lunedì 29 giugno 2015

La Santa Messa, Sacrificio della Nuova Alleanza

 


Una nuova consapevolezza

di Manfred Hauke *

1. In ricerca del “centro” della celebrazione eucaristica

Il Motuproprio Summorum Pontificum ha dato uno spazio maggiore alla celebrazione della Santa Messa nel rito romano antico. Questa nuova situazione sta influenzando anche la consapevolezza di che cosa è la Santa Messa, la celebrazione eucaristica.

Negli anni sessanta dell’ultimo secolo dominava l’idea che l’Eucaristia è soprattutto un banchetto. Perciò sarebbe giusto usare un altare riconoscibile come tavolo. Non si rado, si celebravano delle Messe dove i partecipanti sedevano attorno ad una mensa, pretendendo di seguire in questa maniera l’esempio dell’Ultima Cena. Questa tendenza è stata vigorosamente sostenuta da una corrente che voleva andare incontro ai protestanti. Siccome i riformatori rifiutano il fatto che la Santa Messa rende presente il sacrificio di Cristo alla Croce, anche un certo tipo di ecumenismo metteva alla ribalta che l’Eucaristia sarebbe soprattutto la “Cena del Signore”. Siccome “Cena del Signore” è un’espressione usata dall’apostolo Paolo, si pensava di avere il sopporto della Sacra Scrittura. Persino la prima redazione dell’Introduzione al Messale di Papa Paolo VI, nel 1969, descrisse la Santa Messa come “Cena del Signore” oppure santa assemblea del popolo di Dio in cui viene celebrata, sotto la presidenza di un sacerdote, la memoria del Signore (1).

Questa descrizione provocò l’ira dei Cardinali Ottaviani e Bacci i quali criticarono che qui non si teneva conto del carattere sacrificale dell’Eucaristia (2). Come reazione, Paolo VI fece pubblicare un anno dopo (nel 1970) un’edizione corretta dell’Introduzione in cui viene riproposta con chiarezza la dottrina del Concilio di Trento sulla Santa Messa come sacrificio, una dottrina comunque menzionata in altri luoghi anche nella prima edizione del testo3. Anche il testo corretto, però, parte dalla descrizione della Messa come “Cena del Signore”.

Queste mosse redazionali pongono la domanda di che cosa è la Santa Messa. I due significati di “banchetto” e di “sacrificio” sono delle realtà alla pari? O un significato è più ampio dell’altro? Dove bisogna partire per accostarsi al centro del mistero eucaristico?(4).

Non basta mettere varie sfumature dell’Eucaristia una accanto all’altra, senza investigare la coesione “organica” dei vari aspetti tra di loro. Per vedere il bisogno di un tale equilibrio, vi cito i titoli riportati in un’introduzione divulgativa alla Santa Messa, un testo pubblicato negli anni 70 da Theodor Schnitzler, un liturgista tedesco nella diocesi di Colonia.


La Santa Messa – che cosa è? Così la domanda del primo capitolo. “La Messa non è una messa (mercantile) [sic]. La Messa non è una rappresentazione (teatrale) … non è magia … non è un esercizio di obbligo. La Messa è una festa, un’assemblea, una memoria, un gioco, un contratto di alleanza, un sacrificio, un banchetto” ecc. (5)


Un elenco del genere mette a fuoco degli aspetti significativi, ma di valore molto diverso. Non si possono mettere allo stesso livello, ad esempio, l’aspetto del sacrificio e quello del “gioco”. Con “gioco” Schnitzler intende (sulla scia di Romano Guardini) non una specie di gioco di divertimento con regole da noi inventate, bensì un “santo gioco”, cioè un’azione sacra non orientata ad uno scopo lavorativo o pedagogico (6). Guardini, nella sua notissima opera sullo spirito della liturgia, paragona la festa cultuale con il gioco dei bambini e con le opere degli artisti che non sono destinati al consumo o al lucro. Il gioco dei bambini, secondo Guardini, non ha uno scopo che si vuol raggiungere e per il quale il gioco serve soltanto come mezzo. Il gioco ha il suo senso, ma non è sottoposto ad un altro fine come strumento (7). Guardini ribadisce che la liturgia, in quanto tale, non è un processo educativo, ma un evento orientato alla glorificazione di Dio. L’uomo deve imparare a dedicare tempo per Dio, ad avere parole, pensieri e gesti per il “santo gioco” senza chiedersi sempre subito: perché? Basta occuparsi in libertà, bellezza e santa serenità di fare davanti a Dio il gioco ordinato della liturgia (8).

Nell’approccio di Guardini si vede la giusta preoccupazione di non sottoporre la liturgia, specialmente la Santa Messa, a scopi che la usano come semplice mezzo per raggiungere altro che non è la glorificazione di Dio e la salvezza dell’uomo. Tuttavia, il termine “gioco” è ambiguo e richiede una spiegazione attenta. La categoria del “gioco” manca, di solito, nelle spiegazioni storiche e sistematiche dell’Eucaristia, come nei testi di dogmatica o nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarebbe piuttosto problematico, per esempio, di promuovere un intero programma di catechesi ai bambini sotto la voce “L’Eucaristia come gioco”. Verrebbero creati dei malintesi tremendi.

2. La problematica della “figura fondamentale” dell’Eucaristia

Ma dove partire per un accostamento sistematico al mistero eucaristico? Con questa domanda arriviamo alla discussione teologica sulla “struttura fondamentale” della celebrazione eucaristica. Il dibattito parte da una riflessione di Romano Guardini del 1939. Secondo questo teologo, protagonista del rinnovamento liturgico, “ogni azione liturgica genuina” contiene una “Grundgestalt” “che la sostiene e le dona la vita specifica”. La parola tedesca Grundgestalt la possiamo tradurre con “figura fondamentale” (si può anche riportare il termine con “struttura“ o “forma“ fondamentale). Specialmente i sacramenti “non sono delle semplici forme di applicazione dei doni divini, ma degli eventi vitali, costruiti secondo l’essenza dell’uomo la cui anima si esprime nel corpo e il cui corpo viene formato dall’anima. ‘Forma’ (Gestalt), però, è il modo in cui l’essere umano è vivo […] Per questo è una delle richieste più importanti dell’educazione liturgica di fare vedere la forma interiore delle azioni sante in una maniera quanto chiara e quanto forte possibile. Ma in che cosa consiste la struttura fondamentale della Messa? È quella del banchetto (Mahl)”. Allo stesso momento Guardini afferma: “La sua forma è il banchetto; dietro cui, però, non come forma bensì come realtà, come sorgente, come presupposto, si trova il sacrificio” (9).

Parlare di una “forma fondamentale” dell’Eucaristia è stato un passo nuovo. Joseph Ratzinger osserva: “Si trattava di riconoscere, dietro la casualità dei singoli riti, la forma generale e portante che in quanto tale è contemporaneamente la chiave per giungere alla sostanza dell’evento eucaristico. Con il concetto forma era entrato nel dialogo teologico una categoria sconosciuta la cui dinamica riformatrice era innegabile. Anzi si può dire che la liturgia in senso moderno è nata con la scoperta di questa categoria” (10).

Bisogna capire l’accento dato alla cena rispettivamente al banchetto dalla situazione del tempo. Alla fine del sec. XIX, i fedeli ricevevano l’Eucaristia soltanto pochissime volte all’anno. Papa Pio X, all’inizio dell’ultimo secolo, incoraggiava i fedeli di accostarsi più volte alla Santa Comunione. Già i bambini piccoli dovevano unirsi al Signore eucaristico. Per favorire l’attiva partecipazione della gente a tutta la liturgia eucaristica, il movimento liturgico metteva poi al primo piano dell’attenzione il fatto che ci si nutre del corpo e sangue di Cristo, accolto in comunità (11).

La proposta di Guardini si spinge ancora più avanti, presentando il banchetto come forma fondamentale di tutto il mistero eucaristico. Questa impostazione aveva come conseguenza dei cambiamenti radicali negli edifici di culto. Si cercava di strutturare le chiese in una maniera da manifestare prima di tutto l‘aspetto del banchetto, specialmente nel mettere l‘altare in mezzo per la celebrazione versus populum. Il problema non sta nella dovuta riscoperta della categoria del banchetto, ma nel divario tra “interno” ed “esterno”. In un rapporto corretto fra interno ed esterno, la realtà interiore e la forma esteriore dovrebbero corrispondersi a vicenda. Se frequentiamo, ad un esempio, un banchetto di nozze, non andiamo in giro con vestiti adatti per fare una arrampicata in montagna, bensì con un abbigliamento festoso. E viceversa a nessuno sportivo verrebbe in mente l‘idea di salire sulle vette della montagna con le vesti indossate per un banchetto nuziale. Questa corrispondenza fra “interno” ed “esterno” dovrebbe valere anche per la celebrazione eucaristica. Il Cardinale Ratzinger sottolinea giustamente che il divario tra sacrificio e banchetto, tra forma e contenuto, tra dogmatica e scienza liturgica è stato il problema centrale della riforma liturgica, un peso negativo da cui si spiega la maggior parte dei singoli problemi nell’ambito della liturgia (12).

3. La preminenza del “banchetto”: l’esempio negativo del Catechismo olandese


Se la forma esteriore è totalmente determinata dalla dimensione del banchetto, si rischia di mettere in prima linea, persino in maniera esclusiva questo aspetto. Il Catechismo Olandese per esempio, pubblicato nel 1966, presentò l’Eucaristia come ringraziamento e come banchetto fatto in comune. La categoria del sacrificio venne menzionata, ma spiegata alla maniera seguente: “Banchetto e sacrificio non sono due cose diverse. Il sacrificio è il banchetto, vale a dire, noi lo riceviamo in quanto lo prendiamo e mangiamo” (13). In questa spiegazione, il sacrificio scompare nel banchetto. Si identifica il sacrificio con la comunione. Sta indietro una mancanza nella cristologia: il Catechismo Olandese non professava chiaramente il sacrificio espiatorio di Gesù, offerto in croce per la nostra salvezza. Proprio questo punto venne rilevato dalla commissione cardinalizia che si occupò criticamente di questo catechismo. Perciò i cardinali chiesero una modifica: “Bisogna dire chiaramente che Gesù si è offerto al Padre in riparazione per i nostri delitti come santo sacrificio in cui Dio trova il suo beneplacito. Perché Cristo ci ‘ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore’ (Ef 5,2).

Il sacrificio della croce, però, viene perpetuato nella Chiesa di Dio incessantemente nel sacrificio eucaristico (vedi Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, n. 47). Nella celebrazione dell’Eucaristia, Gesù, il sacerdote principale, si offre a Dio per mezzo dell’offerta consacratoria la quale svolgono i sacerdoti e alla quale si uniscono i fedeli. Questa celebrazione è sacrificio e banchetto. L’offerta del sacrificio viene completata dalla comunione in cui il sacrificio offerto a Dio è ricevuto come cibo per unire i fedeli con lui e tra di loro nell’amore (cf. 1 Cor 10,17)” (14).

L’esempio del Catechismo olandese mostra fino a che punto estremo poteva arrivare la tesi di vedere la struttura fondamentale della Santa Messa nel banchetto.

4. Il rapporto corretto tra sacrificio e banchetto

Ma come mettere in rapporto gli elementi del sacrificio e del banchetto? E come inquadrare gli altri aspetti fondamentali dell’Eucaristia?

La cosa elementare è sottolineare l‘insieme tra sacrificio e banchetto nella celebrazione eucaristica. Questo punto di base si mostra, ad esempio, in un libro di Joseph Goldbrunner, a suo tempo diffusissimo per la preparazione catechetica dei bambini alla Prima Comunione, un testo che per vari aspetti è prezioso ancora oggi: per spiegare che cosa è la Santa Messa, il catechista disegna sulla lavagna tre quadri, due in alto e uno in basso. I due quadri in alto rappresentano l‘Ultima Cena e il sacrificio della croce al Calvario. Da questi disegni partono delle frecce che puntano sul terzo quadro in basso: lì si vede l‘altare, simile al tavolo dell‘Ultima Cena, assieme ad una croce che manifesta l‘evento del Calvario. Alla fine, il catechista scrive sotto il terzo quadro: “La Santa Messa è sacrificio e banchetto” (15).

È interessante che Goldbrunner non dice: “La Santa Messa è banchetto e sacrificio”, ma “sacrificio e banchetto”. Qui si trova una preminenza del sacrificio, benché questo punto evidentemente non venga tematizzato per i bambini della Prima Comunione.

Una precedenza del sacrificio è stabilita con chiarezza nella Istruzione Redemptionis Sacramentum (2004): “L’ininterrotta dottrina della Chiesa sulla natura non soltanto conviviale, ma anche e soprattutto sacrificale dell’Eucaristia va giustamente considerata tra i principali criteri per una piena partecipazione di tutti fedeli a un così grande sacramento” (16). Il documento si riferisce tra l’altro all’enciclica Ecclesia de Eucaristia del 2002. Il primo punto messo in evidenza nel capitolo sul “Mistero della fede” è proprio il sacrificio:


“’Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito’ (1 Cor 11,23), istituì il Sacrificio eucaristico del suo corpo e sangue. Le parole dell’apostolo Paolo ci riportano alla circostanza drammatica in cui nacque l’Eucaristia. Essa porta indelebilmente inscritto l’evento della passione e della morte del Signore. Non ne è solo l’evocazione, ma la ripresentazione sacramentale. È il sacrificio della Croce che si perpetua nei secoli. Bene esprimono questa verità le parole con cui il popolo, nel rito latino, risponde alla proclamazione del ‘mistero della fede’ fatta dal sacerdote: ‘Annunziamo la tua morte, Signore!’” (17)

Il papa accenna poi alle parole dell’Ultima Cena che manifestano la donazione del corpo e del sangue di Cristo “per” noi (18). Il “per” (hyper in greco) indica due cose: l’offerta di Cristo a nostro favore e al nostro posto. L’espiazione vicaria di Cristo per noi alla croce viene anticipata già all’Ultima Cena. La Santa Messa, come già l’Ultima Cena, non è un atto indipendente dall’offerta al Calvario, ma prende la sua forza dall’unico sacrificio di Cristo, offerto una volta sola e una volta per tutte, come ribadisce la Lettera agli Ebrei (Eb 7,27; 9,12.26.28; 10,10).

Giovanni Paolo II, con il CCC, sottolinea quindi: “il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio” (19). L’Eucaristia “applica agli uomini d’oggi la riconciliazione ottenuta una volta per tutte da Cristo per l’umanità di ogni tempo”. “La Messa rende presente il sacrificio di Cristo, non vi si aggiunge e non lo moltiplica” (20).

Il papa offre poi una riflessione di grande importanza anche per la questione della “struttura fondamentale”: “In forza del suo intimo rapporto con il sacrificio del Golgota, l’Eucaristia è sacrificio in senso proprio, e non solo in senso generico, come se si trattasse del semplice offrirsi di Cristo quale cibo spirituale ai fedeli. Il dono infatti del suo amore e della sua obbedienza fino all’estremo della vita (cf. Gv 10,17-18) è in primo luogo un dono al Padre suo. Certamente, è dono in favore nostro, anzi di tutta l’umanità (…), ma dono innanzitutto al Padre: ‘sacrificio che il Padre accettò, ricambiando questa totale donazione di suo Figlio, che si fece ‘obbediente fino alla morte’ (Fil 2,8), con la sua paterna donazione, cioè col dono della nuova vita immortale nella risurrezione’” (21).

Il sacrificio è quindi una donazione di sé fatta a Dio, prima di tutto da Cristo al Padre. La glorificazione di Dio è il primo scopo intrinseco dell’Eucaristia vista come sacrificio visibile. Questo sacrificio consiste di lode, di ringraziamento, di supplica e di espiazione. Il sacrificio del Calvario, reso presente nella Santa Messa, si rivolge al Padre come mediazione ascendente che sale (per così dire) dal basso in alto. L’effetto di questo movimento ascendente è la mediazione discendente che fa scendere (per così dire) il dono salvatore della grazia, offerta agli uomini affinché la ricevano con la fede formata dalla carità. C’è quindi una mediazione ascendente, il sacrificio, da cui risulta una mediazione discendente, la comunicazione della vita di Dio nei sacramenti, tra cui nel banchetto eucaristico. Per l’orientamento diretto a Dio, il sacrificio ha una precedenza logica di fronte al suo effetto sacramentale: prima si glorifica Dio, per mezzo di Cristo, poi si riceve l’effetto della grazia. In altre parole: la dimensione anabatica, l’adorazione di Dio che quasi sale come l’incenso, ha una precedenza logica di fronte alla dimensione catabatica, l’effetto salvifico rivolto agli uomini.

Da questa riflessione risulta la priorità del sacrificio nella celebrazione eucaristica, una priorità che deve esprimersi anche nell’aspetto esteriore. La comunione con Dio e tra di noi è un risultato del sacrificio di Cristo. Certo: anche l’offerta del Salvatore è resa possibile da un processo catabatico, da una mediazione discendente, vale a dire dall’Incarnazione come “discesa” del Figlio di Dio che assume una natura umana. Il sacrificio, in cui Gesù Cristo si offre a Dio in quanto uomo, porta con sé un’efficacia infinita a causa dell’unione ipostatica dell’umanità di Cristo con la persona del Verbo: siccome il Cristo crocifisso è il Figlio di Dio incarnato, la sua offerta al Calvario è la massima glorificazione possibile di Dio. Prima viene la gloria di Dio, poi la salvezza degli uomini. Così anche il banchetto eucaristico si manifesta come conseguenza logica del sacrificio di Cristo: riceviamo il corpo e il sangue di Cristo, offerti al Padre nel momento della consacrazione che rende presente il sacrificio del Golgota. Questa struttura è ovvia anche nel rito della Santa Messa: prima viene la preghiera eucaristica e soltanto poi la comunione.

Teniamo conto, poi, ancora di un altro fatto: già nell’Antico Testamento troviamo dei sacrifici a cui si associa un banchetto, per esempio alla conclusione dell’alleanza al monte Sinai (Esodo 24,4-11). Qui si parla di un “sacrificio di comunione” (Es 24,5). Il sacrificio va quindi visto come evento che include, per la sua conclusione, un banchetto. Similmente, invece di parlare della “Cena del Signore”, occorrerebbe puntare sul vocabolario sacrificale, per esempio nei termini “sacrificio della Messa” (22) e “sacrificio eucaristico” (23).

Il primo grande oppositore della tesi di Guardini è stato il liturgista austriaco Josef Andreas Jungmann, noto tra l’altro dalla sua opera fondamentale “Missarum solemnia”, una spiegazione storica della Santa Messa. Jungmann è quindi, a differenza di Guardini (che è piuttosto filosofo e fenomenologo), un profondo conoscitore della storia dell’Eucaristia. È già significativo, secondo lui, il fatto che la Santa Messa non veniva mai chiamata semplicemente “cena” o “banchetto”. I nomi dati nei primi secoli ribadiscono il ringraziamento (“eucharistia”) e, con vari termini, il sacrificio (come le parole greche “tusia” e “prosfora”) (24). L’appellativo “cena del Signore”, utilizzato da Paolo (1 Cor 11,20), non si presta come termine tecnico per oggi, perché si presuppone ancora l’integrazione dell’agape nella medesima celebrazione. L’agape, un banchetto per saziarsi materialmente e per favorire la comunione fraterna, si è poi distaccata dalla celebrazione liturgica che viene chiamata “eucaristia”. L’aspetto più tipico e fondamentale è visto nella preghiera di ringraziamento rivolto a Dio, una preghiera che porta con sé la presenza corporale del Cristo crocifisso e risorto, una preghiera e un’azione che viene spiegata con termini sacrificali, come “tusia” e “prosfora”.

Le osservazioni di Jungmann vengono poi approfondite dal Cardinale Ratzinger nei suoi contributi magistrali sulla “Festa della fede” e sullo “Spirito della liturgia”, un titolo ispirato all’opera già citata di Guardini. “L’ultima cena è certamente il fondamento di ogni liturgia cristiana, ma essa stessa non è ancora una liturgia cristiana. L’atto di istituzione del cristianesimo avviene nel giudaismo, ma esso non ha ancora trovato una propria forma in quanto liturgia cristiana. L’ultima cena fonda il contenuto dogmatico dell’Eucaristia cristiana, ma non la sua forma liturgica” (25). Infatti la Chiesa non ha ripetuto l’ultima cena, bensì l’azione eucaristica. Mentre la festa di Pasqua ricorre una volta all’anno, già la Chiesa primitiva celebra l’Eucaristia ogni domenica per ricordare la risurrezione del Signore. L’Eucaristia porta con sé la presenza del Cristo crocifisso e risorto.

5. Le dimensioni di sacrificio e di comunione nell’intera presentazione dell’Eucaristia

La discussione contemporanea ha potuto integrare l’apporto di Jungmann, soprattutto nei lavori di Walter Kasper e di Joseph Ratzinger. Prima di fermarmi su questi contributi preziosi, vorrei menzionare brevemente l’esito della ricerca ecumenica sull’Eucaristia. Qui è importante il lavoro fatto di Max Thurian († 1996), monaco di Taizé proveniente dal protestantesimo; alla fine della sua vita egli ricevette l’ordinazione sacerdotale nella Chiesa cattolica. Il documento di Lima del 1982, a cura del Consiglio ecumenico delle Chiese, si ispira alle sue ricerche e mette in rilievo cinque aspetti importanti:

1.l’Eucaristia come ringraziamento al Padre,

2.come anamnesi o memoriale di Cristo,

3.come invocazione (epiclesi) dello Spirito Santo,

4.come comunione dei fedeli e

5.come banchetto del regno di Dio.

Questa struttura vuol cogliere tutti gli aspetti essenziali dell‘Eucaristia.25 Un approccio cattolico recente, di Lothar Lies (dogmatico ad Innsbruck scomparso pochi mesi fa), integra queste dimensioni, pur allargandoli con qualche momento più preciso: l’Eucaristia come anamnesi della salvezza, come epiclesi, come celebrazione della presenza della salvezza, come prosfora (una parola greca che significa “offerta” o “sacrificio“) e come koinonia (comunione) (26).

Potremmo precisare ancora questa struttura. La base è senz‘altro l‘anamnesi che non è soltanto un ricordo bensì un‘azione commemorativa che rende presente l‘efficacia dell‘evento menzionato. Perciò già il Concilio di Trento non si accontenta di parlare di una memoria, ma aggiunge due altre categorie: quella della applicatio (la Santa Messa applica i frutti dell’unico sacrificio per il bene della Chiesa) e quella della rappresentatio (la celebrazione eucaristica è una ripresentazione sacramentale del sacrificio al Golgota). Nella proposta di Lothar Lies, l’importanza di questo fatto si manifesta nell’insistenza sulla categoria della prosfora, una precisione non tanto evidente per il documento di Lima. La Santa Messa non è soltanto un ricordo del Golgota, ma la presenza del Cristo crocifisso che si offre al Padre. La Messa e l’evento di Golgota sono il medesimo sacrificio, benché sia diversa la modalità dell’offerta: cruente al Calvario, incruente sotto le specie di pane e vino nelle nostre chiese. Perciò è legittimo quanto faceva anni fa un parroco tedesco: prima di partire dalla sagrestia per la Santa Messa, egli chiese ai chierichetti: “Dove andiamo?” E la risposta era sempre: “Andiamo al Golgota”.

Quindi la memoria dell’evento salvifico contiene il sacrificio. Il sacrificio, a sua volta, non va ridotto al momento del ringraziamento: c’è l’elemento dell’adorazione (di per sé distinta dal ringraziare), ma anche la supplica e l’espiazione. I protestanti possono facilmente concedere che la “Cena del Signore” sia un sacrificio di lode e di ringraziamento (infatti ogni nostra preghiera dispone di queste qualità), ma questo non vale altrettanto per la dimensione dell’espiazione, riservata da loro al solo evento della croce e negata alla Santa Messa. L’anamnesi contiene invece il sacrificio di Cristo con tutte le sue dimensioni e non soltanto l’elemento importante del ringraziamento. Invece di parlare di “Eucaristia”, che significa ringraziamento, sembra preferibile d’usare il termine della “Santa Messa” che include la lode e il ringraziamento, ma anche la supplica e l’espiazione.

Anamesi ed eucaristia portano con sé a loro volta l’epiclesi, cioè l’invocazione di Dio, specialmente dello Spirito Santo che scende sui doni eucaristici e sull’assemblea. L’invio dello Spirito Santo poi rende possibile la comunione tra i membri della Chiesa, soprattutto quando si accostano al corpo eucaristico di Cristo.

Di fronte a queste panoramiche rimane ancora la questione della “struttura fondamentale”: dove mettere l’accento, come descrivere il rapporto fra i vari elementi? Fra i tentativi pubblicati negli ultimi decenni, eccellono quelli di Joseph Ratzinger e di Walter Kasper che in questo punto sono piuttosto vicini (28). Ratzinger tratta il tema soprattutto nel suo libro “La festa della fede” e riprende qualche elemento nell’“Introduzione allo spirito della liturgia” (29). Esiste in italiano anche un articolo significativo di Kasper: “Unicità e molteplicità degli aspetti dell’eucaristia: In merito al recente dibattito su figura e senso fondamentali dell’eucaristia” (30). Ambedue gli autori ribadiscono l’orientamento teocentrico dell’Eucaristia come memoriale efficace del sacrificio di Cristo e sono critici di fronte alla teoria che vede la “struttura fondamentale” nel banchetto.

Sacrificio e banchetto sono delle dimensioni non da contrapporre tra di loro, ma da integrare, pur dando una certa precedenza al sacrificio. Il CCC formula brevemente: “La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della Croce e il sacro banchetto della comunione al corpo e al sangue del Signore” (31).

Sia la dimensione del sacrificio sia quella del banchetto vanno applicate in qualche maniera a tutta la celebrazione eucaristica, ma l’aspetto del banchetto riguarda principalmente la ricezione della comunione, mentre il sacrificio si esprime nella maniera più forte nella parte più centrale della celebrazione, nella preghiera eucaristica che culmina nelle parole dell’Ultima Cena.

6. La preminenza del sacrificio nella preghiera versus orientem

La preminenza del sacrificio per la descrizione della Santa Messa ha anche le sue conseguenze per l’orientamento della preghiera. Al sacrificio corrisponde il rivolgersi a Dio da parte del celebrante e di tutta l’assemblea liturgica (32). Quando il sacerdote parla con Dio, non ha senso chiedere un rivolgersi verso l’assemblea. È la cosa migliore, se il celebrante si rivolge assieme a tutta l’assemblea alla croce e all’altare, possibilmente nella direzione dell’oriente. L’oriente, il sol nascente, sta per il Cristo risorto il cui ritorno aspettiamo alla fine dei tempi. Un rivolgersi al popolo invece è indicato per la proclamazione della Parola di Dio e per la comunicazione della grazia nei saluti, nella benedizione e nella distribuzione della Comunione. Questo orientamento è anche possibile nel rito di Paolo VI, ma le disposizioni del rito antico sembrano più propizie a questo fine, mettendo al centro la croce, l’altare e il Signore stesso nel Tabernacolo.

7. La centralità del sacrificio nella forma straordinaria del rito romano

La realtà del sacrificio è presente con particolare chiarezza nella forma più antica del rito romano. Questa chiarezza non è tanto una conseguenza del Concilio di Trento, che difese con un apposito decreto la Santa Messa come sacrificio contro i riformatori (33), ma vi è presente già nei tempi antichissimi. Già prima della trasmissione dei primi formulari della celebrazione eucaristica, le fonti della Chiesa antica ne parlano con chiarezza. La lettera di Papa Clemente ai Corinzi, ad esempio, scritta nel 96, presenta come funzione più tipica dei presbiteri (e vescovi) l’offerta dei sacrifici (34). La stessa osservazione viene riportata dalla Didaché che parla del “sacrificio” (tusìa) in cui si compie la profezia di Malachia: “In ogni luogo mi si offre un sacrificio puro” (Ml 1,11) (35). Quando i Padri antichi parlano della Santa Messa, di solito non usano l’espressione “Cena del Signore”, ma dei termini che mettono in risalto il sacrificio o il culto reso a Dio.

L’idea del sacrificio è presente, in qualche maniera, in tutte le preghiere eucaristiche ammesse dall’autorità ecclesiastica, ma troviamo un accento particolare nel Canone Romano e nella terza preghiera eucaristica (36). Le prime testimonianze del Canone Romano (chiamato anche “prima preghiera eucaristica” nel Messale di Paolo VI) risalgono al quarto secolo, e al tempo di Gregorio Magno (inizio del sec. VII) il testo ha trovato nella sua sostanza quella forma in cui esiste ancora oggi (37). Perciò possiamo anche parlare del “rito gregoriano” (38).

Il sacerdote che celebra la Santa Messa in rito antico accoglie una consapevolezza più intensa della centralità del sacrificio. Per illustrare quest’affermazione, vorrei solamente ricordare le preghiere recitate a bassa voce durante l’offertorio sul pane e sul vino. Secondo la valutazione di Robert Spaemann, si tratta qui dell’intervento più radicale del Novus Ordo nella liturgia romana precedente (39).

Nel rito di Paolo VI, le due preghiere si ispirano a delle formule ebraiche di ringraziamento per i pasti, aggiungendo molto discretamente l’idea dell’”offerta”: “lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna” rispettivamente “bevanda di salvezza”. Nel testo latino, Paolo VI ha insistito di mettere il verbo offerimus (“offriamo”) contro la maggior parte dei liturgisti, che ritenevano di dover rimuovere l’idea del sacrificio dall’offertorio (40). È vero che il sacrificio vero e proprio si svolge durante la consacrazione, ma nei riti eucaristici l’idea del sacrificio viene già anticipata prima, nel rito di san Giovanni Crisostomo persino sin dalla proscomidia, quando si preparano le ostie all’inizio della Divina Liturgia.

Nella forma straordinaria del rito romano, la preghiera per offrire il pane include una descrizione molto precisa di tutta l’azione liturgica:


“Accetta, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, questa vittima immacolata, che io, tuo servo indegno, a te offro, mio Dio, vivo e vero, per i miei innumerevoli peccati, le mie offese e le mie mancanze, e per tutti coloro che mi stanno qui intorno, ma altresì per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti: affinché a me, e a loro, questa offerta procuri la vita eterna”.


E evidente qui che la Santa Messa è un sacrificio offerto per i vivi e per i defunti, in espiazione dei peccati e per il raggiungimento della vita eterna. E anche chiaro che l’offerente, operante a nome di Cristo capo della Chiesa, è il sacerdote, benché i fedeli siano invitati ad associarsi all’atto sacrificale.

La preghiera per offrire il calice riporta una bella formulazione poetica, a differenza della sobrietà forse troppo grande della preghiera più recente:


“Offriamo a te, Signore, il calice della salvezza, implorando la tua clemenza: affinché salga in profumo gradito al cospetto della tua divina maestà, per la salvezza nostra e di tutto il mondo”.


L’immagine che il calice “salga” con profumo gradito a Dio, corrisponde a varie descrizioni dell’Antico Testamento. Così si ribadisce il primo scopo del sacrificio, quello mirato a glorificare Dio. In seguito si accentua inoltre che l’azione sacra non giova solamente all’assemblea visibile, ma si estende oltre “per la salvezza di tutto il mondo”.

Quando il sacerdote recita le preghiere di offerta sul pane e sul calice, egli rivolge gli occhi alla croce (all’inizio per l’offerta del pane e durante l’intera preghiera per l’offerta del calice). Dopo le preghiere, egli traccia il segno della croce sia con l’ostia sia con il calice. Qui si vede molto bene il legame intrinseco con il sacrificio della croce ripresentato durante la Santa Messa.

8. Una visione di sant’Ildegarda

Il giusto rapporto tra sacrificio e banchetto, tra mediazione ascendente e discendente, si mostra molto bene in una visione di sant’Ildegarda sull’Eucaristia. Vorrei finere la mia esposizione con questo cenno. Sant’Ildegarda ha vissuto nel XII secolo e viene anche chiamata prophetissa teutonica, cioè “profetessa tedesca”.

La santa, dotata di carismi mistici, vede come un sacerdote, vestito delle vesti sacre, accede all’altare per celebrare i divini misteri. “All’improvviso uno splendore di luce scese dal cielo. Arrivarono degli angeli e la luce circondava l’altare. Questo splendore rimase finché il sacerdote, dopo il compimento del santo sacrificio, si allontanò. Quando fu letto il vangelo della pace e fu presentata l’offerta sull’altare per la consacrazione, il sacerdote cantò la lode di Dio onnipotente: ‘Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus, Deus Sabaoth!’, iniziando il mistero indicibile. A questo momento si aprì il cielo. Dei fulmini di fuoco con una limpidezza indescrivibile caddero sulle offerte e le trasformarono totalmente con la loro gloria, come il sole penetra l’oggetto irradiato con la sua luce. Lo splendore fulminante portò l’offerta alle altezze invisibili fino all’intimo del cielo e poi la fece scendere di nuovo sull’altare …” (41).

Nella visione, la luce celeste scende per trasformare i doni di pane e vino. Poi le offerte vengono portate in alto, segno del sacrificio che si rivolge a Dio, per scendere poi di nuovo sull’altare e servire per la santa comunione.

Cerchiamo di associarci al sacrificio della nuova alleanza, portando così la luce celeste - la verità di Dio e il mistero della grazia - in questo mondo che ne ha tanto bisogno.

* Il Prof. Manfred Hauke, è docente di dogmatica con riferimenti mariologici e di patristica presso la facoltà teologica di Lugano


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NOTE

1. Novus Ordo Missae, Introductio generalis, prima versione, § 7, citato in A. Ottaviani – A. Bacci, Kurze kritische Untersuchung des neuen “Ordo Missae”, in Aa. Vv., Liturgie und Glaube, Düsseldorf-Gerresheim 1971, 68-92 (73); E. J. Lengeling, Die neue Ordnung der Eucharistiefeier. Allgemeine Einführung in das Römische Messbuch … Einleitung und Kommentar, Münster 41972, 166: “Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote praeside, ad memoriale Domini celebrandum. Quare de sanctae Ecclesiae locali congregatione eminenter valet promissio Christi: ‚Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum’”.

2. Cf. A. Ottaviani – A. Bacci, op. cit.

3. Cf. E. J. Lengeling, Die neue Ordnung der Eucharistiefeier. Allgemeine Einführung in das Römische Messbuch … Einleitung und Kommentar, Münster 1972, 166s. Ecco la versione amplificata del § 7: “In Missa seu Cena dominica populus Dei in unum convocatur, sacerdote preside personamque Christi gerente, ad memoriale Domini seu sacrificium eucharisticum celebrandum. Quare de huiusmodi sanctae Ecclesiae coadunatione locali eminenter valet promissio Christi: ‚Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum’ (Mt 18,20). In Missae enim celebratione, in qua sacrificium Crucis perpetuatur, Christus realiter praesens adest in ipso coetu in suo nomine congregato, in persona ministri, in verbo suo, et quidam substantialiter et continenter sub speciebus eucharisticis”. Citato in E. J. Lengeling, p. 165.

4. Le esposizioni seguenti si trovano similmente in buona parte già in un saggio precedente: M. Hauke, La Santa Messa – che cosa è? La “struttura fondamentale” della celebrazione eucaristica, in G. Borgonovo – K. charamsa (edd.), Eucaristica e libertà. Percorsi di formazione sacerdotale, vol. II, Libreria Editrice Vaticana: Città del Vaticano 2006, 37-52. Vedi anche M. Hauke, L’eucaristia: fonte e culmine della vita cristiana. L’enciclica Ecclesia de Eucaristia, in G. Borgonovo – A. Cattaneo (edd.), Giovanni Paolo teologo. Nel segno delle encicliche, Mondadori: Milano 2003, 253-270.

5. T. Schnitzler, Was die Messe bedeutet. Hilfen zur Mitfeier, Freiburg i. Br. 1976, 16-43.

6. Op. cit., 28-31.

7. Per chi sa il tedesco: il gioco ha un senso (Sinn), ma nessuno scopo (Zweck).

8. R. Guardini, Vom Geist der Liturgie, Freiburg i. Br. 1934, 52-65.

9. R. Guardini, Besinnung vor der Feier der heiligen Messe, Mainz 21939, 70. 72s. 76s.

10. J. Ratzinger, La festa della fede, Milano 1984, 34 (or. td. 1981).

11. Vedi le osservazioni di A. Ziegenaus, Die Heilsgegenwart in der Kirche. Sakramentenlehre (Katholische Dogmatik VII), Aachen 2003, 344.

12. Cf. J. Ratzinger, Festa della fede, 40.

13. Glaubensverkündigung für Erwachsene. Deutsche Ausgabe des Holländischen Katechismus, Freiburg i. Br. 1969, 383.

14. Op. cit., 55 (= AAS 60, 1968, 688).

15. Cf. J. Goldbrunner, Sakramentenunterricht mit dem Werkheft. Beicht – Erstkommunion – Firmung, München 61963, 90-103.

16 Redemptionis Sacramentum, 38.

17 Ecclesia de Eucharistia, 11.

18 Cf. Ecclesia de Eucharistia, 12.

19 Ecclesia de Eucharistia, 12; CCC, 1367.

20. Ecclesia de Eucharistia, 12. Per l’insegnamento magisteriale e la discussione teologica sul sacrificio della Santa Messa, vedi tra l’altro A. Piolanti, Il Mistero Eucaristico, Libreria Editrice Vaticana: Città del Vaticano 1983, 375-556; A. Garcia Ibanez, L’Eucaristia, dono e mistero. Trattato storico-dogmatico sul mistero eucaristico, Edizioni Università della Santa Croce: Roma 2006, 536-551.

21. Ecclesia de Eucharistia, 13, con una citazione dell’Enciclica Redemptor hominis, 20.

22. Vedi p.es. Concilio di Trento, Dottrina e canoni sul sacrificio della Messa: DH 1738-59.

23. Vedi p.es. CCC, 1356-72. Solo in seguito si tratta del “banchetto pasquale“: CCC, 1382-1401.

24. Cf. J.A. Jungmann, Missarum solemnia. Eine genetische Erklärung der römischen Messe I, Wien 1948, 217-224.

25. J. Ratzinger, La festa della fede, 40.

26. Cf. Documento di Lima: Battesimo, eucaristia e ministero (1982): Enchiridion oecumenicum I, Bologna 1986, nn. 3032-3181, qui 3071-3110.

27. L. Lies, Eucharistie in ökumenischer Verantwortung, Graz ecc. 1996.

28. Per una rassegna bibliografica, vedi H.B. Meyer, Eucharistie. Geschichte, Theologie, Pastoral (Gottesdienst der Kirche 4), Regensburg 1989, 443s.

29. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo 2001, parte II, cap. 3 (or. td. 2000).

30. W. Kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989, 313-334 (or. td. 1987).

31. CCC, 1382; vedi anche Ecclesia de Eucharistia, 12.

32. Su quest’aspetto, vedi U.M. Lang, Rivolti al Signore: l’orientamento nella preghiera liturgica. Prefazione di Joseph Ratzinger, Cantagalli: Siena 2006.

33. Cf. Denzinger-Hünermann, 1738-59.

34. Cf. 1 Clem 44,4 (prosenenkontas ta dora) (ed. J.A. Fischer, 80).

35. Didachè 14,1-3 (Sources chretiennes 248, 192).

36. Cf. V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, Roma 1998, 571-575. 585-590. 614. 617. 620s (sui contenuti delle preghiere eucaristiche postconciliari vedi op. cit., 599-694).

37. Cf. Garcia Ibanez, op. cit., 145s; Raffa, op. cit., 547-558.

38. La descrizione più antica dell’intero rito romano risale alla fine del sec. VII: vedi p.es. la descrizione in Raffa, op. cit., 79-96 (Ordo I: ed. M. Andrieu, Ordines Romani du haut moyen age II, Louvain 1948, 65-108

39. Cf. R. Spaemann, Bemerkungen eines Laien, der die alte Messe liebt, in A. Gerhards (ed.), Ein Ritus – zwei Formen. Die Richtlinie Papst Benedikts XVI. zur Liturgie, Freiburg i.Br. 2008, 75-102 (89).

40. Cf. A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma 1983, 373s. Una buona sintesi, pure “antica”, sulla teologia dell’offertorio si trova in J. Brinktrine, Die heilige Messe, Paderborn 1950, 130-167. Un breve riassunto della discussione postconciliare viene fornito tra l’altro (con ulteriore bibliografia) in J. Hermans, Die Feier der Eucaristie. Erklärung und spirituelle Erschließung, Regensburg 1984 209-228; vedi anche la bibliografia sull’offertorio in Raffa, op. cit., 324.

41. Scivias, libro II, visione 6: Hildegard von Bingen, Wisse die Wege. Scivias, a cura di Maura Böckeler, Salzburg 1975, 192.



tratto da:


Santa Messa, Sacrificio della Nuova Alleanza, conferenza tenuta nel 2008 e già pubblicata in Vincenzo M. Nuara (a cura di), Il Motu proprio "Summorum Pontificum" di S.S. Benedetto XVI. Una ricchezza spirituale per tutta la Chiesa, Fede & Cultura, Verona 2009, pp. 48-64).

venerdì 26 giugno 2015

Nuove accuse a padre Manelli e alle suore






La passione di padre Stefano Manelli e dell’ordine da lui fondato, non sembra finire mai. Neppure dopo la morte del commissario Volpi, che, secondo molti osservatori, sarebbe stato l’esecutore di una linea dettata dal piccolo gruppo dei frati ribelli. I frati, ormai, sono stati distrutti con incriminazioni vaghe e indefinite, che hanno perso via via consistenza nel corso del tempo. Padre Volpi non potrà più rispondere delle accuse che ha fatto, ma neppure dovrà difendersi per i processi che gli sono stati intentati, e che lo hanno visto in enorme difficoltà.

Qualcuno ricorderà che padre Volpi, il 12 febbraio 2015, si era dichiarato disponibile a patteggiare con la famiglia Manelli, lesa nell’onore, e quindi a risarcirla con 20.000 euro più le spese legali. Lo aveva fatto ammettendo “il non coinvolgimento dei ‘familiari’ di Padre Stefano Maria Manelli, ribadendo l’assoluta estraneità” dei medesimi “a qualsiasi operazione ritenuta illegittima e perciò contestata dallo stesso Commissario Apostolico, avente ad oggetto l’asserito trasferimento della disponibilità dei beni dell’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata”.

Poi, dopo la fuoriuscita della notizia, padre Volpi espressela volontà di non adempiere alla transazione sottoscritta, considerandola non più valida per grave inadempimento della controparte”.
Oggi, si diceva, padre Volpi non c’è più, ma le accuse contro il fondatore hanno ripreso il loro iter: non più interne, dal commissario ai commissariati, ma tramite i giornali. E soprattutto con un nuovo bersaglio privilegiato: le suore (che avevano sino ad ora fatto corpo compatto a difesa della loro congregazione, riuscendo a rimanere in vita).

L’accusa più forte viene da Il Fatto quotidiano (24/6/2015), giornale notoriamente non simpatizzante verso il mondo cattolico. Il quale riporta denunce di ex frati ed ex suore, secondo i quali Padre Stefano Manelli sarebbe “un traditore della Chiesa, artefice di terrorismo psicologico, atti di libidine, vessazioni e minacce ai danni di frati e suore”. In particolare si sarebbe arricchito con i soldi destinati alle missioni: soldi che “avrebbero alimentato il conto corrente personale di Padre Manelli mentre le suore missionarie erano costrette a mangiare cibo avariato”, a firmare patti di sangue, a pulire il pavimento con la lingua, a subire toccamenti da parte dell’anziano padre fondatore…. Non manca nulla: Dan Brown potrebbe scriverci un romanzo dei suoi. Bisognerebbe solo aggiungere qualche morto, ma probabilmente anche questo accadrà.


In attesa che la giustizia faccia il suo lentissimo corso (anche se non ci dovrebbe voler molto a vedere se veramente il contro di padre Stefano è così grasso e pingue come si racconta, senza scrupolo alcuno), per comprendere anche noi cosa stia succedendo, abbiamo fatto appello alle nostre personali esperienze e ci siamo rivolti ad alcune persone interne all’istituto, e ai genitori di alcune suore.


Che le accuse ci possano essere, infatti, non stupisce. Sono cose che sono sempre successe. Tanto più che la regola di vita di padre Manelli, è molto dura, e questo, come nell’ordine francescano, porta a forti entusiasmi, ma anche a profonde delusioni e rivolte. Chi abbraccia un ordine che fa davvero della povertà un principio fondamentale, non di rado si trova poi a respingere e a rifiutare ciò che ha liberamente deciso.

Povertà, obbedienza, rinuncia a tv, beni e comodità varie… non sono facili da sopportare a lungo, senza una intensa vita spirituale.
Anche negli ordini e nelle congregazioni religiose, accade come nei matrimoni: chi si è tanto amato, dopo la rottura, si odia. E accusa il coniuge con cui ha vissuto sino a ieri, di ogni nefandezza; ogni piccolo torto diventa mortale, e ogni azione passata viene vista in modo nuovo, così da essere demonizzata. Oggi sappiamo che dopo la rottura di molti matrimoni, scatta lo scontro per il possesso dei figli, e l’accusa più tipica che viene rivolta dalle mogli ai mariti, ma talvolta anche viceversa, è la più infamante: pedofilia! “I figli spettano a me, perché mio marito è un pedofilo!”; “I miei figli spettano a me, perché mia moglie….”.
Nessuno sa odiare Abele, più di suo fratello Caino. Chi abbia un po’ di esperienza nel campo, lo sa, e difficilmente crede a tutto. Non così chi sia digiuno di queste dinamiche tipicamente “fratricide”.


Ma torniamo ai fatti: ci ha colpito l’accusa riguardo ai soldi di padre Stefano, perché ci è assai difficile immaginare cosa possa farne di tanti soldi un uomo la cui vita è stata sempre sotto gli occhi di tutti. Allorché il regime nazista decise di eliminare la Chiesa, le intentò centinaia di processi proprio a base di sesso e di soldi. Non c’è miglior modo per mettere in cattiva luce il proprio avversario. Erano i gerarchi nazisti, però, i primi a vivere una vita sessualmente morbosa, e a desiderare di impadronirsi dei soldi della Chiesa.
Ora, una attività sessuale tanto intensa e morbosa, da parte dell’anziano Manelli, ci sembra piuttosto improbabile, per non dire assurda; tanto quanto il suo desiderio di accumulare di continuo soldi… ma per fare che?


Soldi per lui, si diceva, cibo avariato le suore… sarà pure, ma il cibo avariato dei frati e delle suore, lo abbiamo mangiato anche noi. Alcuni di noi ricordano bene come una sera, ospiti dei frati in una città del nostro paese: costoro apparecchiarono con pane, formaggio e alcune scatolette di tonno… il pane era un po’ vecchio, del giorno prima; il tonno in scadenza. Lo mangiammo insieme, non volentierissimo, per la verità, ma ci sembrò in perfetto accordo con lo stile di povertà dei frati. Sì, i francescani non sono propriamente cultori della tavola! Ricordiamo in tanti, poi, padre Serafino che la sera, con i suoi sandali, andava nei bar di Firenze a raccogliere le paste avanzate dalla giornata. Finivano poi, un po’ secche e dure, ma non certo avariate, sulla tavola, per la colazione dei frati e dei loro ospiti, all’indomani.

E tua figlia?”, chiediamo ad un amico, un uomo colto e intelligente, che ha la figlia suora con padre Stefano, “ha mai pulito il pavimento con la lingua, fatto i patti di sangue…?”.
Non sono un pazzo – ci risponde- e tengo ai miei figli più che a me stesso. Mia figlia è una suora contenta, come le altre suore che conosco. Vive una vita di fede e di preghiera, e queste sono tutte calunnie. Certamente ci sarà qualche suora che può sentirsi torteggiata (in qualche realtà ciò non avviene?), o qualcuna che fatica a vivere la regola francescana… ma quelle che conosco io sono suore felici… se mia figlia non fosse felice, farei l’impossibile per soccorrerla!”.


Anche noi abbiamo conosciuto tante suore, senza mai notare alcuna anomalia. Molte cose ci dicono che la verità non è questa. Non solo quanto già detto, ma un fatto ancora: sui siti dei “ribelli” interni, quelli cioè che hanno cominciato lo scontro contro il fondatore e ora tengono le redini di ciò che rimane della Congregazione, escono di continuo attacchi alle suore, ree di essere troppo legate al fondatore, e a padre Stefano, non solo su soldi e corruzione, ma anche contro le sue idee e la sua impostazione teologica (si è arrivati a paragonarlo a Osama Bin Laden!).

La quale impostazione dottrinale non è cambiata da un giorno all’altro, ma è rimasta sostanzialmente la stessa per decenni: andava bene, insieme alla “durezza” della regola, anni orsono, ma va denunciata, su tutta la linea, da chi la ha in qualche modo condivisa per tanto tempo, oggi? Quanto conta, per la diffusione di questi veleni, lo scontro ideologico?
Siti come questo, https://veritacommissariamentoffi.wordpress.com/, trasudanti odio, violenza verbale senza limiti, ed anonimato (ma le accuse anonime sono quanto di più dubbio ci sia), non depongono in favore degli accusatori di padre Stefano. C’è troppa cattiveria, troppa rabbia, troppo odio…..











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Un libro di canto gregoriano come non s’è mai visto né udito



canto


di Sandro Magister

Per i visitatori di Settimo Cielo e di www.chiesa i “Cantori Gregoriani” sono da tempo una voce amica. Una voce, proprio così. Di domenica in domenica, nell’Avvento e Natale del 2013 e nella Quaresima e Pasqua del 2014 abbiamo potuto ascoltare e gustare le loro esecuzioni di introiti, graduali, communio del grande repertorio gregoriano.

Qui c’è l’indice cronologico di tutte le pagine di www.chiesa con le loro splendide esecuzioni:
> Focus su arte e musica. Capolavori di canto gregoriano

Non solo. Assieme al canto ci sono in ognuna di queste pagine lo spartito musicale e una guida all’ascolto, scritta dal direttore dei “Cantori”, il Maestro Fulvio Rampi, di Cremona, gregorianista di fama internazionale.

Ed era questa come una piccola anticipazione di quel monumento editoriale che ha visto oggi finalmente la luce: un volume di quasi mille pagine che è la “summa” di tutto ciò che occorre sapere su quel canto “principe” della liturgia latina che è anche matrice dell’intera musica occidentale:
Cantori Gregoriani, “Alla scuola del canto gregoriano. Studi in forma di manuale”, a cura di Fulvio Rampi, Musidora editore, Parma, 2015, pp. 980, euro 70,00.

Autori dell’opera sono proprio i “Cantori Gregoriani” col loro Maestro. Con l’apporto di altri studiosi che hanno creduto nell’impresa. Perché ogni capitolo di questo libro, o meglio, data la dimensione, ogni libro di questa biblioteca, porta la firma di qualcuno di loro. Come si può vedere dall’indice:

Cap. 1 – Il canto gregoriano. Itinerario storico-giuridico
di Giannicola D’Amico

Cap. 2 – Liturgia. La messa e l’ufficio divino
di Alfio Giuseppe Catalano O.S.B.

Cap. 3 – La melodia gregoriana
di Angelo Corno e Giorgio Merli

Cap. 4 – Il ritmo gregoriano
di Fulvio Rampi

Cap. 5 – L’ufficio divino. Il canto come lettura ermeneutica del testo
di Angelo Corno e Giacomo Frigo O.S.B.

Cap. 6 – Tropi, sequenze, prosule. Ornamento ed espansione del canto gregoriano
di Enrico De Capitani

Cap. 7 – Il canto gregoriano e la sua voce
di Roberto Spremulli

Cap. 8 – Itinerario bibliografico. Il fenomeno e l’essenza
di Alessandro De Lillo

L’imponente volume, aggiornato sugli studi più avanzati di semiologia gregoriana, ha lo scopo dichiarato di offrire un nuovo e completo strumento didattico per chi voglia andare alla scoperta di questo tesoro: studenti di conservatorio, musicologi, direttori di coro, cantori, organisti, liturgisti.

Ma anche il non specialista può immergersi in questa appassionante avventura, sfogliarne le pagine, osservarne le figure, soffermarsi sull’uno o sull’altro dei capitoli che più l’attraggono.
Con un occhio, naturalmente, alle vicissitudini di questo canto al quale il Concilio Vaticano II ha ordinato che “si riservi il posto principale” ma che nei fatti è precipitato in un quasi generale abbandono.

Ma sempre con la speranza che la luce si riaccenda, come scrive Giannicola D’Amico nelle ultime righe della sua ricostruzione storica:
“Confidiamo che le straordinarie capacità di reviviscenza del canto gregoriano anche questa volta lo salvino dalla fine. E salvino anche noi”.

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Il volume è in vendita da giugno ed è stampato da Musidora editore, via F. Nullo 11, 43125 Parma, 0521.252564, musidora.libri@libero.it

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Una sintesi della visione dI Rampi su che cos’è il canto gregoriano e su che cosa può tornare ad essere nella vita della Chiesa è in queste sue due conferenze del 2012:

> Il canto gregoriano: un estraneo in casa sua

> Il canto dell’assemblea liturgica fra risorsa ed equivoco

Sulla discografia degli autori dell’opera:

> Cantori Gregoriani










Settimo Cielo25 giu 2015

martedì 23 giugno 2015

Misericordia e verità, una falsa contrapposizione


Il cardinale Carlo Caffarra

Sul numero 3958 de La Civiltà Cattolica (30 maggio 2015, pagg. 329-338), padre Gian Luigi Brena sj ha scritto un articolo - Misericordia e Verità - in cui tenta di conciliare i due concetti facendo prevalere la prima. Alle sue tesi risponde il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, con questo articolo.


Lo studio che sto per esaminare nasce, mi sembra, da una preoccupazione, da cui deriva la questione fondamentale che l’articolo vuole risolvere. La preoccupazione è di non opporre misericordia e verità, ma di comporle secondo una priorità da attribuirsi alla prima. L’impatto pratico – nel senso alto del termine - dell’irrisolta opposizione sarebbe devastante sulla persona umana.

È da questa preoccupazione che nasce la domanda fondamentale a cui l’articolo cerca di rispondere: misericordia e verità sono conciliabili? Ed in caso affermativo, quale è la forma della conciliazione?

Devo notare subito che l’autore, se non vado errando, opera uno “scivolamento semantico” che domina tutta la costruzione della risposta. La verità viene fatta coincidere con la legge; lo “scivolamento semantico” è di evidenza solare fin dall’inizio, ove il significato dato alla «verità» è quello di «misurare gli uomini secondo una regola».

Si legga attentamente il seguente testo: «…Riteniamo che la misericordia consenta di tener salda la fedeltà alla verità. Se noi misuriamo gli uomini secondo una regola, è inevitabile dividerli tra giusti e peccatori; dopo di che resta solo da invitare questi ultimi a convertirsi adeguandosi alla norma» [pag. 330].

Lo “scivolamento semantico” conduce l’autore a formulare la questione di fondo nel modo seguente: come conciliare l’irripetibile condizione del soggetto agente con le generalizzazioni proprie della legge morale? La misericordia opera la conciliazione in quanto essa afferma il primato del soggetto nei confronti della legge. Primato che si esprime nella figura della “eccezione” alla legge generale; e il giudice che stabilisce la legittimazione della eccezione è la coscienza.

Gli studi storici condotti dal p. Pinckaers o.p. hanno dimostrato che questo modo di risolvere il problema del rapporto universale – singolare è nato con la teologia post-tridentina.

Vorrei ora mostrare che la risposta dell’autore ad un problema reale e centrale nella riflessione etica, è falsa. A questo mi spinge anche il fatto che essa sta diventando il paradigma fondamentale con cui da parte di molti si affronta il tema divorziati risposati – Eucarestia, sembrando che esso concilia l’affermazione dell’assoluta indissolubilità del matrimonio [rato e consumato] con la possibile ammissione del divorziato risposato all’Eucarestia.

1. In primo luogo cercherò di rigorizzare il concetto di verità quando esso è usato nel contesto di una teologia della misericordia. «Non parlare come conviene non costituisce solo una mancanza verso ciò che si deve dire, ma anche mettere in pericolo l’essenza stessa dell’uomo» [Platone].

La famosa disputa dei farisei con Gesù [cfr. Mt 19, 3-9 e par.] circa l’indissolubilità del matrimonio ci introduce nella coscienza di Gesù; nel modo con cui Egli incontra le persone che gli propongono problemi pratici. I farisei chiedono a Gesù la misura in cui si può eccepire alla legge dell’indissolubilità; quali sono le circostanze che legittimano la deroga: solo l’adulterio o anche altro. Gesù non risponde nemmeno. Egli rifiuta l’impostazione, la logica della domanda, ma si rifà al «Principio». Si rifà a come Dio ha fatto e fa le cose.

«Per Gesù il Principio è l’intenzione del Creatore… questo principio è presente a tutta la storia e per sempre rimane impulso e misura della storia, giudizio su di essa… Per Gesù, un permesso o una deroga mosaica al Principio… appartiene ad un passato, che può rivelarsi temporaneo e concluso…Per Gesù Mosè è passato, il Principio no» [F. Rossi de Gasperis, Sentieri di vita, 1; Paoline, Milano 2005, pag. 32].

Il Principio è la luce di Dio che è presente nell’uomo, lo accompagna sempre, anche nel fondo della disperazione. La vicenda del figliol prodigo ne è la rappresentazione esistenziale [cfr. Lc 15, 11-32].

La conversione del figlio implica un giudizio di condanna di quanto ha compiuto. Trattasi di giudizio circa la propria condizione vista alla luce della propria condizione originaria: alla luce del Principio «Quanti servi in casa di mio padre… ed io qui muoio di fame». La memoria della condizione originaria [«nella casa di mio padre» = il Principio] genera un giudizio circa la condizione attuale [«ed io qui muoio di fame»], dal quale nasce la decisione del ritorno.

Il Principio non è cronologicamente situato, come Mosè. Esso semplicemente è.

La categoria del comandamento-legge è la più adeguata per esprimere questo modo di pensare proprio di Gesù? Il Principio cioè è riducibile al comandamento? Penso proprio di no. E per varie ragioni.
Gesù richiama il Principio nel contesto di una discussione casuistica, di applicazione di una legge a casi particolari.
Come già dissi, il Principio è l’originario disegno del Creatore sulla coppia umana. È certamente normativo, e fino al punto da non ammettere deroghe, neppure da parte di Mosè, giustificandole colla durezza del cuore. Ma la normatività del Principio non è ultimamente dovuta ad un atto di volontà divina: è la normatività propria della costituzione stessa della coppia umana. La categoria più adeguata è la categoria di verità pratica, cioè di verità circa il bene della persona.

In breve. Il Principio biblico è la verità, il senso della persona umana come Dio l’ha pensata e voluta: l’ha creata. Misericordia e verità così intesa stanno dunque sempre l’una nell’altra. La Misericordia è l’opera di Dio che in Cristo edifica l’uomo vero; la verità è il progetto, l’intenzione che guida l’operare misericordioso di Dio.

Parlare di priorità della misericordia nel senso che essa legittima eccezioni ad una legge, ha senso solo all’interno di una costruzione legalistica: nella riflessione etica un capitolo chiuso!

2. Sento già l’accusa: questa impostazione nega di fatto la storicità della persona umana; non riconosce al soggetto nelle circostanze uniche in cui vive, quell’importanza che esso ha.
L’articolo che stiamo esaminando, muovendosi – come dicevo – nel contesto preciso di una riflessione e di una costruzione etica legalista, pensa la dimensione storica del soggetto nei seguenti termini: la legge morale in quanto norma generale,  non può tenere conto di tutte le singolari circostanze in cui vive il soggetto; e pertanto eccezioni alla legge morale sono possibili o perfino doverose.

La costruzione etica di fondo dell’articolo, a mio modo di vedere, affronta un problema vero, che nessuna antropologia, etica, e prassi pastorale può ignorare. Ma la modalità colla quale il problema è affrontato, porta l’autore a due conseguenze: misericordia e verità/legge possono contrapporsi; è la coscienza del singolo a dirimere il conflitto.

Il “nodo” della questione è nell’ammettere in linea di principio la possibilità di un conflitto tra misericordia e verità. Questo punto di partenza, che nasce dall’oscurarsi del concetto di verità, conduce ad un vicolo cieco, ad un aut-aut teoricamente non sostenibile: o il bene della persona o l’osservanza della legge. E la misericordia è l’attitudine di chi esime il soggetto, in ragione della sua situazione, dalla norma generale.

Come si esce da questo vicolo cieco? Attraverso una giusta comprensione della verità pratica, cioè della verità sul bene.

Esistono verità puramente speculative, nelle quali la ragione semplicemente riposa. Esistono però verità etico-religiose circa il bene della persona, le quali hanno certamente un contenuto formale, ma questo contenuto è solo il loro punto di partenza. Esse chiedono, esigono di essere realizzate nel loro contenuto dall’atto della persona. O meglio: esse sono tali da “provocare” la libertà della persona a realizzarsi in esse.

La verità pratica è come lo spartito musicale. Esso certamente può essere letto e studiato: esiste un alfabeto musicale. Tuttavia solo nell’esecuzione quei segni manifestano la loro invisibile realtà. Si possono fare discussioni sulla verità pratica, ma che cosa essa significa viene detto quando la libertà la esegue.

Esiste pertanto una “coesione essenziale” fra persone e verità pratica [=legge naturale]; ed una “coesione esistenziale”, che è opera della libertà. È questo un punto fondamentale.

La veritas agenda è insita nella persona, e non ha affatto il carattere di una lex exterius data: questa è la coesione essenziale. Il non “sentire” questa coesione è uno dei segni più drammatici che la persona umana si trova in una condizione di perdizione [cfr. Rom 7, 14-23]. La veritas agenda dimora dentro l’autodeterminazione della persona, ed è la coscienza ad introdurvela. La libertà la realizza o la nega: questa è la coesione esistenziale o la verità della soggettività.

La persona nel suo agire non è un caso contemplato o non da una legge. La persona è la veritas agenda; è sempre immersa, radicata nel Principio.

Nel primo schema ha senso chiedersi se posso fare un’eccezione alla legge, date le mie particolari circostanze. Nel secondo non ha senso: sarebbe come chiedersi se nel mio agire posso fare eccezione al mio essere persona umana.

«La verità della soggettività è… una nozione esistenziale di relazione tra esistenza semplice e decisione libera, tra realizzazione affettiva e pura possibilità… essa importa la soggezione e l’adeguazione completa e assoluta che l’uomo deve alla stessa verità, se vuole essere nella stessa verità. Se vuole possederla, egli deve prima da essa lasciarsi possedere» [C. Fabro].

È di questa verità che il beato J.H.Newman parlava, quando scrisse: «Lo spirito è al di sotto della verità, non al di sopra; esso è obbligato non a dissertare sulla verità, ma a venerarla».

Il cuore del dramma dell’uomo non è il suo confronto con una legge. È il dramma di una persona che può decidersi a negare colla sua scelta la verità di se stessa, conosciuta dalla sua ragione e/o dalla fede. Che può decidersi di sradicarsi dal Principio, che brilla sempre nella mente, intimior intimo meo et superior speriori meo.

Il Deus dives in misericordia si è fatto proto-agonista di questo dramma, perché ha decido di ricondurre in Cristo l’uomo alla pienezza della [verità della] sua umanità. È un dramma che narra una storia inedita e propria di ogni persona.

Ed infatti la Chiesa è mediatrice della divina misericordia in due modi o luoghi: l’ambone, dove aiuta l’uomo a prendere coscienza della coesione essenziale - il confessionale, dove aiuta il singolo a realizzare la connessione esistenziale. Guai a confondere i due!

La gradualità del percorso non consiste nella capacità di applicare una legge universale ad una condizione che è sempre unica: questo è il compito del giudice, non del ministro della misericordia.

Consiste nel condurre sempre più la persona a vivere nella verità del bene: itinerarium libertatis in Veritatem. Le indicazioni dell’itinerario non sono leggi fisse, ma un accompagnamento sapiente e prudente. La gradualità non è un cammino verso un traguardo: non è la tensione verso un ideale [=pelagianesimo]. È invece l’approvazione consapevole e libera data dal singolo alla verità del bene, diventando sempre più liberamente vero e veramente libero. Ed è un cammino unico, proprio di ogni persona, non generalizzabile. Opus maximum misericordiae Dei!

Breve appendice.

Alle ormai famose due “eccezioni” proposte dal p. Garrigues o.p. sono già state fatte critiche così consistenti da mostrarne l’insostenibilità. Mi limito ad una sola osservazione, di carattere logico. Memore di ciò che B. Russel amava ripetere: molti hanno cercato di spezzare la logica, ma alla fine è la logica a spezzare molti.

Se elaboro un’ipotesi di condotta [nel caso, accesso all’Eucarestia del divorziato risposato] in base a circostanze rigorosamente precisate, e dico: “dandosi queste circostanze, la condotta ipotizzata è una eccezione legittima alla legge universale”, in realtà non faccio un’eccezione, ma propongo una legge contraria.

Infatti ogni volta che si daranno quelle circostanze, quella condotta sarà legittima: ho elaborato uno schema di condotta indefinitivamente ricorribile e generalizzabile. È precisamente ciò che fa la legge, ogni legge.

Delle due l’una, dunque. O si dice che il matrimonio [rato e consumato] è sempre e comunque indissolubile, ed allora è logicamente impossibile elaborare ipotesi alla Garrigues o.p.; oppure si ammette la legittimità di ipotesi di questo genere, ed allora non si può più affermare l’assoluta indissolubilità del matrimonio. Non datur tertium, nisi tertium confusionis: proclamare a parole una verità, affermandone un’altra mediante la legittimazione di una prassi i cui presupposti impliciti contraddicono la verità proclamata. È la “performative contradiction”.
Gesù non si è lasciato ingabbiare dai farisei dentro a questa [pseudo-] logica: Egli guardava al Principio.


* Cardinale, Arcivescovo di Bologna















La nuova Bussola Quotidiana 23-06-2015 

lunedì 22 giugno 2015

Mons. Negri: Il popolo è avanti, le autorità riflettano



20 giugno, piazza San Giovanni






di Riccardo Cascioli

«Il mio primo sentimento è di gratitudine al Signore che ha permesso una cosa grande per la vita della Chiesa italiana e per la vita del popolo italiano». Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, tra i primissimi vescovi a sostenere l’idea di una manifestazione pubblica a difesa della famiglia e dei bambini, è particolarmente soddisfatto della grande festa della famiglia che si è celebrata sabato 20 giugno in Piazza San Giovanni. Ha seguito tutto il giorno lo svolgersi della manifestazione, stando al telefono con gli amici presenti a Roma. «È una cosa grande che è potuta accadere perché ha trovato un milione di uomini grandi, un milione di cuori grandi, cioè disponibili ad agire senza farsi frenare dalle piccole alchimie delle valutazioni scientifico-politiche».

Una manifestazione preparata in 18 giorni, senza sponsor istituzionali, nel silenzio dei media. C’erano legittimi timori sull’esito e anche sull’efficacia reale dal punto di vista politico.
Già, come se la grande battaglia di Lepanto fosse stata fatta sulla previsione della vittoria. Fu fatta prevedendo che sarebbe stata una sconfitta. Tutti, dal re di Polonia fino all’ultimo servente di mulo ricevettero la comunione in articulo mortis. O come se quelli che hanno manifestato contro il comunismo nelle piazze di Danzica, di Varsavia, di Cracovia avessero valutato che c’era una certa previsione che il comunismo cadesse. Avessero ragionato come tanti ecclesiastici e uomini di cultura oggi in Italia, avrebbero detto che era inutile fare la manifestazione perché il comunismo non sarebbe caduto. Come invece cadde, anche per queste manifestazioni.

Fortunatamente non sono stati fatti questi calcoli.
Il popolo giustamente ha seguito l’instinctus fidei, quell’istinto della fede per cui il popolo attese all’uscita i vescovi che partecipavano al Concilio di Efeso del 431 imponendo quasi manu militari la dichiarazione della Madonna come Theotokos, madre di Dio.
Ecco questa a me pare la grande esperienza di un popolo cattolico e laico che ritrova il senso della propria dignità, il senso della propria cultura, il senso del proprio servizio al bene comune, per il quale fa un gesto magari piccolo ma che diventa significativo nel contesto della vita sociale.


Non tutti nella Chiesa hanno aderito, ci sono state anche pressioni contrarie.
Di fronte a questo popolo credo che stia la meschinità di tante valutazioni culturali, politiche, ecclesiastiche che non hanno saputo cogliere la domanda che sale dal basso. Comunque certamente mancavano in piazza cattolici di varia estrazione a cui forse è bastato l’elogio di un difensore appassionato della Chiesa e della libertà quale è Alberto Melloni (cfr. articolo sul Corriere della Sera del 19 giugno, ndr). Ma quando si ricevono elogi di quel tipo lì, se si aguzza bene l’orecchio si sente ancora il tintinnare dei 30 denari.

Qualche polemica c’è stata anche a proposito di certe posizioni nella Conferenza episcopale.
Credo sia molto importante chiarire che la responsabilità pastorale è esplicitamente delegata agli ordinari, ai singoli vescovi nelle loro diocesi, e non alla Cei. La Cei al massimo può dare direttive che poi sono sottoposte alla discrezionalità degli ordinari locali. Mi sembra quindi giusto dare onore a quel gruppo di cardinali, arcivescovi e vescovi che si sono assunti pienamente la responsabilità di indicazioni a favore della manifestazione. Il popolo, dove è stato guidato, ha trovato il conforto dei pastori e ha saputo utilizzare questo confronto per fare una cosa significativa per sé, per la Chiesa e per la società.

In ogni caso l’impressione avuta sabato in piazza San Giovanni era quella di un popolo che si è autoconvocato, e anche alcuni commentatori hanno dovuto riconoscere questa novità.
A questo proposito credo che si apra un problema reale, quello della legittimazione dell’autorità. Delle autorità culturali, politiche, sociali e per certi aspetti di certe autorità religiose nei confronti di questo popolo che è avanti. Un popolo che non chiede di essere telecomandato o sostituito nelle decisioni – altrimenti in piazza san Giovanni ci sarebbe stata solo qualche decina di persone -, ma che chiede di essere educato nelle azioni. C’è un impeto di presenza culturale, sociale e politica, di missione ecclesiale che coloro che ai vari livelli hanno una qualche responsabilità devono farsi interrogare. Tutti dobbiamo chiedere a noi stessi e alla nostra coscienza il livello di corrispondenza fra il nostro popolo - quello cristiano anzitutto, ma anche quello laico che ha pure dei riferimenti autorevoli - e coloro che guidano. Perché io ritengo che questa pressione del popolo sulle strutture istituzionali e civili non debba ridursi, non debba rallentare. Certo non si può fare un Family Day ogni anno, però si possono trovare modi e tempi per questa pressione legittimamente democratica. 

La politica è stata spiazzata da questo evento, e da parte di chi sta promuovendo la distruzione della famiglia c’è stata una reazione rabbiosa. Abbiamo anche sentito il sottosegretario alla presidenza del Consiglio affermare che si è trattato di «una manifestazione inaccettabile».
Io non ho il compito di fare osservazioni di carattere politico, e in questi dieci anni di episcopato mi sono rigorosamente attenuto a questa discrezione sulle scelte partitiche. Ma posso dire con molta tranquillità che ho guardato con una certa simpatia i tentativi di riforma dell’attuale presidente del Consiglio perché l’Italia ha veramente bisogno di riforme per uscire da questa situazione stagnante. Ma se dalla presidenza del Consiglio arrivano questo genere di affermazioni che non vengono smentite, allora bisogna dire, caro presidente del Consiglio, per lei è inaccettabile la libertà di espressione, la libertà di cultura, la libertà di proporre lealmente e pacificamente nel contesto sociale posizioni che hanno una loro identità e una loro dignità. Questa è paura della libertà. E come può fidarsi un popolo di un presidente del Consiglio che ha paura della libertà?

Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, vede il popolo di piazza san Giovanni in contrapposizione al pontificato di Francesco, che – secondo lui – al contrario della piazza non vuole uno scontro con il mondo.
Come è stato giustamente detto, in tutti gli interventi almeno degli ultimi sei-sette mesi sulla questione famiglia e gender, il Papa non solo è stato chiarissimo ma è stato decisissimo nel chiedere opportuni interventi di presenza della società. Mi dispiace che un giornalista che ho sempre ritenuto serio, arrivi a questi mezzucci che non hanno nessuna consistenza di carattere filologico, scientifico. Bisogna accettare che il popolo italiano, cattolici in maggioranza ma anche molti laici, ha seguito la chiarezza delle posizioni e non le meschinerie e i miscugli di carattere parascientifico. La realtà è questa: un milione di persone ha seguito indicazioni chiare, partendo dalle indicazioni di papa Francesco e seguendo indicazioni non meno chiare di un gruppo significativo - qualitativamente e quantitativamente - di vescovi italiani. Piaccia o no le cose stanno così. Riflettiamo su ciò che c’è e non su ciò che sarebbe stato augurabile che accadesse. Il giornalista informa a partire dalla realtà, non dalle sue farneticazioni.














La nuova Bussola Quotidiana 22-06-2015