martedì 31 luglio 2012

Matrimonio e verginità - Don Divo Barsotti

 



Dobbiamo sempre procurare di entrare nel mistero che celebriamo con tutta la nostra vita. Che cos'è questo mistero che ci ha attratto a sé, ci ha fatti suoi ed esige ora il dono di tutta la nostra vita? Non è l'esercizio delle virtù, non è la legge, ma un rapporto di amore.

Dio si è fatto uomo e, dopo la sua risurrezione egli non ha più lasciato la terra.

Vivere, per noi vuol dire vivere un rapporto con lui. Il Dio tutto santo, il Dio inaccessibile, si è fatto nostro compagno di via. Per noi si tratta di vivere questa consapevolezza che tutta la realtà umana e mondana, tutta si riassume nella presenza segreta, ma reale del figlio di Dio, che si è fatto uno di noi, per fare che noi siamo una cosa sola con lui.

Devo parlare della castità, piuttosto della verginità consacrata. Che cos'è questa verginità?

Non si trova nella legge divina, non è grave peccato non essere vergini. Che valore ha, che cosa vuol dirci, perché è tanto apprezzata e celebrata nella Chiesa di Dio? La cosa mi sembra che sia molto semplice: creati da Dio, noi abbiamo un solo fine da raggiungere. Il fine da raggiungere da parte dell'uomo non è la pace delle nazioni, non è la promozione umana, è Dio.

Senza Dio, tutti i valori cadono, tutti i valori scadono, perdono il loro valore, il loro peso, la loro necessità. Che cos'è la vita cristiana? È la presenza di Lui, una presenza nella quale noi dobbiamo fare posto al Signore. In che modo noi possiamo prepararci ad accogliere Dio? L'uomo è stato creato e, creato, egli ha avuto come fine di raggiungere Dio. Però,di fatto, egli ha peccato. Il peccato dell'uomo ha fatto sì che l'uomo sia disgregato in se stesso. Non è più l'unione dell'uomo con Dio, non è più l'unione dell'uom o con gli uomini, non è più neppure l'unione dell'uomo con se stesso. Tutto è disgregato e disciolto. L'uomo segue la forza dell'istinto, che può essere l'istinto dell'orgoglio, o l'istinto della sensualità. L'uomo che è anima e corpo, può essere attratto ugualmente dai valori del corpo, come dai valori dell'anima e l'attrazione non toglie il fatto che, seguendo l'una o l'altra di queste vie, l'uomo continua a peccare. L'uomo non soltanto vive nel peccato, ma accresce la sua lontananza da Dio. Come è possibile che l'uomo possa di nuovo ristabilire quella unità che il peccato ha distrutto? La sensualità umana pretende tutto per sé, ma nella misura che la sensualità ha un impero su di noi, invece di creare unità, spezza ancora di più l'uomo, fa sì che lo spirito e il corpo rimangano totalmente non solo divisi, ma in opposizione tra loro. Come è pos sibile raggiungere l'unità? Certamente non per la sensualità, ma per lo spirito. Lo spirito può dominare la carne, la carne invece porta con sé nella rovina anche lo spirito. È dunque un processo di castità che può ristabilire l'unità dell'uomo. Per questo la verginità consacrata è un grande mistero, come dicevo prima, non è una legge, non è un comandamento divino, è soltanto la via perché si ristabilisca una unità che il peccato ha distrutto. Senza questa unità l'uomo non può essere salvo, perché l'uomo è esattamente quell'essere nel quale anima e corpo sono uno: un solo uomo. Questa unità veramente paradossale del corpo e dello spirito, esige però che lo spirito domini il corpo, che lo spirito non sia schiavo degl' istinti corporali. Di qui ne deriva la necessità di un processo di purificazione e poi di trasfigur azione dell'umano. Si deve giungere a tanto che non solo lo spirito domini il corpo, ma lo spirito, dominato da Dio, possa portare l'uomo sempre più all'intimità col Signore. Con la verginità noi in qualche modo anticipiamo anche il fine ultimo, perché liberandoci da ogni istinto egoistico, l'anima si apre naturalmente alla carità, che ci unisce a Dio. Prima di tutto dunque la verginità è un grande mistero, un mistero per il quale, l'uomo, distrutto dal male, viene ricomposto, attraverso la grazia dello spirito, in una unità, nella quale l'uomo come obbedisce a Dio, così il corpo obbedisce allo spirito. Ma non è soltanto questo. La verginità è qualche cosa di molto più profondo e vero. Non soltanto la verginità non è una legge, ma si può dire anzi che la legge si identifica al matrimonio. È strano, eppure è così. Nell' antico testamento non si ristabilisce l'unità umana, si cerca soltanto la sanità dell'uomo. Per noi cristiani non basta la perfezione della nostra natura; il fine dell'uomo è di tendere a Dio, l’uomo deve superare ogni natura creata, tutto quello che è creato. Ma se veramente l'uomo, prima di tutto, deve ristabilire la sanità dell'essere suo, la sanità dell'essere suo implica la visione di una perfezione naturale che l'uomo raggiunge soltanto con l'unione nuziale. L'uomo vero non è il giovane e non è il vecchio: è l'uomo. L'uomo che, unito alla donna, porta il suo frutto, come un albero. Allora veramente è cresciuto quando comincia a fare i suoi frutti, così anche l'uomo: non è uomo fintanto che, nell'unione con la donna non dona i suoi frutti, che sono i figli. Nella paternità e nella maternità è veramente il frutto più maturo della natura umana. Senza raggiungere questo natura, l'uomo non solo non si salva, ma veramente mette in pericolo la sua stessa salvezza, perché di fatto, il superamento della natura non può avvenire che attraverso la natura medesima. Cioè bisogna prima di tutto che l'uomo si risani nella sua unità corporale e psichica e spirituale. Allora poi può veramente realizzare anche il superamento della natura attraverso la verginità. Ma siccome il superamento della natura non avviene nell'Antico testamento, l'Antico testamento celebra il matrimonio.

Prima di tutto nella Genesi, nel libro dei Proverbi, nel Siracide, nel Profeta Malachia, la verginità non è veduta come una esigenza fondamentale della vita umana, perché sul piano naturale questa maturità è dell’uomo sposato. Non si vive per noi stessi. Per non vivere per noi stessi si impone il matrimonio, perché nel matrimonio, si impara ad amare.

Ordinariamente per la massima parte degli uomini il cammino che porta all'amore passa attraverso il matrimonio. Il matrimonio obbliga l'uomo ad uscire da sé: il padre deve pensare ai figli, la madre deve pensare ai figli, il marito deve pensare alla moglie, la moglie al marito. L'uomo non si chiude in se stesso può vivere il matrimonio in quanto supera l'egoismo, l'amor proprio, l'orgoglio di sé.

Di qui ne deriva l'importanza del matrimonio nella religione. ....

Di qui dicevo anche il fatto che il libro dei proverbi soprattutto e anche il libro di Malachia, come anche il libro del Siracide, esaltano il matrimonio come perfezione ultima dell'uomo.

Di fatto se non ci fosse qualche cosa che trascende la natura certamente il matrimonio sarebbe una delle più grandi realizzazioni compiute dalla grazia divina. E noi lo sappiamo oggi tempo in cui la famiglia è veramente in pericolo, è in crisi. La crisi della famiglia è la crisi stessa della Chiesa, perché la verginità è un dono più grande del matrimonio, ma è di pochi.

Pochi sono gli uomini che vivono già nella vita terrena il superamento della vita naturale per vivere soltanto alle dipendenze dello Spirito di Dio. C'è questa verginità e ci deve essere, perché noi viviamo già l'ultim a età, non c'è un altro passaggio da fare, c'è soltanto il passaggio da compiere da quello che è invisibile a quello che è visibile, ma la realtà già è presente nella realtà che è propria dei santi.

Noi siamo concittadini dei santi viviamo già nel mistero di questa unione con Dio che ci ha fatto una sola cosa con Cristo. Per questo, mentre sul piano della vita naturale, per quanto riguarda l'antica alleanza, il matrimonio è un grandissimo valore, per noi, che Dio ha chiamato a vivere una più grande intimità col Signore e ad essere nel mondo i testimoni di questa presenza divina, per noi si impone invece la verginità. La verginità implica questo trasferimento dell'uomo nel mondo divino. Non si tratta di vivere ora una perfezione della natura, si tratta di superare la natura in tal modo che si faccia presente in noi e visibile in qualche modo in noi, la divina pres enza. Mi sembra che questo sia il compito della verginità consacrata. Siamo il sacramento di una presenza di Dio che, attraverso di noi deve risplendere, deve in qualche modo manifestarsi al mondo. C'è una manifestazione del Cristo, alla fine dei tempi, ma c'è una manifestazione del Cristo anche nel tempo: sono le apparizioni di Gesù risorto; sono anche, se volete, le apparizioni della Madonna, queste apparizioni nelle quali non cambia nulla in Dio, non cambia nulla nella Vergine, cambiano gli occhi. Gli occhi che prima non vedevano Dio, perché non avevano la capacità di captare questa luce infinita, ora, mediante la verginità, si fanno capaci di accogliere la luce, di tramandarla e di manifestarla anche al di fuori.

Così il vergine rimane il testimone di una divina presenza.

Quello che noi viviamo in rapporto all'Eucaristia è sempre una vita di fede, perché noi crediam o alla presenza reale, ma nulla ci indica, se la fede non ci insegna, che quel segno è il segno della presenza divina. Invece il vergine no, il vergine non è più soltanto una semplice "ostia di pasta cotta", è veramente una continuazione dell'umanità del Cristo.

Siamo tutti un solo Cristo, ma per essere un solo Cristo, dobbiamo essere cristiani, cioè viventi la nostra partecipazione al mistero del Cristo, sia nel corpo che nello spirito. Di qui ne deriva che veramente il vergine è un'apparizione costante della presenza divina nel mondo. La necessità della verginità consacrata nasce di qui. Non possiamo noi opporre il cielo di domani alla terra di oggi; il mondo è uno solo, non ci sono due mondi. Il mondo è uno solo, ma per noi che non viviamo ancora una nostra trasfigurazione umana, il mondo divino rimane nascosto, lo crediamo, ma rimane nascosto. Ma il vergine in qualche modo lo rivel a. La rivelazione che fa il vergine della presenza divina è necessaria alla Chiesa, perché altrimenti sembra che noi annunciamo soltanto delle verità che non hanno nessuna possibilità di controllo. Noi abbiamo la possibilità di controllo, un'anima che si dona Dio fino in fondo, senza misura senza riserve. Si noti bene che proprio per questo il vero primo comandamento di Dio è l'amore di Dio. L'amore del prossimo ha sempre una misura, se non altro la misura è la legge divina.

Non si può andare contro la legge divina per un amore umano.

Non si può andare contro la volontà divina per seguire una via che può essere anche il servizio del prossimo con maggiori frutti. L'obbedienza a Dio precede qualunque altra cosa.

Nell'amore di Dio non c'è misura, come dice San Bernardo " sine modo ". Amare Dio vuol dire amare senza misura. Ed è in questo "senza misura" che veramente si fa presente il mondo di Dio, perché è il mondo creato è tutto fatto con misura, come dice il libro della Sapienza, ma la vita divina non è fatta su misura, se è la vita di Dio, nel cuore dell'uomo.

.....

Un'altra cosa che dobbiamo dire a proposito della verginità è anche questa: che la verginità è stata sempre concepita in rapporto alla vita religiosa. Una verginità che non sia la verginità consacrata a Dio, è una cosa che va contro l'uomo. Non si può accettare, non si deve accettare per questo, dicevo prima, io ho sempre predicato che le zitelle e gli scapoli non vanno in Paradiso, perché sono chiusi in se stessi, non vivono l'amore.

Ora l'unica legge che ci porta a Dio è sempre l'amore ed è vero anche questo che ordinariamente si supera l'egoismo umano, che è frutto del peccato, solo nel matrimonio. Il matrimonio chiede il sacrificio, chiede il sacrificio di badare al bambino di essere sempre disponibile al marito. Si chiede di trascendere noi stessi, esige che noi superiamo quell'egoismo naturale, e istintivo che nasce in noi dal peccato. Di qui ne deriva che la verginità è la realizzazione religiosa della vita umana. Di più non è una semplice realizzazione, è il vero matrimonio. Non so se avete mai letto un capitolo al quale io tengo molto del mio libro Il Signore è uno; il capitolo è intitolato "Dal matrimonio alla verginità". Spesso noi vediamo la verginità come qualche cosa che precede il matrimonio, non è vero nulla, se voi non siete sposati, non siete nemmeno vergini.

Sarete vergini magari, ma non cristiane. Per essere vergini cristiane dovete essere le spose del Cristo. Ricordate quello che dice la Liturgia: Veni sponsa Christi accipe coronam.

È la vergine che è sposa del Cristo.

All'unione matrimoniale che, però viene spezzata col tempo, (si dice che il matrimonio è indissolubile, ma io ho sempre visto che muore prima l'uno o l'altro, tutti e due insieme nel medesimo atto non muoiono); rimane sempre una duplice vita, invece no: nella vergine è una sola cosa con Cristo. È veramente indissolubile questo legame, perché è con la morte invece di rompersi il legame, come avviene nell'unione matrimoniale, si conferma e si consuma. Se lei vorrà vivere una perfetta comunione con Dio bisogna che muoia, non c'è nulla da fare, deve amare la morte come il cammino necessario per lei di giunge re alla pienezza dell'amore.

Di qui ne deriva, vedete, come la verginità è legata alla morte. La morte non è l'atto supremo che è la fine di tutto, è l'atto supremo della vita, l'atto supremo dal quale dipende il frutto di tutto il bene. Al contrario, dunque, di essere la morte, come dire, un cappio, un male, è veramente il dono più grande che Dio ci può fare, perché se lei vuole sposare, vuole rimandare soltanto per tutta l'eternità la sua consumazione di amore col figlio di Dio? No deve viverlo ora! Di qui il fatto che lei si è consacrata a Dio nei Voti di povertà, castità e obbedienza, che sembra già la morte. Non è la morte, è la pienezza della vita. Non è la morte, è la presenza stessa di questa unione che ormai rimane eterna. Perché lei può uscire dal Paradiso, ma il Paradiso rimane. Noi possiamo uscire dal Paradiso, ma siamo già nel Paradiso.

L'atto nel quale noi siamo stati battezzati, implica di per sé un passo, lo dice san Cirillo di Gerusalemme, voi che siete monaci di Gerusalemme, lo dovreste sapere. Dice: Il passo che fa il sacerdote per andare al battistero e battezzare il bambino è il ritorno dell'uomo nel paradiso di Dio, perché dopo il peccato Adamo ed Eva furono cacciati dal paradiso terrestre e Dio mise due angeli, i Cherubini, con le spade fiammanti, per impedire che l'uomo, gli uomini potessero rientrare nel paradiso. Ma ora il Paradiso è aperto, non ci sono più porte. Dice Santa Caterina di Genova ma lo dice anche l'Apocalisse: Non ci sono più porte e noi siamo già entrati. Se siamo stati battezzati, siamo già figli di Dio. Se siamo figli di Dio il Figlio di Dio non può essere senza il Padre. L'unità del Padre del Figlio è assoluta, non si può dividere il Padre dal Figlio perché & egrave; uno solo. Non si può dividere nemmeno da lei, di cui non conosco il nome, non si può dividere nemmeno lei da Gesù, sono uno solo: un solo corpo e un solo spirito. Non termina così la preghiera eucaristica terza: "Un solo corpo, non solo un solo spirito, non è vero". Non si tratta soltanto della salvezza dell'anima, si tratta della salvezza dell'uomo e tu sarai salvo se sarai un solo corpo con Cristo Gesù, se sarai un solo spirito con Cristo Gesù. Un solo corpo col Cristo, che cosa vuol dire? È semplice! Vuol dire che tutto quello che è anche corporale non sarà perduto, perché noi non possiamo pensare che, domani, non saremo più uomini, anzi la nostra umanità sarà perfetta, più perfetta ancora di quello che non è oggi. Ma questa perfezione, come dicevo prima, esige non solo la salvezza dell'anima, ma anche la salvezza del nostro corpo. Non per nulla il mister o cristiano non termina che con la risurrezione di Gesù; e la risurrezione di Gesù, voi lo sapete: si fa toccare, mangia, vuol dire che è veramente un uomo. Così anche la verginità consacrata implica, al termine, questa unità del corpo e dello spirito con Cristo Gesù.

Che cos'è dunque la verginità consacrata? È il mistero di questa unità dell'amore:

non è unità di natura, noi non siamo per questo un solo Dio.

Un solo Dio è il Padre il Figlio e lo Spirito Santo.

Noi non siamo questo solo Dio, ma siamo in Dio, per vivere in Cristo che è figlio di Dio, l'unità anche poi con le Persone Divine.

...

Noi tante volte diciamo di credere, ma poi all'atto secondo non abbiamo una fede così viva da vivere costantemente questo contatto con la presenza reale di Gesù che non è una presenza soltanto di attiguità: io sono qui, lui è qui, no, no! La presenza di intimità, di unione, è l'unità dell'amore, come diceva Guglielmo di San Teodorico

...

Il Sacramento del matrimonio non è estraneo alla verginità ne tanto meno si oppone alla verginità consacrata .

Se nostro Signore ci dice che nella vita futura l’uomo non sarà sposato di fatto ci insegna che il matrimonio in qualche misura anticipa profeticamente il destino ultimo dell’uomo redento. Non è dalla verginità che si procede verso il matrimonio, ma piuttosto, dal matrimonio, verso la verginità. La solitudine non è della verginità, ma lo è la comunione con Dio. La verginità è il segno dell’amore personale dell’uomo con Dio. Il mistero della verginità, così, si identifica in qualche modo al mistero stesso del Cristo: al mistero di un’alleanza che non lega più l’uomo alla donna, ma ogni uomo a Cristo Gesù. Quest’unione soltanto è indissolubile. In questa unione il Cristo Si dona tutto ad ogni anima verginale e ogni anima verginale, non più divisa, tutta si dona a Cristo, suo Sposo. È infatti nella verginità che S.P aolo riconosce il carisma di un amore perfetto, di un amore totale. Si comprende così l’insistenza dei Padri della Chiesa nel celebrare la verginità. Oggi può sembrare eccessiva questa celebrazione, soprattutto in Gregorio di Nissa e in S. Ambrogio, ma la difficoltà di capire nasce soltanto dalla nostra incapacità di accettare pienamente la visione che ci dà la fede. Anche per quanto riguarda Colei che fra tutte le creature è per eccellenza la Vergine, è necessario capire l’insistenza di tutta la teologia nel celebrare in Maria SS. la verginità feconda: in Lei più che in tutte le altre creature ha trovato il suo compimento il mistero dell’Alleanza. Nella verginità di Maria tutta la Chiesa contempla il mistero della più eccelsa santità. Essa è l’“unica”, la “colomba perfetta” (cf. Ct). Non si dovrebbe mai separare la maternità di M aria dalla Sua verginità, perché è dal dono che Ella ha fatto di Sé a Dio, nella Sua verginità, che è divenuta Madre di Dio e anche di tutti i fedeli.



don Divo Barsotti

 

lunedì 30 luglio 2012

Chiesa e massoneria, tra inconciliabilità e tentativi di dialogo

 





 

Simboli e massoneria

SIMBOLI E MASSONERIA

Negli interrogatori per il furto di documenti dall’appartamento papale si è parlato di cordate occulte, cabine di regia, affiliazioni massoniche di ecclesiastici. VI ne ha parlato con il vescovo Negri

GIACOMO GALEAZZI
CITTÀ DEL VATICANO

Persino negli interrogatori per il furto di documenti dall’appartamento papale si è parlato di cordate occulte, cabine di regia, affiliazioni massoniche di ecclesiastici. «Dal punto di vista teorico Chiesa e Massoneria sono obiettivamente inconciliabili», afferma a «Vatican Insider» il vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Luigi Negri,presidente della «Fondazione internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa ed esponente di primo piano di Comunione e Liberazione.


Un cattolico può essere massone?


«No. La fede cattolica professa la redenzione dell'uomo nella presenza misericordiosa di Cristo, incarnazione del Verbo di Dio, e tale redenzione implica il compimento definitivo di quell'ansia di verità, di bellezza, di bene e di giustizia che costituiscono la struttura fondamentale della antropologia cristiana. Per la fede cattolica la persona è, già a livello naturale, in rapporto col mistero di Dio, e per questo rapporto la vita umana matura nella individuazione dei tratti, certamente enigmatici ma reali, del mistero di Dio. La massoneria implica invece una antropologia del potere umano. La massoneria fonda ed esprime una concezione dell'uomo e della realtà per la quale l'uomo realizza pienamente se stesso con le sole sue forze, intellettuali e morali. La Massoneria è una gnosi e il riferimento a dimensioni religiose è esclusivamente riconducibile ad espressioni, sostanzialmente equivalenti, dell'intelligenza e del cuore umano, che rimangono l'unico assoluto».

 

Su cosa si fonda questa inconciliabilità?


«Antropologia della verità, quella cattolica; antropologia del potere, quella massonica. La visione massonica della realtà umana, storica e sociale, implica necessariamente una lotta alla realtà ecclesiale, in quanto questa sostiene una visione dell'uomo e della realtà sociale fondata su una antropologia che la Massoneria considera negativa e definitivamente superata. La dichiarazione sulla Massoneria, pubblicata il 26 novembre 1983 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, raccoglie e fissa in maniera definitiva la impossibilità a qualsiasi intesa, sul piano teorico e pratico, fra Chiesa e Massoneria. Tutti i tentativi che sono stati condotti per attenuare, o addirittura eliminare, la posizione della Chiesa sulla Massoneria, sono espressione di sostanziali equivocità dottrinali e storiche, che hanno sempre ricevuto un autentico disprezzo da parte delle varie autorità massoniche. Nel confronto tra Chiesa e Massoneria si vive un aspetto, drammaticamente significativo, del rapporto tra Chiesa e modernità.La Massoneria è, sostanzialmente, e, si potrebbe dire, gloriosamente moderna e quindi sostanzialmente antiecclesiale».


E’ possibile il dialogo con i “liberi muratori”?

 

«Tutta la preoccupazione per trovare punti di intesa fra Chiesa e Massoneria hanno sempre trovato la più rigorosa condanna da parte della Massoneria. Se la questione del rapporto tra Chiesa e Massoneria, sul piano dottrinale, etico e sociale non ha subito nessuna modificazione, è pure evidente che non esiste soltanto un problema interno alla Chiesa e che si formula come impossibilità a una contemporanea adesione alla Chiesa e alla Massoneria. La società di oggi, nella sua estrema articolazione, nella compresenza di varie opzioni culturali e sociali, pone certo il problema dell'eventuale rapporto, sul piano pratico-sociale, tra cristiani e massoni. Vorrei chiarire che si tratta di dialogo e di eventuali confronti pratici e sottolineare che il dialogo è tanto più effettivo e, in qualche modo efficace, quanto più è espressione di una identità forte.Il dialogo con gli aderenti alla Massoneria e alle strutture massoniche della società è tanto più reale e, in qualche modo, può contribuire a una maturazione positiva della società, quanto più i cristiani vi si impegnano in forza della propria originalità di fede, senza correre il rischio di posizioni teoriche e pratiche concordistiche o irenistiche. Non è certo andando alla ricerca di una presunta visione comune catto-massonica che si opera positivamente per il bene comune della società».


Quindi nessuna mediazione è possibile?

 

«Personalmente ritengo che il dialogo tra cristiani e massoni, come anche il dialogo con esponenti di ogni altra visione antropologica o religiosa, può essere un fattore positivo per l'incremento della vita sociale, ma a condizione che non si metta fra parentesi l'irrinunciabile originalità dell'evento cristiano che segna in modo indelebile la coscienza e il cuore di quanti seguono il mistero di Cristo, nel mistero della Chiesa. Non si può certo negare, e anche qui il magistero degli ultimi papi è straordinariamente puntuale, che il pericolo sia oggi da parte dei cristiani, di pretendere di ritrovare la propria identità nel dialogo e nel compromesso con le forze mondane.

 

Questo dialogo distrugge la Chiesa e certo non dà un apporto significativo alla vita e alle problematiche della società. I criteri e le regole del dialogo fra i cristiani e gli aderenti ad altre posizioni culturali e storiche non vengono fissati se non dalla Chiesa, nel suo irrinunciabile compito di essere responsabile della verità e della carità. Come ci ha ben insegnato Benedetto XVI, una verità senza carità corre il rischio della ideologia, ma una carità senza verità è soltanto un illusorio emotivismo.Mi sembra quindi che non si deve né enfatizzare positivamente il dialogo fra cristiani massoni, né deprecarlo, ma consentire che la missione che i cristiani vivono nella società, in obbedienza alla Chiesa e alle sue direttive, sappia assumersi la responsabilità e il rischio di dialoghi e di collaborazioni che si rivelino utili per la vita sociale».

 


Qual è il terreno di un possibile confronto?


«Una posizione che mi sembra raccogliere il senso profondo del magistero della Chiesa sulla Massoneria esprime la possibilità di dialoghi effettivi ed efficaci, di cui è piena la storia della Chiesa e della missione cristiana. Non sono mancati in questi ultimi secoli, certamente fin dai tempi del grande Papa Benedetto XIV, voci su implicazioni di alti gradi della ecclesiasticità con la massoneria. Non ho competenza per giudicare sulla consistenza delle voci che si sono rinnovate negli ultimi decenni. Preferisco dire che, ove episodi del genere siano caduti, dipendono da una insufficiente coscienza della propria identità cristiana e dal desiderio di ritagliare, nel contesto della società, uno proprio spazio di potere, economico e politico. E, come dicevano gli antichi, "de hoc, satis"».

 

 

http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/inchieste-ed-interviste/dettaglio-articolo/articolo/chiesa-church-massoneria-17181/

domenica 29 luglio 2012

La nuova evangelizzazione e l'attualità dell'insegnamento di Gesù

 








Ritorno al primo amore


di José Octavio Ruiz Arenas*


*Arcivescovo segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione


La nuova evangelizzazione non consiste nell'annuncio di un messaggio nuovo, diverso da quello di sempre, e neppure nella semplice utilizzazione di nuove strategie o di metodi nuovi e chiassosi per attirare la gente. In realtà si tratta di tornare al “primo amore” del quale ci parla il Libro dell'Apocalisse, quando rimprovera la Chiesa di Èfeso.
La nuova evangelizzazione deve essere orientata a far sì che l'uomo e la donna di questa società secolarizzata tornino a vivere l'allegria della presenza e della vicinanza dell'amore di Dio nelle loro vite. Si tratta di ritornare alla freschezza del Vangelo, e farsi sorprendere e meravigliare dalla parola stessa di Gesù, come avvenne quando Egli iniziò la sua vita pubblica, e la gente che lo ascoltava si chiedeva «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità», e si meravigliava dei gesti compiuti da Gesù (cfr. Marco, 1, 27). Le sue parole erano non soltanto nuove, ma anche efficaci. La novità non era solo nel suo modo di parlare, o di fare, ma nella persona stessa di Gesù: il Verbo di Dio fatto carne, l'irruzione di Dio nella nostra esistenza. Pertanto, Egli è sempre nuovo per tutta l'umanità e, attraverso la grazia dello Spirito Santo, le sue parole sono sempre attuali.
La novità allora dobbiamo cercarla in primo luogo nel Vangelo stesso annunciato: è la “Buona Novella”, la proclamazione gioiosa dell'«avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura» (Lumen gentium, 5). Per questo, quando Gesù nacque nell'umile presepe di Betlemme, l'angelo disse ai pastori: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Luca, 2, 10-11). La Buona Novella è dunque l'annuncio del mistero pasquale di Cristo, della sua morte e risurrezione, che sin dal tempo degli apostoli la Chiesa ha annunciato con fedeltà a tutto il mondo.
Di conseguenza, la nuova evangelizzazione deve orientarsi a un rinnovato ascolto della Parola di Dio, per poter irradiare la freschezza, la perenne novità, il fascino del Vangelo. Si tratta quindi di riscoprire nella vita cristiana il punto centrale della Parola divina, come fonte di vita e di allegria, fondamento della nostra fede e della nostra speranza. Se la Chiesa vuole essere presenza effettiva nel mondo di oggi e adempiere il suo compito evangelizzatore, allora deve essere missionaria; ma per essere missionaria deve essere necessariamente una comunità di discepoli, seduta ai piedi del Maestro, che beve alla ricca fonte della sua Parola per andare ad annunciare il Vangelo.
Per questa ragione Benedetto XVI sottolinea la necessità che «la Parola divenga suo alimento affinché, per propria esperienza, i fedeli vedano che le parole di Gesù sono spirito e vita (cfr. Giovanni, 6, 63). Come annuncerebbero altrimenti un messaggio il cui contenuto e spirito non conoscono a fondo? Dobbiamo basare il nostro impegno missionario e tutta la nostra vita sulla roccia della Parola di Dio» (Discorso inaugurale alla v Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 2007).
La novità allora non significa qualcosa dal punto di vista temporale, qualcosa che nasce o appare per la prima volta, ma piuttosto dal punto di vista qualitativo, come qualcosa di nuovo perché si presenta in modo attraente, meraviglioso, pieno di vita. Evangelizzazione “nuova” poiché mostra la vera strada per trovare Cristo, che viene a dare risposta alle inquietudini più profonde dell'essere umano, e a indicare qual è il vero significato della nostra esistenza, e inoltre, come affermava il cardinale Ratzinger, si tratta di darsi a Cristo stesso, giacché Egli è la Via (Giovanni, 14, 6) e l'unico capace di distruggere la povertà più profonda che l'uomo può avere, cioè l'incapacità di gioia, il tedio della vita considerata assurda e contraddittoria, e ciò può comunicarlo soltanto chi ha la vita, chi è il Vangelo in persona. In questo senso, come affermava già Paolo VI, la Chiesa che evangelizza «comincia con l'evangelizzare se stessa». (Evangelii nuntiandi, 15).
Però, d'altra parte, questa novità deve essere profondamente radicata nel cuore di chi ne fa l'annuncio e proclama la Parola. Per realizzare la nuova evangelizzazione dobbiamo lasciarci colmare da Cristo, dobbiamo avere questo «cuore nuovo e spirito nuovo» di cui parlava il profeta Ezechiele. E lo “spirito nuovo” che appare in quel testo non è distinto dallo Spirito di Dio stesso, che ci viene trasmesso nel battesimo, perché possiamo nascere a una nuova esistenza, lasciandoci alle spalle l'ostinazione a compiere il male, l'indifferenza, la superbia, l'individualismo, e riusciamo a spogliarci dell'uomo vecchio e delle sue azioni e rivestirci dell'“uomo nuovo” (cfr. Colossesi, 3, 9-10), con un cuore nuovo, un cuore di carne che, spronato dallo Spirito Santo, ci spinga ad agire per amore (cfr. Romani, 5, 5). Soltanto così diviene realtà l'invito che Gesù rivolgeva a Nicodemo -- e che rivolge a tutti noi -- di “rinascere” (cfr. Giovanni, 3, 1-8), cioè di aprirci all'azione dello Spirito Santo, di convertirci, di rinunciare al peccato e alla lontananza da Dio per entrare in un rapporto di amicizia e di amore con Lui.
In altre parole, la nuova evangelizzazione è una chiamata alla conversione e alla speranza, fondata sulle promesse di Dio, e che ha come certezza incrollabile la Risurrezione di Cristo, primo annuncio e radice di ogni evangelizzazione, fondamento di ogni umano progresso, principio di ogni autentica cultura cristiana. Ne consegue, quindi, che la componente essenziale della nuova evangelizzazione sia cristologica, poiché in Cristo si fanno nuove tutte le cose (cfr. Apocalisse, 21, 5). Se raggiungiamo questo cambiamento radicale, riusciremo a colmarci di gioia per la vicinanza di Dio nella nostra vita, scopriremo la presenza di Cristo al nostro fianco, e proveremo un'allegria incontenibile, che ci porta a condividerla con gli altri. Per fare nuova evangelizzazione, la persona deve essere totalmente innamorata del Signore, e saziare la sete di Dio con la Parola di Cristo, come fece la samaritana. In quell'episodio della vita di Gesù vediamo che Egli non viene mai a toglierci qualcosa, ma anzi viene a offrirci il dono di Dio, a coinvolgerci nel suo amore. In realtà Cristo ha sete per saziare la nostra sete; e se lo accogliamo, ci sazieremo del suo Spirito, e come la samaritana andremo a proclamare il suo messaggio (cfr. Giovanni, 4, 29). «Come è importante per il nostro tempo scoprire che solo Dio risponde alla sete che sta nel cuore di ogni uomo!» (Verbum Domini, 23).
Dunque, la Parola di Dio mostra la sua novità permanente anche per il fatto che, rivolgendosi a ciascuno di noi, considera l'aspetto storico della nostra realtà e continua a incarnarsi nell'oggi della storia, ci chiama ad ascoltare il grido delle persone, con le loro gioie e speranze, e a osservare le nuove realtà nelle quali viviamo, a discernere e rispondere ai nuovi segni dei tempi e a esaminare attentamente la cultura in cui siamo inseriti, per poter inculturare il Vangelo. In questo modo, la nuova evangelizzazione deve riprendere il dialogo tra fede e cultura, per cercare risposta alle nuove situazioni che stiamo vivendo, illuminandole con la luce della fede.
Giovanni Paolo II, per spiegare i parametri entro i quali va inserita la nuova evangelizzazione, coniò alcune espressioni che divennero in seguito paradigmatiche ogni volta che ci si riferisce al nuovo slancio missionario del quale deve essere provvista l'azione evangelizzatrice: «Nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione» (Discorso all'assemblea del Celam, Haiti, 1983).
Nuova nel suo ardore: si tratta dell'entusiasmo, la forza e la convinzione con cui il Vangelo viene annunciato. La chiave sta nel fatto che chi propone l'annuncio di Cristo sia un “uomo nuovo”, che ha accettato la conversione e sia profondamente unito a Lui, per conseguire la santità. Questo nuovo ardore implica tornare alla predicazione dei primi discepoli, uomini che, pur molto semplici, trasformarono il mondo con ciò che un termine neotestamentario chiama parresia: il coraggio per non tacere la verità, l'audacia per andare verso quelli che non vogliono ascoltare, l'operare spinti dal fuoco dell'amore divino, come fecero l'apostolo Paolo e i martiri alle origini della Chiesa, i quali non ebbero timore di fronte alle avversità, alla prigionia o alla morte.
Nuova nei suoi metodi: si tratta di un vero rinnovamento pastorale, che tralasci metodi ormai inefficaci e cerchi la qualità e la profondità nella forma di annunciare il Vangelo, mettendo in moto reali processi evangelizzatori, come fece Gesù con i discepoli, ma con gli attuali strumenti di comunicazione. Nuovi metodi, significa anche servirsi di tutto ciò di cui disponiamo per passare da una pastorale conservativa a una pastorale missionaria, che vada incontro a chi è lontano e, fedele allo Spirito Santo, cerchi di rispondere con coraggio e decisione alle sfide che occorre affrontare per realizzare la missione della Chiesa. Di qui la necessità di una forte creatività e -- come afferma il documento di Aparecida -- di una “conversione pastorale” che consideri attentamente il contesto storico nel quale è collocata la Chiesa, e conduca a vivere e incoraggiare una spiritualità di comunione e di partecipazione, nella quale si offra ampio spazio al dinamismo dei laici perché esercitino la propria leadership e responsabilità ecclesiale, come anche i giovani.
Nuova nella sua espressione: si tratta di cercare un linguaggio che, senza tradire il significato profondo dei misteri della nostra fede, sia comprensibile al mondo attuale e si adatti alle diverse situazioni e alle differenti culture. Ciò comporta un rinnovamento dei linguaggi tradizionali finora utilizzati nella catechesi, nella liturgia e negli altri mezzi di comunicare la fede. La Chiesa deve aprire un dialogo con la cultura attuale per annullare la distanza che separa l'uomo di oggi dalla ricchezza del Vangelo e fargli sentire la vicinanza e il desiderio di solidarietà e di comunione che emanano dalla cattolicità. Chiesa e cultura hanno bisogno l'una dell'altra. La nuova espressione esige, pertanto, uno stile di testimonianza, ed è dunque necessario che chi evangelizza testimoni con la propria vita e sia coerente con la sua fede. Alle origini della Chiesa infatti i primi cristiani erano convincenti per la loro testimonianza di vita, per il servizio disinteressato agli altri e per l'amore che li univa tra loro.
Queste nuove espressioni non riguardano soltanto le parole utilizzate nella comunicazione verbale, ma si riferiscono anche al linguaggio che scaturisce dal “comandamento nuovo”, dal comandamento dell'amore, che interpella al dialogo, al servizio, alla solidarietà, alla ricerca di giustizia, uguaglianza e promozione umana. La nuova evangelizzazione, ricordava Giovanni Paolo II, deve pertanto comprendere tra i suoi elementi essenziali l'annuncio della dottrina sociale della Chiesa, strumento di retto orientamento quando occorra rispondere alle grandi sfide del mondo contemporaneo.
Durante il secolo scorso è divenuto sempre più chiaro che un'autentica conversione include un impegno per il bene comune. Il Sinodo dei vescovi del 1971 affermava che «l'azione in favore della giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci si presentano chiaramente come una dimensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè la missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni situazione oppressiva».
La Chiesa, di conseguenza, è chiamata a trasmettere la “novità” sempre attuale del Vangelo, “novità” antica e perennemente nuova, quella novità che proviene dalla stessa persona di Gesù e dal suo annuncio dell'avvento del Regno in mezzo a noi. Si tratta dunque di presentarla con allegria ed entusiasmo, poiché la Parola che si annuncia deve incarnarsi nella nostra cultura e riempire di entusiasmo e di speranza quanti la ascoltano.

L'Osservatore Romano 29 luglio 2012

L'uso di dare la Comunione in bocca può risalire a Gesù?

 





di Nicola Bux


fonte Scuola Ecclesia Mater

 

 

Il Santo Padre, non solo pronunziò il noto discorso del 22 dicembre sull' interpretazione del concilio ecumenico Vaticano II, che invitava a compiere nel senso della riforma in continuità con la tradizione della Chiesa (Ecclesia semper reformanda), ma lo ha pure messo in pratica nella liturgia. In primis, facendo ricollocare il Crocifisso dinanzi a sè sull'altare, in modo che la preghiera del sacerdote e dei fedeli sia "rivolta al Signore".

 

Qui però, mi soffermo sulla seconda 'innovazione' di Benedetto XVI: l'amministrazione della S.Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca. Dico 'innovazione', rispetto al noto indulto che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano.Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità-alto medioevo, la Chiesa d'Oriente e d'Occidente abbia preferito amministrarla in tal modo. Allora, Gesù ha dato la Comunione agli Apostoli sulla mano o chiedendo di prenderla con le proprie mani?

 

Visitando la mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune 'Ultime Cene' in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli Apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po' come la postura di Gesù e degli apostoli a tavola nel Cenacolo di Leonardo, che 'aggiorna' alla maniera occidentale l'uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa. Però, riflettendo ulteriormente, l'uso di dare la S.Comunione direttamente in bocca al fedele, può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere, avevano ed hanno ancor oggi l'usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all'amata o all'amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo ancora inesperto.Si capisce così il testo di Giovanni 13,26-27: "Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: 'E' quello a cui darò un pezzetto di pane intinto'. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone il satana entrò da lui". Mons.Athanasius Schneider ha compiuto ottimi approfondimenti nel suo libro Dominus est, Lev 2009.

 

Che dire però dell'invito di Gesù: "Prendete e mangiate"..."Prendete e bevete" ?

Prendete (in greco: lavete; in latino: accipite), significa anche "ricevete". Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino, ma, se durante il Mistico Convito - come lo chiama l'Oriente - ossia l'Ultima Cena, i due gesti consacratori avvennero, come sembra, in tempi diversi della Cena pasquale - quando gli Apostoli, forse aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7) quali esperti diremmo così nel culto, li unirono all'interno della grande preghiera eucaristica - la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l'anafora, dando origine al rito di Comunione. Agli inizi, le comunità cristiane erano piccole e i fedeli facilmente identificabili. Con l'estendersi della cristianità, nacquero le esigenze di precauzione: affinchè le sacre specie fossero amministrate con riverenza e evitando la dispersione dei frammenti, che contengono il Signore realmente e interamente. Pian piano prende forma la Comunione sotto le due specie, date consecutivamente o per intinzione.

Infine in occidente, ordinariamente sotto la sola specie del pane, perchè la dottrina cattolica, garante san Tommaso, insegna che il Signore Gesù è tutto intero in ciascuna specie (Catechismo della Chiesa Cattolica 1377).

 

Però, dai sostenitori della Comunione sulla mano, si fa appello a san Cirillo di Gerusalemme, il quale, chiedendo ai fedeli di fare della mano un trono al momento di ricevere la Comunione, vuol dire che consegnava la specie del pane sulla mano. Ritengo sommessamente che l'invito a disporre le mani in tal modo, possa essere inteso non al fine di riceverla in esse, ma a protenderle, anche inchinando il capo, in un unico atto di adorazione, oltre che per prevenire la caduta di frammenti. Infatti, per l'innato senso del sacro, molto forte in Oriente, si affermava sempre più la riverenza verso il Sacramento con le precauzioni nell'assumere la Comunione in bocca, per molteplici ragioni, tra cui quella di non poter garantire mani pure e in specie la salvaguardia dei frammenti. Questo nella Catechesi Mistagogica 21.

Ciò rende più comprensibile la sentenza di sant'Agostino: "nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando". Non si deve mangiare il Corpo del Signore senza averlo prima adorato. Benedetto XVI l'ha richiamata significativamente proprio nel suaccennato discorso sull'interpretazione del Vaticano II e poi nell'Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 67.

 

Ancora Cirillo o i suoi successori, nella Catechesi Mistagogica 5,22, invita a "Non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo". Di modo che, l'apostolo fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra - simile alla nostra genuflessione - protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve in bocca la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, risalente tra la fine del V e l'inizio del VI secolo d.C., un Evangelario greco miniato composto sicuramente in ambiente siriaco.

Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fa la Comunione agli apostoli direttamente sulla bocca.

Il Santo Padre, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto. Perchè non imitarlo?Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il Sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio come quello odierno.

 

 

 

 
 

sabato 28 luglio 2012

Il progressismo - Trattato del card. Giuseppe Siri

 

 




Il progressismo - del Cardinal Giuseppe Siri Viviamo nell’epoca delle «parole». Per vincere battaglie civili (e non solo queste) si coniano parole e detti icastici, riassuntivi (slogans). Per abbattere uomini si impiega qualche termine o classifica, che le circostanze suggeriscono atti allo scopo di demolire. Per anestetizzare cittadini e fedeli si coniano parole. Ciò che stupisce è il fatto per il quale gli uomini, invece di lasciarsi abbattere da autentiche spade, si lascino abbattere da sole parole. Perciò i termini, gli slogans, le classifiche di moda vanno vagliati, capiti, eventualmente smascherati. Comincio pertanto a pubblicare delle note chiarificatrici. Spero che il nostro clero vorrà leggersele bene, per evitare una sorte ingloriosa. Cominciamo dal termine più in voga, usato come un fendente o come una protezione per il proprio operato: «progressismo». Di tanta gente si dice che è o non è «progressista». Vediamoci chiaro e, se ci fosse da restituire un termine alla esatta ...

... funzione, non coartata, come è serena e dolce la nostra italica parlata, non bisogna ricusare quel merito.
Elenchiamo pertanto i casi più frequenti nei quali si usa il termine «progressista». Porgiamo uno specchio perché ognuno ci si guardi.

1. Essere indipendenti dalla logica teologica


Molte volte il «progressismo» significa questo, o, piuttosto quando ci si attribuisce una tale indipendenza, ci si gloria di essere «progressista». Vediamo dunque che vuol significare. Le conclusioni a poi.
Che è questo «disimpegno totale dalla logica teologica»?

Logica teologica è l’insieme di queste norme, applicando le quali si può documentatamente arrivare ad affermare come rivelata od anche come semplicemente certa una proposizione.
Queste norme, costituenti la logica teologica, in realtà si riducono (parliamo, si badi bene, della «logica», non della Rivelazione) ad un principio: il magistero infallibile della Chiesa. Infatti è al magistero infallibile della Chiesa, sia solenne, sia ordinario, che è affidata la certa autentica interpretazione sia della Scrittura che della divina tradizione. Ed è logico. Infatti, se Dio avesse consegnato agli uomini una quantità di rotoli scritti o di nastri magnetici per far udire la viva parola e si fosse fermato lì, ad un certo punto niente avrebbe funzionato, si sarebbe trovato modo di far dire alla divina Parola tutto quello che si vuole, il contrario di quel che si vuole, il contraddittorio di quel che si vuole e non si vuole, all’infinito. La verità salvifica non avrebbe potuto funzionare tra gli uomini. Le prove? Le abbiamo sotto gli occhi e ci appelliamo solo a due.
La prima è che con una natura immensamente nitida, la storia umana ha avuto in continuazione filosofie torbide, il contrario, il contradditorio di esse. La dimostrazione di quello che sa fare l’uomo nel suo pensiero, lasciato a se stesso ed agli stimoli del proprio io o delle proprie tenebre, la dà la storia della filosofia ed ancor meglio la filosofia della storia della filosofia.

La seconda sta nella sedicente larga produzione teologica d’oggi, dove proprio per l’oblio della logica si afferma il contrario di tutto, non esclusa la morte di Dio.
Il disegno divino nella istituzione del Magistero, al quale è collegato tutto quanto sta nell’opera della salvezza, si leva chiaro e necessario dal turbinio delle sfrenate cose umane.
Quello che oggi accade è la dimostrazione ab absurdo della verità e necessità del magistero ecclesiastico!
Il magistero ecclesiastico canonizza altri strumenti che diventano così «mezzi» per raggiungere nella certezza la verità teologica. Essi sono: i Padri, i Dottori, i Teologi, la Liturgia... purché siano consenzienti ed abbiano avuto la approvazione esplicita o implicita della Chiesa. Tale approvazione rende acquisita al Magistero stesso la verità espressa da altre fonti. Nessun Teologo, nessuna schiera di Teologi o Dottori, senza questa approvazione sicura del Magistero, conta qualcosa nella affermazione teologica. Tutt’al più, se risponderà alle ordinarie regole di un metodo scientifico, potrà condurre a formulare una ipotesi di lavoro. Col che il campo resta spazzato.
Quelli che abbiamo chiamati «mezzi» di riflesso del magistero ecclesiastico costituiscono con lo stesso la «logica» della Teologia.
Questa logica è abbandonata da troppi. Ed è per questo che si leggono riviste e libri i quali contraddicono tranquillamente a quanto il Concilio di Trento ha definito, accettano modi di pensare che sono espressamente condannati nella enciclica Pascendi di s. Pio X. nonché nel suo Decreto Lamentabili; fanno le riabilitazioni di Loisy; mettono in dubbio il valore storico dei Libri storici della Sacra Scrittura, elevano a criterio le teorie distruttrici del protestante Bultman, sentono con indifferenza le proposizioni di qualche scrittore d’oltralpe, anche se toccano il centro della rivelazione divina, ossia la divinità di Cristo.
Naturalmente trattati senza freno i princìpi, si ha quel che si vuole della morale e della disciplina ecclesiastica.
Sotto questo fondamentale angolo di visuale il progressismo consiste nel trattare come relativa la verità rivelata, nel cambiarla il più presto possibile, nel dare agli uomini una libertà della quale in breve non sapranno che farsi, di fronte all’Assoluto.
Ridotto a questa frontiera il «progressismo» coincide col «relativismo» e all’uomo, «adorato», non si lascia più nulla, neppure delle sue speranze!
Naturalmente non tutte le persone etichettate come progressisti sanno queste cose. Ma esse accettano le conseguenze e le logiche deduzioni di quello che ignorano. Se hanno una colpa — questo lo giudichi Dio! — questa consiste nel non domandare il perché di quello in cui si fanatizzano.
In ogni modo l’oblio della logica teologica funge, anche se non conosciuta, da lasciapassare per le altre manifestazioni delle quali dobbiamo discorrere.
Tutto quello che abbiamo sfornato attraverso catechismi di vane lingue, dei quali fu pieno l’aere e che potrebbe venire sfornato in catechismi futuri, significherebbe la lenta distruzione della Fede e l’inganno più colpevole perpetrato ai danni dei piccoli che crescono.
Ne si può tacere la conseguenza ultima di un abbandono della logica teologica: l’assenza della certezza nei fedeli. Alla parola di Dio si può e si deve credere; nessuno può essere condizionato, se non ha giuste e appropriate conferme, dalle opinioni dei teologi. Ricordo il mio grande maestro di Teologia, il tedesco padre Lennerz S.J., che ripeteva sempre c con ragione: «Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti!».

2. Il «sociologismo»

Tutti quelli che amano essere chiamati progressisti fanno l’occhiolino al sociologismo anche se non sanno che cosa sia.
Esso consiste nel trasferire il fine della vita, il Paradiso, al quale tendere, la molla direttiva delle azioni, dal Cielo alla Terra. Pertanto non è il caso di occuparsi della salute eterna, bensì del benessere terreno, concentrare tutto nel dare tale benessere e godimento egualmente a tutti in questo mondo.
La manifestazione esterna di questo sociologismo è fare l’agitatore, il demagogo, il rivendicatore di beni fuggevoli, il consenziente a tutte le manifestazioni che esprimano la foga di questa tendenza.
Questo costituisce la più comune ed espressiva nota del progressismo. Sia ben chiaro che noi dobbiamo essere con la giustizia e che l’ordine della carità ci impone di avere come primi nell’oggetto dell’amore i bisognosi. Ma si tratta di altra cosa, perche il sociologismo non si cura della salvezza eterna dei poveri ed usa tutti i metodi, anche immorali, che giudica bene o male favorevoli al benessere terreno, cercando di fatto di mandarli all’inferno.
Siamo anche qui ben lontani dal credere che tutto quello che si tinge di sociale o di rosso sia sociologismo e che i moltissimi attori di questa scena siano sociologisti coscienti della apostasia insita nel sociologismo. Diciamo solo che in realtà accettano le conseguenze di una concezione materialistica del mondo. Forse non lo sanno, forse sono semplicemente degli imitatori, forse seguono il vento credendo che esso spiri da quella parte; forse credono di far la parte degli stupidi, forse temono soltanto di essere etichettati per conservatori. Viviamo in un’epoca in cui si ha paura persino delle parole!
Forse si tratta di un modo per ingraziarsi qualche potente, per fare strada e, quel che è più ovvio, per fare soldi: se ne predica il dovere verso gli altri e intanto si intascano. Gli esempi abbondano! La sociologia pratica è diventata certamente una industria ed anche qui gli esempi non mancano.
Le massime del sociologismo avendo qualche — solo qualche — contatto con la dottrina cristiana della giustizia e della carità, pur involvendo altri ideali che tutte le verità cristiane acerbamente smentiscono, sono piuttosto semplici, sbrigative, atte al comizio, al facile consenso, al certo applauso, quasi visive, traducibili in termini di spesa quotidiana e pertanto rappresentano una via brevissima per stare al passo coi tempi!
Ma si sa dove vanno i tempi?
Questa terribile domanda, con quello che coinvolge, non se la rivolgono. Le esperienze dove sono arrivate, dove si sono fermate? E proprio necessario rinnegare il Cielo, la carità verso tutti, per portare benessere ai nostri simili? E proprio necessario essere rivoltosi, travolgere dighe, distruggere sacre tradizioni per rendersi utili ai nostri simili?
Ma, infine, nel Santuario, al quale siamo legati da sacre promesse, tutto questo è progresso, o non piuttosto congiura per strappare agli uomini l’ultimo lembo dell’umana dignità e della speranza eterna?

3. La nuova storiografia

Per i colti il progressismo ha un modo suo di rivelarsi a proposito di storia; sono progressista se giustifico Giordano Bruno, sono conservatore se lodo l’austero san Pier Damiani. Tutto qui!
Ripetiamo che si parla di storiografia nell’area della produzione, che vorrebbe chiamarsi «cattolica». Dell’altro qui non ci interessiamo.
La parte maggiore della produzione — ci sono, è vero, nobili e importanti eccezioni — pare obbedisca, per essere in sintonia col progresso, ai seguenti canoni:
— la società ecclesiastica è la prima causa dei guai, che hanno colpito i popoli;
— la Chiesa — detta per l’occasione postcostantiniana — avrebbe fatto con continui voltafaccia alleanza coi potentati di questo mondo per mantenersi una posizione di privilegio e di comodità;
— le intenzioni impure, le più recondite e malevole, vengono attribuite a personaggi fino a ieri ritenuti degni di ammirazione. Per questo sistema di giudizio alcuni Papi sono stati quasi radiati dalla Storia, non si sa con quale motivazione;
— tutta la storia ecclesiastica fino al 1972 è stata panegirica, unilaterale, concepita con costante pregiudizio laudatorio, mentre non è che un accumulo di pleonasmi i quali hanno alterato il volto di Cristo. Questa conclusione — tutti lo vedono — costituisce il fondamento per distruggere il più possibile nella Chiesa e ridurla ad un meschino ricalco del Protestantesimo. San Tommaso Moro, martire, è stato messo addirittura sul piano di Lutero;
— le vite dei Santi vanno riportate a dimensioni «umane» con difetti, peccati, persino delitti, mentre gli aspetti soprannaturali tendono ad essere relegati nel solaio dei miti;
— il valore della Tradizione e delle tradizioni è del tutto irriso, con evidente oltraggio alla obiettività storica, perché, se non sempre, le tradizioni che attraversano senza inquinamenti i secoli hanno sempre una causa che le ha generate.
Si potrebbe continuare.
Ma non si può tacere il rovescio della medaglia: i personaggi vengono magnificati perché si sono rivoltati, perché hanno messo a posto la legittima Autorità, perché hanno avuto il coraggio di distruggere quello che altri hanno edificato, hanno rivendicato la «libertà» dell’uomo con la indipendenza del loro pensiero, incurante della verità. Gli eretici diventano vittime, mezzi galantuomini... qualcuno ha osato parlare di una canonizzazione di Lutero. È condannevole chi ha difeso la libertà della Chiesa, la libertà della scuola cattolica, che ha imposto ai renitenti la disciplina ecclesiastica. Tutti sanno la sorte riservata a coloro che ancora osano salvaguardarla!
Si capisce benissimo la logica interna di questo andazzo della storiografia: la santità, la penitenza, la vera povertà, il distacco dal mondo hanno sempre dato fastidio e continuano a darlo dalle tombe, come se queste non potessero mai essere chiuse.
È difficile sia accolto nel club progressista chi dice bene del passato!

4. La Bibbia va interpretata solo e liberamente dai biblisti. È questo un caposaldo d’obbligo del progressismo.
Siamo arrivati ad una questione, o meglio ad una affermazione veramente nodale in tutta la storia del progressismo ecclesiastico moderno.
Bisogna rifarsi ai fatti, i quali non cominciarono precisamente in quella seconda seduta del Vaticano secondo, nella prima sessione, nella quale taluni gioirono, credendo che due interventi niente affatto felici avessero posto una buona volta la scure alla radice della divina tradizione ed avessero spianato la via alla conversione verso il Protestantesimo.
Quei due interventi, consci o no di portare l’afflato di male intenzionate persone, avevano dei precedenti. Eravamo presenti in mezzo a tutti gli avvenimenti e siamo ben sicuri di quello che diciamo. Da tempo, e molti atti di Pio XII ne fanno fede, il bacillo di volere interpretare la Sacra Scrittura in modo «privato» detto scientifico era entrato, pur non osando entrare nella editoria di divulgazione per la stretta vigilanza degli Imprimatur. La storia è dunque assai vecchia, ma solo negli ultimi tempi è diventata di portata comune. Eccone i punti.
— La filologia, la archeologia, le ricerche linguistiche, i procedimenti comparati (ad usum delphini), ma soprattutto le svariate opinioni di tutti gli scrittori specialmente d’oltralpe, ai quali generalmente si fa credenza solo citandone il nome e il titolo (mai o quasi mai chiedendo le ragioni e vagliandole), costituiscono il vero, unico modo de facto di interpretare la Bibbia.
Non importa si pronunci una parola; la pronunciamo Noi: questo è libero esame, perché sostituisce il «placitum» privato al primo vero mezzo stabilito da Dio per la interpretazione della sua natura: il Magistero. La parola «libero esame» viene accuratamente taciuta e continuamente applicata.
— Il complesso sopra citato, a parte che è la ripetizione di teorie propinate nel secolo scorso e sulle quali le scuole cattoliche hanno riso per più di mezzo secolo, è soggetto ad un flusso e riflusso, ad un susseguirsi di affermazioni e di smentite, ad una produzione di fantasia, che da solo non può essere, in cosa tanto grave, vera garanzia.
— La ermeneutica cattolica ha sempre insegnato che la prima interpretazione delle Scritture, comparata con le Scritture e con la divina tradizione, riceve la autentica garanzia di certezza dal Magistero.
Se la scioltezza di interpretazione della Bibbia da ogni vincolo precostituito da Dio stesso si chiama «progresso», ciò significa che tale progresso porta con sé alla eresia ed alla apostasia. Come è ben sovente accaduto sotto gli occhi di tutti. Ogni elemento è utile alla più adeguata interpretazione della Bibbia, certo! Ma il primo, condizionante tutti gli altri, è quello che ha determinato Iddio. Niente di più logico e di più ovvio.
Non è compito di questa lettera vedere le conseguenze pratiche di tutto ciò. La materia biblica non è in fin dei conti una materia esoterica, nella quale solo gli iniziati possono entrare con perfetta riverenza e grande circospezione. Qualunque uomo, pratico di pensiero e di logica, messo dinanzi ad una protasi (putacaso una locuzione siriaca) ed una apodosi (p.e. la interpretazione di un passo di Matteo) quando la prima gli è spiegata (e non occorre molto; spesso basta un dizionario), è in grado di vedere se è valevole il rapporto di causa, di effetto affermato tra i due termini. Non è il caso di assumere la sufficienza che il buon don Ferrante assumeva quando dissertava sulle strane parole «sostanza» ed «accidente» cavandone la inesistenza della peste. Il che non era vero!
Insistiamo sull’argomento perché proprio qui sta un centro di tutto il fenomeno che va sotto il nome di «progressismo».

5. Le allegre «teologie»

Pare che un buon progressista si debba mettere qui in fila.
Ecco il fatto: si sta costruendo una teologia per ogni cosa, a proposito e a sproposito: del lavoro, dell’uomo (antropologia), della tecnica, delle comunicazioni sociali, della comunità, della morte di Dio (?), della speranza, della liberazione e della rivoluzione... Quasi tutte queste voci sono decorate di notevoli volumi. Non c’è alcun dubbio che tale proliferazione è una delle più grandi caratteristiche del progressismo. Vediamo di capirci.
Queste sono vere «teologie», anzitutto?
È «teologia» quella in cui le affermazioni sono dimostrate dalle fonti teologiche. Quando le affermazioni vengono basandosi sui criteri di qualunque manifestazione saggistica, non abbiamo Teologia. Avremo tutto quello che si vuole, vero o falso, ma certo non avremo Teologia. Queste teologie, salvo in qualche parte e taluna soltanto, non sono affatto «Teologia». Noi dobbiamo protestare contro l’abuso di un termine che la fatica dei secoli ha reso venerandi e assolutamente proprio.
In secondo luogo dovremmo porci la domanda se queste teologie contengono verità. Non è nell’intento e nell’assunto di questa nota occuparci del merito, ossia dei «contenuti» di queste teologie o sedicenti teologie. Ci limitiamo solo a fissarne alcuni caratteri comuni.
— Lo schema di queste teologie segue gli stati d’animo che si vivono nel nostro tormentato secolo e pertanto hanno più un carattere di rivelazione della nostra situazione concreta che un vero contenuto oggettivo e permanente.
— Difatti puntano su assiomi cari a qualche pensatore dell’Ottocento o del Novecento. Vanno secondo il vento che tira. Il «sociologismo», del quale abbiamo già parlato e che tiene il campo, deriivando da un principio messo dal cristianissimo e devoto Mounier, di fatto si ispira al marxismo, del quale la povera gente ha già esaurito la esperienza che non ha invece ancora illuminato i suoi più o meno stanchi assertori.
Sarebbe forse questa la «Nova Theologia»? Risentiamo ancora oggi con perfetta vivezza una voce potente, modulata magnificamente in modo oratorio, che nel Vaticano secondo si levò per chiedere — con altre cose — una «Nova Theologia». Non potevamo vedere dal nostro posto il Padre al quale apparteneva quella magnifica voce. Sono passati più di dieci anni e non sono riuscito a capire che cosa l’Oratore intendesse propriamente per «Nova Theologia». Se le varie teologie delle quali abbiamo parlato, denominandole «allegre», sono una risposta alla domanda, bisogna dichiararsi al tutto insoddisfatti.
Ma sotto il fatto, presentato come un fenomeno «caratterizzante il progressismo», c’è ben altro e ben più importante.
C’è la valutazione negativa di tutta la Teologia fino al 1962.
E questo è grave. Infatti.
La Teologia ha condotto per tanti secoli questo grande lavoro.
Ha preso da tutte le Fonti autentiche il pensiero della rivelazione divina e, senza forzature o deformazioni (parliamo del filone, non dei cantanti extra chorum), le ha messe insieme pazientemente, riducendole in formule accessibili all’indagine del nostro pensiero. Lavoro paziente di ricerca, di accostamento, di sintesi. A tutto ha dato un ordine che fosse più scorrevole per la logica dell’apprendimento umano. Niente ha accolto che non fosse secondo la mente delle Fonti. Questo lavoro immenso e prezioso si chiama «istituzionalizzazione». Tutto quello che documentatamente raccolto ha cercato di penetrare, aiutandosi coi princìpi del buon senso umano, nella misura in cui era consono alle Fonti o addirittura derivato da esse, tutto questo costituisce la parte «speculativa» della Teologia, senza della quale la parte sopra descritta (positiva) non aprirebbe sufficientemente il suo significato alla intelligenza umana. Intendiamoci bene: non ha accolto le filosofie transeunti, ma il buon senso umano, quello assunto da Dio stesso nell’atto di calare la Sua Rivelazione nelle forme concettuali a noi solite.
Ed ecco la finale interessante: tutto questo, per la serietà del procedimento, ossia del metodo, non permette di fare quello che si vuole, quello che comoda, quello che mette a vento secondo le mode transeunti. Per questo la Teologia speculativa è venuta a noia; meglio è dilettarsi sulle «variazioni» estranee al metodo.
Tutto ciò è in odio alla Teologia. Non dunque «Nova Theologia», ma «anatematizzata Teologia».
La Teologia, occupandosi del pensiero da Dio comunicato agli uomini, ha da camminare fino alla fine dei tempi e solo così compirà la sua missione. Vi sono in essa filoni ancora inesplorati, che possono dare ansa al genio di molti santi Tommasi d’Aquino. Ben vengano, ma sarà una cosa seria!
La questione sarà chiarita da quanto stiamo per dire a! numero seguente.

6. Accogliere ed imparentarsi quanto è possibile con tutte le varie filosofie

Altro appannaggio che assicura la qualifica ambita di «progressista». Un principio decantato in tutti i modi dal progressismo è quello di accogliere tutto il pensiero via via fluente, cercare di adeguare a quello il messaggio cristiano e, se occorre, fare secondo quello, via via, una reinterpretazione della rivelazione divina.
Chi non accede a questo punto di vista è un trito conservatore, un vecchio inutile rudere, al quale nessuna persona colta crederà più.
Abbiamo detto il fatto in forma assolutamente cruda; molti, che amano essere progressisti, un punto di vista del genere amano presentarlo in dosi variabili, anche omeopatiche, si da permettere sempre una tempestiva ritirata strategica.
Guardiamo bene in faccia questa faccenda.
— Il pensiero umano cambia, si dice. Meglio: cambia il pensiero accademico a seconda degli idoli del momento. Fuori della professione filosofica ed intellettuale etichettata, continua a vivere bene o male il buon senso umano. È vero però che gli strumenti della cultura si orientano secondo i placita di moda e così influenzano molti spiriti e molti avvenimenti, come accade net nostro tempo per i metodi hegeliano e freudiano dopo che i loro autori sono sconosciuti ai più e sono, comunque, morti.
— Accettare qualunque pensiero umano, spesso contraddittorio, significa qualcosa di più che cambiare testa, ma significa soprattutto non credere alla esistenza della verità. Se questa oggi è bianca, domani è nera, vuol dire che non esiste.
La conseguenza logica è patente: se si deve aggiustare sempre la Parola di Dio a seconda di questo cangiante scenario, si accetta che non esiste la verità, la Rivelazione, Dio. La consequenzialità è tremenda, ma non la si sfugge. Lo stesso vale per la reinterpretazione del dogma.
Il progressismo qui accetta il relativismo. Che cosa può più difendere nella Fede? È distrutto tutto. Non eresia, ma anche apostasia!
Con tutto questo non si esclude affatto che le diverse e contraddittorie manifestazioni del pensiero possano avere qualche parte od aspetto immune dalla sua interna logica distruttiva e pertanto accettabile, che taluni aspetti vengano illuminati, che talune stimolazioni siano afferenti. Tanto meno si esclude che il messaggio evangelico vada presentato in modo comprensibile agli uomini del proprio tempo, usando con la dovuta cautela il suo linguaggio ed i suoi mezzi espressivi.
La parentela tra il progressismo ed il relativismo, ossia il modernismo condannato, è una parentela troppo vergognosa per gloriarsene.

7. Il rifiuto della apologetica

Siamo sempre nel bagaglio che autorizza ad essere progressisti.
Le premesse della Fede (apologetica) non si dimostrano più. La ragione? È stata già detta e scende logica dalle sue premesse: abbiamo visto che il progressismo accetta il relativismo (anche quando smentisce, nei suoi più pavidi e i meno aperti cultori). Abbiamo visto che per questo non esiste verità obiettiva. Dobbiamo dedurne che la questione della Fede è una mera questione di fede
devozionale, insufflata dal sentimento (modernismo); che c’è dunque da dimostrare? Niente.
Difatti in campo biblico si mette in dubbio o il testo qualunque o il significato che la Chiesa (Magistero) gli ha sempre attribuito, si mette in dubbio la storicità dei Vangeli, della Resurrezione di Cristo... Non occorre dimostrare queste cose. La Fede viene bene e la si tiene; è inutile cercare degli elementi di prova.
Non vale che nessun libro storico della antichità abbia dimostrazioni di critica esterna e interna, quale hanno i libri della Bibbia. Queste cose non servono più.
Abbiamo visto e vediamo tuttora tanta gente tornare a Dio, solo perché è possibile dare una dimostrazione scientifica, poniamo dello Evangelo di Matteo. Ma bisogna rinnegare anche questa onesta capacità che il Vangelo di Matteo — come gli altri — ha di farsi precedere dalla più rigorosa documentazione della sua autenticità. Questo è il progressismo. Molti anni innanzi non riuscivamo a capire perché uno scrittore di non troppa vaglia non volesse sentir parlare di «apologetica»; ora abbiamo capito. Ma non che lui lo sapesse, non era da tanto; era manovrato da chi tacendo lo sapeva.
Molti che nella più perfetta buona fede hanno dato un certo ordine nuovo alle materie teologiche da studiare, ordine al quale mai abbiamo consentito, non sapevano di eseguire un comando del modernismo latente sotto la cenere.
Il silenzio in fatto di apologetica, che si sente tutto intorno, le meraviglie sincere espresse a chi ritiene sempre necessaria la apologetica, il fingere di ignorare la sequela logica dei «perché» della mente degli uomini, indica fin dove è entrato il modernismo anche in uomini integerrimi ed onesti.
Si guardi bene e, soprattutto, si lasci da parte l’inutile erudizione, usando la propria testa, e si vedrà che tutto il progressismo è venato di modernismo. Forse il rifiuto della apologetica ne è la manifestazione più rivelatrice. Citare, sì; ragionare, no! Perché la ragione e il suo valore non può venire accolta dal modernista. Ci voleva poi tanto a capirlo?

8. La riabilitazione degli eretici

Qui c’è la larghezza di cuore del progressismo.
Abbiamo già ricordato al n. 3 la trovata di chi ha proposto la canonizzazione di Lutero. Ma c’è altro: i colpiti dagli anatemi del passato riscuotono una notevole simpatia ed hanno molti avvocati difensori, per lo meno in cerca di attenuanti. Giordano Bruno, ad esempio, in talune riviste riemerge dalle ceneri con l’aria di dire «mi avete fatto aspettare quattro secoli, ma ce l’ho fatta». Gli scritti di autori protestanti, che dovrebbero essere all’Indice in forza del canone 1399, sono citati abitualmente al posto di sant’Agostino e di san Tommaso. L’euforia più entusiasta accoglie tutti quelli che sono stati colpiti da censure canoniche, mai come oggi, meritate.
Ma, è normale tutto questo?
I figli che elogiano in casa quelli che hanno fatto andare in rovina i vecchi, che tengono bordone coi persecutori dei propri parenti, si chiamano «degeneri».
Evidentemente la capacità logica di distinguere tra la divina istituzione della Chiesa e gli uomini che la conducono fa al tutto difetto.
Ma l’intendimento sotterraneo non è poi tanto invisibile. Si innalzano le presunte vittime del magistero ecclesiastico, per colpire il magistero ecclesiastico; si magnificano i distruttori della disciplina ecclesiastica per umiliare quella Gerarchia, che tutela la stessa disciplina. Agli eretici ed ai ribelli consiglieremmo di non fidarsi troppo di tali contorti amici.
Molti errori si affermano, si difendono, si divulgano, non tanto per se stessi, ma solo per far dispetto a qualcuno. Essi sono semplicemente lo sfogo delle più bambinesche passioni umane.
Tutto fa brodo e, elogiando un po’ i ribelli, sostenendo un po’ gli sbandati, rivoltando le cose a modo proprio, si fanno le vendette, si manifestano le invidie, si rendono noti i disappunti di quelli che credono di non esser potuti «arrivare»; soprattutto, nella gran fiera, si fanno meglio i propri comodi. I peggiori!
Le condanne ci sono, eccome, ma sono, in via storica, per coloro che nel passato hanno tenuto duro e fatto il loro dovere e per quelli che oggi, rendendosi conto della confusione e del regresso spirituale, vorrebbero fermarne le cause.
Si direbbe che i Santi appartengano al passato e gli eretici al futuro: è un pericoloso paradosso.

9. L’antigiuridicismo

Chi lo afferma è sempre stimato vero progressista.
Non tutti hanno il coraggio di dire che ogni legge dovrebbe essere abolita, ma moltissimi lo pensano e non vogliono rendersi conto che la legge e l’unico strumento per tenere in ordine e col minimo loro danno degli uomini liberi. L’affermazione sta proprio all’estremo confine della ragionevolezza.
La mania è come un vento del deserto, che brucia tutto e lo si trova dappertutto, anche sotto mentite spoglie. Enumeriamo le più ovvie applicazioni, alle quali un numero enorme di persone per bene abbocca, mentre potrebbe in tempo utile evitare delle dannose conseguenze.
Ovunque si vogliono le Assemblee: esse indichino, esse decidano. La ragione? Il numero diluisce e fa scomparire — così credono — uno che comandi, il regolamento che limiti. Autorità e regolamenti sono strumenti — oltre tutto — anche giuridici.
Poiché non pochi capiscono come vanno a finire le Assemblee cercano di restringere ed usare qualcosa che rassomigli ad una «assemblea ridotta» con qualche regolamento e con un responsabile. Si, parliamo di «responsabili», perché il terrore di macchiarsi di giudiricismo è tale che non si vuole più sentir chiamarsi «presidente», termine troppo giuridico, e ci si salva con una semplice variazione lessicale.
Altra forma è l’uso maldestro della «base». Diciamo maldestro perché il termine può essere usato anche in senso buono. Ma l’uso più ricorrente è quello in cui il timore del temutissimo giuridicismo è tale da far paventare le «responsabilità» (termine giuridico, oltreché morale) e pertanto tutto si scarica sulla «base».
Non diciamo affatto che i termini, qui proposti come esempio della posizione avversa al giuridicismo, siano cattivi. Tutt’altro! Diciamo solo che mascherano sulla bocca di taluni una debolezza.
Per parlare chiaro diciamo che mascherano facilmente una «ipocrisia». Molti — e lo si osserva nei gruppuscoli, anche minori — temono di dirsi «capo» o «presidente», ma aspirano in ogni modo, anche violento, a fare i «tiranni».
La verità è tutta qui: gli uomini liberi si tengono a freno, in modo da realizzare una compatibile vita sociale solo in due modi: «la violenza o la legge». Ricordiamo che la paura è un riflesso della violenza.
Non si vuole la legge? Si sceglie la violenza?
E questo sarebbe progresso? Ma si sa quello che si dice e si scrive?
Quando fu pubblicato — alla macchia — un abbozzo di «Legge Fondamentale» per il futuro Codice di Diritto Canonico, fu il finimondo, anche e soprattutto in taluni ambienti cattolici. La ragione non era tanto il fatto che quell’abbozzo metteva insieme poco opportunamente elementi di diritto divino ed elementi di diritto umano (il che sarebbe stato buon motivo per criticare), ma solo perché era una «Legge». Si preferivano dei predicozzi.
La contestazione entro la Chiesa fu tutta qui od almeno originariamente qui. E nasceva da una mancanza di logica, come appare dal sopra detto e dal fatto che alla legge si sostituisce la forza. E pensare che a gridare più forte era gente adusa a cantare a Lodi e a Vespro l’inno alla «divina» libertà dell’uomo, o meglio della «persona umana»!
Ecco dove si arriva a forza di svuotare la Teologia e dileggiare il vecchio catechismo dalle idee chiare e precise!

10. La crociata antitrionfalistica

Chi è antitrionfalista, nessuno lo dubita, è progressista.
È la principale caratteristica esterna — ma non solo esterna — del progressismo tra i cristiani.
La parola trionfalismo, davanti alla quale tante persone sentono tremare le vene e i polsi o dalla quale si sentono spinti a far imprese giganti di ripulitura, fa d’ogni erba fascio.
Vediamo questo fascio.
L’autorità dà noia. Ne devono scomparire i segni esterni, perché muoia essa stessa di esaurimento. Essa ha bisogno di segni visibili, dato che il valore morale per il quale ordina e comanda non lo si vede e non lo si tocca. Quando cerca semplicemente di far sì che gli altrui s’accorgano di essa e del suo dovere, fa del trionfalismo.
La Fede, i Sacramenti, il divin sacrificio si manifestano attraverso atti semplici ed anche dimessi. Hanno bisogno, i fedeli, di essere aiutati a vedere quello che è reale, ma che non si vede con gli occhi della carne. Ebbene, se si fa qualcosa di esteriore che indichi la grandezza delle cose divine, la maestà di Dio, la infinita importanza del santo sacrificio ed in genere del culto divino, si fa del trionfalismo: bisogna stroncare. Ma, se si rivela la voglia di ballare a suon di ritmo durante le azioni liturgiche, non si ha trionfalismo e tutto si può fare.
Se al Tempio si dà un decoro per aiutare gli uomini a rendersi conto della grandezza di Dio, della vita, del suo fine; se si domanda per esso di tenere lontane le stranezze che disturbano, che disambientano il raccoglimento e che aiutano la devozione, si fa del trionfalismo. Spoliazione sempre!
Se si porta rispetto a! Papa, a quanto denota esternamente la Sua suprema potestà, necessaria alla Chiesa, e pertanto alla salute, si fa del trionfalismo. Bisogna umiliare, avvilire, possibilmente deturpare e lordare: quella sarebbe la vera Fede vissuta.
Chi ha pronunciato per primo la disgraziata parola «trionfalismo» non ha riflettuto che dava modo di fare una sintesi di tutti gli appetiti psicologici, patologici, distruttori che potessero trovarsi tra i fedeli e tra gli uomini di Chiesa.
Il terrore del trionfalismo fa sì che tutto starebbe bene solo nella Gehenna. Non è solo questione di gusti.
Il terrore del trionfalismo — questa parola ha quasi tanto potere di agire sugli spiritelli quanto un termine qualificativo vociferato nella politica italiana — ha delle sottospecie che si notano nel conformismo col quale si accettano e osservano — non le leggi liturgiche emesse dalla legittima Autorità — ma le mode introdotte col criterio del pugno in faccia.
Il progressismo ha aspetti che interessano il piano culturale e questo pone limiti di numero e di qualità, ma, quando mette in moto la macchina antitrionfalistica, raccoglie gente come nei paesi le bande dei suonatori.

11. La indisciplina endemica

Cova dappertutto, la paura, la timidezza, le compromissioni trovano seguaci, difensori, tutori dappertutto. Per tale motivo abbiamo usato la parola «endemica». Chi dimostra questo in modo sbarazzino ha diritto al titolo.
Guardiamo bene in faccia la triste realtà; essa sembra avere tali coordinate, tali ritmi da doversi ritenere che risponda ad un piano diabolicamente congegnato. C’è infatti una tale logica nella successione degli atti o manifestazioni di questa indisciplina che bisogna pensare ad un disegno preciso ed intelligente.
In un primo momento si è gettata una confusione nel campo delle idee. Ricordo la reazione isterica di un personaggio del quale un dipendente era stato multato da altri di «neomodernismo»! A ragione!
In un secondo momento, dopo aver gettato la confusione nella Fede, fondamento di tutto, si è aggredita la morale, per rendere nulla la norma e lasciare libertà di espressione ad ogni atto umano.
A questo punto si sono attaccati gli elementi esterni che «tenevano insieme la compagine ecclesiastica del clero»: abito, seminari, studi, con una confusione estrosissima di iniziative culturali innumerevoli.
Poi si è immessa la idea sociologistica del paradiso in terra al posto del Ciclo, della rivoluzione permanente invece della pace e si è dato un valore simbolico agli atti di culto verso un Signore ormai confinato nelle nebbie.
Si è discusso del celibato sacerdotale, anche da maestri, ignorando che la Chiesa non era stata più in grado — almeno questo! — di migliorare e fare avanzare i popoli dove il celibato era abolito. Ultimo e permanente ritrovato: discutere su cose certe, come se non lo fossero, e non lo fossero da Gesù Cristo.
Non tutti sono arrivati in fondo, molti sono arroccati senza aver una idea delle conseguenze sugli stati intermedi, altri hanno di pan passo saltato tutto e tutti. Al di sotto resta ancora il popolo, che è buono e al quale pensa Dio evidentemente. Si moltiplicano gli slogans, non si insegna il catechismo; si parla di pastorale e si disertano gradatamente tutti i ministeri; si parla della Parola di Dio e si insegna tranquillamente che è quasi tutta una fiaba, si disserta della vicinanza con Dio e si irride o la si tratta come se fosse risibile la santissima Eucarestia. Almeno in pratica. Tutto questo è progresso!

12. La bassa quota

Fin qui, non lo nego, ho raccolto le posizioni mentali e pratiche alle quali si fa l’onore di attribuire il termine «progressismo». Si tratta di quelle piuttosto intellettuali. E l’ho fatto coscientemente, perché il rimanente, specie per mezzo della comunicazione sociale, discende da quello che in un modo o nell’altro sta al piano superiore della esperienza intellettuale.
Ma c’è un «modo di agire» più semplice, più «pop», che forma il loggione per il palcoscenico descritto sopra, che costituisce il codazzo confuso e sparpagliato del corteo. In tale codazzo stanno tutti coloro che leggono a vanvera o credono di capire o non hanno senso critico per giudicare. Va da sé che la maggior parte delle cose pubblicate in campo cattolico cercano di tingersi secondo quello che piace al «progressismo». Ed ecco.
Nel clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso. Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di scomparire. Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio? Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica. So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.
Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce benemerenza progressista.
Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
Animare gruppi «detti magari di spiritualità» (parola della quale si potrebbe dire come «montes a movendo, tanquam lucus a lucendo e canonicus a canendo»), nei quali ci si infischia soprattutto del parroco e del Vescovo e del Papa, costituisce una delle più soddisfacenti esercitazioni del progressismo. Invitare persone discusse, dubbie nella Fede, dubbie nella disciplina, permette l’acquisire il sorriso compiacente di quanti amano classificarsi progressisti.
Soprattutto: chi parla più tra costoro di santità, di ascetica, di mortificazione, di dedizioni senza plausi sospetti? Chi accetta la povertà, quella alla quale ci lega il nostro dovere, non ostentata, ma praticata? Nella Diocesi di Genova si sono salvati Altari e Tabernacoli, ma si deve lavorare molto per riportare tutto e tutti al vero culto della SS. Eucarestia. Quanto si parla della santissima Vergine? Recentemente si sono dette pubblicamente delle bestemmie autentiche contro la santissima Madre del Signore e nostra e — che si sappia — nessuno di quelli che le hanno ascoltate ha reagito.
Al posto delle Associazioni possono sorgere gruppi, che non impegnano nessuno, per parlare ai quali non occorre prepararsi, ma dei quali è sufficiente accarezzare le debolezze, magari ammannendo discussioni sul sesso.
Dove è andato a finire per taluni il discorso sulla purezza e sulla modestia? Non se ne parla perché, orribile a dirsi, si ha ‘vergogna di Dio’ .
Ecco il progressismo «pop», da pochi soldi, ma dalle molte colpe.
Questo discorso non è affatto finito, perché si rivolge ad un fatto che tenta di mettere al posto del sacrificio, richiestoci da Dio, il nostro comodo, il nostro piacere, la nostra anarchica indipendenza. La via dell’inferno.

Conclusione

Abbiamo parlato del «progressismo», non del «progresso». Il primo cammina a grandi passi, quando non c’è già arrivato, verso la eresia, lo scisma, l’apostasia, la scollatura di tutto. Il secondo va rispettato come è sempre stato rispettato, nelle sue leggi fisiologiche, che rinnovano l’organismo, ma non lo alterano, né lo distruggono. La parola «progresso» va difesa dalla contaminazione con la parola «progressismo». Questo è una accolta di perversioni, di errori e di viltà; quello è un segno di vita degli spiriti migliori.
Ho scritto perché il clero sia illuminato. Le note sull’argomento continueranno.

 

 

Il progressismo - del Cardinal Giuseppe Siri [Dalla «Rivista Diocesana Genovese», gennaio 1975, pp. 22-36]