di Giovanni Scalese (27/03/2017)
Un paio di settimane fa Aldo Maria Valli ha pubblicato sul suo blog un bel post, in cui, attraverso l’allegoria del sogno, esprime la nostalgia per una normalità che nella Chiesa odierna sembrerebbe divenuta cosí rara da essere costretti a sognarla. Si tratta di venti punti sui quali è difficile non trovarsi d’accordo: sono cose talmente ovvie (o, almeno, tali erano fino a pochi anni fa), che non ci dovrebbe essere bisogno di “sognarle”. Che i parroci debbano stare vicini alle coppie che decidono di sposarsi in chiesa; che le parole del vangelo siano chiare (e sicure) e vadano interpretate nel loro evidente significato; che la liturgia abbia la sua sacralità, e quindi tutti, dal Papa fino all’ultimo chierichetto, debbano assumere un atteggiamento consono; che le pontificie accademie debbano farsi promotrici dei piú autentici valori morali, ecc. ecc., sono cose scontate per ogni buon cattolico. Talmente scontate che non dovremmo star qui a parlarne. E invece, nel momento storico che ci troviamo a vivere, sono diventate oggetto di nostalgia, visto che la “normalità” è diventata un’altra, e coincide con l’opposto di tutte quelle ovvietà (che pertanto finiscono per essere considerate eccezioni, stravaganze, singolarità). Grazie, perciò, a Valli per averci ricordato che molto di ciò che oggi viene spacciato per normale, normale non lo è affatto.
Però… c’è un però. Cinque anni fa, in questi stessi giorni, Valli aveva fatto un altro sogno (evidentemente, l’arrivo della primavera stimola in lui l’attività onirica). Lo aveva pubblicato sul sito Vino nuovo. Quel sogno era stato profetico: con un anno esatto di anticipo, aveva previsto l’esito del futuro conclave. E diciamo che, grosso modo, ci aveva preso. In quel caso si trattava di dieci punti: le dieci decisioni del nuovo Papa che sarebbe uscito dal conclave. Beh, quelle dieci decisioni sono l’esatto contrario di quanto sognato quest’anno. Un esempio. Nel sogno di due settimane fa, a un certo punto, Valli dice:
Vado a pranzo con un collega e mi rivela che il papa, per non distinguersi, ha deciso di andare a vivere nel palazzo apostolico, come tutti i suoi predecessori.
Ebbene, il sogno di cinque anni fa si apriva in senso diametralmente opposto:
Per prima cosa il nuovo papa decise di traslocare. Eletto dopo un conclave estenuante, in mezzo a mille polemiche e contrasti, e dopo che il regno del suo predecessore era finito tra lotte di potere tanto sotterranee quanto violente all’interno della curia, decise di dire addio al Vaticano. Basta, bisognava dare un segnale. Fosse stato per lui, si sarebbe trasferito ad Assisi, la città del poverello, ma Pietro, dopo tutto, ha conosciuto il martirio a Roma. Dunque il nuovo papa ordinò: “Roma deve restare la città del successore di Pietro, ma niente piú Vaticano. Vado a vivere a San Giovanni in Laterano. Lí ho la mia cattedra in quanto vescovo di Roma, e siccome il papa è papa perché vescovo di Roma, e non viceversa, è giusto che abiti in Laterano”.
E questa era solo la prima decisione. A essa ne seguivano altre nove, tutte nel segno della piú trita utopia pauperistica: “niente pomposità, niente guardie, niente gendarmi, niente maggiordomi di sua santità, niente corte pontificia”; “revoca di tutti gli incarichi di curia e radicale riduzione degli uffici”; “rinuncia al titolo di capo di Stato”; “convocazione di un grande concilio ecumenico Vaticano III” (non a Roma, ma in Terra Santa); “no al concordato”; per il nuovo conclave, “appuntamento per tutti in piazza San Giovanni, all’aperto”; per quanto riguarda il Vaticano, “niente piú barriere, niente piú cancelli”; al posto di auto lussuose, papamobili ed elicotteri, l’uso di autobus, tram e metropolitana; prima enciclica di poche parole: «In quel tempo, Gesú, entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: ‘La mia casa sarà casa di preghiera’. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri”».
Questo è ciò che Valli sognava cinque anni fa. Evidentemente, ne ha fatta di strada; e non possiamo che rallegrarcene. Sapientis est mutare consilium. Però qualche puntualizzazione, a mio parere, andrebbe pur fatta. Per carità, non mi si fraintenda: non chiedo a Valli di abiurare o anche solo ritrattare le sue precedenti convinzioni. Ormai l’abiura non la si esige piú neanche dagli eretici e dagli scismatici. Però non mi sembra neppure giusto fare finta di nulla, come se niente fosse. È piú che evidente che c’è stata una evoluzione nella sensibilità e nel pensiero di Valli, e io credo che questo vada fatto notare. Valli è un giornalista; e un giornalista, secondo me, ha dei doveri nei confronti dei propri lettori: innanzi tutto, il dovere di spiegare loro il senso e i motivi di certi ripensamenti. Mi spiego. Se ora ci si lamenta di alcune anomalie nella vita della Chiesa, quando solo cinque anni fa quelle stesse anomalie erano state proposte e auspicate come segni di rinnovamento, bisogna spiegare ai lettori che cosa è successo: perché quelli che cinque anni fa erano dei traguardi da raggiungere si sono trasformati oggi in anomalie di cui lagnarsi? Non vorrei che si cadesse nell’errore commesso nei confronti di alcune ideologie dell’età moderna, in particolare il marxismo: molti sono ancora convinti che il “socialismo reale” (quello che era stato instaurato in Unione Sovietica e nei paesi satelliti) fosse un tradimento dell’ideologia (considerata in sé buona), un tradimento dovuto alle responsabilità e ai limiti degli uomini che gestivano la cosa pubblica in quei paesi. In pratica, l’errore stava, secondo costoro, nell’applicazione dell’ideologia e non nell’ideologia stessa.
Ebbene, qualcosa di simile potrebbe accadere anche nella Chiesa. Le idee espresse da Valli nel suo sogno del 2012 costituirebbero l’ideale evangelico della Chiesa; le anomalie che Valli lamenta nella Chiesa odierna dipenderebbero solo dai limiti degli uomini che erano chiamati a dare attuazione a quell’ideale. Personalmente invece credo che le anomalie che oggi riscontriamo nella Chiesa sono proprio conseguenza di quelle idee. Il sogno di cinque anni fa non rappresentava un ideale evangelico; era piuttosto un distillato di pura ideologia, di cui ora stiamo verificando i risultati. E da questo punto di vista, penso che sia provvidenziale che la Chiesa faccia questa esperienza: essa serve ad aprire gli occhi di molti che hanno creduto in quelle idee. Pensavano che fossero il vangelo nella sua purezza, liberato dalle incrostazioni religiose, politiche e culturali che gli si erano depositate sopra nel corso dei secoli; in realtà non si trattava che di una utopia, che aveva ripreso qualche spunto dal vangelo, per farsi piú facilmente accettare, ma che aveva come scopo di stravolgere la Chiesa.
Ovviamente tale ideologia non l’ha inventata Valli, ma esisteva prima di lui, e lui ne era rimasto infatuato come molti altri cattolici (laici, preti, vescovi e cardinali). E neanche è da credere, come potrebbero fare i tradizionalisti, che si tratti di un frutto del Concilio. Essa esisteva già da molto tempo prima che il Vaticano II venisse convocato. Anzi, si potrebbe pensare che il Concilio sia stato proprio il tentativo — fallito — da essa usato per imporsi alla Chiesa. E, dopo il Concilio, ha continuato a diffondersi (proponendosi addirittura come l’interpretazione autentica del Vaticano II, come “spirito del Concilio”), nonostante la resistenza opposta dai Papi che si sono avvicendati, fino a trionfare in questi ultimi anni. E ora, vedendo i risultati dell’applicazione di quella ideologia, viene la nostalgia per una “normalità” che prima si criticava, scambiandola per il ritardo della Chiesa sulla storia (chi non ricorda una delle ultime, infelicissime, uscite del Card. Martini: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni»?). Ora che la Chiesa, finalmente, cammina al passo con i tempi, ci si accorge che qualcosa non va. Ma non va, non perché qualcosa sia andato storto nell’applicazione del progetto; non va, semplicemente perché il progetto era sbagliato.
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