Come mai noi che ci sentiamo una popolazione civile, che ci gloriamo della nostra cultura, abbiamo tollerato che sparisse da noi quello che era, in fondo, il fondamento della nostra vita spirituale?
Una volta qui in Italia si studiava latino nelle scuole, a partire dalle Medie inferiori; ora solo in pochi licei. Il latino è stato bandito dalle nostre scuole, e ancor più dalle nostre chiese. Ma se si rompe il legame con i Padri – della Patria, se si vuole, e soprattutto della Chiesa – si perde l’identità e ci si sente come orfani. Di chi siamo figli? O non siamo figli di alcuno? Sia come italiani, sia come fedeli nella Chiesa, la lingua latina era quello che manifestava una precisa identità culturale e religiosa. Conoscere il latino significava attingere la linfa vitale della nostra cultura dalle proprie radici.
Come una pianta non vive se le foglie non si nutrono dei sali minerali che provengono dal terreno, così anche la nostra generazione – che non nasce come un fungo dal nulla – si perde se smarrisce il contatto con il proprio passato. Se questo è vero per un popolo e una cultura, tanto più è vero per la santa Chiesa di Dio, che da quando ha rigettato il latino ha smarrito una profonda unità e la ricchezza della comunicazione liturgica. La liturgia della Chiesa infatti non è rivolta al mondo e tanto meno consiste in un dialogo col mondo: è rivolta a Dio. Nella liturgia della Chiesa gli uomini si rivolgono al Padre eterno e lo pregano affinché Egli continui a donare al mondo non solo benedizione e pace, ma soprattutto il Salvatore (il Figlio) e lo Spirito Santo. Dio non ha lingua: egli intende tutti gli idiomi e soprattutto il linguaggio del cuore; siamo noi uomini che dobbiamo entrare in questo “atto” divino e parteciparvi intensamente per ricevere tutto il dono che Dio ha preparato per noi, ossia Egli stesso nel suo Corpo, Sangue, anima e divinità. Tutto ciò si esprime perfettamente in una lingua che non è affatto “morta”, ma ben viva se si pensa che attraverso quelle parole e quei canti noi entriamo realmente in un rapporto vivo e drammatico con il Signore Gesù.
Si prega meglio in italiano o nelle lingue locali? Queste ultime si usano e si sono sempre usate nella preghiera personale, nella comunicazione intima con Gesù risorto, ma nella liturgia è la comunità, è la Chiesa intera che si esprime, si innalza, si pone come la “Sposa” che implora dallo Sposo ogni bene.
Nella Messa e nella liturgia non sono solo io-singolo, che vado a Dio, ma sono io-Chiesa che supplico e prego per tutti. E per entrare meglio in questo Mistero il latino è incomparabilmente un mezzo più adeguato, provato, sacro.
Quando io nacqui mi ritrovai in una Chiesa che parlava italiano, cantava italiano, suonava italiano con chitarre e organi elettrici. Le canzoni di Chiesa avevano la stessa melodia, più o meno, delle canzoni di Sanremo. Non protestai, perché tutti facevano così e dicevano che andava bene. Ma, crescendo, ho cambiato opinione. Mi sono imbattuto nel canto gregoriano. All’inizio mi era ostico. Poi vi entrai pian piano, ed ora non riesco più a cantare altro. Non è “fissazione”, ma la scoperta di un tesoro. Ne sono stato sempre più attratto. Quando mi fu dato in mano un Kyriale per cantare le Messe in gregoriano, inizialmente non feci caso ad un numero scritto in piccolo in caratteri romani che si trova in alto a destra. In alcuni casi era la X, che è il numero 10. Mi fu poi spiegato che cosa significasse; era il secolo in cui quel canto era stato composto. Fu per me una folgorazione: quel Kyrie veniva cantato, così come mi era giunto tra le mani, da più di mille anni! Quanti monaci, quanti fedeli avevano usato quel Kyrie? Innumerevoli, e in ogni parte del mondo. Quello stessissimo Kyrie è stato allora cantato da san Bernardo, da san Francesco, dalle mistiche renane, da santa Teresa di Gesù, da san Giovanni Bosco; è stato cantato dai contadini scozzesi e nelle missioni del Burkina Faso, da Vescovi e popolani, da Papi e donne di casa, in cattedrali e in pievi sperdute, in chiese di bambù e in altari da campo. Mi domandavo se un canto come, ad esempio, Tu sei la mia vita altro io non ho, che facciamo oggi nelle nostre parrocchie, potrà reggere il logorio di un millennio, e se sarà ancora cantato nelle chiese tra mille anni… Non credo.
E noi abbiamo gettato via tutto per… che cosa? Perso il latino, perso il gregoriano, è sgretolata l’unità.
Diranno senza dubbio che questa è un’esagerazione e che l’unità si fonda su ben altri valori. Certamente anche la Chiesa che celebrava le Messe in latino e cantava in gregoriano non era perfetta, e i peccati ci sono sempre stati; ma questo non è un argomento probante. Faccio solo il confronto tra quello che era e che abbiamo perduto, e quello che siamo e non abbiamo guadagnato. Nella lingua locale non viene espresso meglio il rapporto con Dio e la partecipazione all’ «atto liturgico». La Messa è un evento, un fatto, un atto: non mio, ma di Dio. In quell’atto io sono chiamato ad entrare e parteciparvi, ricevendo, in modo passivo (ma della passività terribile che è la fede, ossia l’accoglienza del Mistero) il Corpo di Cristo e la salvezza eterna. Nella lingua locale tende a prevalere invece la concettualizzazione, la comprensione della singola parola, a discapito del Mistero, della sacralità e della parola evocativa. La Messa nella lingua locale è divenuta più un parlato che un fatto, una seduta piena di suoni piuttosto che un ingresso nella Realtà. Dicono anche che nella Messa in lingua latina le persone non capivano nulla e le vecchine recitavano il Rosario durante la Messa. Sante vecchine! Lo facessero anche oggi, sarebbe una benedizione. Nelle fasi di silenzio adorante della Messa, mentre il sacerdote recitava sotto voce delle preghiere al Padre, ma a nome di tutto il popolo, la vecchina metteva tutto il suo cuore e la sua fede dicendo mentalmente o sottovoce «Ave Maria». È un peccato, questo? Oggi non si dice il Rosario durante la Messa, ma la testa sovente va altrove, perché quello che dice il sacerdote nelle omelie è sovente insipido e noioso, e la distrazione durante il rimanente della Messa assale… Ci si può distrarre anche durante la preghiera eucaristica, seppur detta in italiano, durante l’elevazione e anche dopo la Comunione.
È interessante notare, infine, quello che dicono diversi esorcisti: quando essi fanno le preghiere in italiano, secondo il nuovo rituale distribuito qualche anno fa ad uso degli esorcisti, non succede nulla; mentre se passano agli esorcismi che si facevano fino a poco tempo fa, in latino (e che parole potenti venivano usate!), allora il maligno si scatena. Curioso: il demonio conosce assai bene il latino, e lo teme. Evidentemente egli ne sa di più dei liturgisti odierni. Il demonio, così, fa da ottimo sponsor per il ritorno della lingua sacra nella liturgia. Quando sarà che il latino, con i meravigliosi canti gregoriani, gettato fuori dalla porta, rientrerà finalmente dalla finestra?
Ci salveranno le vecchie zie, intitolava Leo Longanesi un suo saggio, ripreso come titolo poi da Gnocchi e Palmaro. Chissà che per il latino invece non ci salvino il demonio e le sante vecchiette col rosario in mano.
Una volta qui in Italia si studiava latino nelle scuole, a partire dalle Medie inferiori; ora solo in pochi licei. Il latino è stato bandito dalle nostre scuole, e ancor più dalle nostre chiese. Ma se si rompe il legame con i Padri – della Patria, se si vuole, e soprattutto della Chiesa – si perde l’identità e ci si sente come orfani. Di chi siamo figli? O non siamo figli di alcuno? Sia come italiani, sia come fedeli nella Chiesa, la lingua latina era quello che manifestava una precisa identità culturale e religiosa. Conoscere il latino significava attingere la linfa vitale della nostra cultura dalle proprie radici.
Come una pianta non vive se le foglie non si nutrono dei sali minerali che provengono dal terreno, così anche la nostra generazione – che non nasce come un fungo dal nulla – si perde se smarrisce il contatto con il proprio passato. Se questo è vero per un popolo e una cultura, tanto più è vero per la santa Chiesa di Dio, che da quando ha rigettato il latino ha smarrito una profonda unità e la ricchezza della comunicazione liturgica. La liturgia della Chiesa infatti non è rivolta al mondo e tanto meno consiste in un dialogo col mondo: è rivolta a Dio. Nella liturgia della Chiesa gli uomini si rivolgono al Padre eterno e lo pregano affinché Egli continui a donare al mondo non solo benedizione e pace, ma soprattutto il Salvatore (il Figlio) e lo Spirito Santo. Dio non ha lingua: egli intende tutti gli idiomi e soprattutto il linguaggio del cuore; siamo noi uomini che dobbiamo entrare in questo “atto” divino e parteciparvi intensamente per ricevere tutto il dono che Dio ha preparato per noi, ossia Egli stesso nel suo Corpo, Sangue, anima e divinità. Tutto ciò si esprime perfettamente in una lingua che non è affatto “morta”, ma ben viva se si pensa che attraverso quelle parole e quei canti noi entriamo realmente in un rapporto vivo e drammatico con il Signore Gesù.
Si prega meglio in italiano o nelle lingue locali? Queste ultime si usano e si sono sempre usate nella preghiera personale, nella comunicazione intima con Gesù risorto, ma nella liturgia è la comunità, è la Chiesa intera che si esprime, si innalza, si pone come la “Sposa” che implora dallo Sposo ogni bene.
Nella Messa e nella liturgia non sono solo io-singolo, che vado a Dio, ma sono io-Chiesa che supplico e prego per tutti. E per entrare meglio in questo Mistero il latino è incomparabilmente un mezzo più adeguato, provato, sacro.
Quando io nacqui mi ritrovai in una Chiesa che parlava italiano, cantava italiano, suonava italiano con chitarre e organi elettrici. Le canzoni di Chiesa avevano la stessa melodia, più o meno, delle canzoni di Sanremo. Non protestai, perché tutti facevano così e dicevano che andava bene. Ma, crescendo, ho cambiato opinione. Mi sono imbattuto nel canto gregoriano. All’inizio mi era ostico. Poi vi entrai pian piano, ed ora non riesco più a cantare altro. Non è “fissazione”, ma la scoperta di un tesoro. Ne sono stato sempre più attratto. Quando mi fu dato in mano un Kyriale per cantare le Messe in gregoriano, inizialmente non feci caso ad un numero scritto in piccolo in caratteri romani che si trova in alto a destra. In alcuni casi era la X, che è il numero 10. Mi fu poi spiegato che cosa significasse; era il secolo in cui quel canto era stato composto. Fu per me una folgorazione: quel Kyrie veniva cantato, così come mi era giunto tra le mani, da più di mille anni! Quanti monaci, quanti fedeli avevano usato quel Kyrie? Innumerevoli, e in ogni parte del mondo. Quello stessissimo Kyrie è stato allora cantato da san Bernardo, da san Francesco, dalle mistiche renane, da santa Teresa di Gesù, da san Giovanni Bosco; è stato cantato dai contadini scozzesi e nelle missioni del Burkina Faso, da Vescovi e popolani, da Papi e donne di casa, in cattedrali e in pievi sperdute, in chiese di bambù e in altari da campo. Mi domandavo se un canto come, ad esempio, Tu sei la mia vita altro io non ho, che facciamo oggi nelle nostre parrocchie, potrà reggere il logorio di un millennio, e se sarà ancora cantato nelle chiese tra mille anni… Non credo.
E noi abbiamo gettato via tutto per… che cosa? Perso il latino, perso il gregoriano, è sgretolata l’unità.
Diranno senza dubbio che questa è un’esagerazione e che l’unità si fonda su ben altri valori. Certamente anche la Chiesa che celebrava le Messe in latino e cantava in gregoriano non era perfetta, e i peccati ci sono sempre stati; ma questo non è un argomento probante. Faccio solo il confronto tra quello che era e che abbiamo perduto, e quello che siamo e non abbiamo guadagnato. Nella lingua locale non viene espresso meglio il rapporto con Dio e la partecipazione all’ «atto liturgico». La Messa è un evento, un fatto, un atto: non mio, ma di Dio. In quell’atto io sono chiamato ad entrare e parteciparvi, ricevendo, in modo passivo (ma della passività terribile che è la fede, ossia l’accoglienza del Mistero) il Corpo di Cristo e la salvezza eterna. Nella lingua locale tende a prevalere invece la concettualizzazione, la comprensione della singola parola, a discapito del Mistero, della sacralità e della parola evocativa. La Messa nella lingua locale è divenuta più un parlato che un fatto, una seduta piena di suoni piuttosto che un ingresso nella Realtà. Dicono anche che nella Messa in lingua latina le persone non capivano nulla e le vecchine recitavano il Rosario durante la Messa. Sante vecchine! Lo facessero anche oggi, sarebbe una benedizione. Nelle fasi di silenzio adorante della Messa, mentre il sacerdote recitava sotto voce delle preghiere al Padre, ma a nome di tutto il popolo, la vecchina metteva tutto il suo cuore e la sua fede dicendo mentalmente o sottovoce «Ave Maria». È un peccato, questo? Oggi non si dice il Rosario durante la Messa, ma la testa sovente va altrove, perché quello che dice il sacerdote nelle omelie è sovente insipido e noioso, e la distrazione durante il rimanente della Messa assale… Ci si può distrarre anche durante la preghiera eucaristica, seppur detta in italiano, durante l’elevazione e anche dopo la Comunione.
È interessante notare, infine, quello che dicono diversi esorcisti: quando essi fanno le preghiere in italiano, secondo il nuovo rituale distribuito qualche anno fa ad uso degli esorcisti, non succede nulla; mentre se passano agli esorcismi che si facevano fino a poco tempo fa, in latino (e che parole potenti venivano usate!), allora il maligno si scatena. Curioso: il demonio conosce assai bene il latino, e lo teme. Evidentemente egli ne sa di più dei liturgisti odierni. Il demonio, così, fa da ottimo sponsor per il ritorno della lingua sacra nella liturgia. Quando sarà che il latino, con i meravigliosi canti gregoriani, gettato fuori dalla porta, rientrerà finalmente dalla finestra?
Ci salveranno le vecchie zie, intitolava Leo Longanesi un suo saggio, ripreso come titolo poi da Gnocchi e Palmaro. Chissà che per il latino invece non ci salvino il demonio e le sante vecchiette col rosario in mano.
[Fonte: Europa cristiana by MiL]
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