lunedì 3 gennaio 2011

Il cardinale Biffi rompe un altro tabù. Su Dossetti

(Il Card. Giacomo Biffi)




Cioè su un protagonista influentissimo del Vaticano II. Bocciato come teologo e per come si comportò allora e dopo. “C’era in lui il monaco nel politico, e il politico nel monaco”. Intanto una nuova storia del Concilio... di Sandro Magister




ROMA, 3 gennaio 2011 – Lo storico cattolico Roberto de Mattei ha dato recentemente alle stampe una nuova storia del Concilio Vaticano II che fa molto discutere, per il metodo e le conclusioni.
Quanto al metodo, de Mattei si attiene strettamente ai fatti storici, allo svolgimento dell'evento conciliare, poiché – sostiene – i documenti del Concilio possono essere capiti e giudicati solo alla luce delle vicende che li hanno prodotti.
Quanto alle conclusioni, de Mattei ricava dalla ricostruzione di tale vicenda che i documenti del Concilio Vaticano II sono effettivamente qua e là in contrasto con la precedente dottrina. Chiede quindi al papa attuale di promuovere "un approfondito esame" di tali documenti, "per dissipare le ombre e i dubbi".
Fermandoci alla ricostruzione storica fatta da de Mattei, colpisce l'enorme peso che alcuni individui e gruppi hanno avuto nel determinare lo svolgimento del Concilio e la genesi dei suoi documenti.
Uno dei più influenti è stato sicuramente l'italiano Giuseppe Dossetti (1919-1996), nella sua qualità di perito del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna.
Prima di farsi monaco, Dossetti aveva studiato diritto ecclesiastico, aveva militato nella guerra partigiana contro fascisti e tedeschi, aveva partecipato alla stesura della nuova costituzione italiana ed era stato un politico di prima grandezza nel partito che governò l'Italia del dopoguerra, la Democrazia Cristiana, dove eccelleva nella padronanza dei meccanismi assembleari.
Come perito conciliare, Dossetti mise a frutto queste sue capacità. Il 10 novembre 1962, un altro celebre perito, il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu, annotò nel suo diario questa frase di Dossetti: "La battaglia efficace si gioca sulla procedura. È sempre per questa via che ho vinto".
Il suo apogeo fu nel 1963, nella seconda sessione del Concilio, quando per alcuni mesi Dossetti operò di fatto come segretario dei quattro cardinali "moderatori", uno dei quali era Lercaro, divenendo il perno dell'intera assise.
Era lui a scrivere i quesiti su cui i padri conciliari dovevano pronunciarsi. Il 16 ottobre 1963 quattro di tali quesiti – sulla questione della collegialità episcopale – uscirono, prima ancora d'essere consegnati ai padri, sul giornale di Bologna "L'Avvenire d'Italia" diretto da Raniero La Valle, amico strettissimo di Dossetti e Lercaro. Irritato, Paolo VI ordinò il ritiro delle 3000 copie di questo giornale che, come ogni mattina, stavano per essere distribuite gratuitamente ai padri.
Anche dopo il Concilio Dossetti continuò ad esercitare una profonda influenza sulla cultura cattolica non solo italiana.
È lui che diede vita – con alcuni storici suoi seguaci di cui il primo fu Giuseppe Alberigo – a quell'interpretazione del Vaticano II che ha avuto fino ad oggi più fortuna in tutto il mondo, condensata in cinque volumi di "Storia" tradotti in più lingue.
Non solo. Dossetti è stato per molti anche un grande ispiratore di visione teologica e politica insieme. Con un forte ascendente tra il clero, tra i vescovi e tra i cattolici politicamente attivi, a sinistra.
Ma mentre la sua maniera di interpretare il Concilio Vaticano II è da qualche tempo sottoposta a critica crescente – specie dopo il memorabile discorso, a ciò dedicato, di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 –, nessuno, fino a poche settimane fa, aveva osato mettere in dubbio, con autorità e in pubblico, la solidità della sua visione teologica.
A rompere il tabù è stato il cardinale e teologo Giacomo Biffi, che dal 1984 al 2003 è stato arcivescovo di Bologna, la diocesi di Dossetti.
Nella seconda edizione delle sue "Memorie e digressioni di un italiano cardinale", pubblicata lo scorso autunno, Biffi ha dedicato a Dossetti una ventina di pagine sferzanti.
Nelle quali mette a nudo le gravi insufficienze della sua teologia, a partire dal modo con cui egli agì nel Concilio Vaticano II e nei decenni successivi.
Ecco qui di seguito i passaggi salienti della critica del cardinale Biffi a Dossetti e ai "dossettiani" di ieri e di oggi.
LA "TEOLOGIA" DI DOSSETTI"
da Giacomo Biffi, "Memorie", seconda edizione, pp. 485-493
Giuseppe Dossetti è stato un autentico uomo di Dio, un asceta esemplare, un discepolo generoso del Signore che ha cercato di spendere totalmente per lui la sua unica vita.
Sotto questo profilo egli resta un raro esempio di coerenza cristiana, un modello prezioso seppur non facile da imitare.
È stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella “sacra doctrina”?La questione non è semplice, data la complessa personalità del protagonista, e richiede un discorso articolato.
Mi limiterò, richiamando qualche notizia utile, a formulare alcune osservazioni che riguarderanno prima di tutto l’ecclesiologia, poi la cristologia e infine la metodologia propria e inderogabile della “sacra doctrina”.
UNA ECCLESIOLOGIA POLITICA
Il 19 novembre 1984, in una lunga conversazione con Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, don Dossetti si è lasciato andare a qualche considerazione che deve renderci avvertiti.
Egli legge sorprendentemente il suo apporto al Concilio Vaticano II alla luce della sua partecipazione ai lavori della [Assemblea Nazionale] Costituente [tra il 1946 e il 1948]: "Nel momento decisivo proprio la mia esperienza assembleare ha capovolto le sorti del Concilio stesso".
[...]Di più, nella stessa circostanza Dossetti addirittura si compiace di aver "portato al Concilio – anche se non fu trionfante – una certa ecclesiologia che era riflesso anche dell’esperienza politica fatta". Ma che tipo di “ecclesiologia” poteva scaturire da una tale ispirazione e da queste premesse “mondane”?
“Anche se non fu trionfante”: questo inciso, sommesso e un po’ reticente, evoca con discrezione la fine della attività conciliare di don Giuseppe; e merita che lo si chiarifichi nella sua rilevanza.
Egli era stato introdotto nell’assise vaticana con la qualifica di esperto personale dell’arcivescovo di Bologna [Giacomo Lercaro]. Il 12 settembre 1963 il nuovo papa, Paolo VI, comunica la sua decisione di designare quattro “moderatori”, nelle persone dei cardinali Lercaro, Suenens, Döpfner e Agagianian, con il compito di presiedere a turno l’assemblea conciliare per conto del papa.
Era, come si vede, un incarico che ciascuno dei designati avrebbe dovuto esercitare soltanto singolarmente.Lercaro persuade invece i suoi colleghi ad accettare don Dossetti come loro comune segretario; e con questa nomina si configura in pratica una specie di “Consiglio dei moderatori”, che finisce con l’avere indebitamente una funzione molto diversa da quella prevista e intesa, con un’autorità ben più ampia della sua indole originaria.
È il momento della massima influenza di Dossetti; ma non poteva durare. Si trattava, in fondo, di un arbitrario colpo di mano che alterava la struttura legittimamente stabilita. Il Concilio aveva già una segreteria generale, presieduta dal vescovo Pericle Felici, il quale non tarda a lamentarsi della situazione irregolare che si era creata.
Di più, l’attivismo del segretario sopraggiunto e le tesi innovative da lui propugnate cominciano a suscitare qualche naturale inquietudine. “Quello non è il posto di don Dossetti”, è il commento del papa.
“Alla fine don Dossetti – afferma il cardinale Suenens – a causa dell’atmosfera ostile e per tatto verso il papa, si ritirò spontaneamente evitandoci una situazione imbarazzante”.
[...]Le apprensioni di Paolo VI però non erano soltanto di natura procedurale e organizzativa. Egli sentiva acutamente la sua responsabilità di salvaguardare in pienezza, pur nella cordiale accettazione della collegialità episcopale, la verità di fede del primato di Pietro e del suo totale, incondizionato e libero esercizio. Questa è la ragione che lo spinge a proporre la famosa "Nota esplicativa previa", nella quale offriva alcuni criteri interpretativi inderogabili di lettura e comprensione del capitolo III della "Lumen gentium" (che pur veniva da lui accolto integralmente). Così tranquillizzò tutti i padri sinodali e ottenne l’approvazione praticamente unanime del documento nella votazione del 21 novembre 1964: 2151 "placet" e solo 5 "non placet". Con il suo intervento diretto e risoluto aveva evitato il rischio di possibili future interpretazioni contrarie alla dottrina tradizionale; e aveva salvato il Concilio. [...]
UNA CRISTOLOGIA IMPROPONIBILE
Alla fine di ottobre del 1991 Dossetti mi ha cortesemente portato da leggere il discorso che gli avevo commissionato per il centenario della nascita di Lercaro. "Lo esamini, lo modifichi, aggiunga, tolga con libertà", mi ha detto. Ed era certamente sincero: in quel momento parlava l’uomo di Dio e il presbitero fedele.
Purtroppo, qualcosa che non andava ho effettivamente trovato. Ed era l’idea, presentata da Dossetti con favore, che, come Gesù è il Salvatore dei cristiani, così la Torah, la legge mosaica, è anche attualmente la strada alla salvezza per gli ebrei.
L’asserzione era mutuata da un autore tedesco contemporaneo, ed era cara a Dossetti probabilmente perché ne intravedeva l’utilità ai fini del dialogo ebraico-cristiano.
Ma come primo responsabile dell’ortodossia nella mia Chiesa, non avrei mai potuto accettare che si mettesse in dubbio la verità rivelata che Gesù Cristo è l’unico Salvatore di tutti. [...]
"Don Giuseppe, – gli dissi – ma non ha mai letto le pagine di san Paolo e la narrazione degli Atti degli Apostoli? Non le pare che nella prima comunità cristiana il problema fosse addirittura quello contrario? In quei giorni era indubbio e pacifico che Gesù fosse il Redentore degli ebrei; si discuteva caso mai se anche i gentili potessero essere pienamente raggiunti dalla sua azione salvifica"
.Basterebbe tra l’altro – mi dicevo tra me – non dimenticare una piccola frase della lettera ai Romani, là dove dice che il Vangelo di Cristo “è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco” (cfr. Rm 1, 16).
Dossetti non era solito rinunciare a nessuno dei suoi convincimenti. Qui alla fine cedette davanti alla mia avvertenza che, nel caso, l’avrei interrotto e pubblicamente contraddetto; e accondiscese a pronunciare questa sola espressione: "Non pare che sia conforme al pensiero di san Paolo dire che la strada della salvezza per i cristiani è Cristo, e per gli ebrei è la Legge mosaica". Non c’era più niente di errato in questa frase, e non ho mosso obiezioni, anche se ciò che avrei preferito sarebbe stato di non accennare nemmeno a un parere teologicamente tanto aberrante.
Questo “incidente” mi ha fatto molto riflettere e l’ho giudicato sùbito di un’estrema gravità, pur se non ne ho parlato allora con nessuno. Ogni alterazione della cristologia fatalmente compromette tutta la prospettiva nella “sacra doctrina”. In un uomo di fede e di sincera vita religiosa, come don Dossetti, era verosimile che l’abbaglio fosse conseguenza di una ambigua e inesatta impostazione metodologica generale.
DUE TRAGUARDI, UNA SOLA TENSIONE
“C’era in Dossetti il monaco nel politico, e il politico nel monaco”. Questa breve espressione, enunciata dal professor Achille Ardigò che gli è stato per diverso tempo vicino e ha collaborato con lui, coglie con rapida sintesi una personalità singolare e complessa.
Chi ne ha studiato la lunga e multiforme vicenda non può non riconoscere la validità e la pertinenza di tali parole. [...] La coesistenza, se non l’identificazione dei due traguardi – quello “politico” e quello “teologico” –, inseguiti da lui simultaneamente e col medesimo impegno, è all’origine di qualche incresciosa confusione metodologica.
Dossetti proponeva le sue intuizioni politiche con la stessa intransigenza del teologo che deve difendere le verità divine; ed elaborava le sue prospettive teologiche mirando a finalità “politiche”, sia pure di “politica ecclesiastica”.E qui c’è anche il limite intrinseco del suo pensiero e del suo insegnamento.
Perché la teologia autentica è essenzialmente contemplazione gratuita e ammirata del disegno concepito dal Padre prima di tutti i secoli per la nostra salvezza e per il nostro vero bene; e solo in quel disegno si trovano e vanno esplorate le luci e gli impulsi che potranno davvero giovare alla Sposa del Signore Gesù, che è pellegrina nella storia.
I "TEOLOGI AUTODIDATTI"
Dossetti ha avuto uno svantaggio iniziale: è stato teologicamente un autodidatta.
Qualcuno domandò una volta a san Tommaso d’Aquino quale fosse il modo migliore di addentrarsi nella "sacra doctrina" e quindi di diventare un buon teologo. Egli rispose: andare alla scuola di un eccellente teologo, così da esercitarsi nell’arte teologica sotto la guida di un vero maestro; un maestro, soggiunse, come per esempio Alessandro di Hales. La sentenza a prima vista meraviglia un po’. [...]
E invece ancora una volta il Dottore Angelico rivela la sua originalità, la sua saggezza, la sua conoscenza dell’indole sia della "sacra doctrina" sia della psicologia umana. Nella sua concretezza egli vedeva il rischio non ipotetico degli autodidatti: quello di ripiegarsi su se stessi e di ritenere fonte della verità le proprie letture e la propria acutezza; più specificamente il rischio di finire col compiacersi di un sapere incontrollato, e perfino di arrivare a un’ecclesiologia incongrua e a una cristologia lacunosa.
È stato appunto il caso di don Giuseppe Dossetti, che nell’apprendimento della “scientia Dei, Christi et Ecclesiae” non ha avuto maestri.A chi gli avesse chiesto da dove avesse preso le sue idee, le sue prospettive di rinnovamento, le sue proposte di riforma, egli avrebbe ben potuto rispondere (e non facciamo che usare le sue parole): "Dalla mia testa e dal cuore".
I "TEOLOGI IMMAGINARI"
Don Giuseppe nutriva grande stima per don Divo Barsotti e aveva iniziato a coinvolgerlo nella sua vita spirituale oltre che nella sua presenza attiva entro il mondo cattolico.
Don Divo però, che era teologo – oltre che geniale – autentico e di solida formazione, si rese conto ben presto delle lacune e delle anomalie del pensiero dossettiano. [...] E mi confidava, alla fine dei suoi giorni, di essere ancora molto preoccupato degli influssi che la “teologia dossettiana” continuava a esercitare su certe aree della cristianità.
Anch’io, devo dire, mi sono reso conto che l'apprensione di don Barsotti non era priva di fondamento. Nei contesti dove oggi ci si richiama all’eredità e all’ispirazione di Dossetti non sempre ritroviamo la serietà e la sufficiente competenza, doverose quando si discorre su argomenti che attengono alla “sacra doctrina” e alla vita della Chiesa.
Appunto nell’area dichiaratamente “dossettiana” ci si imbatte talvolta in alcuni “teologi immaginari”, che in genere sono molto apprezzati dagli opinionisti mondani, abbastanza sprovveduti in questa materia, e trovano facile spazio nei più diffusi mezzi di comunicazione.
Libro da cui è stato tratto questo brano: Le memorie scomode del cardinale Biffi

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