giovedì 30 gennaio 2014

Papa Francesco: dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa






“Non si capisce un cristiano senza Chiesa”: lo ha affermato stamani Papa Francesco durante la Messa presieduta a Santa Marta. Il Pontefice ha indicato tre pilastri del senso di appartenenza ecclesiale: l’umiltà, la fedeltà e la preghiera per la Chiesa. Il servizio di Sergio Centofanti:

L’omelia del Papa è partita dalla figura del re Davide, come viene presentata dalle letture del giorno: un uomo che parla col Signore come un figlio parla con il padre e anche se riceve un “no” alle sue richieste, lo accetta con gioia. Davide – osserva Papa Francesco – aveva “un sentimento forte di appartenenza al popolo di Dio”. E questo – ha proseguito – ci fa chiedere su quale sia il nostro senso di appartenenza alla Chiesa, il nostro sentire con la Chiesa e nella Chiesa:

“Il cristiano non è un battezzato che riceve il Battesimo e poi va avanti per la sua strada. Il primo frutto del Battesimo è farti appartenere alla Chiesa, al popolo di Dio. Non si capisce un cristiano senza Chiesa. E per questo il grande Paolo VI diceva che è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. Non si può. E’ una dicotomia assurda. Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. L’altro è una fantasia o, come lui diceva, una dicotomia assurda”.

Il “sensus ecclesiae” – ha affermato - è “proprio il sentire, pensare, volere, dentro la Chiesa”. Ci sono “tre pilastri di questa appartenenza, di questo sentire con la Chiesa. Il primo è l’umiltà”, nella consapevolezza di essere “inseriti in una comunità come una grazia grande”:

“Una persona che non è umile, non può sentire con la Chiesa, sentirà quello che a lei piace, a lui piace. E’ questa umiltà che si vede in Davide: ‘Chi sono io, Signore Dio, e che cosa è la mia casa?’. Con quella coscienza che la storia di salvezza non è incominciata con me e non finirà quando io muoio. No, è tutta una storia di salvezza: io vengo, il Signore ti prende, ti fa andare avanti e poi ti chiama e la storia continua. La storia della Chiesa incominciò prima di noi e continuerà dopo di noi. Umiltà: siamo una piccola parte di un grande popolo, che va sulla strada del Signore”.

Il secondo pilastro è la fedeltà, “che va collegata all’ubbidienza”:

“Fedeltà alla Chiesa; fedeltà al suo insegnamento; fedeltà al Credo; fedeltà alla dottrina, custodire questa dottrina. Umiltà e fedeltà. Anche Paolo VI ci ricordava che noi riceviamo il messaggio del Vangelo come un dono e dobbiamo trasmetterlo come un dono, ma non come una cosa nostra: è un dono ricevuto che diamo. E in questa trasmissione essere fedeli. Perché noi abbiamo ricevuto e dobbiamo dare un Vangelo che non è nostro, che è di Gesù, e non dobbiamo – diceva Lui – diventare padroni del Vangelo, padroni della dottrina ricevuta, per utilizzarla a nostro piacere”.

Il terzo pilastro – ha detto il Papa – è un servizio particolare: “pregare per la Chiesa”. “Come va la nostra preghiera per la Chiesa? – domanda Papa Francesco - Preghiamo per la Chiesa? Nella Messa tutti i giorni, ma a casa nostra, no? Quando facciamo le nostre preghiere?”. Pregare per tutta la Chiesa, in tutte le parti del mondo. “Che il Signore –ha concluso il Papa - ci aiuti ad andare su questa strada per approfondire la nostra appartenenza alla Chiesa e il nostro sentire con la Chiesa”.





Testo proveniente dalla pagina del sito Radio Vaticana

mercoledì 29 gennaio 2014

Insulti a Benedetto XVI su Rolling Stone - ma nessuno dice "bah"








ilVaticanista

Sono veramente perplesso.
 
E stavolta, cari amici, sono stufo di pensare e ripensare, scrivere, rileggere, consigliarmi, meditare, cancellare e riscrivere, quindi vado al punto, e se sarò troppo diretto.... beh pazienza!
 
Comincio seriamente a pensare che ci sia qualcosa che non va nella comunicazione della Santa Sede ed in generale del mondo che ci gira intorno. 
 
Da ieri pomeriggio sono tutti in brodo di giuggiole perchè Papa Francesco ha conquistato la copertina di Rolling Stone.
 
Su twitter è stato tutto un cinguettare: da Famiglia Cristiana a Padre Spadaro ai vari preti 2.0.
 
Urrà! Finalmente siamo alla moda! Non siamo più la cittadella assediata! Non si respira più l’aria di palude di cui qualche monsignore parlò in un'intervista della scorsa primavera. Così parleremo ai giovani!
 
Tutto un retweet, un retweet di retweet: Urrà! W il Papa! W Rolling Stone.
 
Ma, cari amici che gioite, avete letto cosa dice l’articolo che vi fa sentire tanto alla moda e tanto tronfi?
 
Ve ne metto qui qualche stralcio.
 
Dopo il disastroso papato di Benedetto, un tradizionalista cocciuto che sembrava dovesse indossare camicia a righe con guanti con coltelli al posto delle dita per terrorizzare gli adolescenti nei loro incubi, la padronanza di Francesco dell’abilità di sorridere in pubblico sembrava un piccolo miracolo al cattolico medio.
 
[nella foto in alto il personaggio a cui l'articolista paragona Benedetto XVI]
 
Benedetto XVI non meriterebbe di essere incluso in questa galleria degli orrori [l’articolista ha appena elencato i peggiori papi della storia a suo modo di vedere], ma è difficile immaginare una scelta peggiore del Card. Joseph Ratzinger per rispondere alle particolari sfide che attendevano la Chiesa cattolica negli ultimi dieci anni.
 
E’ un articolo vergognoso ed offensivo verso Benedetto XVI, tralasciando il fatto che contribuisce a strumentalizzare frasi e gesti di Papa Francesco in modo da presentare un magistero assolutamente non reale (e infarcendo la cosa di insulti, menzogne e banalità sull’Opus Dei, che si sa.... tra i giovani tirano sempre).
 
Trovo scandaloso che non si sia levata (da parte di questi comunicatori così moderni, di questi twittatori seriali che non si perdono un convegno vaticano sulla “nuova evangelizzazione”, sui social network e simili) una sola parola in difesa di Benedetto XVI.
 
Tutti a rilanciare acriticamente un articolo che insulta in maniera gratuita e ingiusta Benedetto XVI.
  
E se gli fai notare che l’articolo è ingiusto, e che magari prima di esaltarsi bisognerebbe leggerlo, neanche ti rispondono (vero Padre Spadaro?) oppure ti fanno i sermoncini sull’essere “come gli scribi e i farisei a giocare a chi vede più pagliuzze” (vero don Dino Pirri?) oppure ti dicono che si sono limitati a “riportare la notizia” (vero Famiglia Cristiana?).
 
Se questa è l’informazione religiosa, cari amici, aridatece la Chaouqui!
 




 
P.S.: pubblico la seguente dichiarazione di Padre Federico Lombardi, così come riportata da ilSismografo:
"L’articolo di Rolling Stone è un segno dell’attenzione che le novità del Papa Francesco attira negli ambienti più diversi. Purtroppo l’articolo stesso si squalifica cadendo nell’abituale errore di un giornalismo superficiale, che per mettere in luce aspetti positivi di Papa Francesco pensa di dover descrivere in modo negativo il pontificato di Papa Benedetto, e lo fa con una rozzezza sorprendente. Peccato. Non è questo il modo di fare un buon servizio neppure al Papa Francesco, che sa benissimo quanto la Chiesa deve al suo Predecessore"
 
 
P.P.S.: dopo la pubblicazione della dichiarazione di P. Lombardi sia Famiglia Cristiana che P. Spadaro la hanno ritweettata, lasciandomi ulteriormente perplesso. Cos'è, mancava il coraggio per prendere una posizione? Si aveva paura di esporsi alla blogosfera con un'opinione controcorrente? Era proprio necessario mandare avanti la Sala Stampa?




lunedì 27 gennaio 2014

Sentire cum Ecclesia









Tra i diversi mantra diffusi dai novatores degli ultimi 50 anni, v’è anche questo: sentire cum Ecclesia, spesso adoperato per piegare ad una falsa religione le coscienze dei cattolici incerti e pavidi. P. Calmel, teologo domenicano di alto profilo, audace e strenuo difensore della sacra tradito Ecclesiae, offre una illuminante messa a punto sull’autentico sentire cum Ecclesia che deve animare ogni vero figlio della Chiesa.  


In attesa della vittoria di Cristo Re, i cattolici devono prendere delle decisioni dolorose e rifiutare ogni sorta di collaborazione con la rivoluzione. “Le carenze dell’autorità gerarchica, la potenza straordinaria delle autorità parallele, i sacrilegi nel culto, le eresie nell’insegnamento dottrinale” li obbligano a rispondere un non possumus a tutti gli inviti e a tutte le minacce. Ma – ci si chiede – non perderanno a causa di ciò il loro legame con la Chiesa? rimarranno figli della Chiesa? non rischiano di diminuire in loro il sentire cum Ecclesia che fa la forza del cattolico? Per rassicurarli, il Padre Calmel, in un articolo del gennaio 1975, tratta con lealtà queste questioni delicate che impongono ai cattolici il dovere della resistenza.

Inizia col notare come i sacerdoti, religiosi e religiose che dicono aver preso «le parti di ciò che chiamano l’obbedienza», «in realtà seguono, generalmente senza grande entusiasmo, delle indicazioni ambigue;  subiscono,  “incassano” le innovazioni». Ciò è molto lontano dall’obbedienza cristiana. Spesso «sono abusati piuttosto che colpevoli». Tuttavia, qualsiasi cosa dicano, «la loro condotta fa il gioco della sovversione. Si sono piegati, in effetti, a delle innovazioni disastrose; delle innovazioni introdotte da nemici nascosti, delle trasformazioni equivoche e polivalenti, che non hanno altro scopo effettivo se non quello di sradicare una tradizione certa e solida, di debilitare e, finalmente, di cambiare pian piano la religione».
Ora i cattolici che ci tengono ai costumi, alla dottrina, alla liturgia, in una parola, alla Chiesa di sempre, questi fedeli che credono che «la Chiesa condanna la rivoluzione e la condannerà sempre, che essa si chiami liberalismo o socialismo», «questi cristiani fedeli li accuseremo forse di disobbedienza?».
Questi cattolici «rifiutano i compromessi; rifiutano d’entrare in complicità con una rivoluzione che è sicuramente modernista. Sociologicamente essi sono tenuti in disparte», sono umiliati, esclusi da ogni responsabilità. Tuttavia, senza amarezza, ci tengono che «la loro fedeltà sia penetrata d’umiltà e di fervore; non hanno gusto né per il settarismo, né per l’ostentazione. Stando al loro posto, essi cercano di mantenere ciò che la Chiesa ha loro trasmesso». In definitiva, questi cristiani fedeli non sono altro che degni figli della loro Madre:

Facendo così non dubitiamo di essere figli della Chiesa. Non formiamo in nessun modo una piccola setta marginale; siamo della sola Chiesa cattolica, apostolica e romana. Prepariamo, facendo del nostro meglio, il giorno benedetto in cui, avendo l’autorità ritrovato se stessa, nella piena luce, la Chiesa sarà finalmente liberata dalle caligini soffocanti della prova attuale. Benché questo giorno tardi a venire, proviamo a non tralasciare niente del dovere essenziale di santificarci; facciamolo custodendo la Tradizione nello stesso spirito in cui l’abbiamo ricevuta: uno spirito di santità.

Il Padre Calmel cita ancora ciò che gli diceva il suo amico Luigi Daménie, fondatore e direttore dell’Ordine Francese, verso la fine del 1969: «Dopo tutto, è la Chiesa che mi ha insegnato a fare come faccio: non patteggiare con ciò che distrugge la fede».
Termina il suo articolo con una visione di speranza, fondata sulla sua fede irremovibile nella santità della Chiesa:

 […] Custodiamo la Tradizione con pazienza. Le forze moderniste occupanti non potranno imbavagliare per tanto tempo le sacre labbra della nostra Madre. Ella ci dirà ad alta voce che non abbiamo niente di meglio da fare che mantenere santamente la Tradizione. Patientia pauperum non peribit in finem (salmo 9). La pazienza dei poveri non sarà indefinitamente ingannata.

Questa fiducia, beninteso, non esclude in alcun modo il combattimento, questa speranza non paralizza le iniziative. È per questo che nel numero seguente della rivista Itinéraires, Padre Calmel chiama i fedeli all’azione. Poiché «Le innovazioni postconciliari» sono «un sistema strategico d’occupazione», conviene fondare e mantenere modestamente dei fortini della fede:

Avendo visto dove siamo, misuriamo quello che resta in nostro potere. Ciò che rimane in nostro potere è prima di tutto l’orazione e la vita nascosta in Dio; ciò che rimane in nostro potere è ancora ciò che la rivista Itinéraires ha tante volte preconizzato: senza scalpore e senza rumore costituire dei fortini di resistenza, di attaccamento pii e viventi alla Tradizione. Questi fortini sembreranno ridicoli; di fronte alla Chiesa apparente e occupante sembrano una difesa troppo debole. Che importa? La grazia di Dio non si misura con quello che appare. È in nostro potere compiere modeste opere di resistenza e di mantenerle. Dunque non dobbiamo esitare, con la grazia di Dio. Io parlo soprattutto della vita interiore, del colloquio che deriva dalla vita di preghiera, dal sacro studio umilmente guidato, dalla carità fraterna, dalla modestia. Possiamo riprendere a questo proposito tutte le raccomandazioni di san Paolo e indirizzarle a queste minuscole comunità nascenti, questi primi fortini di Salonicco o d’Efeso.

Per ricapitolare il pensiero sia teologico sia pratico del P. Calmel, conviene rivisitare le ultime righe da lui scritte sulla rivista Itinéraires […]:

            La grazia fa sì che il desiderio della santificazione si mantenga al livello della fermezza della resistenza […] la grazia fa sì che nella resistenza risoluta, che è quella necessaria per rendere testimonianza, la pace interiore, lungi dal venir meno, si accresca. […] occorre nutrire l’orazione con la preghiera della Chiesa secondo i tempi liturgici; la conversazione interiore deve svolgersi alla luce dei misteri della fede conformemente del resto alla pratica del rosario; che la testimonianza sia resa per amore […].


Tratto da : Père Jean-Dominique Fabre, Le père Roger-Thomas Calmel (1914-1975). Un fils de saint Dominique au XX siècle, Clovis 2012, pp. 597-600.







conciliovaticanosecondo.it  26 gennaio 2014

domenica 26 gennaio 2014

Che autorità ha la Chiesa per liberare l'uomo dal male?





Nel suo ultimo saggio don Pietro Cantoni confuta molti preconcetti intorno al demonio e agli esorcismi



Roma, 25 Gennaio 2014 (Zenit.org) Alessio Biagioni

Leggendo il libro di don Pietro Cantoni, L’oscuro signore – Introduzione alla demonologia(Sugarco, Milano, 2013), mi è tornato in mente subito l’episodio che mesi fa ha sorpreso tutti i mass media e gli “opinionisti”: l’esorcismo effettuato da papa Francesco dopo la Messa di Pentecoste.

Si sia trattato o no di esorcismo, o di qualsiasi altra preghiera, quello che ho notato è stato il rigetto dell’evento da parte dell’opinione pubblica. Il rifiuto del papa esorcista mi è subito sembrato conseguenza di due atteggiamenti diffusi nella nostra epoca: 1) Accettazione del male come qualcosa di inevitabile che è originariamente nelle cose. Tale teoria esclude l’esistenza del demonio, perché è un essere personale che tramite libera e consapevole scelta ha definitivamente rifiutato Dio; 2) Rifiuto di qualsiasi autorità.

Il Papa, o meglio, la Chiesa quale autorità avrebbe per liberare l’uomo dal male? Nel libro di don Cantoni viene spiegato proprio l’atteggiamento cristiano ver

so il problema del male, del peccato e degli angeli ribelli. Per la Bibbia l’origine del male non è in Dio.

Narrandoci la creazione, il libro della Genesi insiste che ciò che viene creato, è “cosa buona”. L’uomo fa il male perché si lascia tentare. Ma chi lo tenta? Dio ha creato gli angeli, esseri puramente spirituali, ma alcuni di questi, nonostante sapessero la drammatica conseguenza del loro gesto, hanno rifiutato Dio. In che consiste questo rifiuto? Ossia il rifiuto della grazia di Dio, “il raggiungimento del fine soprannaturale con le sole forze della natura” (Cantoni, pag. 35).

È realizzare se stessi con le sole nostre forze, come se fossimo dei, come se ci fossimo fatti da soli. Ecco chi è il serpente che tenta l’uomo: un angelo che si vuol fare simile a Dio con le sue sole forze. Ma questo “è lo stesso peccato che Satana suggerisce all’uomo: la similitudine con Dio non accettata come dono, ma ottenuta con un proprio sforzo non sottomesso all’azione di Dio”.

Questo ragionamento del voler fare tutto da soli, assomiglia a quello di coloro che vedono nella Chiesa una imposizione esterna, una istituzione inutile alla salvezza, qualcosa che sa imporre solo regole ma non c’entra nulla con la ricerca di Dio. In realtà, come ha detto il Papa nell’Udienza Generale del 29 maggio 2013, la parola ekklesia significa convocazione e infatti, per sua iniziativa, tramite la Chiesa, «Dio ci convoca, ci spinge ad uscire dall’individualismo, dalla tendenza a chiudersi in se stessi e ci chiama a far parte della sua famiglia».

Infatti “Dio ci ha creati perché viviamo in una relazione di profonda amicizia con Lui, e anche quando il peccato ha rotto questa relazione con Lui, con gli altri e con il creato, Dio non ci ha abbandonati. Tutta la storia della salvezza è la storia di Dio che cerca l’uomo, gli offre il suo amore, lo accoglie”.

Viene da chiedersi, perciò, come fa a conoscere Gesù chi dice di poter far a meno della Tradizione e del Magistero della Chiesa? Negare la Chiesa non è presumere di poter alla fine salvarsi da soli? Non è chiudersi in se stessi e compiacersi “della propria perfezione e bellezza senza aprirsi a ciò che la supera”, come il più luminoso di tutti gli angeli (Cantoni,ibid.)?

Purtroppo oggi questa mentalità è diffusa, tanto che anche l’amore per il prossimo è talvolta concepito come uno specchio: io amo l’altro per piacere, perché mi fa stare bene. È sempre l’io il protagonista dell’amore. Gesù invece nel Getsemani ha scelto per amore di sottomettersi alla volontà del Padre fino alla morte in croce. Come ricorda il papa «la linfa vitale è l’amore di Dio che si concretizza nell’amare Lui e gli altri, tutti, senza distinzioni e misura. La Chiesa è famiglia in cui si ama e si è amati».

Un amore quindi non ripiegato nell’io, ma il dono completo di se stessi. Il peccato non è altro che il rifiuto di questo amore. Per orgoglio l’uomo non vuole vincoli, vuole realizzarsi da solo. Ma questo comporta il rimanere a terra, rimanere schiavi di mille tentazioni. L’uomo rifiuta di adorare Dio, ma sceglie di adorare un’infinità di idoli.

Qui si compie la scelta, una scelta che si riflette nell’eternità: il filosofo Fabrice Hadjadj, parlando della resurrezione dei corpi, afferma che tale nuova vita dipenderà direttamente dall’amore di Dio che, come una fiamma rianimerà i corpi. Allora “il giusto che visse come innamorato del mistero se ne rallegrerà come da una amplesso dell’Eterno fino alla radice del corpo”, mentre l’ingiusto, che “visse raggomitolato su se stesso […] questo supremo amplesso amoroso lo sentirà come uno stupro senza fine” (La mistica della carne, Medusa, 2009).

Nell'eternità o bruceremo mortalmente per amore di noi stessi, o bruceremo di vera vita per amore di Dio. Il primo passo, perciò, è riconoscersi umilmente peccatori, e in questo modo aprirci all’amore di Dio, perché, una volta riconosciutisi peccatori abbiamo, dice il Papa, un luogo dove rifugiarci: la Chiesa, tramite il sacramento della confessione. Infatti «Quando noi ci accorgiamo di essere peccatori, troviamo la misericordia di Dio, il quale sempre perdona. Non dimenticatelo: Dio sempre perdona e ci riceve nel suo amore di perdono e di misericordia».




(25 Gennaio 2014) © Innovative Media Inc.


I nuovi inquisitori contro Ratzinger. Ricomincia l’autodemolizione della Chiesa




di Antonio Socci 

Ci sono stati grandi papi il cui pontificato è stato praticamente affossato dagli errori degli ecclesiastici del loro entourage. Anche per papa Francesco si presenta questo rischio. Sconcertano infatti episodi, decisioni e “sparate” di alcuni prelati, penso al cardinale Maradiaga e al cardinale Braz de Aviz, che si sentono così potenti in Vaticano da usare il bastone sia contro il Prefetto dell’ex S. Uffizio Müller, sia contro i Francescani dell’Immacolata.

CONTRO BENEDETTO

I bersagli delle loro “randellate” (assestate ovviamente in nome della misericordia) sono coloro che, a diverso titolo, vengono individuati come paladini dell’ortodossia cattolica e che hanno avuto a che fare con papa Benedetto XVI. Il vero bersaglio infatti sembra proprio lui, “reo” di tante cose, dalla storica condanna della teologia della liberazione, alla difesa della retta dottrina, al Motu proprio sulla liturgia.

 Il cardinale Oscar Maradiaga è arcivescovo di Tegucigalpa, in Honduras, diocesi in decadenza. Ma il prelato, che gira per i palcoscenici mediatici del mondo, nei giorni scorsi ha fatto clamore per una sua intervista a un giornale tedesco dove – fra corbellerie new age e banalità terzomondiste - ha attaccato pubblicamente il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Müller, a cui il papa ha appena dato la porpora cardinalizia. Un fatto clamoroso, anche perché Maradiaga è il capo della commissione che dovrebbe riformare la Curia. Cosa era accaduto? Müller, chiamato a quell’incarico da Benedetto XVI e confermato da Francesco, nei mesi scorsi aveva ribadito che - pur cercando nuove vie pastorali (già indicate anche da Benedetto XVI) - il prossimo sinodo sulla famiglia non può sovvertire, con “un falso richiamo alla misericordia”, la legge di Dio sulla famiglia uomo-donna, affermata da Gesù nel Vangelo e sempre insegnata dalla Chiesa.


MARADIAGA SHOW


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Müller, che era già stato attaccato personalmente da Hans Küng, è stato liquidato da Maradiaga con queste parole: “È un tedesco e per giunta un professore di teologia tedesco. Nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso. Basta. Io però rispondo: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile”. Parole che hanno scandalizzato molti fedeli. Anzitutto perché l’accenno polemico al “professore di teologia tedesco” fa pensare inevitabilmente che il bersaglio fosse Benedetto XVI, che chiamò Müller a quell’incarico. Poi perché è del tutto irrituale un attacco pubblico fra cardinali, come se Müller fosse lì a sostenere una sua teologia personale e non l’insegnamento costante della Chiesa e di tutti i papi. Infine Maradiaga – secondo cui sarebbe sbagliato vagliare la realtà in termini di vero e di falso – dimentica che Gesù Cristo nel Vangelo dette questo preciso comandamento: “il vostro parlare sia sì (se è) sì e no (se è) no. Il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37). Maradiaga preferisce quel “di più” all’annuncio della Verità?

Sui temi della famiglia, su cui c’è un’offensiva ideologica simile a quella marxista degli anni Settanta, diversi ecclesiastici sono pronti – proprio come allora – a calare le braghe. E lo fanno anche con i sofismi di Maradiaga, il quale dice che le parole di Gesù sul matrimonio sono vincolanti, sì, “però si possono interpretare” e siccome oggi ci sono tante nuove situazioni di convivenza occorrono “risposte che non possono più fondarsi sull’autoritarismo e il moralismo”. Questa frase da sola liquida tutto il Magistero della Chiesa: evidentemente per Maradiaga era autoritario e moralista anche Gesù, che si espresse con tanta nettezza.  Ma che significa chiedere “più cura pastorale che dottrina”? Ogni grande pastore, da S. Ambrogio a S. Carlo, da don Bosco a padre Pio, è stato un paladino della dottrina. Maradiaga dice che occorrono sulla famiglia “risposte adatte al mondo di oggi”. Sono frasi vuote e allusive che alimentano confusione e dubbi. È il tipico modo, che oggi dilaga nella Chiesa, di sollevare domande senza fornire risposte.

A tal proposito san Tommaso d’Aquino si espresse così: «Ebbene costoro sono falsi profeti , o falsi dottori, in quanto sollevare un dubbio e non risolverlo è lo stesso che concederlo» (Sermone Attendite a falsis prophetis). Oggi c’è chi, nella Chiesa, alle parole di Gesù riportate nel Vangelo preferisce il famoso questionario relativo al Sinodo, che è stato mandato a tutte le diocesi del mondo e viene presentato da taluno come un sondaggio, come se la Verità rivelata dovesse essere sostituita dalle più diverse opinioni.


AUTODEMOLIZIONE

Anche questo ci riporta agli anni Settanta, quando Paolo VI denunciava allarmato: «Così la verità cristiana subisce oggi scosse e crisi paurose. Insofferenti dell’insegnamento del magistero (…) v’è chi cerca una fede facile vuotandola, la fede integra e vera, di quelle verità, che non sembrano accettabili dalla mentalità moderna, e scegliendo a proprio talento una qualche verità ritenuta ammissibile; altri cerca una fede nuova, specialmente circa la Chiesa, tentando di conformarla alle idee della sociologia moderna e della storia profana». È come spazzar via di colpo i pontificati di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI per tornare ai cupi anni Settanta, all’autodemolizione della Chiesa (come la definì Paolo VI). Non è un rinnovamento, ma il ritorno del vecchio più rovinoso.

LA VERGOGNA

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Un altro episodio di autodemolizione della Chiesa è la persecuzione dei Francescani dell’Immacolata, una delle famiglie religiose più ortodosse, più vive (piene di vocazioni), più ascetiche e missionarie. Ma alla quale – come ho già scritto su queste colonne – non è stata perdonata la zelante fedeltà a Benedetto XVI, a cominciare dal suo Motu proprio sulla liturgia.

Il rovesciamento delle parti è clamoroso. Infatti sul banco degli accusati ci sono dei cattolici ubbidienti e nella parte dell’inquisitore c’è il cardinale brasiliano João Braz de Aviz che, in una lunga intervista, ha avuto nostalgiche parole di elogio per la disastrosa stagione della Teologia della liberazione, fregandosene della condanna di Ratzinger e Giovanni Paolo II. Braz de Aviz confessò tranquillamente che – in quegli anni – era pronto anche a lasciare il seminario per quelle idee sociali. Però ha fatto carriera. Oggi è a capo della Congregazione per i religiosi, lui che non è nemmeno un religioso. Il prelato, che si proclama molto amico della Comunità di S. Egidio, ha una strana idea del dialogo che – per lui – vale verso tutti, meno che verso i cattolici più fedeli al Magistero. Quando era arcivescovo di Brasilia partecipò tranquillamente fra i relatori a un convegno del “Forum Espiritual Mondial” con l’ex frate Leonardo Boff, leader della teologia della liberazione, Nestor Masotti, presidente della Federazione Spiritista Brasiliana, Ricardo Lindemann, presidente della Società Teosofica in Brasile e Hélio Pereira Leite, Gran Maestro del Grande Oriente.

Appena arrivato a capo della Congregazione per i religiosi ha subito iniziato il dialogo con le “vivaci” congregazioni religiose femminili degli Stati Uniti che tanto filo da torcere dettero a Benedetto XVI. Braz ha fatto una specie di critica alla Santa Sede: “abbiamo ricominciato ad ascoltare… Senza condanne preventive”. Invece i Francescani dell’Immacolata, che non hanno mai dato alcun problema, non sono mai stati da lui chiamati e ascoltati. La condanna preventiva contro di loro c’è stata e pesante.Curioso, no? Giorni fa Vatican Insider titolava: “In Italia ci sono sempre meno frati e suore”. Credete che Braz de Aviz si preoccupi di questo? Nient’affatto. Pensa a punire uno dei pochi ordini le cui vocazioni aumentano. Sul primo numero di Jesus del 2014 si fa un monumento a Vito Mancuso, noto per negare “circa una dozzina di dogmi” (come scrisse La Civiltà cattolica). Ma state certi che nessuno farà obiezione ai paolini. Invece vengono repressi i Francescani dell’Immacolata per averli difesi i dogmi della Chiesa. L’autodemolizione è ripresa con forza.










© LIBERO   26/01/2014



venerdì 24 gennaio 2014

La Chiesa "del futuro"






da Traditio Liturgica 

Internet è lo specchio della società nel male e nel bene. Come nella società ci si lamenta per molte cose che non funzionano, così succede su internet.


Riguardo la Chiesa si scrive di tutto, cose vere, altre meno vere, altre ancora totalmente false. Davanti alle situazioni patologiche di Chiesa ognuno offre delle alternative: c'è chi se ne frega completamente, chi auspica un ritorno alla tradizione, intendendolo tradizionalisticamente, chi desidera una Chiesa ancor più "aperta e giovane" (ossia secolarizzata).


Personalmente sono convinto che è necessario muoversi su due piani: a) dirigersi in strutture ecclesiali semplici, più semplici possibili; b) rinnovarsi seguendo direttrici tradizionali ma senza dimenticare che viviamo nel nostro tempo.


Questi due punti, a mio avviso, possono fare la "Chiesa del futuro". Il resto mi sembra destinato a decadere inevitabilmente.
Esamino in dettaglio questi due piani di scelta.


a) Penso sia necessario innestarsi o fare riferimento a strutture semplici. Quando penso ad esse ho in mente, ad esempio, un piccolo monastero con pochi monaci e una fraternità di pochi laici che lo supporta. Le grandi realtà, oramai, sono tutte più o meno contaminate da uno spirito che non è affatto quello ecclesiale autentico. Personalmente mi sono dato l'impegno di non perdere tempo a denunciare o "combattere" vescovi, preti o realtà similari (lo dovrebbe fare, semmai, un santo e io non lo sono affatto!).

In questo blog si parla di liturgia, assai raramente di questo o quel "prete" o "vescovo" che sbagliano. Infatti, se si deve portare rispetto per l'episcopato e il sacerdozio, non ci si può illudere che, da questi erranti, si possa ottenere qualcosa, magari combattendoli con acredine. Spesso non solo non si ottiene nulla ma si ha pure una recrudescenza degli errori.


Lungi dal capire questo, su internet molti si scandalizzano e occupano gran parte del loro tempo a scrivere e a rispondersi su cosa fa questo o quel prete, questo o quel vescovo. Sembra una coazione a ripetere che brucia quel poco ossigeno che ancora rimane. Invece di vedere la cosa per quel che è (patologica!) ci sono blog che attirano fiumi di pettegoli, come se fossero donne al mercato, un atteggiamento che i padri della Chiesa criticherebbero con molta severità! Laddove c'è gente che "mena i pugni" c'è sempre un capannello di curiosi e di tifosi. Ma è questo lo spirito della Chiesa?


Le grandi realtà anche nei tempi "migliori" sono sempre state esposte, più di chiunque altro, alle tentazioni del secolo. Oggi lo sono immensamente di più e non c'è ambito che si salvi al punto che attualmente è messa a repentaglio la sostanza stessa del Cristianesimo.


D'altronde, come possono esserci vescovi cattolici corrotti vi sono pure vescovi ortodossi corrotti. La "ruggine dei tempi" invade proprio ogni ambito.
Al contrario, in una piccola realtà la situazione si può controllare meglio. Ad esempio, in un piccolo monastero un priore sensato penserà 10 volte prima di fare entrare un monaco o ordinarlo prete. Questo, soprattutto se costui è psicoproblematico, vanitoso, se semina zizzania ed è un animo inquieto, ozioso e pettegolo. Infatti, un monaco del genere dividerà la comunità e tenderà a distruggerla.


Viceversa, in una diocesi (cattolica o ortodossa è lo stesso, da questo punto di vista), un vescovo non vive in comunità con i suoi preti, non ne deve sopportare direttamente le originalità. Non di rado cercherà di non pagare mai per gli errori del suo clero e farà, se può, da "scaricabarile".


Qui la tendenza è contraria. Si tende ad ordinare chiunque perché si ragiona con una mentalità freddamente istituzionale: ho un "buco" vuoto - una parrocchia senza prete - e devo riempirlo con un "tappo", uno che ordino al sacerdozio; qualsiasi "tappo" è buono basta che funzioni per un po'.
Non c'è attenzione alle reazioni che, prima o poi, si genereranno. Ho visto fin troppe volte, e in molti ambienti clericali, questo cieco "opportunismo" che non ha la minima lungimiranza ed è tremendamente dannoso per la Chiesa. Il prodotto sono certi presbitèri composti da un'accolita di gente in cui spiccano elementi molto "originali" (*) ...


Davanti a queste situazioni, l'unica cosa che il cristiano può fare è quella di non "confidare nei potenti nei quali non c'è salvezza", come recita il salmo 146, non mescolarsi con loro, ricordarli nella preghiera e costruire un mondo più pulito nel proprio piccolo.


b) Ma per fare questo è necessario lavorare "a fondo". Di qui il recupero di tutti gli strumenti necessari per "lavorare bene" nel campo cristiano. Il recupero della tradizione (intesa come ho descritto nei post precedenti) è indispensabile. Questo da la possibilità di essere saldamente ancorati. Una retta conoscenza della sapienza biblica, mediata dalla lettura sapienziale dei padri, una nutriente pratica della liturgia (nelle sue espressioni tradizionali), sono quanto di meglio si possa avere. Inutile dire che esattamente questo è il lavoro che si fa - per vocazione - nelle strutture monastiche (in quelle che funzionano davvero, non nei pensionati per nullafacenti mantenuti!).


Il mondo clericale non si deve disprezzare ma storicamente ha spesso generato (soprattutto in Occidente) ogni genere di malanno mettendo in serio repentaglio la salute stessa della Chiesa (**). Un genere molto simile di danni si stanno iniziando ad osservare ora anche in Oriente (***).


Appoggiarsi nuovamente a realtà puramente clericali mi sembra l'errore di fondo di un certo tradizionalismo che non riesce a leggere obbiettivamente alcuni fatti storici e da per scontato troppe cose. Appoggiarsi a quelli che si pensano essere "i grandi" (o indugiare a parlare sempre su di loro) è anche l'atteggiamento di quei pochi che, approfittando del Cristianesimo, sono animati da manìe di grandezza...


Personalmente credo che la "Chiesa del futuro" - per poter reggere al gelido clima secolaristico - non può che avere una mentalità monastica, realizzata in piccoli centri di tipo familiare. Mentre i clericalisti cercano i centri di potere, i monaci (veri) vi fuggono e in questo fuggire si concretizza la vera edificazione cristiana.


I potenti continueranno la loro opera di svuotamento di senso ma, alla fine, rimarranno soli.
E quando un potente è solo e non seguito da alcuno a chi parlerà?
Tuttavia, questo avverrà solo se la gran massa dei laici capirà che è meglio volgersi alla costruzione di cose positive, non perdere tempo continuando a parlare in modo sempre più nevrotico di quello che "i potenti" non fanno. E i laici che fanno? Chiacchierano?


Nella costruzione ci si chiarifica lo spirito. Nel continuo dibattito lo si annerisce. Purtroppo, quanti siti e blog "supercristiani" diffondono spessa caligine nera su internet!


"Tu quando vedi un sacco della spazzatura che fai? - chiedeva un monaco atonita ad un laico - lo apri e semini in giro la spazzatura per riempirti di puzza pure tu o, piuttosto, lo chiudi meglio e lo metti nel contenitore apposito?".

Ognuno di noi che fa?


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(*) Voi capite bene che, fintanto che sono uno o due su 30, la cosa è ancora gestibile. Quando iniziano a divenire 20-25 su trenta è il caos totale!

(**) Il riformatore Martin Lutero riporta un detto che già allora circolava ampiamente: "A Roma si fa la fede, altrove vi si crede!".

(***) In una lettera enciclica del patriarca di Costantinopoli, nella seconda metà del XIX secolo, si ricordava che "il popolo è il custode della tradizione". Mi sono sempre chiesto perché il popolo nella sua interezza e non semplicemente il clero. Questo passo è estremamente profetico nel momento attuale in cui, in Occidente, gran parte del clero ha perso il concetto di tradizione. Purtroppo qui il popolo non è più in grado di custodire una tradizione che non conosce affatto bene e che, addirittura, disprezza con idee preconcette che buona parte dello stesso clero ha in loro infuso.








traditioliturgica.blogspot.it  22 gennaio 2014

giovedì 23 gennaio 2014

Le migliaia di ebrei salvati in chiese e conventi






Si riaccende la polemica sui "silenzi" di Pio XII. Ma parlano i fatti. La Chiesa cattolica diede rifugio a un gran numero di israeliti. Un commento della storica ebrea Anna Foa 





di Sandro Magister

ROMA, 23 gennaio 2014 – Fresco di una visita al suo amico di lunga data Jorge Mario Bergoglio e prossimo suo compagno di viaggio in Israele, il rabbino argentino Abraham Skorka ha detto al Sunday Times a proposito del pontificato di Pio XII: "Credo che il papa aprirà gli archivi".

Con ciò Skorka non ha rivelato nulla di nuovo, ma sono bastate queste poche parole ad eccitare le attese di un'apertura imminente degli archivi riguardanti papa Eugenio Pacelli, addirittura prima del viaggio di Francesco in Terra Santa, in programma dal 24 al 26 maggio.

Già negli anni Sessanta Paolo VI aveva fatto pubblicare – in eccezionale anticipo sui tempi – ben dodici grossi volumi di documenti vaticani del periodo della seconda guerra mondiale.

Ma ora si aspetta che papa Francesco metta a disposizione la documentazione completa del pontificato di Pio XII, dal 1939 al 1958, una documentazione che comprende sedici milioni di fogli, più di 15 mila buste, 2.500 fascicoli.

In Vaticano sono sei anni che si lavora a dare ordine a questa imponente mole di carte, per renderla effettivamente consultabile dagli studiosi. E il prefetto dell'archivio segreto vaticano, il vescovo Sergio Pagano, ha detto al Corriere della Sera che "ci vorrà ancora un anno, un anno e mezzo".

Fu Benedetto XVI a dare impulso all'apertura degli archivi di Pio XII. Ma quando alla fine del 2009 proclamò le virtù eroiche di quel papa, primo passo sulla via della canonizzazione, le polemiche sui presunti suoi silenzi durante la Shoah ebbero un ritorno di fiamma. Lo Yad Vashem di Gerusalemme, il museo della memoria, giudicò "deplorevole" che venissero riconosciute le virtù prima della pubblicazione di tutti i documenti.

Risalgono a quel periodo le "impazienze" dell'allora arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio – in colloqui con il rabbino Skorka poi raccolti in un libro –, circa l'apertura degli archivi riguardanti Pio XII, al fine di "capire se si trattò di un errore di visione o cosa accadde realmente", poiché "se abbiamo sbagliato in qualcosa dovremo dire: 'Abbiamo sbagliato in questo'. Non dobbiamo avere paura di farlo".

Nel frattempo, però, gli studi sul pontificato di Pio XII e gli ebrei hanno fatto notevoli passi avanti in un'altra direzione, meno ideologica e più concreta: ricostruendo ciò che accadde alle migliaia di israeliti che ebbero salva la vita trovando rifugio in chiese e conventi di Roma e d'Italia.

Le ricerche in proposito sono molto avanzate. E da esse risulta con sempre maggiore chiarezza che il salvataggio di tanti ebrei fu non solo consentito ma anche coordinato dai sommi vertici della Chiesa.

"Si cancella così l’immagine proposta negli anni Sessanta di un papa Pio XII indifferente alla sorte degli ebrei o addirittura complice dei nazisti", ha sostenuto pochi giorni fa una storica ebrea di primo piano, Anna Foa.

Non solo. Queste ricerche gettano luce su una solidarietà di vita, instauratasi in quel periodo tra preti e suore e gli ebrei nascosti nei loro edifici, che è stata antesignana del dialogo tra Chiesa ed ebraismo avviatosi decenni dopo.

Anna Foa ha descritto questa realtà in un convegno tenuto a Firenze il 19 e 20 gennaio. Quello che segue è il testo quasi integrale del suo intervento, pubblicato su "L'Osservatore Romano" del 20-21 gennaio.

Anna Foa è una firma ricorrente del quotidiano della Santa Sede. Insegna storia moderna all'Università di Roma La Sapienza.

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QUANDO PRETI ED EBREI DIVIDEVANO LO STESSO CIBO


di Anna Foa



Gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia. Da Firenze, con il cardinal Dalla Costa proclamato Giusto nel 2012, a Genova con don Francesco Repetto, anch’egli Giusto, a Milano con il cardinal Schuster, e via via fino naturalmente a Roma dove la presenza del Vaticano, oltre all’esistenza delle zone extraterritoriali, consentì il salvataggio di migliaia di ebrei.

Proprio a proposito di Roma, le modalità con cui fu portata avanti l’opera di ricovero e salvataggio dei perseguitati erano tali da non poter essere il frutto soltanto di iniziative dal basso ma erano chiaramente coordinate oltre che consentite dai vertici della Chiesa.

Si cancella così l’immagine proposta negli anni Sessanta di un papa Pio XII indifferente alla sorte degli ebrei o addirittura complice dei nazisti.

Vorrei mettere qui in rilievo che questa più recente immagine dell’aiuto prestato agli ebrei dalla Chiesa nasce non da posizioni ideologiche filocattoliche, ma soprattutto da ricerche puntuali sulla vita degli ebrei durante l’occupazione, dalla ricostruzione di storie di famiglie o di individui. Dal lavoro sul campo, insomma.

Il rifugio nelle chiese e nei conventi emerge in continuazione dai racconti dei sopravvissuti, percorre come un filo rosso le testimonianze orali raccolte negli anni in Italia – come il corpo vastissimo delle testimonianze di ebrei italiani rese alla Shoah Foundation –, si ritrova presente nella maggior parte delle memorie dei contemporanei. È raccontato come un dato di fatto, appartiene al campo delle evidenze, con tutte le diversità delle situazioni, dai conventi che chiedono una retta a quelli che accolgono gratis gli ebrei, i quali a loro volta danno una mano nel lavoro quotidiano come nel caso delle ragazze ebree che aiutano a fare da maestre ai bambini nella scuola delle Maestre Pie Filippini a Roma Ostiense, caso raccontato da Rosa Di Veroli.

È insomma un’immagine che è il frutto non del dibattito sul tema Chiesa e Shoah ma anche e soprattutto della ricerca volta a illuminare la vita e il percorso degli ebrei sotto l’occupazione nazista.

La dibattuta "quaestio" storiografica su Pio XII e gli ebrei ha per molti decenni frenato la ricerca e spostato sul terreno ideologico ogni tentativo di fare chiarezza sui fatti storici. Penso invece che per scrivere la storia del rapporto della Chiesa con gli ebrei nell’Italia occupata sia innanzi tutto necessario sgombrare il campo da questa questione.

La domanda principale, cioè, non può essere quella del rapporto tra lo spirito profetico di un papa e i compromessi diplomatici di un altro papa, ma quella su quanto e fino a che punto e anche con quante opposizioni interne la Chiesa e il papa fossero alla guida dell’opera di salvataggio degli ebrei italiani. Le due questioni sono distinte e vanno, io credo, tenute distinte.

L’indagine sulle modalità concrete dell’aiuto agli ebrei, sulla presenza degli ebrei nei conventi e nelle chiese, sulla vita degli ebrei dentro i rifugi ecclesiastici, comincia a mettere in luce un aspetto su cui, mi sembra, poco si è riflettuto finora, quello del cambiamento di mentalità che ne può essere derivato.

È vero che ebrei e cristiani avevano convissuto per secoli, tra le mura dei ghetti e nelle antiche giudecche, in Italia e particolarmente a Roma, ma questa convivenza aveva raramente coinvolto degli ecclesiastici. Ora, di necessità per l’urgenza della persecuzione, preti ed ebrei dividevano lo stesso cibo. Le donne ebree passeggiavano nei corridoi dei conventi di clausura, gli ebrei imparavano il Padre Nostro e si infilavano la tonaca come precauzione in caso di irruzioni tedesche e fasciste. Rosa Di Veroli, richiesta di pregare insieme con gli altri in chiesa, lo faceva ma recitando sottovoce lo Shemà Israel.

C’era un’effettiva speranza da parte cristiana di toccare il cuore indurito degli ebrei e spingerli al battesimo? E quegli ebrei che si battezzarono lo fecero in seguito a una vera richiesta o per il fascino di un mondo che non conoscevano e che offriva loro protezione? Viene in mente la Lia Levi di "Una bambina e basta", attratta per un breve momento dal battesimo.

Parliamo ovviamente dei casi di conversione nei conventi, non di quelle conversioni, vere o simulate che fossero, fatte nel 1938 nella speranza di evitare i rigori delle leggi razziste, quando a Milano il cardinale Schuster battezzava all’alba gli ebrei in Duomo e i giornali antisemiti più radicali vedevano in questi battesimi “il cavallo di Troia degli ebrei nella società ariana e cristiana“.

Tutto questo mette certamente in moto nelle due parti esitazioni e timori nei confronti di un rapporto tanto stretto e quotidiano.

Nei sacerdoti e soprattutto nelle suore questi timori possono prendere la strada dell’impulso verso la conversione, inserendosi così su un filone più consolidato e tradizionale di rapporto. Così, la quotidianità e l’attenzione trovano giustificazione e conforto nella speranza di portare un ebreo al battesimo.

Negli ebrei, invece, il timore atavico di essere spinti verso la conversione porta talvolta (emergono casi del genere nella documentazione orale) a non prendere nemmeno in considerazione l’idea di trovare rifugio in un’istituzione ecclesiastica.

Ma può succedere che nulla di tutto questo si realizzi. Che dire, a Roma, della chiesa di San Benedetto al Gazometro, dove molti ebrei trovarono rifugio, e del suo parroco allora giovanissimo, don Giovanni Gregorini, che trovava il tempo di fare ogni giorno due chiacchiere con uno dei rifugiati ebrei, uomo di una certa età e molto religioso, parlando con lui delle rispettive religioni, e dei loro rapporti? Qui, dalle due parti, c’è rispetto reciproco e curiosità dell’altro.

Insomma, io credo che questa familiarità nuova e improvvisa, indotta senza preparazione dalle circostanze, in condizioni in cui una delle due parti era braccata e rischiava la vita ed era quindi bisognosa di maggior “carità cristiana”, non sia stata senza conseguenze sull’avvio e sulla recezione del dialogo. Un dialogo che arriverà molto più tardi, certo, e avviato soprattutto a livello teorico, mentre questo ci appare come un dialogo dal basso, fatto di pasti consumati insieme e di discorsi senza pretese, anche per superare le ansie di un rapporto sconosciuto fino a quel momento.

Così, le suore di un altro convento romano aggiungevano il lardo alla zuppa comune solo dopo averla distribuita alle ebree rifugiate da loro. Anche questa è una forma di dialogo dal basso, mi sembra.

Nel primo dopoguerra, nel momento in cui prevaleva la rimozione della Shoah, questo processo dialogico è stato in parte bloccato, da una parte perché gli ebrei erano intenti a ricostruire il proprio mondo e la propria identità dopo la catastrofe, dall’altra perché i cattolici sembravano esser tornati sulle posizioni tradizionali in cui la speranza della conversione era più forte del rispetto.

È forse questa chiusura dei primi anni dopo la Shoah a impedire lo sviluppo di quel dialogo dal basso, alla pari di quello ai livelli più alti, come dimostra il fallimento dell’incontro di Jules Isaac con Pio XII.

Comunque fosse, agli inizi degli anni Sessanta, con "Il vicario" di Hochhuth, su questo processo sarebbe stata proiettata l’ombra della leggenda nera di Pio XII, con il risultato di intralciare e opacizzare la memoria e il peso di quel primo percorso comune.

Oggi è il momento giusto per riprendere a indagarlo.







chiesa.espresso.repubblica.it

La Beata Anna Caterina Emmerich e le profezie sul futuro della Chiesa







Don Marcello Stanzione

Per molti cattolici, la figura di Anna Katharina Emmerick (1774-1824) beatificata dal papa Giovanni Paolo II nel 2004, è essenzialmente legata al famosissimo film dell’attore regista australiano Mel Gibson “La Passione di Cristo”, la cui sceneggiatura è in buona parte, per gli aspetti non tratti ovviamente dai vangeli canonici, basata sulle visioni attribuite alla monaca agostiniana tedesca. La beata nacque l’8 settembre 1774 da una famiglia di contadini e non potè frequentare regolarmente la scuola, dovendo lavorare nei campi e aiutare in casa. Sin dalla più tenera età ebbe un profondo desiderio di consacrarsi a Dio nella vita religiosa. Come accadeva a quell’epoca, diverse congregazioni di suore la rifiutarono la rifiutarono perché non  aveva a disposizione la necessaria dote economica per entrare in monastero. Solo nel 1802 venne finalmente accolta nel monastero delle Agostiniane di Agnetenberg presso Dulmen e l’anno seguente prese i voti religiosi. Quando nel 1811, il monastero venne soppresso, la Emmerick fu accolta a Dolmen come domestica del sacerdote Lambert che era fuggito dai terrori della Francia rivoluzionaria.

Dopo poco tempo, ella cominciò a sperimentare i dolori della Passione di Cristo e ricevette la stimmate. Presto si diffuse la voce dei suoi doni soprannaturali:assenza di alimentazione, conoscenza dei cuori umani, riconoscimento delle reliquie dei santi, conoscenza delle erbe medicinali, dei misteri biblici della fede, partecipazione con lo spirito nell’aldilà, comunione con le povere anime del purgatorio e molte persone cominciarono a farle visita, ricevendone insegnamenti e gesti di benevolenza.

Dal 1819 fino al giorno del suo trapasso, nel 1824, le visioni della Emmerick furono dettate da lei stessa al poeta romanticista Clemens Brentano, che poi si convertì sinceramente al Cattolicesimo, il quale sedette quasi interrottamente al capezzale dell’estatica e annotò attentamente in sedicimila grandi fogli i suoi racconti biblici e le contemplazioni mistiche, paragonabili in qualche modo a quelle di Maria De Agreda (1602-1655) o della più recente Teresa Neumann (1898-1962).

L’enorme materiale raccolto e poi ordinato dal poeta, fu pubblicato, in parte postumo, tra il 1858 e 1860,in tre opere principali. Complessivamente l’opera completa curata dal poeta, consta di sei volumi, di cui quattro sulla vita e la passione di Cristo, uno sulla vita della Madonna e uno sull’Antico Testamento.  Riguardo ai tempi finali la monaca agostiniana ha lasciato diverse sconcertanti dichiarazioni. Già più di due secoli fa la beata Caterina Emmerich  preannunciava che  la liberazione di satana sarebbe avvenuta poco prima dell’anno 2000 dichiarando “Mi è stato anche detto che Lucifero verrà liberato per un certo periodo cinquanta o sessanta anni prima dell’anno di Cristo 2000. Mi vennero indicate le date di molti altri eventi che non riesco a ricordare; ma un certo numero di demoni dovranno essere liberati molto prima di Lucifero, in modo che tentino gli uomini e servano come strumenti della giustizia divina”. “Vidi una strana chiesa che veniva costruita contro ogni regola… Non c’erano angeli a vigilare sulle operazioni di costruzione. In quella chiesa non c’era niente che venisse dall’alto…C’erano solo divisioni e caos. Si tratta probabilmente di una chiesa di umana creazione, che segue l’ultima moda…” (12 settembre 1820). “Vidi cose deplorevoli: stavano giocando d’azzardo, bevendo e parlando in chiesa; stavano anche corteggiando le donne. Ogni sorta di abomini venivano perpetrati là. I sacerdoti permettevano tutto e dicevano la Messa con molta irriverenza. Vidi che pochi di loro erano ancora pii, e solo pochi avevano una sana visione delle cose. Tutte queste cose diedero tanta tristezza” (27 settembre 1820). “Poi vidi che tutto ciò che riguardava il Protestantesimo stava prendendo gradualmente il sopravvento e la religione cattolica stava precipitando in una completa decadenza. La maggior parte dei sacerdoti erano attratti dalle dottrine seducenti ma false di giovani insegnanti, e tutti loro contribuivano all’opera di distruzione.

In quei giorni, la Fede cadrà molto in basso, e sarà preservata solo in alcuni posti, in poche case e in poche famiglie che Dio ha protetto dai disastri e dalle guerre” (1820) “Stavano costruendo una Chiesa grande, strana, e stravagante. Tutti dovevano essere ammessi in essa per essere uniti ed avere uguali diritti: evangelici, cattolici e sette di ogni denominazione” (22 aprile 1823). “Ho visto di nuovo la strana grande chiesa. Non c’era niente di santo in essa.
Ho visto anche un movimento guidato da ecclesiastici a cui contribuivano angeli, santi ed altri cristiani. [Nella strana chiesa] C’era qualcosa di orgoglioso, presuntuoso e violento in tutto ciò, ed essi sembravano avere molto successo. Sullo sfondo, in lontananza, vidi la sede di un  popolo crudele armato di lance, e vidi una figura che rideva, che disse: “Costruitela pure quanto più solida potete; tanto noi la butteremo a terra” (12 settembre 1820). “Fra le cose più strane che vidi, vi erano delle lunghe processioni di vescovi. Le loro colpe verso la religione venivano mostrate attraverso delle deformità esterne” (1 giugno 1820). 

“La Messa era breve. Il Vangelo di San Giovanni non veniva letto alla fine” (12 luglio 1820). (Fino alla riforma liturgica del 1967, la Santa Messa si concludeva con la lettura del Prologo del vangelo di Giovanni. Le profezie della santa si riferiscono quindi al periodo successivo al 1967). “Vidi la Chiesa di San Pietro in rovina, e il modo in cui tanti membri del clero erano essi stessi impegnati in quest’opera di distruzione – ma nessuno di loro desiderava farlo apertamente davanti agli altri. Gesù mi dice che la Chiesa sembrerà in completo declino. Ma sarebbe risorta” (4 ottobre 1820). “Vidi ancora una volta la Chiesa di Pietro era minata da un piano elaborato dalla setta segreta, mentre le bufere la stavano danneggiando… Ma vidi anche che l’aiuto sarebbe arrivato quando le afflizioni avrebbero raggiunto il loro culmine. Vidi di nuovo la Beata Vergine ascendere sulla Chiesa e stendere il suo manto su di essa. Vidi un Papa che era mite e al tempo stesso molto fermo/…/ Vidi un grande rinnovamento e la Chiesa che si liberava in alto nel cielo”. “La Chiesa si trova in grande pericolo. Dobbiamo pregare affinché il Papa non lasci Roma; ne risulterebbero innumerevoli mali se lo facesse. Ora stanno pretendendo qualcosa da lui.
La dottrina protestante e quella dei greci scismatici devono diffondersi dappertutto. Ora vedo che in questo luogo la Chiesa viene minata in maniera così astuta che rimangono a mala pena un centinaio di sacerdoti che non siano stati ingannati. Tutti lavorano alla distruzione, persino il clero.
Si avvicina una grande devastazione” (1 ottobre 1820). “Mentre attraversavo Roma con San Francesco e altri santi, vedemmo un grande palazzo avvolto dalle fiamme, ma mentre ci avvicinavamo il fuoco diminuì e noi vedemmo un edificio annerito. Finalmente raggiungemmo il Papa. Era seduto al buio e addormentato su una grande poltrona: era molto ammalato e debole; non riusciva più a camminare. Gli ecclesiastici nella cerchia interna sembravano insinceri e privi di zelo; non mi piacevano.
Parlai al Papa dei vescovi che presto dovevano essere nominati. Gli dissi anche che non doveva lasciare Roma. Se l’avesse fatto sarebbe stato il caos. Egli pensava che il male fosse inevitabile e che doveva partire per salvare molte cose…
Era molto prospero a lasciare Roma e veniva esortato insistentemente a farlo. La Chiesa è completamente deserta. Sembra che tutti stiano scappando. Dappertutto vedo grande miseria, odio, tradimento, rancore, confusione, e una totale cecità. O città! O città! Cosa ti minaccia? La tempesta sta arrivando; sii vigile! (7 ottobre 1820). “Vedo il Santo Padre in grande angoscia. Egli vive in un palazzo diverso da quello di prima e vi ammette solo un numero limitato di amici a lui vicini. Temo che il Santo Padre soffrirà molte altre prove prima di morire. Vedo che la falsa chiesa delle tenebre sta facendo progressi, e vedo la tremenda influenza che essa ha sulla gente” (10 agosto 1820).

“Il Santo Padre, immerso nel suo dolore, è ancora nascosto per evitare le incombenze pericolose. Ora può fidarsi solo di poche persone; è principalmente per questa ragione che deve nascondersi. Ma ha ancora con sé un anziano sacerdote di grande semplicità e devozione.
Egli è suo amico, e per la sua semplicità non pesavano valesse la pena toglierlo di mezzo.. Ma quest’uomo riceve molte grazie da Dio. Vede e si rende conto di molte cose che riferisce fedelmente al Santo Padre. Mi veniva chiesto di informarlo, mentre stava pregando, sui traditori e gli operatori di iniquità che facevano parte delle alte gerarchie dei servi che vivevano accanto a lui, così che egli potesse avvedersene”. “Vidi quanto sarebbero state nefaste le conseguenze di questa falsa chiesa.
L’ho veduta aumentare di dimensioni; eretici di ogni tipo venivano nella città [di Roma].
Il clero locale diventava tiepido, e vidi una grande oscurità… Allora la visione sembrò estendersi da ogni parte. Intere comunità cattoliche erano oppresse, assediate, confinate e private della loro libertà. Vidi molte chiese che venivano chiuse, dappertutto grandi sofferenze, guerre e spargimento di sangue. Una plebaglia selvaggia e ignorante si dava ad azioni violente. Ma tutto ciò non durò a lungo” (13 maggio 1820). “Ho avuto un’altra visione della grande tribolazione. Mi sembrava che si pretendesse dal clero una concessione che non poteva essere accordata. Vidi molti sacerdoti anziani, specialmente uno, che piangevano amaramente. Anche alcuni più giovani stavano piangendo. Ma altri (e i tiepidi erano fra questi) facevano senza alcuna obiezione ciò che gli veniva chiesto.
Era come se la gente si stesse dividendo in due fazioni” (12 aprile 1820). “Vidi un’apparizione della Madre di Dio, che disse che la tribolazione sarebbe stata molto grande. Aggiunse che queste persone devono pregare ferventemente…Devono pregare soprattutto perché la chiesa delle tenebre abbandoni Roma” (25 agosto 1820). “Vidi la Chiesa di San Pietro: era stata distrutta ad eccezione del Santuario e dell’Altare principale (10 settembre 1820).

“Vedo altri martiri, non ora ma in futuro… Vidi le sette segrete minare spietatamente la grande Chiesa. Vicino ad esse vidi una bestia orribile che saliva dal mare. (Ap 13,1). In tutto il mondo le persone buone e devote, e specialmente il  clero, erano vessate, oppresse e messe in prigione.
Ebbi la sensazione che sarebbero diventate martiri un giorno. Quando la Chiesa per la maggior parte era stata distrutta e quando solo i santuari e gli altari erano ancora in piedi, vidi entrare nella Chiesa i devastatori con la Bestia.
Là essi incontrarono una donna di nobile contegno che sembrava portare nel suo grembo un bambino, perché camminava lentamente. A questa vista i nemici erano terrorizzati e la Bestia non riusciva a fare neanche un altro passo in avanti. Essa proiettò il suo collo verso la Donna come per divorarla, ma la Donna si voltò e si prostrò, con la testa che toccava il suolo. Allora vidi la Bestia che fuggiva di nuovo verso il mare, e i nemici stavano scappando nella più grande confusione” (Agosto –ottobre 1820).
“Verranno tempi molto cattivi, nei quali i non cattolici svieranno molte persone. Vidi anche la battaglia. I nemici erano molto più numerosi, ma il piccolo esercito di fedeli ne abbatté file intere [di soldati nemici]. Durante la battaglia, la Madonna si trovava in piedi su una collina, e indossava un’armatura. Era una guerra terribile. Alla fine, solo pochi combattimenti per la giusta causa erano sopravvissuti, ma la vittoria era la loro” (22 ottobre 1822).

“Vidi, in grande lontananza, grandiose legione che si avvicinavano. Davanti a tutti vidi un uomo su un cavallo bianco (Ap 19,11-21?). I prigionieri venivano liberati e si univano a loro. Tutti i nemici venivano inseguiti. Allora, vidi che la Chiesa veniva prontamente ricostruita, ed era magnifica più di prima” (Agosto – ottobre 1820). “Vidi un nuovo Papa che sarà  molto rigoroso. Egli si alienerà i vescovi freddi e tiepidi. Non è un romano, ma è italiano . Proviene da un luogo che non è lontano da Roma. Ma per qualche tempo dovranno esserci ancora molte lotte e agitazioni(27 gennaio 1822). “Vorrei che fosse qui il tempo in cui regnerà il Papa vestito di rocco. Vedo gli apostoli, non quelli del passato ma gli apostoli degli ultimi tempi e mi sembra che il Papa sia fra loro”.
“Gli ebrei ritorneranno in Palestina e diverranno cristiani verso la fine del mondo”.






miliziadisanmichelearcangelo.org

mercoledì 22 gennaio 2014

Se i teologi del Papa rispondono agli attacchi laicisti contro la Chiesa, il teologo di Repubblica fa l’offeso






Tempi.it - gennaio 21, 2014 Correttore di bozze


Un documento vaticano risponde al «pregiudizio» che accusa le fedi di intolleranza: il cristianesimo è non-violento per definizione. Reagisce Mancuso: sbagliato, la Chiesa ha imparato dal mondo laico

Forse non tutti sanno che la Commissione teologica internazionale (Cti) della Santa Sede ha aperto il 2014 pubblicando un documento intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, nel quale, in estrema sintesi, si sostiene che la violenza per i cristiani è «un’eresia pura e semplice». E se «nel corso dei secoli il popolo di Dio non è sempre stato all’altezza di questa convinzione», ciò è capitato appunto contro il monoteismo cristiano e non a causa sua.

Parrebbe un pensiero incontestabile, no? Ovvio che no. Per il teologo di Repubblica Vito Mancuso, infatti, le conclusioni della Cti «non convincono».

Va detto preventivamente che questa mattina, aprendo il quotidiano in questione e trovandovi pubblicato il Mancuso, al Correttore di bozze è bastato leggere la titolazione dell’articolo per essere sopraffatto dalla sua tuttora ineguagliata faziosità cattolica integralista e reazionaria, la quale gli ha suggerito un vago sospetto: non è che se metti caso lo avesse detto Papa Francesco, che il cristianesimo è non violento, per Repubblica sarebbe stata chissà perché una straordinaria “apertura”, e invece adesso la stessa identica conclusione «non convince» solo perché è tratta da una commissione di studiosi nominati nel 2009 da Benedetto XVI? E per di più presieduti, in quanto sottoposti alla Congregazione per la Dottrina della fede, al prefetto Gerhard Ludwig Müller, già identificato ahilui da Repubblica – chissà perché – come il capo dell’opposizione della malefica “Curia” alla molto presunta – sempre da Repubblica, e di nuovo chissà perché – benefica “svolta” che Papa Francesco vorrebbe tanto imprimere alla Chiesa?

Ciò premesso, comunque, il Correttore di bozze non si accontenta di lanciare simili infamanti accuse nei confronti del teologo repubblicone, ma forte di cotanto pregiudizio e armato di ignoranza belluina, si permette addirittura di sollevare qualche obiezione di merito al commento del teologo di Carate Brianza.
Secondo Mancuso il documento della Cti non è riuscito «nel suo intento principale, cioè rendere convincente la connessione organica tra cristianesimo e non-violenza per quei laici che accusano il cristianesimo di intolleranza». E ciò a motivo del fatto che i teologi del Papa non hanno «preso adeguatamente in considerazione la parte di verità della critica laica», anzi, l’opera degli accademici praticamente snobba «le ragioni delle accuse mosse al cristianesimo»: tanto per fare qualche esempio, «fenomeni quali inquisizione, roghi di eretici e di libri, caccia alle streghe, Index librorum prohibitorum, conversioni forzate di individui e di popoli, neppure sono nominati». E invece i teologi della Cti, ratzingeriani che non sono altro, e con essi quel villano di un Correttore di bozze, avrebbero fatto meglio a cogliere la lezione di pacifismo insita in alcuni tipici fenomeni di critica laica e non-violenta quali, tanto per dirne due, la storica castagnata in Vandea e la gioiosa sagra di Porta Pia.

A dire la verità nel documento si accenna a «ripetuti passaggi attraverso la violenza religiosa» anche nella storia del cristianesimo, e questo Mancuso lo apprezza da parte della Cti. Ma se poi i teologi parlano della necessità di «parresia (ossia la coraggiosa franchezza) della necessaria autocritica», bè, uno si aspetterebbe «tra i 100 paragrafi del documento almeno un esempio di tale parresia». E invece niente. Mai che si citi, chessò, un Giordano Bruno o un Torquemada. Ma scusate, professoroni, allora non vi ha insegnato proprio niente la bella parresia di Repubblica su certe stragette laiche per altro comunque sempre non-violente come il genocidio in Cambogia. O l’aborto di massa.

«Occorre chiedersi – insiste illuminante Mancuso – perché la Chiesa che per secoli praticava e giustificava la violenza ha poi mutato atteggiamento», mentre sarebbe stato assai più facile – insiste ottusamente il Correttore di bozze – chiedere direttamente a grandi esponenti del pensiero laico e non-violento di cui il mondo letteralmente pullulava ai tempi delle crociate. Per non dire delle epoche successive, che ci hanno regalato laicissimi ambasciatori Unicef, tipo Stalin e compagnia pacificante.

E comunque, se la Chiesa in questi secoli ha svoltato verso la non-violenza non è sicuramente merito suo: la svolta gandhiana è avvenuta, ricorda Mancuso, «grazie alle battaglie del mondo laico che, togliendole potere, le hanno permesso di tornare a essere più fedele alla propria essenza». Ma invece di ringraziare Repubblica e Vito Mancuso per la loro provvidenziale battaglia laica e non-violenta a favore di un ritorno dei cristiani «alla propria essenza», e cioè alla sagrestia, cosa fa quel covo di nemici di Bergoglio che è la Cti? «Ripropone la campagna di Benedetto XVI contro il relativismo dimenticando il bene che deriva dal prendere coscienza della relatività delle proprie posizioni. Non è dal relativismo, infatti, ma è dal suo contrario, l’assolutismo, che nascono l’intolleranza e la violenza».

Insomma «su temi tanto delicati la Chiesa di papa Francesco avrebbe meritato un documento diverso, più umile sul passato e più coraggioso sul presente, capace così di vero dialogo con i non cristiani e di smuovere le acque nella Chiesa». Fosse per quei furbetti ratzingeriani incistati nella Commissione teologica, invece, i correttori di bozze passerebbero ancora le notti ad appiccare incendi a Roma. E Nerone dietro a resistere alla minaccia assolutista.





Dal Web: Tempi.it   21 gennaio 2014


Il Papa: «Essere umili, perché Dio sceglie sempre i piccoli»





Francesco a Santa Marta: «Il rapporto del Signore con il suo popolo è da persona a persona», non è «un dialogo fra il potente e la massa»



Domenico Agasso jr Roma

L’uomo è piccolo, e deve custodire la sua piccolezza per dialogare con la grandezza di Dio. Il Signore sceglie sempre i piccoli, e instaura con l’uomo un rapporto personale, il suo non è mai un dialogo con la massa. Lo ha detto papa Francesco nella Messa di questa mattina a Casa Santa Marta, come riferisce Radio Vaticana.  

Francesco ha messo in evidenza che «il rapporto del Signore con il suo popolo è un rapporto personale», «sempre, da persona a persona». Non è «un dialogo fra il potente e la massa».

«E in un popolo, ognuno ha il suo posto – ha proseguito il Papa - Mai il Signore parla alla gente così, alla massa, mai. Sempre parla personalmente, con i nomi. E sceglie personalmente. Il racconto della creazione è una figura che fa vedere questo: è lo stesso Signore che con le sue mani artigianalmente fa l’uomo e gli dà un nome: “Tu ti chiami Adam”. E così incomincia quel rapporto fra Dio e la persona».

E poi «c’è un’altra cosa, c’è un rapporto fra Dio e noi piccoli: Dio, il grande, e noi piccoli. Dio, quando deve scegliere le persone, anche il suo popolo, sempre sceglie i piccoli”.

Il Signore sceglie il suo popolo proprio perché è «il più piccolo», ha «meno potere» degli altri popoli. E c’è un “dialogo fra Dio e la piccolezza umana”. Francesco ha aggiunto che anche la Madonna dice: «Il Signore ha guardato la mia umiltà». Dio «ha scelto i piccoli».

Il Pontefice ha sottolineato che nella Prima Lettura di oggi «si vede questo atteggiamento del Signore, chiaramente»: il profeta Samuele è davanti al più grande dei figli di Iesse e pensa che sia «il suo consacrato», perché «era un uomo alto, grande»; ma Dio gli indica di «non guardare al suo aspetto né alla sua statura» e dice: «Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo». Francesco ha spiegato: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore. Il Signore sceglie secondo i suoi criteri». E predilige «i deboli e i miti, per confondere i potenti della terra». Ecco che alla fine, quindi, «il Signore sceglie Davide, il più piccolo», che «non contava per il padre»; «non era a casa», bensì «a custodire le pecore»; eppure, è proprio Davide a essere «eletto».

Francesco ha continuato: «Tutti noi col Battesimo siamo stati eletti dal Signore. Tutti siamo eletti. Ci ha scelto uno per uno. Ci ha dato un nome e ci guarda. C’è un dialogo, perché così ama il Signore». E anche «Davide poi è diventato re e ha sbagliato. Ne ha fatti forse tanti, ma la Bibbia ci racconta due sbagli forti, due sbagli di quelli pesanti». Ma «cosa ha fatto Davide? Si è umiliato. È tornato alla sua piccolezza e ha detto: “Sono peccatore”. E ha chiesto perdono e ha fatto penitenza».
E poi, dopo il secondo peccato, Davide ha detto a Dio: «Punisci me, non il popolo. Il popolo non ha la colpa, io sono colpevole».

Il Pontefice ha osservato: Davide «ha custodito la sua piccolezza, col pentimento, con la preghiera, con il pianto». «Pensando queste cose, a questo dialogo fra il Signore e la nostra piccolezza – ha riflettuto - mi domando dov’è la fedeltà cristiana».

«La fedeltà cristiana, la nostra fedeltà – ha precisato - è semplicemente custodire la nostra piccolezza, perché possa dialogare con il Signore. Custodire la nostra piccolezza». Ed è «per questo» che «l’umiltà, la mitezza, la mansuetudine sono tanto importanti nella vita del cristiano, perché è una custodia della piccolezza, alla quale piace guardare il Signore. E sarà sempre il dialogo fra la nostra piccolezza e la grandezza del Signore».

Francesco ha concluso con un’invocazione: «Ci dia il Signore, per intercessione di San Davide - anche per intercessione della Madonna che cantava gioiosa a Dio, perché aveva guardato la sua umiltà - ci dia il Signore la grazia di custodire la nostra piccolezza davanti a Lui».






Vatican Insider    21/01/2014


COSA DIRE QUANDO MI CONFESSO?









Don Leonardo M. Pompei

Uno dei requisiti per una buona Confessione è l’accusa sincera dei peccati commessi di cui si ha memoria. Come la Santa Madre Chiesa ha autorevolmente (e dogmaticamente) insegnato, sono oggetto obbligatorio e necessario tutti e ciascuno i singoli peccati commessi da quando si ha l’uso della ragione in poi, i quali vanno confessati bene, ovvero non genericamente, ma per specie, numero e circostanze. L’inosservanza volontaria di tale indicazione, come già visto per ciò che concerne il sincero pentimento, non solo rende la Confessione invalida, ma la trasforma in sacrilega. Cerchiamo di focalizzare bene i dettagli di questo importantissimo ulteriore elemento costitutivo della “quasi materia del Sacramento”.

Bisogna quindi anzitutto distinguere tra oggetto obbligatorio e necessario della Confessione e oggetto consigliato e raccomandato di essa. È strettamente obbligatorio confessare i peccati mortali, ovvero quelli aventi una materia grave (in sé o per le “proporzioni” della trasgressione) e che siano stati commessi con piena avvertenza (rendendosi conto della gravità di ciò che si stava facendo) e deliberato consenso (non sotto la spinta di violenza o altra gravissima causa).

Tanto per fare qualche esempio di comuni peccati che sono sempre mortali per la gravità della materia in se stessa, possiamo citare i sacrilegi, le irriverenze, le bestemmie, il falso giuramento, l’omessa santificazione del giorno festivo, l’uso di droga, le percosse, l’impurità in tutti i suoi generi e specie, l’inverecondia e l’immodestia. Ci sono invece alcuni peccati che diventano mortali quando la materia da “lieve” diventa “grave”. Per esempio il furto, che è peccato veniale quando cade su oggetti di scarso valore, mentre è peccato mortale quando l’entità della cosa rubata o ingiustamente trattenuta è considerevole; le mancanze nei confronti dei genitori, che diventano gravi quando sono ingiurie o quando sono disubbidienze in cose di grande entità; le volgarità e le parolacce, che diventano gravi quando sono a sfondo sessuale o quando sono dette con odio per ferire e colpire il prossimo. Questi peccati vanno confessati non in maniera generica, ma per specie: non basta dire “ho peccato contro il Secondo Comandamento”, perché un conto è la bestemmia, un conto il falso giuramento, un conto la nomina inutile del nome di Dio, della Madonna o dei santi; non basta dire “ho commesso atti impuri”, perché altra cosa è l’adulterio rispetto ai rapporti prematrimoniali, o al peccato impuro solitario, ecc. Va inoltre specificato il numero, perché tanti sono i peccati mortali quante sono le volte che si sono commessi e ciò determina un profondo aggravamento sia della situazione della coscienza sia delle pene dovute per il peccato (che faranno fare il Purgatorio nonostante l’assoluzione).

Quando non si ricorda il numero preciso, bisogna dare al confessore “l’ordine di grandezza”, avvicinandosi il più possibile alla verità. Se un penitente sa di aver colpevolmente “mandato in vacanza il Padre eterno” durante il periodo estivo, non sarà per lui sufficiente dire “ho mancato alla Santa Messa”, ma dovrà appunto specificare “per tutto il periodo estivo”. Se si confessa un bestemmiatore abituato, dovrà far chiaramente capire che non è che gli sia scappata una bestemmia in un momento di collera, ma che più volte ha offeso il nome di Dio, ecc. Infine vanno specificate le circostanze quando queste mutano la natura del peccato oppure ne aggravano o diminuiscono la gravità. Se si è bestemmiato dinanzi a un figlio piccolo, bisogna specificarlo, perché questa aggravante (il vero e proprio scandalo dato a un piccolo dal proprio genitore) è quasi più grave del peccato commesso; così come se si è mancati alla Santa Messa, avendo dei figli piccoli che devono avere nei genitori un modello e uno sprone per imparare l’osservanza della Legge di Dio. Se si è commessa qualche impurità, bisogna specificare se il complice, per esempio, fosse sposato in Chiesa (anche se divorziato), perché l’atto si trasforma immediatamente in adulterio che è molto più grave della fornicazione semplice, ecc. Similmente se si è mancati alla Santa Messa non per negligenza ma per improvvisi problemi che hanno reso molto difficile la partecipazione (se non addirittura moralmente impossibile: la malattia personale, un incidente stradale, il ricovero improvviso di una persona cara), bisogna specificarlo; così come se fosse scappata una bestemmia in preda all’ira da parte di chi non ha questa abitudine e si è ritrovato con un’espressione blasfema uscitagli dalla bocca senza nemmeno capire come è successo; oppure i peccati che sono stati commessi per ignoranza anche se colpevole (cosa che avviene quando si trasgredisce gravemente la Legge di Dio, senza sapere o avere la piena consapevolezza della gravità del peccato, per difetto di formazione della coscienza, ecc.).

I peccati mortali vanno confessati tutti, anche quelli molto lontani nel tempo, di cui non si abbia la certezza di averli già portati dinanzi al tribunale della divina Misericordia. La Confessione, infatti, copre solo i peccati non confessati per dimenticanza, ma comporta sempre in sé l’obbligo che, qualora affiorino nella memoria peccati anche molto antichi che si è certi o quasi di non aver mai confessato, essi vengano umilmente confessati alla prima Confessione utile. Sembra assai probabile l’opinione di chi ritiene, in caso di peccati molto antichi, che nonostante l’obbligo di confessarli alla prima occasione utile, il fedele possa accostarsi alla Comunione sacramentale, diversamente da ciò che accade qualora, nel presente, si commetta un peccato mortale, nel qual caso non bisogna per nessun motivo accostarsi all’Eucaristia senza premettere la Confessione sacramentale.

Gli altri peccati (quelli veniali) e le imperfezioni morali non costituiscono oggetto obbligatorio di Confessione, ma la Chiesa ne “raccomanda caldamente” la confessione, dato che una coscienza che li sottovaluti si espone grandemente al pericolo di cadere in mancanze gravi e comunque, nel caso di peccati in senso stretto (piccole maldicenze, atti di superbia, bugie, volgarità non eccessive, scatti di collera, ecc.), si offende comunque Dio e si “aumenta” il tempo di purgazione che sarà necessario affrontare in Purgatorio prima di accedere alla visione beatifica. Un’anima poi che voglia santificarsi non può in nessun caso e per nessun motivo prendere alla leggera venialità e imperfezioni, altrimenti cadrà inevitabilmente nelle sciagurate sabbie mobili della mediocrità e della tiepidezza, perderà un numero considerevole di grazie divine, farà molto meno bene (o lo farà molto peggio) di quello che dovrebbe o potrebbe.






Fonte: dalla rivista IL SETTIMANALE DI PADRE PIO