di Don Marcello Stanzione
Don Dolindo (1882-1970), quinto degli undici figli di Raffaele Ruotolo, matematico, e di Anna Valle, nobildonna proveniente da una famiglia decaduta di origine spagnole, nacque a Napoli nel popolare quartiere Forcella. Il matrimonio dei genitori non resse a lungo e sfociò ben presto in una dolorosa separazione a causa dell’asprezza del carattere del padre e della sua proverbiale avarizia che si scontravano con le abitudini signorili della madre e la sua dolcezza.
In una poderosa autobiografia di due volumi Don Dolindo ha raccontato come il suo nome, che significa “dolore” venne coniato dal padre e come “profeticamente” la sofferenza (per le numerosissime umiliazioni, ma anche per le ristrettezze economiche e la fame) fu l’elemento che contraddistinse tutta la sua esistenza, compreso il periodo del seminario e quello sacerdotale. Conobbe San Pio da Pietrelcina al quale spesso fu assimilato, ma se quest’ultimo mostrava visibilmente sul suo corpo i segni del Calvario di Cristo, Don Dolindo li serbava nell’animo e per questo venne anche identificato come “un novello Apostolo del dolore interiore”.
Entrambi subirono a più riprese gli attacchi del Santo Uffizio con l’impedimento di officiare la messa in pubblico per un certo tempo, ebbero il dono della profezia, il carisma della massima ubbidienza alla Chiesa ed accettarono in tutto e per tutto la Volontà Divina nella più profonda umiltà. Con lo pseudonimo di Dain Cohenel fu un instancabile e raffinato letterato (si ricorda soprattutto il poderoso Commento alla Sacra Scrittura di ben 33 volumi), inoltre fu pure un brillante musicista, cantore e organista, un fantastico predicatore, un servo di Dio che spese tutta la sua vita in povertà per il prossimo, privilegiando i ceti meno abbienti soprattutto di una città tanto problematica come Napoli, dove trascorse la maggior parte della sua esistenza, portando avanti il suo ministero in quasi tutte le parrocchie dove fu comandato.
Le sue giornate cominciavano alle 2,30 del mattino per terminare verso la mezzanotte, scandite da tanti rosari e preghiere, dallo studio dei testi sacri e dalla scrittura, dall’immancabile sostegno a tutti quelli che glielo chiedevano tra cui molti poveri e ammalati dai quali correva anche in piena notte con qualsiasi condizione climatica, dimentico spesso dei suoi stessi mali cronici e passeggeri. Fondò L’Apostolato Stampa che ancora oggi, tramite i Frati Francescani dell’Immacolata, si occupa della divulgazione dei suoi scritti e formò diverse figlie spirituali con il compito di approcciare i soggetti più renitenti alla chiamata di Dio e con quello di educare le nuove generazioni. Noto soprattutto per “l’Atto di Abbandono in Gesù” (contro le ansie e le afflizioni) e per aver profetizzato con largo anticipo l’avvento al soglio pontificio di Giovanni Paolo II, viene annoverato tra quei pochi che godettero del privilegio di un intimo rapporto con Gesù, la Madonna e alcuni santi come S. Gemma Galgani. Scherzosamente da buon partenopeo egli si definisce uno “sciosciammocca” cioè una nullità di fronte alla potenza di Dio Padre, di Gesù e dello Spirito Santo.
Innamorato della Madonna, sosteneva di aver ricevuto tramite la sua intercessione (che si era intensamente manifestato in lui già in tenerissima età) i doni dell’intelletto e della sapienza quando era al ginnasio, in seminario, disperato per le continue bocciature e privo delle necessarie basi culturali per poter procedere negli studi. Il 19 novembre 1970 morì per una broncopolmonite in concetto di santità.
Attualmente grazie ai Frati Francescani dell’Immacolata è in corso l’iter per la sua beatificazione a seguito di diversi eventi miracolosi e di testimonianze sulla sua santità (e speriamo che questo iter prosegua, nonostante la pesante persecuzione che stanno subendo i Francescani dell’Immacolata, N.d.R.). La sua salma riposa nella Chiesa dell’Immacolata di Lourdes e San Giuseppe dei Vecchi a Napoli, ormai meta di pellegrinaggi da tutto il mondo.
Riguardo all’abito sacerdotale così scrive il mistico napoletano nel suo testo “ Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale”: “la grandezza sacerdotale non può rimanere celata, non è un brillante sepolto, deve rifulgere innanzi a tutti nell’atteggiamento e nella vita del Sacerdote, poiché egli è una lampada posta sul…candelabro ed è come città edificata sulla cima dei monti. Or come carattere sacro lo distingue nettamente dagli altri uomini, così deve distinguerlo l’abito, la vita, ed egli deve essere rifulgente di splendori soprannaturali. Non può dire che l’esteriorità non conta nulla, né può accomunarsi agli usi del mondo con la scusa che l’abito non fa il monaco; l’abito non lo fa ma lo rivela, e possiamo dire anche che lo aiuta internamente. Un soldato che non veste la divisa non si sente soldato: sub coscientemente si sente ancora libero cittadino, e non avverte la sua fusione al corpo militare cui appartiene come parte di un tutto inseparabile.
Il sacerdote deve essere tutto di Dio […]. La chiesa per questo lo riveste di una lunga tunica […]. L’abito sacerdotale deve mostrare che il ministro sacro quasi non ha corpo, è voltato a Dio con tutte le sue forze, e cerca solo la salvezza delle anime. Ora, se l’abito talare ha una forma secolaresca, se il capo è coltivato mondanamente con […] i ciuffi, e magari i ricci ed i profumi, se di sotto ad una succinta sottana fanno mostra i calzoni, […] che ciò rappresenta più un Sacerdote per il popolo? Quell’esteriore non lo raccomanda, ed in stesso è un segno troppo evidente di poco spirito e poca rinunzia al mondo. […] Se vive mondanamente, spegne la sua luce, e mostra in sé tutt’altro che la corsa dell’anima verso Dio.
[…] Il sacerdote dunque col suo abito talare, lungo, composto, povero ma pulito, col mantello che lo avvolge come se avesse le ali ripiegate, pronte al volo, col capo segnato dalla croce del Redentore, col corpo composto, spirante ordine e modestia, con gli occhi bassi, alieni assolutamente da ogni malsana curiosità, passa nel mondo proprio come angelo, dà un senso di pace e di confronto, dà un senso di speranza nelle angustie della vita perché egli rappresenta la carità, e passa come lampada che illumina, dissipando con la sola presenza le tenebre degli errori.
[…] Egli deve essere umile, ultimo di tutti, mansueto, ma deve avere anche soprannaturalmente, il senso della sua dignità. Non può essere volgare, non può mostrarsi in luoghi indecorosi, non può partecipare a giochi che lo fanno disistimare. Un sacerdote che va nella bettola, che va a bere vino in un pubblico locale, che va a caccia, […] o anche che va semplicemente a conversare al caffè (…), non può raccogliere la fiducia del popolo ed è responsabile del rilassamento della vita cristiana”.
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