In attesa della vittoria di Cristo Re, i cattolici devono prendere delle decisioni dolorose e rifiutare ogni sorta di collaborazione con la rivoluzione. “Le carenze dell’autorità gerarchica, la potenza straordinaria delle autorità parallele, i sacrilegi nel culto, le eresie nell’insegnamento dottrinale” li obbligano a rispondere un non possumus a tutti gli inviti e a tutte le minacce. Ma – ci si chiede – non perderanno a causa di ciò il loro legame con la Chiesa? rimarranno figli della Chiesa? non rischiano di diminuire in loro il sentire cum Ecclesia che fa la forza del cattolico? Per rassicurarli, il Padre Calmel, in un articolo del gennaio 1975, tratta con lealtà queste questioni delicate che impongono ai cattolici il dovere della resistenza.
Inizia col notare come i sacerdoti, religiosi e religiose che dicono aver preso «le parti di ciò che chiamano l’obbedienza», «in realtà seguono, generalmente senza grande entusiasmo, delle indicazioni ambigue; subiscono, “incassano” le innovazioni». Ciò è molto lontano dall’obbedienza cristiana. Spesso «sono abusati piuttosto che colpevoli». Tuttavia, qualsiasi cosa dicano, «la loro condotta fa il gioco della sovversione. Si sono piegati, in effetti, a delle innovazioni disastrose; delle innovazioni introdotte da nemici nascosti, delle trasformazioni equivoche e polivalenti, che non hanno altro scopo effettivo se non quello di sradicare una tradizione certa e solida, di debilitare e, finalmente, di cambiare pian piano la religione».
Ora i cattolici che ci tengono ai costumi, alla dottrina, alla liturgia, in una parola, alla Chiesa di sempre, questi fedeli che credono che «la Chiesa condanna la rivoluzione e la condannerà sempre, che essa si chiami liberalismo o socialismo», «questi cristiani fedeli li accuseremo forse di disobbedienza?».
Questi cattolici «rifiutano i compromessi; rifiutano d’entrare in complicità con una rivoluzione che è sicuramente modernista. Sociologicamente essi sono tenuti in disparte», sono umiliati, esclusi da ogni responsabilità. Tuttavia, senza amarezza, ci tengono che «la loro fedeltà sia penetrata d’umiltà e di fervore; non hanno gusto né per il settarismo, né per l’ostentazione. Stando al loro posto, essi cercano di mantenere ciò che la Chiesa ha loro trasmesso». In definitiva, questi cristiani fedeli non sono altro che degni figli della loro Madre:
Facendo così non dubitiamo di essere figli della Chiesa. Non formiamo in nessun modo una piccola setta marginale; siamo della sola Chiesa cattolica, apostolica e romana. Prepariamo, facendo del nostro meglio, il giorno benedetto in cui, avendo l’autorità ritrovato se stessa, nella piena luce, la Chiesa sarà finalmente liberata dalle caligini soffocanti della prova attuale. Benché questo giorno tardi a venire, proviamo a non tralasciare niente del dovere essenziale di santificarci; facciamolo custodendo la Tradizione nello stesso spirito in cui l’abbiamo ricevuta: uno spirito di santità.
Il Padre Calmel cita ancora ciò che gli diceva il suo amico Luigi Daménie, fondatore e direttore dell’Ordine Francese, verso la fine del 1969: «Dopo tutto, è la Chiesa che mi ha insegnato a fare come faccio: non patteggiare con ciò che distrugge la fede».
Termina il suo articolo con una visione di speranza, fondata sulla sua fede irremovibile nella santità della Chiesa:
[…] Custodiamo la Tradizione con pazienza. Le forze moderniste occupanti non potranno imbavagliare per tanto tempo le sacre labbra della nostra Madre. Ella ci dirà ad alta voce che non abbiamo niente di meglio da fare che mantenere santamente la Tradizione. Patientia pauperum non peribit in finem (salmo 9). La pazienza dei poveri non sarà indefinitamente ingannata.
Questa fiducia, beninteso, non esclude in alcun modo il combattimento, questa speranza non paralizza le iniziative. È per questo che nel numero seguente della rivista Itinéraires, Padre Calmel chiama i fedeli all’azione. Poiché «Le innovazioni postconciliari» sono «un sistema strategico d’occupazione», conviene fondare e mantenere modestamente dei fortini della fede:
Avendo visto dove siamo, misuriamo quello che resta in nostro potere. Ciò che rimane in nostro potere è prima di tutto l’orazione e la vita nascosta in Dio; ciò che rimane in nostro potere è ancora ciò che la rivista Itinéraires ha tante volte preconizzato: senza scalpore e senza rumore costituire dei fortini di resistenza, di attaccamento pii e viventi alla Tradizione. Questi fortini sembreranno ridicoli; di fronte alla Chiesa apparente e occupante sembrano una difesa troppo debole. Che importa? La grazia di Dio non si misura con quello che appare. È in nostro potere compiere modeste opere di resistenza e di mantenerle. Dunque non dobbiamo esitare, con la grazia di Dio. Io parlo soprattutto della vita interiore, del colloquio che deriva dalla vita di preghiera, dal sacro studio umilmente guidato, dalla carità fraterna, dalla modestia. Possiamo riprendere a questo proposito tutte le raccomandazioni di san Paolo e indirizzarle a queste minuscole comunità nascenti, questi primi fortini di Salonicco o d’Efeso.
Per ricapitolare il pensiero sia teologico sia pratico del P. Calmel, conviene rivisitare le ultime righe da lui scritte sulla rivista Itinéraires […]:
La grazia fa sì che il desiderio della santificazione si mantenga al livello della fermezza della resistenza […] la grazia fa sì che nella resistenza risoluta, che è quella necessaria per rendere testimonianza, la pace interiore, lungi dal venir meno, si accresca. […] occorre nutrire l’orazione con la preghiera della Chiesa secondo i tempi liturgici; la conversazione interiore deve svolgersi alla luce dei misteri della fede conformemente del resto alla pratica del rosario; che la testimonianza sia resa per amore […].
Tratto da : Père Jean-Dominique Fabre, Le père Roger-Thomas Calmel (1914-1975). Un fils de saint Dominique au XX siècle, Clovis 2012, pp. 597-600.
conciliovaticanosecondo.it 26 gennaio 2014
Nessun commento:
Posta un commento