di Tommaso Scandroglio
15-12-2016
Nel giugno di quest’anno il Canada ha legalizzato definitivamente l’eutanasia e il suicidio assistito. L’Assemblea episcopale del Canada Atlantico – una regione di questa nazione – il 27 novembre scorso ha pubblicato un documento dal titolo: “Una riflessione pastorale sull’assistenza medica nel morire”. La nota, di carattere pastorale ed anche inevitabilmente dottrinale, è stata sottoscritta da dieci vescovi.
Vediamo cosa dice. Inizialmente si afferma che “Papa Francesco ci ricorda che quello che accompagna gli altri deve rendersi conto che la situazione di ogni persona davanti a Dio e la sua vita di grazia sono misteri che nessuno può conoscere completamente dall'esterno. Di conseguenza, non dobbiamo dare giudizi sulla responsabilità delle persone e la colpevolezza”. Poi si ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Gravi disturbi psichici, l'angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (2282).
Fin qui bene, ma ecco scattare il solito schemino collaudato (vedi omosessualità e divorziati risposati): dalla doverosa astensione sul giudizio soggettivo, cioè sul giudizio in merito alla responsabilità personale, si scivola alla richiesta di astensione sul giudizio oggettivo, quello che invece riguarda la condotta malvagia in sé. Dall’accoglienza dell’errante all’accoglienza dell’errore.
Quest’ultimo aspetto è comprovato dal fatto che i vescovi del Canada Atlantico offrono un accompagnamento sacramentale per le persone che vogliono accedere all’eutanasia o al suicidio assistito. Ma, come vedremo, la scelta di morire è incompatibile con la ricezione dei sacramenti indicati dall’episcopato canadese. Ritenere giusto invece amministrare i sacramenti a persone che vogliono morire significa appunto giustificare l’eutanasia.
Quali sacramenti si vogliono amministrare al futuro de cuius? Si inizia con la confessione e la nota pastorale dichiara con sicumera che “il sacramento della Penitenza è per il perdono dei peccati passati, non per quelli che devono ancora essere compiuti”. La ragione qui vacilla. Vero è che la confessione assolve i peccati passati e non futuri, però se uno ha in animo di togliersi la vita questa intenzione è già di suo peccaminosa e riguarda il presente. E dunque se un sacerdote confessa Tizio che vuole chiedere l’eutanasia, la confessione, perché sia valida, esige che il penitente receda dal proposito di farla finita.
Poi si passa all’Unzione degli infermi. I vescovi ricordano ancora il Catechismo: questo sacramento “presuppone il proprio desiderio di seguire Cristo anche nella passione, sofferenza e morte; è espressione di fiducia e di dipendenza da Dio in circostanze difficili (CCC, n. 1520-1523)”. Ma Cristo non si è ucciso, non ha cercato direttamente la propria morte, bensì ha voluto la nostra salvezza sopportando di morire per noi. E dunque come può essere imitatio Christi il comportamento del suicida? Come può essere poi che ungendo il suicida si attui quella “configurazione alla passione redentrice del Salvatore” di cui parla il Catechismo (1521)? Inoltre, come sempre ricorda il Catechismo citando il Concilio di Trento e la Lettera di Giacomo, grazie a questo sacramento il malato «se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (1520, Gc 5, 15). Ma per il perdono dei peccati servono le disposizioni di cui sopra, cioè il fermo proposito di non peccare più e quindi di non voler più morire. Questo aspetto è anche confermato dal fatto che il Codice di Diritto Canonico indica come finalità del sacramento la salvezza del sofferente (can. 998), ma chi muore in peccato mortale – ed il suicidio è materia grave – vive una condizione che è incompatibile con la salvezza e dunque con la finalità di questo sacramento. Ancora più esplicito è il canone n. 1007: “Non si conferisca l’unzione degli infermi a coloro che dovessero persistere ostinatamente in un peccato grave manifesto”. Chi chiede di morire rientra a pieno titolo tra i soggetti colpiti da questo divieto.
Poi i vescovi consigliano di comunicare la persona che vorrà morire. Però chi è in stato di peccato mortale non può comunicarsi perché, come ricorda San Paolo, «chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore […] mangia e beve la propria condanna» (1 Cor. 11,27-29). E’ lo stesso impedimento che riguarda i divorziati risposati.
I vescovi più sopra ricordavano che le situazioni di dolore fisico e psicologico possono attenuare la responsabilità di chi chiede l’eutanasia e dunque – così implicitamente argomentano – mancando la piena avvertenza della gravità del gesto e il deliberato consenso, offuscato appunto dalle particolari condizioni psicologiche di patimento, non c’è peccato mortale. A parte che l’affievolimento della responsabilità personale non è l’eliminazione di detta responsabilità, c’è da ricordare che diritto e morale, nonché pastorale, comandano di impedire la morte di una persona, lucida o non lucida che sia, cosciente o incosciente del suo gesto malvagio. Anzi, se uno non è in sé a maggior ragione occorre intervenire perché non si tolga la vita.
Inoltre se una persona è tanto annichilita dal dolore da non comprendere il senso di quello che sta per fare ed è quasi costretta a farlo per la sofferenza patita, fisica o psicologica che sia, ciò significa che la sua volontà non è libera e quindi anche per la legislazione del Canada non può essere ucciso perché non c’è consenso libero e consapevole.
I vescovi canadesi insistono sull’ “accompagnamento pastorale” di chi vuole morire. Bene stare vicino sino alla fine a chi vuole essere ucciso, ma per allontanarlo dal suo proposito suicida utilizzando a tal fine anche l’ultimo minuto della sua vita, non certo per accompagnarlo al suicidio assistito o all’eutanasia, altrimenti è favoreggiamento, è collaborazione al male. E, come rammenta il Catechismo, “la cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale” (2282). Accompagnare sacramentalmente il suicida è come accompagnare in auto una prostituta sul luogo di meretricio (e vi sono sacerdoti che si sono cimentati anche in questa vera e propria pastorale di strada). Un uso improprio di uno strumento di santificazione.
I vescovi del Canada non sono gli unici che si sono costruiti una pastorale che piega e sfregia i sacramenti per fini eutanasici. Il teologo belga Padre Gabriel Ringlet da tempo accompagna i pazienti che chiedono l’eutanasia. In una intervista ebbe a dire che “non sono assolutamente a favore della eutanasia. Ma dico che ci sono delle situazioni di sofferenza, talmente estreme, che non v’è altra soluzione”. E si era anche inventato un liturgia eutanasica: “In queste condizioni – spiegò - può aiutare anche una liturgia rituale. Prendo allora la parola, chiedo a ciascun presente se vuole dire qualcosa. Si può suggerire una preghiera, la lettura di una poesia, una unzione di olio”. Una vera e propria benedizione dell’eutanasia, non del morituro.
Il vescovo dell’episcopato del Canada Atlantico, Mons. Claude Champagne, ha dichiarato alla stampa che il loro modello è Papa Francesco e che per questo documento si sono ispirati all’Amoris Laetitia. Il lettore attento avrà quindi compreso che ormai esiste una esegesi sacramentale consolidata nata dalla lettura di questa esortazione apostolica applicabile ad infinte situazione peccaminose, oltre a quella riguardante i divorziati risposati. La presunta mancanza di consapevolezza in merito alla gravità di una condotta e una ancor più presunta mancanza di libertà di scelta comportano un affievolimento della responsabilità soggettiva. Mancando questi due elementi, non si può più parlare di peccato mortale e dunque porte aperte alla ricezione di ogni sacramento. Ma vi sono alcuni atti che di per sé – al di là della consapevolezza di chi li compie – sono intrinsecamente disordinati, cioè oggettivamente contrastano con l’ordine, con la santità dei sacramenti e quindi sono incompatibili con essi. I rapporti extra-coniugali e il suicidio sono tra questi.
In secondo luogo è compito della pastorale, prima di amministrare i sacramenti, far recuperare al credente la sua libertà di scelta e la piena consapevolezza della malvagità di alcuni atti. Non certo aiutarlo con l’abuso dei sacramenti a tirare le cuoia.
Nel giugno di quest’anno il Canada ha legalizzato definitivamente l’eutanasia e il suicidio assistito. L’Assemblea episcopale del Canada Atlantico – una regione di questa nazione – il 27 novembre scorso ha pubblicato un documento dal titolo: “Una riflessione pastorale sull’assistenza medica nel morire”. La nota, di carattere pastorale ed anche inevitabilmente dottrinale, è stata sottoscritta da dieci vescovi.
Vediamo cosa dice. Inizialmente si afferma che “Papa Francesco ci ricorda che quello che accompagna gli altri deve rendersi conto che la situazione di ogni persona davanti a Dio e la sua vita di grazia sono misteri che nessuno può conoscere completamente dall'esterno. Di conseguenza, non dobbiamo dare giudizi sulla responsabilità delle persone e la colpevolezza”. Poi si ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Gravi disturbi psichici, l'angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida” (2282).
Fin qui bene, ma ecco scattare il solito schemino collaudato (vedi omosessualità e divorziati risposati): dalla doverosa astensione sul giudizio soggettivo, cioè sul giudizio in merito alla responsabilità personale, si scivola alla richiesta di astensione sul giudizio oggettivo, quello che invece riguarda la condotta malvagia in sé. Dall’accoglienza dell’errante all’accoglienza dell’errore.
Quest’ultimo aspetto è comprovato dal fatto che i vescovi del Canada Atlantico offrono un accompagnamento sacramentale per le persone che vogliono accedere all’eutanasia o al suicidio assistito. Ma, come vedremo, la scelta di morire è incompatibile con la ricezione dei sacramenti indicati dall’episcopato canadese. Ritenere giusto invece amministrare i sacramenti a persone che vogliono morire significa appunto giustificare l’eutanasia.
Quali sacramenti si vogliono amministrare al futuro de cuius? Si inizia con la confessione e la nota pastorale dichiara con sicumera che “il sacramento della Penitenza è per il perdono dei peccati passati, non per quelli che devono ancora essere compiuti”. La ragione qui vacilla. Vero è che la confessione assolve i peccati passati e non futuri, però se uno ha in animo di togliersi la vita questa intenzione è già di suo peccaminosa e riguarda il presente. E dunque se un sacerdote confessa Tizio che vuole chiedere l’eutanasia, la confessione, perché sia valida, esige che il penitente receda dal proposito di farla finita.
Poi si passa all’Unzione degli infermi. I vescovi ricordano ancora il Catechismo: questo sacramento “presuppone il proprio desiderio di seguire Cristo anche nella passione, sofferenza e morte; è espressione di fiducia e di dipendenza da Dio in circostanze difficili (CCC, n. 1520-1523)”. Ma Cristo non si è ucciso, non ha cercato direttamente la propria morte, bensì ha voluto la nostra salvezza sopportando di morire per noi. E dunque come può essere imitatio Christi il comportamento del suicida? Come può essere poi che ungendo il suicida si attui quella “configurazione alla passione redentrice del Salvatore” di cui parla il Catechismo (1521)? Inoltre, come sempre ricorda il Catechismo citando il Concilio di Trento e la Lettera di Giacomo, grazie a questo sacramento il malato «se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (1520, Gc 5, 15). Ma per il perdono dei peccati servono le disposizioni di cui sopra, cioè il fermo proposito di non peccare più e quindi di non voler più morire. Questo aspetto è anche confermato dal fatto che il Codice di Diritto Canonico indica come finalità del sacramento la salvezza del sofferente (can. 998), ma chi muore in peccato mortale – ed il suicidio è materia grave – vive una condizione che è incompatibile con la salvezza e dunque con la finalità di questo sacramento. Ancora più esplicito è il canone n. 1007: “Non si conferisca l’unzione degli infermi a coloro che dovessero persistere ostinatamente in un peccato grave manifesto”. Chi chiede di morire rientra a pieno titolo tra i soggetti colpiti da questo divieto.
Poi i vescovi consigliano di comunicare la persona che vorrà morire. Però chi è in stato di peccato mortale non può comunicarsi perché, come ricorda San Paolo, «chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore […] mangia e beve la propria condanna» (1 Cor. 11,27-29). E’ lo stesso impedimento che riguarda i divorziati risposati.
I vescovi più sopra ricordavano che le situazioni di dolore fisico e psicologico possono attenuare la responsabilità di chi chiede l’eutanasia e dunque – così implicitamente argomentano – mancando la piena avvertenza della gravità del gesto e il deliberato consenso, offuscato appunto dalle particolari condizioni psicologiche di patimento, non c’è peccato mortale. A parte che l’affievolimento della responsabilità personale non è l’eliminazione di detta responsabilità, c’è da ricordare che diritto e morale, nonché pastorale, comandano di impedire la morte di una persona, lucida o non lucida che sia, cosciente o incosciente del suo gesto malvagio. Anzi, se uno non è in sé a maggior ragione occorre intervenire perché non si tolga la vita.
Inoltre se una persona è tanto annichilita dal dolore da non comprendere il senso di quello che sta per fare ed è quasi costretta a farlo per la sofferenza patita, fisica o psicologica che sia, ciò significa che la sua volontà non è libera e quindi anche per la legislazione del Canada non può essere ucciso perché non c’è consenso libero e consapevole.
I vescovi canadesi insistono sull’ “accompagnamento pastorale” di chi vuole morire. Bene stare vicino sino alla fine a chi vuole essere ucciso, ma per allontanarlo dal suo proposito suicida utilizzando a tal fine anche l’ultimo minuto della sua vita, non certo per accompagnarlo al suicidio assistito o all’eutanasia, altrimenti è favoreggiamento, è collaborazione al male. E, come rammenta il Catechismo, “la cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale” (2282). Accompagnare sacramentalmente il suicida è come accompagnare in auto una prostituta sul luogo di meretricio (e vi sono sacerdoti che si sono cimentati anche in questa vera e propria pastorale di strada). Un uso improprio di uno strumento di santificazione.
I vescovi del Canada non sono gli unici che si sono costruiti una pastorale che piega e sfregia i sacramenti per fini eutanasici. Il teologo belga Padre Gabriel Ringlet da tempo accompagna i pazienti che chiedono l’eutanasia. In una intervista ebbe a dire che “non sono assolutamente a favore della eutanasia. Ma dico che ci sono delle situazioni di sofferenza, talmente estreme, che non v’è altra soluzione”. E si era anche inventato un liturgia eutanasica: “In queste condizioni – spiegò - può aiutare anche una liturgia rituale. Prendo allora la parola, chiedo a ciascun presente se vuole dire qualcosa. Si può suggerire una preghiera, la lettura di una poesia, una unzione di olio”. Una vera e propria benedizione dell’eutanasia, non del morituro.
Il vescovo dell’episcopato del Canada Atlantico, Mons. Claude Champagne, ha dichiarato alla stampa che il loro modello è Papa Francesco e che per questo documento si sono ispirati all’Amoris Laetitia. Il lettore attento avrà quindi compreso che ormai esiste una esegesi sacramentale consolidata nata dalla lettura di questa esortazione apostolica applicabile ad infinte situazione peccaminose, oltre a quella riguardante i divorziati risposati. La presunta mancanza di consapevolezza in merito alla gravità di una condotta e una ancor più presunta mancanza di libertà di scelta comportano un affievolimento della responsabilità soggettiva. Mancando questi due elementi, non si può più parlare di peccato mortale e dunque porte aperte alla ricezione di ogni sacramento. Ma vi sono alcuni atti che di per sé – al di là della consapevolezza di chi li compie – sono intrinsecamente disordinati, cioè oggettivamente contrastano con l’ordine, con la santità dei sacramenti e quindi sono incompatibili con essi. I rapporti extra-coniugali e il suicidio sono tra questi.
In secondo luogo è compito della pastorale, prima di amministrare i sacramenti, far recuperare al credente la sua libertà di scelta e la piena consapevolezza della malvagità di alcuni atti. Non certo aiutarlo con l’abuso dei sacramenti a tirare le cuoia.
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