderogabile. E l’affiliazione ha un significato precipuo: amministrare i beni dei monasteri.
Al n. 98 leggiamo: “Per tenere viva e rafforzare l’unione di monasteri (di nuovo: come se fosse questo lo scopo decisivo del monastero, ndr), attuando una delle finalità della Federazione, viene favorita tra i monasteri una certa comunicazione di beni, coordinata dalla Presidente federale”.
“Una certa comunicazione di beni”? Che significa? L’unica cosa chiara è che se ne deve occupare la federazione, nella persona della sua presidente.
E che dire del successivo n. 99? Eccolo: “La comunicazione dei beni in una federazione si attua mediante contributi, doni, prestiti che i monasteri offrono per altri monasteri che si trovano in difficoltà economica e per le esigenze comuni della Federazione”. Contributi, doni, prestiti? E chi decide chi dona a chi, chi presta a chi? E in quale misura? E per quali motivi? Ovviamente decide la federazione, che così acquisisce un ulteriore potere. Con tanti saluti, di nuovo, all’autonomia dei singoli monasteri.
Con gli esempi si potrebbe continuare a lungo. A un certo punto, sempre a proposito di beni (argomento principe), si stabilisce che presso la federazione dovrà essere costituito “un fondo economico (cassa federale)” il cui scopo è quello di “realizzare le finalità federative”. Quali? Non è chiaro. Molto chiaro è invece che il fondo sarà amministrato dalla presidente della federazione, specie per quanto riguarda (n. 109) “l’alienazione dei beni dei monasteri totalmente estinti”.
La presidente della federazione ha un potere enorme. Ma chi la controlla? Chi ha autorità su di lei? Al n. 110 scopriamo che sarà eletta “dall’Assemblea federale” e che “non è una Superiora maggiore”. Di fatto, la presidente della federazione sta al di sopra anche delle superiori maggiori, il che determina, di nuovo, un vulnus per l’autonomia e l’indipendenza del monastero, tanto è vero che (n. 141) ci saranno norme che le suddite saranno tenute ad osservare anche contro la volontà della propria abbadessa, e la presidente della federazione potrà addirittura decidere in merito al passaggio di una monaca da un monastero all’altro, anche a fronte di un rifiuto da parte della superiora maggiore (n. 122).
Pure a proposito delle visite (di ogni tipo: canoniche, materne, sororali) la discrezionalità della presidente della federazione (“ogni volta che la necessità lo richiede”) è totale. In più, al termine delle visite la presidente “indica per iscritto alla Superiora maggiore del monastero le soluzioni più adatte ai casi e alle situazioni emerse durante la visita e ne informa la Santa Sede” (n. 115). Insomma, la presidente comanda e la superiora esegue. E l’autorità del vescovo che fine ha fatto?
Nel successivo punto (n. 116) scopriamo poi che la presidente della federazione, durante la visita canonica, verifica che siano osservate “le norme applicative” stabilite da Vultum Dei quaerere. Ecco che cosa interessa. Non la vita di preghiera, non la penitenza, non il digiuno, non la qualità della vita fraterna, non le relazioni tra sorelle, non la fedeltà al carisma, ma l’aderenza alle nuove norme.
Circa, in particolare, la formazione iniziale, se la presidente scopre che, a suo insindacabile giudizio, qualcosa non va, come procede? Informa la superiora? Ne parla con le monache? No, “informerà la Santa Sede” (n. 117).
Che si tratti di un intervento dal significato punitivo lo si desume dall’uso ripetuto del verbo “deferire”. Se il monastero non si mostra disponibile e pronto ad accogliere tutti i comandi nel campo della formazione, la presidente “deferisce la cosa alla Santa Sede”, e lo stesso avviene “per coloro che sono chiamate a esercitare il servizio dell’autorità”. Insomma, controllo e dominio totali.
Interessante è poi scoprire che il potere della presidente della federazione arriva fino al punto di scegliere “i luoghi più adeguati” nei quali tenere i corsi di formazione (i monasteri non vanno bene? Pare di no. Infatti attualmente le federazioni scelgono luoghi “adeguati” quali alberghi e resort) e stabilire la durata dei corsi stessi. Quanto deve durare un corso? Una settimana? Un mese? Un anno? Non si sa. Ma niente paura: ci pensa la presidente della federazione.
Un’altra conseguenza chiara è che le monache dovranno uscire piuttosto spesso dal monastero. Stabilito (n. 133) che l’assemblea federale ha il compito di “promuovere un adeguato rinnovamento” (ma perché? Chi lo dice che il rinnovamento sia un valore?), il documento prevede ben tre tipi di assemblea: ordinaria, intermedia e straordinaria. In una logica che sembra appartenere più a un partito politico o a un sindacato che alla vita contemplativa, le monache sono coinvolte in un tourbillon di incontri assembleari che si aggiungono a tutte le altre uscite, per i corsi, le riunioni, le visite eccetera. Uno strano modo di tutelare e promuovere la vita di preghiera e contemplazione.
Molti altri sono i punti che negano nei fatti l’autonomia dei monasteri e ne mettono a rischio la vita religiosa. Si pensi alla figura della segretaria della federazione (che, come la presidente, dura in carica sei anni, contro i tre della maggior parte delle superiore dei monasteri), la quale può risiedere in un monastero di sua scelta, circostanza che ha determinato danni immensi: intrusioni, sotterfugi, confronti, conflitti tra segretaria e abbadessa.
In Cor orans la sezione dedicata alla separazione dal mondo (l’aspetto più significativo nella vita delle monache) è la terza, dove vediamo che la Santa Sede ha rimaneggiato l’istruzione Verbi sponsa del 1999.
Per i mass media è questa la parte che più delle altre ha fatto notizia, perché vi si trovano le norme sull’uso dei mezzi di comunicazione nei monasteri, ma dal punto di vista sostanziale ciò che conta è quanto si prevede a proposito di clausura papale, ovvero quella conforme alle norme stabilite dalla Sede apostolica.
Qui ciò che più colpisce è l’abolizione dell’aggettivo “grave” che in Verbi sponsa era ripetutamente usato a proposito di obbligatorietà della clausura, uscite e ingressi. Per esempio, se in precedenza si diceva che “la concessione della licenza di entrare e di uscire richiede sempre una causa giusta e grave” (VS n. 15), ora si parla soltanto di “giusta causa” (CO, n. 194).
Anche in questa sezione non mancano le contraddizioni (per esempio si dice che la vigilanza sull’osservanza della clausura spetta al vescovo diocesano o all’ordinario religioso, ma subito dopo si dice che in deroga a quanto disposto dal Codice di diritto canonico il vescovo e l’ordinario non intervengono nella concessione delle dispense) e le ambiguità, ma forse il vertice dello sconcerto lo si raggiunge nella sezione dedicata alla “formazione permanente” (altra definizione tratta dal mondo, come se fare la monaca fosse una professione) dove non si parla mai, ripeto mai, di preghiera. Si dice invece (n. 237) che “ogni monaca è incoraggiata ad assumere la responsabilità della propria crescita umana, cristiana e carismatica, attraverso il progetto di vita personale, il dialogo con le sorelle della comunità monastica, e in particolare con la Superiora maggiore, così come attraverso la direzione spirituale e gli appositi studi contemplati negli Orientamenti per la vita monastica contemplativa”. Ora, a parte la forma (gli studi contemplati per la vita contemplativa), provate a sostituire alla parola “monaca” la parola “manager”: vedrete che non cambierà gran che. La dimensione è tutta orizzontale, di tipo tecnico e funzionalistico. Non si parla di Dio, di adorazione, di vita di preghiera. Sembra che per fare la monaca l’importante sia frequentare “gli appositi studi”.
Il testo poi sembra non rendersi conto dei problemi pratici quando afferma (n. 263) che “compete alla Superiora maggiore con il suo Consiglio, tenendo conto di ogni singola candidata, stabilire i tempi e le modalità che l’aspirante trascorrerà in comunità e fuori dal monastero”. Si può immaginare il disturbo arrecato alla comunità monastica dal dentro-fuori, ma, soprattutto, viene da chiedersi: come può essere possibile questo doppio regime? Dove va a vivere una giovane quando è fuori se non è tanto ricca da permettersi un appartamento? E se poi viene chiamata a trascorrere alcuni mesi in monastero che cosa fa? Mantiene comunque un appartamento che non usa? Va in albergo? Va dai genitori? E se arriva dall’estero?
Il documento sembra scritto da chi non conosce, o non vuole conoscere, le reali condizioni di vita nei monasteri.
In un prossimo articolo le conclusioni di questo nostro excursus sulla vita e il destino dei monasteri alla luce delle nuove norme.
Aldo Maria Valli
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