12-03-2017)
I test prenatali per scoprire il sesso del feto non vanno bene perché possono portare ad aborti selettivi, decisi da genitori che preferiscono un bambino a una bambina, o viceversa. Se, invece, quegli stessi test vengono eseguiti per verificare la possibile esistenza di una sindrome di Down o di altre trisomie, allora non c’è problema. È la contraddittoria conclusione del Nuffield Council on Bioethics, un’organizzazione britannica indipendente, che però è in parte finanziata con soldi pubblici e le cui raccomandazioni su particolari temi etici hanno spesso influenzato le decisioni dei partiti d’Oltremanica. Per il Nuffield Council ci sono insomma discriminazioni e discriminazioni: alcune da biasimare (giustamente), altre che possono essere legittimate, edulcorandole con un velo di ipocrisia.
Una logica fin troppo diffusa, come denuncia Stop Discriminating Down, un progetto di DownPride e della Fondazione Jerome Lejeune (intitolata al grande genetista francese, scopritore della causa della trisomia 21 e proclamato Servo di Dio dalla Chiesa): «Il consenso è unanime nel voler denunciare l’aborto selettivo. Nessuno sosterrebbe, per promuovere la “libera scelta” dei genitori, di abortire una bambina perché non è di sesso maschile. Stranamente, quando applichiamo questo stesso ragionamento alla sindrome di Down, la logica cambia totalmente. Discriminare un bambino sulla base della variazione dei suoi cromosomi diventa una “libera scelta” individuale, che viene persino apprezzata. Com’è possibile questo capovolgimento”, si chiede in una petizione.
Fatto sta che il National Health Service, il servizio sanitario del Regno Unito, offrirà - a partire dal 2018 - questo tipo di controllo prenatale a tutte le donne che presentano determinati fattori di rischio a livello genetico. Il test comporta l’esame del Dna fetale nel sangue materno intorno alla nona-decima settimana di gravidanza. Si tratta di una procedura considerata non invasiva (non-invasive prenatal testing, Nipt, secondo l’acronimo inglese; in Italia, nel luglio 2015, ne sono state pubblicate le linee guida), perché presenta meno rischi rispetto all’amniocentesi e alla villocentesi, che possono causare aborti spontanei e altri danni al bambino in grembo. Tuttavia, qualora questi test riscontrino la possibilità di un’anomalia genetica come la sindrome di Down, di Edwards o di Patau, ci sarà pur sempre bisogno del prelievo del liquido amniotico o dei villi coriali per accertarne l’effettiva esistenza. In ogni caso, il fine sottostante ai Nipt e ai vari metodi di diagnosi prenatale è sempre lo stesso: l’aborto selettivo, perciò eugenetico.
Lo sanno bene al Nuffield Council, che ha rilevato come nel Regno Unito il 74% delle donne in gravidanza scelgono di fare un test per la sindrome di Down e che, tra l’89% e il 95%, decidono di abortire quando la diagnosi svela la presenza della trisomia 21. Percentuali simili a quelle di altri Paesi europei, come la Francia, dove le autorità sono arrivate a proibire la diffusione di uno spot di sensibilizzazione sulle persone Down, la Danimarca e l’Islanda, dove gli aborti selettivi di bambini Down oscillano tra il 98% e il 100%.
Ma dicevamo dell’ipocrisia. Il Nuffield Council stima che grazie ai Nipt saranno individuati circa 200 feti in più con sindrome di Down e che si eviteranno 17 aborti spontanei collegati a diagnosi quali l’amniocentesi: ma evita di ricordare che quest’ultima non è certo obbligatoria (se non fai l’amniocentesi, non corri il relativo rischio) e, sulla base delle percentuali già citate, rischiano di essere abortiti tra i 178 e i 190 bambini in più! A riprova che i bioeticisti britannici sanno di avere la coda di paglia, basta leggere quanto scrivono: “Rendere disponibili i Nipt nel sistema sanitario nazionale potrebbe essere percepito come un messaggio negativo e offensivo circa il valore delle persone portatrici delle sindromi che vengono testate. Le persone disabili e le loro famiglie potrebbero essere più vulnerabili alla discriminazione, allo stigma o agli abusi se i Nipt aumenteranno la percezione che le persone sono ‘da biasimare’ perché hanno un bambino con una disabilità”. E raccomandano al governo di aiutare i disabili con specialisti sociosanitari e di “contrastare la discriminazione, l’esclusione e gli atteggiamenti sociali negativi”.
Come dire che il Nuffield Council suggerisce alla politica di contrastare la cultura veicolata dal Nuffield Council… Una cultura che tratta gli esseri umani alla stregua di prodotti che si possono scartare, subordina la nascita di un bambino alla sua mappa cromosomica, stabilisce che certe vite sono degne di essere vissute e altre no, come stiamo tristemente constatando anche con l’attuale dibattito sull’eutanasia nel nostro Paese. È aprendo la porta a concezioni come queste che la società dimentica l’incancellabile dignità di ogni persona umana e la sua capacità di amare ed essere amata.
http://www.lanuovabq.it
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