domenica 6 gennaio 2013

L'apologia della superbia








di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Tutte le sere noi Religiosi ai Vespri, per antichissima tradizione, cantiamo quell’inno stupendo, il Magnificat, che, secondo la narrazione evangelica, pronunciò la Beata Vergine Maria al termine del prodigioso incontro con Elisabetta per ringraziare e lodare Dio per le “grandi cose” che aveva fatto in lei.

In una serie di versetti Maria, esultante di gioia, elenca queste grandi opere di Dio, e tra di esse troviamo le ben note parole: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha innalzato gli umili”, una delle opere maggiori che Dio compie nel cuore dell’uomo insuperbitosi per aver ceduto alla tentazione demoniaca nel paradiso terrestre e quindi con ciò stesso decaduto dalla sua originaria grandezza. Per salvarlo, Dio ispira all’uomo sentimenti di umiltà, i quali soltanto, sostenuti dalla grazia divina, sono adatti a risollevare l’uomo dalla sua miseria mostrandogli la falsa grandezza che crede di aver conquistato obbedendo al serpente.
Per questo, la condanna della superbia e l’esaltazione dell’umiltà è un tema che percorre tutto il discorso etico della Bibbia, iniziando con l’Antico Testamento e culminando nell’esempio sommo del Salvatore, di Colui che, per salvarci, ha accettato l’umiliazione della croce e ci invita ad essere come Lui “miti ed umili di cuore”.

E, com’era da aspettarsi, questa tematica sarebbe poi stata sviluppata in mille forme da tutti i santi, i Padri e i Dottori della Chiesa sino ai maestri dei nostri giorni, sotto la guida dello stesso Magistero della Chiesa. Tra tutti basti citare il sommo Agostino, il quale, col suo stile lapidario di grande efficacia, delinea l’opposizione fra l’umiltà e la superbia nei seguenti termini: “amor Dei usque ad contemptum sui” – l’umiltà, che fa la “Città di Dio” e “amor sui usque ad contemptum Dei” – la superbia che costruisce la “città di Satana”.
L’alternativa tra questi due possibili orientamenti dello spirito, tra i quali siamo chiamati a scegliere, si basa su di una certa coscienza di noi stessi, quella che nella tradizione filosofica vien chiamata “autocoscienza”, atto caratteristico dello spirito, col quale ci eleviamo sulla vita fisica e sulla stessa realtà materiale e possiamo contemplare la grandezza e la bellezza del nostro spirito, certo finito, ma creato ad immagine e somiglianza di Dio.

L’atto dell’autocoscienza suppone in chi lo compie una percezione della dignità dello spirito e quindi della persona e della elevatezza di questa al di sopra della pura corporeità, per cui un animo materialista o positivista, maniaco della scienza sperimentale, abbacinato dalle illusioni dei sensi e schiavo della sensualità, l’“uomo carnale”, per usare il linguaggio paolino, di questa sublimità non capisce niente vivendo come una bestia.
Tuttavia non qualunque atto dell’autocoscienza garantisce la vera dignità del nostro spirito, ma solo quello che vien compiuto nell’umiltà rifiutando qualunque tentazione alla superbia. E tale tentazione è facile in quelli tra di noi che maggiormente capiscono la dignità del nostro spirito, le meravigliose facoltà dell’intelletto e della volontà, la loro apertura all’Assoluto, i segreti quasi impenetrabili del loro mondo, le stupende conquiste della loro attività.

Uno dei più sublimi compiti della filosofia e della stessa teologia è quello appunto di indagare, illustrare e spiegare i tesori dello spirito e quindi dell’autocoscienza. Ma è a questo punto che si oppongono tra di loro una vera e una falsa filosofia, una vera e una falsa sapienza, la prima, frutto squisito, rigoglioso e beatificante dell’umiltà, la seconda, che potremmo chiamare più “gnosi” che filosofia, effetto insidioso, seducente e deleterio della superbia. La prima, nelle anime sante, è ispirata dallo Spirito Santo; la seconda, negli spiriti ribelli ed empi, è suggerita dal demonio, ed in tal senso la Scrittura parla di “dottrine diaboliche”. In costoro continua a bisbigliare quel serpente che già fece cadere i nostri progenitori.

Stando così le cose, c’è da rimanere stupefatti di come oggi si diano teologi sedicenti cattolici e considerati cattolici e addirittura “tomisti”, i quali, anziché essere maestri di umiltà, sono maestri di superbia mediante la diffusione di dottrine, come l’idealismo panteista, del quale ho parlato più volte in questo sito.
Un fenomeno del genere, che in altri tempi più felici sarebbe stato bloccato dall’autorità ecclesiastica con la massima severità, oggi viene a volte addirittura portato in palma di mano da certi prelati imprudenti, come per esempio troviamo nella prefazione di un libro di uno di questi teologi “cattolici”, dove, a suo riguardo uno di questi prelati parla di “eccezionale vocazione teoretica dell’autore”, per cui si auspica che il lettore “si renda conto dell’impegno non comune che gli sarà richiesto, se vorrà affrontare la formidabile impresa di misurarsi con la densità e l’acutezza di queste pagine”.

Vediamo allora, a modo di saggio e restando nel tema dell’autocoscienza, in che consiste la sbandierata sapienza di questo teologo e se quanto dice merita effettivamente delle lodi così altisonanti o non piuttosto sia da ritenere un discorso ingannevole e pericoloso per la ragione, per la fede e per i buoni costumi cristiani. Vediamo se vi sia l’elogio dell’umiltà o non piuttosto, sotto l’orpello di solenni termini filosofici, l’incentivo alla superbia.

Diciamo innanzitutto che cosa è la superbia. S. Agostino la definisce amor suae celsitudinis: naturalmente non è la semplice stima per la propria grandezza oggettivamente considerata: questo è un preciso dovere, tanto più che poi fonda l’altro più alto dovere di render lode a Dio che ce l’ha concessa, utilizzandola per il bene del prossimo. Se io ho tre lauree, non posso dire che ho solo la quinta elementare. Se tuttavia sono un povero mortale peccatore, non posso pavoneggiarmi come se fossi un semidio o una “teofania” dell’Assoluto.
Quanto ad Agostino, si riferisce evidentemente a quell’amore di sé falso ed egoistico, a quell’autoreferenzialità, a quell’amor sui del quale ho parlato sopra, a quella cupiditas o concupiscentia, a quell’assolutizzazione o divinizzazione del proprio io e della propria autocoscienza, che fa dell’uomo un rivale di Dio mettendolo in conflitto con Lui, gli impedisce di riconoscere la trascendenza di Dio e quindi di sottostarGli umilmente e di salvarsi.

L’umiltà ovviamente sarà il contrario. Essa si basa innanzitutto sull’attenzione alle cose come sono, sull’obbedienza alla verità, sull’ascolto dell’autorità, ossia sulla adaequatio, sulla conformità, come dice S. Tommaso, del nostro intelletto alla res, ossia all’essere, al dato, alla realtà che ci circonda e che noi stessi siamo come creature di Dio.

La dottrina gnoseologica che sostiene ed illustra queste cose è il cosiddetto “realismo”. Al contrario, la gnoseologia che rifiuta questa adaequatio, la quale suppone evidentemente una distinzione del pensiero dall’essere, è quella dell’idealismo, per il quale il pensiero, ergendosi ad Assoluto, assorbe in sé stesso l’essere, non ammette un essere esterno, presupposto e indipendente dal pensiero, regola di verità del pensiero, ma il pensiero diventa “intrascendibile”: nulla prima, al di fuori e al di sopra del pensiero, ma tutto nel pensiero, anzi tutto è pensiero: l’essere coincide con l’essere pensato. Oggetto del pensiero non è l’essere, ma lo stesso pensiero. Il pensiero si stacca dall’essere e gira su sé stesso. Questa dottrina è stata chiamata anche “immanentismo” e come tale è stata condannata dalla Chiesa, soprattutto da S. Pio X nella famosa enciclica Pascendi contro il modernismo.

In base all’umiltà, l’uomo sa di essere creato da Dio dal nulla (ex o de nihilo), però creato a Sua immagine e somiglianza e destinato in Cristo alla vita eterna. Egli conosce inoltre i propri limiti, difetti e peccati. Si accontenta di questi limiti naturali, senza pretendere di andar oltre, il che sarebbe tracotanza, presunzione, arroganza e superbia, ma accogliendo la vita di grazia, la quale, purificando, guarendo, liberando ed elevando la natura, la arricchisce di doni divini e soprannaturali, primo fa tutti la carità.
In secondo luogo l’umiltà completa la sua essenza di virtù nella volontà, per la quale questa, applicando e perfezionando l’umiltà dell’intelletto (l’obbedienza alla verità, propria del realismo), frena l’impulso alla tracotanza[1], mette in pratica la legge divina ed obbedendo a questa, consente all’uomo la sua vera grandezza, che è precisamente ciò che Dio vuole avendo creato l’uomo per renderlo partecipe, in Cristo, alla sua stessa vita divina.

Quando d’altra parte si parla in generale di “autocoscienza”, bisogna sempre precisare di quale autocoscienza si parla, giacchè esistono tre gradi di autocoscienza: quella umana, quella angelica e quella divina, gradi che sono diversissimi tra di loro e che quindi occorre sempre distinguere con lealtà e precisione onde evitare pericolose illusioni e nefasti equivoci. Ed è purtroppo qui che cadono gli idealisti come il suddetto teologo, nonostante la sua professione di “cattolico” e di “tomista” .
Infatti è noto come gli idealisti, quando parlano dei valori dello spirito, come l’autocoscienza, l’io, il soggetto, la coscienza, il pensiero, la ragione, ecc, giocano sempre sull’equivoco, presentano, senza riconoscerlo, questi valori sotto una forma implicitamente divina, salvo poi attribuirli all’uomo.
O se parlano del modo umano del loro realizzarsi, ne trattano con scetticismo, disprezzo ed alterigia, atteggiamento tipico degli gnostici, i quali, ritenendosi i veri filosofi e maestri dell’umanità, in possesso del “Sapere assoluto o supremo”, guardano dall’alto al basso con commiserazione i realisti, da loro considerati delle menti grossolane e volgari e dei poveri illusi dietro alle apparenze, annoverando tra le dottrine di costoro, si noti bene, addirittura la dogmatica cattolica, che per loro è un insieme di miti, immagini e simboli ingenui, superati, chiarificati o confutati, a seconda dei casi, dalla loro “scienza o esegesi biblica”, ben superiore a quanto il Magistero della Chiesa racconta e dà ad intendere alle pecorelle per non dire ai pecoroni del gregge di Cristo.

Lo stesso metodo è seguito dal nostro teologo. Diamo qualche esempio. Innanzitutto egli sbaglia nel definire come l’oggetto dell’autocoscienza il “sé stesso” come “pensiero pensato”. Già subito qui si confonde il soggetto umano col Soggetto divino. Il soggetto umano non è affatto “pensiero” sussistente, ma questa è prerogativa solo del Pensiero divino. Il soggetto umano non è un pensiero e non è neppure, come credeva Cartesio, una res cogitans, ma è un soggetto composto di anima e corpo, che semplicemente può pensare. Il soggetto resta soggetto anche se non pensa. Quando dormo, anche se non penso, resto sempre una persona: sono semplicemente una persona che dorme. Viceversa è solo in Dio che l’atto del pensare costituisce l’essenza del Soggetto divino.

In secondo luogo, l’autocoscienza, secondo il nostro teologo, si “esprime come apprezzamento di sé come assoluto originario e intrascendibile”. E spiega: “l’autocoscienza per essere sé stessa non rinvia ad altro da sé, rimanda semplicemente a sé perché coscienza di sé e non coscienza di altro. E’ quindi assoluta”.
L’autore, da come si esprime nel contesto, intende parlare della nostra autocoscienza, l’autocoscienza umana; eppure di fatto attribuisce ad essa dei caratteri divini, sotto apparenza di parlare di autocoscienza in generale. Infatti la nostra autocoscienza non è affatto un “assoluto originario e intrascendibile”. La nostra autocoscienza è atto del nostro intelletto che riceve inizialmente i suoi contenuti dai sensi, per cui questo atto non è affatto assoluto ed originario, ma relativo a quanto l’intelletto ha già ricavato dall’esperienza sensibile, per cui è derivato e condizionato da questo precedente contatto con la realtà sensibile esterna. Se non abbiamo compiuto questa operazione elementare del conoscere, abbiamo un bel riflettere su noi stessi: non avremmo che il vuoto! Non confondiamo! Infatti, la nostra autocoscienza comporta la riflessione sul nostro io pensante, in quanto già in possesso di contenuti intenzionali ricavati dall’esperienza.

Questo condizionamento e questa relazione alla previa e presupposta conoscenza sensibile sono ovviamente assenti solo nell’Autocoscienza divina, la quale soltanto è puro Spirito infinito, Pensiero sussistente originario e originante, creatore dello stesso pensiero e dell’autocoscienza umani: Dio solo è Pensiero intrascendibile, perché comprensivo di tutto l’essere, dell’Essere che è Egli stesso e dell’essere del mondo, che Egli ha creato. E se il mondo, come opus ad extra, è esterno a Dio, la Mente divina, in quanto progettatrice del mondo, ha in sé immanente in modo ideale anche l’essere del mondo e come Causa prima lo contiene virtualmente in sé, come insegna S. Tommaso.

Viceversa, il nostro pensiero non è affatto intrascendibile, ma è trasceso in infiniti modi dall’essere e dagli esseri del mondo, dallo stesso nostro essere, perché noi siamo mistero a noi stessi e soprattutto dall’infinito Essere divino. Solo Dio è onnisciente. E anche quando pensiamo a Dio, all’Assoluto, all’Infinito, alla Totalità, il nostro pensare, per quanto ampio e sublime, resta finito, per cui, benchè possiamo conoscere questi valori, nulla possiamo comprendere di ciò che in loro supera la nostra limitata capacità di comprensione.
Non è vero che la nostra autocoscienza “non rinvia ad altro da sé”: come atto intenzionale del nostro intelletto, essa rinvia all’essere, al nostro stesso essere e all’essere delle cose che si suppone, come ho detto sopra, che abbiamo contattato. Un essere umano che disgraziatamente dovesse nascere senza l’esercizio dei sensi, non può avere alcuna autocoscienza.

Il teologo continua spiegando cosa intende dire chiamando “originaria” l’autocoscienza. E’ un attributo che accompagna l’“intrascendibilità”. Dice infatti: “Proviamo a pensare che questo pensiero pensante o pensare pensante” (=l’autocoscienza) “non sia originario ma abbia un origine. Ebbene, il pensiero pensante pensa anche l’origine: in un boccone l’ha già mangiata, l’ha già inglobata! Se pensi che il pensiero abbia un’origine, hai già pensato l’origine. Quindi l’origine non è estranea al contenuto del pensiero; è l’atto del pensare che se la mangia. … L’autocoscienza apprezza sé stessa come assoluto originario, perché se dovesse pensare una propria origine diversa da sé, la penserebbe – appunto! Allora non è più diversa da essa. Non solo apprezza sé come assoluto originario, ma anche come intrascendibile. Se cerco di trascendere la coscienza, sono sempre nella coscienza: se penso che c’è qualcosa che è fuori del pensiero, lo sto pensando: quindi non è fuori. Nulla cade fuori dal pensiero”.

Siamo sempre lì: l’identificazione del pensare umano col pensare divino. Dovrebbe esser chiaro a un teologo che si dice tomista, ma, che dico, cattolico, che il pensare umano non è affatto assoluto, originario ed intrascendibile, ma queste sono qualità esclusive del pensiero divino. Il pensare umano è relativo al soggetto e all’oggetto, è creato da Dio, è trasceso dall’essere.
Nell’atto del conoscere dovrebbe esser ovvio che trascendo il mio pensiero per raggiungere le cose fuori di me, altrimenti come arricchirei le mie conoscenze? Non posso accontentarmi di ciò che è già in me, ossia di ciò che non mi trascende. Come dice Agostino, quando ci invita a cercare Dio? Transcende et teipsum![2]. Certo questo non vuol dire che il pensiero esca da sé stesso per viaggiare nello spazio! Il pensiero coglie il reale esterno all’interno del pensiero – è quella che gli Scolastici chiamano “azione immanente”; ci pensano però i sensi a raggiungere l’oggetto posto nello spazio.

Certamente il pensare divino non ha alcuna origine esterna come il nostro che è creato da Dio. Ma d’altra parte, se Dio – e qui il nostro pensare è come il suo – pensa il mondo che è fuori di Lui, non per questo il mondo scompare per ridursi a semplice pensiero divino! Indubbiamente il mondo, come osserva acutamente S.Tommaso (questo è il vero acume) ha virtualmente nell’essenza divina un essere infinitamente superiore all’essere che possiede fuori di Dio, perché si identifica con lo stesso essere divino – e questa è la parte di verità del panteismo.
Ma il mondo resta mondo col suo essere esterno a Dio anche se è pensato da Dio. Anzi lo stesso essere mondano si fonda originariamente sull’idea divina del mondo realizzata dalla divina volontà creatrice. Ma si direbbe che questo “tomista” abbia anche un’idea falsa della creazione, che fa pensare alla concezione di Emanuele Severino, proprio per il fatto che non appare la distinzione reale tra pensiero divino creatore e pensiero umano creato.
Forse che se io penso all’origine del mio pensiero, alla mia facoltà intellettuale, a Dio che ha creato il mio intelletto e crea il mio stesso atto di pensare, con ciò io sono autorizzato a negare che queste origini – Dio e il mio intelletto – perdano il loro esistere oggettivo davanti al mio pensiero per il solo fatto che, pensandoli, li immanentizzo nel mio pensiero e nella mia coscienza?

Qui il teologo “tomista” confonde evidentemente, alla maniera idealistica, l’essere reale extramentale (extra animam) con l’essere intenzionale-rappresentativo (esse cognitum). La realtà resta fuori di me anche quando la penso. Per quale motivo dovrebbe scomparire o “essere mangiata”? “Non è la pietra che è nell’anima – diceva Aristotele col suo buon senso – ma è l’immagine della pietra”: la pietra resta fuori! Se io penso alla città di Bologna, certo essa entra intenzionalmente o rappresentativamente nella mia coscienza.
O forse che entra nella mia mente con la sua materialità? E le due torri in quale parte del mio cervello le metto? Ma per quale motivo Bologna dovrebbe scomparire in sé stessa, nella realtà esterna? Per quale operazione magica io avrei il potere di trasformare il suo essere reale nel mio concetto “città di Bologna”? Ma poi a che pro? A parte la stoltissima falsità di una tale idea.

Ultima perla di questi raffinati spropositi: il teologo “tomista” dedica dieci pagine del suo libro, in una lunghissima nota, alla critica di due miei articoli apparsi anni fa nella rivista teologica internazionale Divinitas diretta da Mons. Brunero Gherardini[3], dove confuto già anticipatamente, seguendo il pensiero di S. Tommaso ed altri autori tomisti, le vedute del teologo qui sopra esposte.
Non lo nominavo, ma lui si è accorto che criticavo idee simili alle sue, e mi si è scagliato contro furiosamente per cui fa una critica delle mie posizioni, in verità non priva di qualche spunto buono, ma in sostanza piena di arzigogolati sofismi giungendo addirittura ad accusarmi di pormi contro la fede.
Dal canto mio considero le sue vedute non contro la fede, anche se indirettamente lo sono: sarebbe fare ad esse troppo onore. Esse sono semplicemente delle argute stoltezze, eredi di un idealismo ammuffito, confutato mille volte dai tomisti[4], anche se purtroppo ancora seducente, del quale sarebbe ora di sbarazzarsi per sempre perché, penetrato in questi ultimi decenni nella teologia cattolica, si pensi anche al fenomeno del rahnerismo, sta creando, senza per questo negare taluni aspetti positivi, enormi disastri nel retto pensare e per conseguenza nel comportamento dei fedeli.

E’ giusto confrontare il pensiero dell’Aquinate con l’idealismo per cercare qualche punto di contatto; ma pretendere di costruire, come fa il nostro teologo, un tomismo alla Severino, alla Bontadini e alla Gentile è una specie di schizofrenia, è un intento così sensato come scavare una buca con una mano e riempirla con l’altra. Alla fine, bene che vada e supposto che molti non restino avvelenati, ci si può domandare: chi te lo fa fare? Questo snervante andirivieni tra due poli opposti non ti lascia alla fine esasperato? Vuoi zoppicare ad entrambi i piedi? E poi vorresti presentarti come campione del principio di non-contraddizione?



[1] S,Tommaso considera l’umiltà come una forma di temperanza: veduta giusta, ma un po’ limitata e poco profonda: cosa strana in un pensatore profondo come lui. Sembra non accorgersi che la sua famosa definizione della verità come adaequatio intellectus et rei è la forma più profonda dell’umiltà. Invece S.Caterina da Siena, più attenta qui alla lezione agostiniana, capisce benissimo il legame dell’obbedienza e quindi della adaequatio con l’umiltà.
[2] De vera religione, c. XXXIX.
[3] Pensare il pensiero (I), in Divinitas , 2 (2000), pp.281-300 e Pensare il pensiero (II) in Divinitas II, 1 (2001), pp.43-72.
[4] Basti vedere gli studi di Gonzalez, Mattiussi, Gredt, Sertillanges, Chiocchetti, Roland-Gosselin, Gardeil, Maritain, Vanni Rovighi, Garrigou-Lagrange, De Tonquédec, Fabro, Gilson, Y. Simon, Toccafondi, Zacchi, Cordovani, A. Galli, G. Bertuzzi, ecc. ecc.


Riscossa Cristiana 

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