di Giuliano Ferrara
Qualche anno fa, non molti, era battaglia. Sulla vita, sui figli, sul significato di paternità e maternità, sul criterio della selezione eugenetica o selezione della razza, sul carattere umano, troppo umano, dell’imperfezione genetica, sul diritto sempre periclitante a sapere di chi si sia figli (ma nel caso della madre c’era una certezza classicamente e latinisticamente stabilita: semper certa est).
Qualche anno fa, non molti, si discuteva accanitamente, e si votava in Italia in un referendum molto combattuto, sulla natura dell’embrione concepito, sul suo corredo cromosomico, sulla tutela biopolitica degli individui nella loro irripetibile singolarità, fissata nelle costituzioni e nelle coscienze. Ci si batteva, con la partecipazione non dei soli medici ed esperti ma di psicoanalisti, di femministe, di gente seria e sorpresa dalla deriva in corso, intorno alla scienza nel suo rapporto con la tecnica, la tecnoscienza, e si pensava che un limite etico fosse necessario, che il crescente potere “creativo” della bioingegneria dovesse essere definito dalla norma e dalle consuetudini e dalle culture anche in base a un crescente potere morale di scelta affidato per sua natura alla società o alla comunità, entità diverse per loro natura da una sequenza numerica di individui privi di connessione storica, di ethos e di pathos comuni, privi di legami forti e di una condivisione efficace e fondatrice anche di obblighi legali e di doveri semplicemente umani.
La contesa era allargata, com’è ovvio, all’aborto, di cui fu proposto un bilancio non ipocrita mentre si discorreva onusianamente di moratoria per la pena di morte, al matrimonio, alla differenza sessuale oltre il dominio, che nessuno ha mai contestato, dei sentimenti privati e delle scelte di eros e di piacere diverse da quelle della norma sociale familiare legata al matrimonio e all’educazione biparentale dei bambini. Un Papa e una chiesa, quella cattolica, avevano detto l’inosabile, qualcosa che suonava come una sconfessione (e non lo era) della democrazia procedurale o ciudadana che vuole ogni perfezione della decisione pubblica affidata alla forza dei numeri di maggioranza: “Princìpi non negoziabili” era la frase proibita, importante per l’etica e per la politica, per la definizione del fondamento extragiuridico dello stato e dell’obbligo politico, la frase che ha portato nel giro di qualche anno alle dimissioni di un Papa teologo e profeta, e all’arrivo, per curare le ferite della contemporaneità cattolica (un ossimoro), di un Papa gesuita e pastorale, la cui teologia biblica sa di misericordia, com’è ovvio, e di oblio e negazione della razionalità del giudicare (il che è meno ovvio).
La chiesa ha abbandonato il campo di battaglia. Si cura le ferite con un linguaggio riluttante e trasversale, fatto di nascondimenti e di gioia evangelica esibita, ma non si capisce fino a che punto vissuta o vivibile. Le classi dirigenti cattoliche e quelle laiche di un tipo speciale, non riducibile alla gnagnera laicista e secolarista, sono un vago ricordo, un fuoco fatuo. La nostra spinta di minoranza fuori della chiesa era autentica, fondata sulla convergenza con una grande visione del mondo e le sue conseguenze, ma quella del personale cattolico di establishment era solo connivenza provvisoria con i vescovi del momento: cambiato il capo dei vescovi, cambiato il clero e il segno del clericalismo, rifugiatosi il capo della chiesa in una disperazione della dottrina, ecco che svaniscono intellettuali, pastori e militanti della battaglia sulla vita, o si nascondono in pratiche ordinarie, il minimo indispensabile ma inutile che oggi va per la maggiore.
Se questa fuga sia una diabolica responsabilità religiosa o filosofica o dottrinale, se la vedranno loro; quanto a noi, interessati alla spiritualità e alla fede di chi la possieda ma sopra tutto alla responsabilità civile, politica nel senso non bassissimo del termine, sentiamo qualcosa di più di una responsabilità, e lasciamo da parte Faust e Mefistofele, sentiamo una colpa. Che cosa abbiamo fatto per meritarci lo scambio degli embrioni in ospedale a Roma, la lite giudiziaria sinistra tra genitori biologici e genitori di gestazione, che si decide a giorni nelle mani di un diritto flebile e prepotente e incurante dei diritti di chi sopravviene, che ha ucciso in culla con 28 verdetti attivistici una legge che ci erano voluti trent’anni per farla? Che cosa abbiamo fatto per arrivare a un decreto del governo che pare cerchi di evitare, estrema linea Maginot, le secche altrettanto sinistre della compatibilità genetica come aggressivo diritto alla pelle chiara o agli occhi celesti nella fecondazione eterologa? Che cosa abbiamo fatto per assistere al trionfo dei “centri” di desiderio immaturi e degli esperti faustiani che negano anche questa blanda e aggirabile necessità normativa, e teorizzano una capacità e opacità riproduttiva legibus soluta, anarchica, fatta di una sicura predisposizione all’eugenetica cioè alla selezione della razza?
Lo sappiamo. Sono cose che arrivano certo dal biologismo nazionalsocialista di origine tedesca e dai miti della razza della destra europea o di una sua parte; ma sono anche cose che vengono dall’ottimismo socialdemocratico, perfino dallo spirito americano, dai territori ideologici in cui si sperimenta nel Novecento il mondo della fitness liberato dall’imperfezione e dalla realtà, che sempre è imperfetta. Leggo le cronache e penso inevitabilmente a una maledizione, a una fatale rinuncia alla ricerca odissaica del vero, alla dismessa curiosità per l’umano in favore della costruzione del transumano, a una brutalizzazione (viver come bruti) del genere a cui appartengo, del suo codice culturale, della sua scintilla divina, in senso cristiano o anche pagano. Siamo caduti veramente molto in basso, e uso consapevolmente questa espressione da nonno bisbetico, e dobbiamo prendere atto di una colpa, di una colpa morale, che condividiamo, quelli che hanno agito nella sciatteria o nell’equivoco per il male assoluto e quelli che non hanno saputo vincere la battaglia per un bene relativo ma certo. Il mondo di provetta selvaggia, del diritto di morire come norma e cultura, dell’aborto selettivo ed eugenetico, della distruzione serena (#embrionestaisereno), il mondo che hanno paventato in pochi, tra questi un intellettuale triste e morto suicida come Alex Langer (“E se Ratzinger avesse ragione?” era un suo articolo in tempi non sospetti), il mondo del sentimento facile e del disprezzo esibito, che si nasconde dietro i bambini di Gaza mentre organizza il grande campo di concentramento eugenetico a cielo aperto che siamo diventati: questo è il mondo che laici impotenti e cristiani riflessivi e solidali hanno costruito. L’abdicazione di Ratzinger è stata simbolicamente molto di più che non la rinuncia al Soglio pontificio.
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fonte: Il Foglio
La contesa era allargata, com’è ovvio, all’aborto, di cui fu proposto un bilancio non ipocrita mentre si discorreva onusianamente di moratoria per la pena di morte, al matrimonio, alla differenza sessuale oltre il dominio, che nessuno ha mai contestato, dei sentimenti privati e delle scelte di eros e di piacere diverse da quelle della norma sociale familiare legata al matrimonio e all’educazione biparentale dei bambini. Un Papa e una chiesa, quella cattolica, avevano detto l’inosabile, qualcosa che suonava come una sconfessione (e non lo era) della democrazia procedurale o ciudadana che vuole ogni perfezione della decisione pubblica affidata alla forza dei numeri di maggioranza: “Princìpi non negoziabili” era la frase proibita, importante per l’etica e per la politica, per la definizione del fondamento extragiuridico dello stato e dell’obbligo politico, la frase che ha portato nel giro di qualche anno alle dimissioni di un Papa teologo e profeta, e all’arrivo, per curare le ferite della contemporaneità cattolica (un ossimoro), di un Papa gesuita e pastorale, la cui teologia biblica sa di misericordia, com’è ovvio, e di oblio e negazione della razionalità del giudicare (il che è meno ovvio).
La chiesa ha abbandonato il campo di battaglia. Si cura le ferite con un linguaggio riluttante e trasversale, fatto di nascondimenti e di gioia evangelica esibita, ma non si capisce fino a che punto vissuta o vivibile. Le classi dirigenti cattoliche e quelle laiche di un tipo speciale, non riducibile alla gnagnera laicista e secolarista, sono un vago ricordo, un fuoco fatuo. La nostra spinta di minoranza fuori della chiesa era autentica, fondata sulla convergenza con una grande visione del mondo e le sue conseguenze, ma quella del personale cattolico di establishment era solo connivenza provvisoria con i vescovi del momento: cambiato il capo dei vescovi, cambiato il clero e il segno del clericalismo, rifugiatosi il capo della chiesa in una disperazione della dottrina, ecco che svaniscono intellettuali, pastori e militanti della battaglia sulla vita, o si nascondono in pratiche ordinarie, il minimo indispensabile ma inutile che oggi va per la maggiore.
Se questa fuga sia una diabolica responsabilità religiosa o filosofica o dottrinale, se la vedranno loro; quanto a noi, interessati alla spiritualità e alla fede di chi la possieda ma sopra tutto alla responsabilità civile, politica nel senso non bassissimo del termine, sentiamo qualcosa di più di una responsabilità, e lasciamo da parte Faust e Mefistofele, sentiamo una colpa. Che cosa abbiamo fatto per meritarci lo scambio degli embrioni in ospedale a Roma, la lite giudiziaria sinistra tra genitori biologici e genitori di gestazione, che si decide a giorni nelle mani di un diritto flebile e prepotente e incurante dei diritti di chi sopravviene, che ha ucciso in culla con 28 verdetti attivistici una legge che ci erano voluti trent’anni per farla? Che cosa abbiamo fatto per arrivare a un decreto del governo che pare cerchi di evitare, estrema linea Maginot, le secche altrettanto sinistre della compatibilità genetica come aggressivo diritto alla pelle chiara o agli occhi celesti nella fecondazione eterologa? Che cosa abbiamo fatto per assistere al trionfo dei “centri” di desiderio immaturi e degli esperti faustiani che negano anche questa blanda e aggirabile necessità normativa, e teorizzano una capacità e opacità riproduttiva legibus soluta, anarchica, fatta di una sicura predisposizione all’eugenetica cioè alla selezione della razza?
Lo sappiamo. Sono cose che arrivano certo dal biologismo nazionalsocialista di origine tedesca e dai miti della razza della destra europea o di una sua parte; ma sono anche cose che vengono dall’ottimismo socialdemocratico, perfino dallo spirito americano, dai territori ideologici in cui si sperimenta nel Novecento il mondo della fitness liberato dall’imperfezione e dalla realtà, che sempre è imperfetta. Leggo le cronache e penso inevitabilmente a una maledizione, a una fatale rinuncia alla ricerca odissaica del vero, alla dismessa curiosità per l’umano in favore della costruzione del transumano, a una brutalizzazione (viver come bruti) del genere a cui appartengo, del suo codice culturale, della sua scintilla divina, in senso cristiano o anche pagano. Siamo caduti veramente molto in basso, e uso consapevolmente questa espressione da nonno bisbetico, e dobbiamo prendere atto di una colpa, di una colpa morale, che condividiamo, quelli che hanno agito nella sciatteria o nell’equivoco per il male assoluto e quelli che non hanno saputo vincere la battaglia per un bene relativo ma certo. Il mondo di provetta selvaggia, del diritto di morire come norma e cultura, dell’aborto selettivo ed eugenetico, della distruzione serena (#embrionestaisereno), il mondo che hanno paventato in pochi, tra questi un intellettuale triste e morto suicida come Alex Langer (“E se Ratzinger avesse ragione?” era un suo articolo in tempi non sospetti), il mondo del sentimento facile e del disprezzo esibito, che si nasconde dietro i bambini di Gaza mentre organizza il grande campo di concentramento eugenetico a cielo aperto che siamo diventati: questo è il mondo che laici impotenti e cristiani riflessivi e solidali hanno costruito. L’abdicazione di Ratzinger è stata simbolicamente molto di più che non la rinuncia al Soglio pontificio.
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fonte: Il Foglio
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