giovedì 31 ottobre 2024

Tutto è liquido, anzi fluido


Salvador Dalì – Orologi



Marcello Veneziani

Il mondo è entrato nel terzo millennio con una sola idea chiave, fluida e ossessiva, globale e inafferrabile: la modernità liquida. Alla fine dello scorso millennio, un sociologo venuto dall’est, Zygmunt Bauman, pubblicò il suo saggio Modernità liquida, tradotto nel passaggio di millennio in tutto il mondo. Cominciò un tormentone, prima intellettuale poi mediatico, sull’avvento globale della liquidità, a cui presto si aggiunsero ulteriori corollari sfornati da Bauman in altrettanti libri: società liquida, amore liquido, vita liquida, arte liquida, sorveglianza liquida, paura liquida e via liquefacendo. 

Un mantra insistente in cui richiamo di annegare e che nessuno mette in discussione. Presto la modernità liquida è stata tradotta in identità fluida, soprattutto ma non solo dal punto di vista sessuale. Bauman è uno dei rari autori letti e citati da Papa Bergoglio, soprattutto a proposito delle vite di scarto, liquidate dalla società egoista: la riduzione della fede cristiana a sociologia comporta come sua conseguenza la sostituzione del pensiero, della teologia e della filosofia, con la sociologia pop, magari radical ma liquida, come fu quella di Bauman. Scappa qualche ironia su questo nuovo san Gennaro laico col suo miracolo della liquefazione universale.

Che vuol dire modernità liquida? Che è finito non solo il granitico mondo antico ma anche l’epoca solidamente progressiva; siamo entrati in una fase magmatica, inafferrabile nei suoi rapporti, postmoderna, in cui tutto scivola e il fluire divora ogni persistenza, ogni permanenza, ogni rigidità. Diluvio universale, anzi globale. I rapporti umani e i legami sociali si fanno liquidi e mutevoli, le convinzioni e le identità si fanno labili, fluide e fluenti, e via dicendo; le frontiere, i confini spariscono sommersi dalle onde liquide. La liquidità è ovunque (eccetto nell’economia, dove scarseggia).

Potremmo liquidarla come una scoperta dell’ovvio, antica come il cucco, se pensiamo all’acqua come mito universale delle religioni, al principio universale di Talete e ad Eraclito (panta rei, tutto scorre); e insieme banale come la scoperta dell’acqua calda, perché al predominio del divenire sull’essere e sulla solidità ci avevano pensato da secoli i pensatori della prima modernità. Il predominio della storicità sull’eternità era il segnale di un primato del fluire. Il romanticismo fu l’avvento del liquido in opposizione al solido mondo classico. Marx ed Engels nel loro Manifesto, già a metà ottocento andavano oltre e consideravano non liquidi ma “volatilizzati” i rapporti sociali un tempo consolidati, con le loro tradizioni e le loro ferree norme: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, col loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di stabile”.

Che la liquidità attenga all’umano, sia principio di vita e sostanza del suo essere, lo dice peraltro la nostra stessa composizione biologica: l’uomo è fatto in prevalenza di acqua, in una proporzione quasi analoga al nostro pianeta, costituito per sette decimi d’acqua. E questa corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo insegna molto più della teoria liquida di Bauman. Su questo tema ha scritto pagine penetranti Gaston Bachelard.

Ma l’uso della liquidità come alibi onnicomprensivo per giustificare ogni infedeltà, ogni mutazione, ogni sconfinamento e ogni propagazione, non rende ragione dei percorsi molto più complessi del nostro tempo. Che non possono ridursi alla mutazione dallo stato solido allo stato liquido. Si possono dunque porre almeno tre ordini di obiezioni al dogma della liquidità.

La prima è che se si resta dentro uno schema chimico o puramente lineare, dopo lo stato solido e lo stato liquido c’è lo stato gassoso ed è dunque tempo di dichiarare superata la modernità liquida per parlare dell’avvento di una condizione aeriforme, più confacente del resto al predominio dell’etere e alle onde elettromagnetiche. Siamo nella ipermodernità gassosa. La seconda obiezione è che la liquidità non coincide con l’oblio assoluto e la negazione di tutte le forme, perché esiste, come ci spiega la biologia molecolare, anche la memoria dell’acqua, che mantiene l’impronta delle sostanze con cui è venuta in contatto. C’è il Lete, l’acqua dell’oblio ma c’è anche l’acqua della memoria, il fiume che gli antichi chiamavano Eunoè e che scorre vicino al Lete. C’è la risacca dei ritorni, l’acqua che riporta figure, luoghi, tempi perduti. C’è pure qualcosa di negativo che resiste alla liquidità: ad esempio la plastica nei nostri mari, non biodegradabile né solvibile nelle acque.

La terza obiezione è che nonostante lo stato fluttuante, liquido e gassoso delle nostre relazioni, c’è qualcosa di solido che resta nel cuore delle cose e si chiama Natura. C’è qualcosa che resiste alla liquidità o riemerge come una terra sommersa: questo è pure il tempo delle identità riscoperte, delle patrie, delle nazioni ritrovate, delle sovranità, dei territori, dei confini. Oltre la natura c’è un’energia, c’è un vento che spira e che gli antichi chiamavano spirito, c’è un’anima che è soffio vitale. E noi siamo fatti d’acqua, di carne, di ossa; e di mente, di spirito, di memoria. Molto di noi finisce, molto di noi si trasforma, qualcosa di noi persiste. Sotto le acque di Bauman riemergono i fondali di Heidegger. Infine, una società liquida ha bisogno di contenitori che ne evitino lo spargimento e la dispersione. Più una società o una vita è liquida e più ha bisogno di recipienti e canali. Cioè di senso del limite, dei corpi, della realtà e della capacità di incanalare i flussi verso una direzione. E una società in cui tutto scorre ha bisogno di qualcosa che resta. In fondo siamo creature di terra, di acqua e di cielo, non di una sola dimensione.


(Il Borghese, ottobre)





mercoledì 30 ottobre 2024

A Firenze la pastorale dell'inclusione esclude il Catechismo


Magistero e teologia da "svecchiare" per don Simone Bruno nel primo di una serie di incontri all'insegna dell'adeguamento al nuovo dogma omosessualista. Ma per un prete presente in sala il problema è La Bussola.


Nel nome dell'arcobaleno

Editoriali 




L’Arcidiocesi di Firenze e il Coordinamento per una Pastorale di Inclusione del Centro Diocesano di Pastorale familiare hanno lanciato l’iniziativa “Quattro passi di inclusione”, quattro conferenze su omosessualità e transessualità. Lo scorso sabato 26 ottobre, presso il Teatro parrocchiale di S. Maria al Pignone a Firenze, si è svolto il primo incontro dal titolo “La famiglia – le famiglie, oggi, modelli culturali ed esperienze pastorali” con don Simone Bruno, psicoterapeuta, direttore editoriale di Edizioni San Paolo e de Il Giornalino, nonché nostra vecchia conoscenza, e la testimonianza di Francesca e Annamaria, coppia lesbica unita civilmente. Presente l’arcivescovo Gherardo Gambelli e alcuni membri di Kairos, gruppo di persone LGBT+ che cercano di piegare la dottrina cattolica al credo gender. In sala anche don Andrea Bigalli, sostenitore della Teologia della liberazione, che cita la Bussola asserendo che siamo una realtà scismatica e che scriviamo «cose micidiali» (qui).

Partiamo dalla coppia lesbica, «uno spaccato di una bellezza unica» commenterà poi don Bruno. Francesca racconta che si sono conosciute in occasione di una veglia contro la cosiddetta omotransfobia svoltasi in una chiesa cattolica. Poi costruisce l’immagine romanticheggiante di una qualsiasi coppia di credenti: «dovevamo diventare l’una l’eternità dell’altra», «noi all’interno della chiesa ci volevamo stare», «siamo una famiglia», «il pregiudizio è tanto derivato dalla non conoscenza». La coppia poi conclude la testimonianza raccontando che hanno avuto molti minori in affido, anche neonati, e una bambina data in adozione ad una sola di loro due. Naturalmente il luogo e il contesto dove si è svolta la conferenza legittimano questa unione anche perché, durante l’incontro, non ci sono state voci dissenzienti, ma solo consenzienti.

Passiamo a don Bruno il quale racconta che, tenendo un corso per fidanzati, una volta si imbatté in una coppia dove lui era divorziato. La lei della coppia allora gli chiese: «Noi siamo sempre una famiglia?». Don Bruno avrebbe preferito «sparire nel nulla». Preso però coraggio così replicò: « In tutta onestà io non so rispondervi. Lo ammetto, non sono preparato. […] Da quel momento tante certezze, tante sicurezze, tutte le teorie che proponevo hanno iniziato un po’ a traballare». E quindi da allora don Bruno iniziò a studiare «tutti i modelli antropologici, sociologici, filosofici che parlano oggi di famiglia» per mettere in dialogo la Chiesa con il mondo contemporaneo. E dunque la fede non si basa sulla Rivelazione, bensì sulle rilevazioni statistiche: «esistono dei dati che rendono alcune parti sia del Magistero che della teologia un attimino da svecchiare».

Dunque don Bruno ha interrogato la sociologia, la psicologia, l’antropologia, la filosofia, ma non la Bibbia, non la Tradizione, non il Magistero di sempre. È il classico approccio che vede nelle scienze sociali lo strumento interpretativo unico ed eccellente della fede, perché realtà priva di trascendenza, al fine di giungere alla verità, una verità condannata ad aggiornarsi sempre a motivo delle nuove scoperte scientifiche. Ed infatti don Bruno sentenzia: «bisogna prendere atto che la famiglia a 360 gradi è in continua trasformazione. Mettiamocelo in testa».

Ancor più semplicemente per don Bruno tutte le relazioni esistenti per il mero fatto che esistono sono da benedire. «Non possiamo nemmeno condannare quello che accade», per citare le sue parole. È la resa al male esistente.

Questa impostazione propria della fenomenologia lo porta a dire, ad esempio, che «la convivenza è diventata una delle tappe del ciclo di vita della famiglia», asserendo così che la convivenza è famiglia. Nessuna condanna della convivenza quindi, a differenza del Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. 2390) e, ad esempio, dell’enciclica Casti connubii di Pio XI il quale definisce le convivenze come «turpi connubii».

Poi si arriva al piatto forte, le coppie gay: «piano piano la società sta aprendo, e la Chiesa anche, la possibilità di riconoscere le coppie omoaffettive». Di fronte all’obiezione, da lui stesso sollevata, che il Catechismo condanna l’omosessualità, don Simone così ribatte: «ricordiamoci che il Catechismo è stato scritto qualche anno fa quando non c’erano ancora i contenuti certi e delle scoperte, la Chiesa fa quello che può». San Paolo sta peggio allora, dato che è ben più datato, quel San Paolo che non fa entrare nel Regno dei Cieli – ed è parola di Dio – chi compie il peccato mortale di atti omosessuali. Non parliamo poi del Vecchio Testamento che già nel nome si condanna da sé e si esclude dall’aggiornamento teologico di don Bruno.

Ma torniamo al Catechismo. Quest’ultimo nel n. 2357 riproponeva ieri e ripropone oggi la dottrina di sempre. Vi sono atti e condizioni che saranno sempre contro natura, checché ne dicano la sociologia e la psicologia. In caso contrario nulla ci vieta di pensare che, ad esempio, la pedofilia un giorno potrà essere considerata una forma naturale di espressione affettiva tra adulto e bambino. Detto tutto ciò a don Bruno sfugge un dato di fondo: l’omosessualità non è un bene per le persone, anche se il percepito soggettivo è diverso. Non tutto ciò che sembra bello è buono per davvero.

Poi un’altra chicca: «l’orientamento sessuale non è scelto da nessuno […] nessuno di noi lo può scegliere». Questa è una invenzione della psicologia recente, tesa a legittimare l’omosessualità. La genesi dell’omosessualità, almeno quella maschile, è probabilmente da addebitare alla mancanza della presenza paterna nella vita del ragazzo. Ma ammesso e non concesso che “si nasce gay”, non tutto ciò che è innato è secondo natura. Anche nel caso in cui l’orientamento omosessuale fosse necessitato, ciò eliminerebbe la colpa in merito agli atti, ma la condotta omosessuale rimarrebbe intrinsecamente malvagia e l’omosessualità intrinsecamente disordinata. Due buoni motivi per lasciarsi alle spalle questa inclinazione.

Proseguiamo. Una ragazza chiede: se c’è apertura verso le coppie omosessuali, perché la Chiesa non si apre anche alle relazioni non monogamiche? Risposta del direttore de Il Giornalino: «C’è un cammino e un lavoro da fare nella sensibilizzazione. Sta iniziando. Questa traccia di speranza voglio dartela. […] Pian piano, piano si sta entrando in una modalità di comprensione. […] Ci vorrà del tempo». Avete capito bene: il direttore delle Edizioni San Paolo apre alla poligamia. Comunque dobbiamo ammettere che è coerente: date le premesse erronee – qualsiasi relazione affettiva va bene – arriva necessariamente a conclusioni altrettanto erronee – lecita anche la poligamia e, crediamo implicitamente, il poliamore che è la declinazione plurima delle coppie di fatto. Ed infatti indica come motivo di speranza per le relazioni poliaffettive proprio la storia di Annamaria e Francesca.

Chiude l’incontro l’arcivescovo Gherardo Gambelli, il quale doverosamente cita l’Evangelii gaudium di Papa Francesco: «la realtà è più importante che l’idea». È il pensiero crociano: «per essa [la storia] non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni. […] La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice» (B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1917, pp. 76-77). È la tesi già espressa da don Bruno: i fatti si autogiustificano. La dottrina deve far posto o piegarsi ai fenomeni sociali. Non è il mondo che si deve convertire alla Chiesa, ma quest’ultima al mondo. La lezione storicista è stata appresa alla perfezione da Sua Eccellenza che infatti rivela compiaciuto: «quando sono stato a cena da Annamaria e Francesca ho capito tantissime cose». Ma forse non quelle giuste.





martedì 29 ottobre 2024

Il sacerdote deve presentarsi, agire e muoversi in maniera sacrale





29 Ottobre 2024

Oggi siamo abituati a vedere sacerdoti che hanno completamente abbandonato l’abito. Ciò è stato imposto dalla cosiddetta “teologia della secolarizzazione”. Per diventare uno come tutti, il sacerdote ha finito con il dissolversi nella massa; paradossalmente non avvicinandosi ma allontanandosi davvero dal popolo, perché ormai nessuno può più riconoscerlo. Si pensi a quanti episodi edificanti avvenivano in passato. Anime che si decidevano a confidarsi e perfino a confessarsi incontrando un sacerdote in qualche stazione ferroviaria, su una strada, in uno studio medico, ecc… Oggi, invece, nel completo anonimato del non-abito chi si accorge più della presenza di un sacerdote?

E invece, proprio perché il sacerdote deve essere anche segno della presenza salvifica di Cristo tra gli uomini, è tenuto a presentarsi in maniera sacrale. Il Servo di Dio don Dolindo Ruotolo (1882-1970), nel suo Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale, firmato con lo pseudonimo Dain Cohenel, scrive queste parole importanti: Il sacerdote col suo abito talare, lungo, composto, povero ma pulito, col suo mantello che lo avvolge come se avesse le ali ripiegate, pronte al volo, col capo segnato dalla croce del Redentore, col corpo composto, spirante ordine e modestia, con gli occhi bassi, alieni assolutamente da ogni malsana curiosità, passa nel mondo proprio come un angelo, dà un senso di pace e di conforto, dà un senso di speranza nelle angustie della vita perché egli rappresenta la carità, e passa come lampada che illumina, dissipando con la sua sola presenza le tenebre degli errori.







lunedì 28 ottobre 2024

Il Sinodo è finito, inizia il Nuovo Ordine sinodale



Un documento interlocutorio, adottato dal Papa, conclude i lavori del Sinodo. Ma quello che da alcuni è considerato un passo indietro rispetto alle aperture progressiste attese, è in realtà il segnale che quel che si vuole è il processo sinodale che, senza fretta, crei una nuova Chiesa.



CHIESA



Stefano Fontana, 28-10-2024

Anche questo Sinodo è finito. Si è conclusa ieri 27 ottobre la seconda sessione del Sinodo sulla sinodalità iniziato il 2 dello stesso mese. La prima sessione aveva occupato lo stesso mese dell’anno scorso. I sinodali hanno approvato un Documento finale. Tutti gli articoli hanno ricevuto più dei due terzi dei voti, anche se in qualche caso i pareri negativi sono stati maggiori che in altri. Molti avevano pensato che la nuova sinodalità trovasse in questo sinodo un suo momento topico ed epico, che in questo evento essa si manifestasse e fossero rivelate le sue ricadute nella vita della Chiesa.

Per questo motivo i progressisti si aspettavano decisioni fortemente innovative, mentre i conservatori auspicavano una significativa frenata che riportasse la nuova sinodalità nell’alveo della sinodalità tradizionale. Molti hanno osservato che in fondo i lavori del sinodo sono stati ridimensionati. Francesco ha tolto dalla discussione sinodale i principali temi caldi affidandoli a dei Gruppi di studio blindati, poi ha dichiarato che per le donne-diacono i tempi non sono ancora maturi e ha quindi stoppato ogni decisione su questo tema. Il cardinale Fernandéz ha dovuto scusarsi per una sua assenza ad una importante discussione sul diaconato femminile.

La “novità” della liturgia penitenziale in cui si chiese perdono dei peccati contro un nuovo decalogo si era tenuta prima dell’inizio del sinodo e quindi fuori delle sue procedure. Tutto questo ha fatto sì che molti ritenessero che le attese sul Sinodo fossero state volutamente raffreddate e silenziato il suo “coraggio profetico”.

Queste interpretazioni non ci trovano però d'accordo; non lo siamo neanche con quella che vede il Sinodo come momento forte e centrale della sinodalità in virtù delle sue decisioni di rottura, né con quella secondo cui i lavori sinodali sono stati raffreddati con rallentamenti e danni per la nuova sinodalità. Ambedue le tesi non vedono che il Sinodo è da considerarsi, in fondo, solo come un momento della nuova sinodalità, un semplice passaggio per niente decisivo né risolutivo.

Da qui il carattere “interlocutorio” del suo Documento finale, il quale non fa chiare scelte di rottura e nello stesso tempo tiene aperte tutte le porte per il futuro, nella consapevolezza che si chiude il Sinodo ma non si chiude la sinodalità. Proprio questo hanno fatto capire, per esempio, suor Jeannine Gramick e padre James Martin nei loro interventi a Sinodo concluso. Una dichiarazione di New Ways Ministry, l’associazione pro LGBT della Gramick, ha mostrato sì un doveroso disappunto perché il Documento non ha fatto scelte decisive in questo campo, ma poi ha riconosciuto che il processo sinodale «ha preparato un terreno fertile per il cambiamento».

Padre Martin, che pure si era mostrato indispettivo, poi ha cambiato idea, sostenendo che aver tolto i temi scottanti dal Sinodo è stato utile perché ha permesso un dialogo maggiore sulla natura stessa della sinodalità anziché perdersi nei particolari.

Ciò che interessa ai fautori del nuovo non è tanto un Sinodo, che inizia e finisce subito, ma il processo della sinodalità che continua ben oltre questi appuntamenti. Il carattere “interlocutorio” del Documento finale non è un male ma un bene per chi fa da regia al processo sinodale. Coloro che si interessano molto dei documenti, compreso quest’ultimo, sono fuori fuoco. La sinodalità vuole una nuova Chiesa. Non può però dirne i caratteri troppo in fretta, prima che, come ha detto Francesco per le donne-diacono, i tempi siano maturi.

Il processo sinodale procederà non tramite documenti sinodali ma tramite atti concreti. Padre Martin stesso ne elenca qualcuno: sinodo annuale nelle diocesi, nuovi ministeri nelle parrocchie, esperienze di “conversazione nello Spirito” tra famiglie o gruppi. La nostra impressione è che l’abbassamento di toni del Sinodo avvantaggi la nuova sinodalità e non il contrario.

Il Documento finale non dice di sì alle donne diacono, ma tiene aperto il tema delle donne nella Chiesa (nn. 60); non indica nello specifico nuovi ministeri, ma mantiene questa possibilità indicando a titolo di esempio la possibilità di un ministero “dell’ascolto e dell’accompagnamento” (n. 78); non nega la competenza decisionale dei vescovi o del Papa (n. 92) ma aggiunge che «un orientamento che emerga nel processo consultivo come esito di un corretto discernimento, soprattutto se compiuto dagli organismi di partecipazione, non può essere ignorato» ed auspica una revisione del diritto canonico a questo proposito; non riconosce esplicitamente alle Conferenze episcopali una competenza dottrinale (nn. 120-129) ma dice che «occorrerà chiarirne meglio lo statuto teologico e canonico, così come quello dei raggruppamenti continentali di Conferenze Episcopali, per poterne mettere a frutto le potenzialità per l’ulteriore sviluppo di una Chiesa sinodale»; e propone di approfondire teologicamente e canonicamente la “decentralizzazione” distinguendo le questioni riservate al Papa da quelle che potrebbero essere concesse alle Conferenze episcopali.

Una notizia post-sinodale non può essere trascurata: Francesco ha dichiarato che questa volta non scriverà nessuna Esortazione apostolica postsinodale. In un mio libro di qualche anno fa sul Sinodo 2014/2015 sulla famiglia avevo previsto che Amoris laetitia sarebbe stata l’ultima Esortazione apostolica postsinodale. Questa previsione viene ora confermata da Francesco. Comunicando questa decisione, egli ha anche detto che il documento finale del Sinodo ha valore “magisteriale”, anche se in senso non normativo.

Questa decisione, come del resto il nuovo decalogo della Liturgia penitenziale del 1 ottobre scorso [QUI], fa fare alla nuova sinodalità un passo da gigante. Lasciamo chiacchierare i sinodali in modo da assimilare il nuovo apparato concettuale e linguistico, facciamo che producano documenti finali interlocutori che non intralcino il lungo percorso… ciò che conta è la nuova Chiesa della nuova sinodalità che procede per atti come questi.










La psicopolizia britannica arresta chi prega in silenzio. Chi sarà il prossimo?


Dicembre 2022. La polizia interroga e poi arresta Isabel Vaughan-Spruce,
 in piedi in silenzio nei pressi di una clinica abortiva

Il Regno Unito rende reato qualunque "azione" compiuta vicino a una clinica che potrebbe influenzare chi vuole abortire, comprese quelle fatte nella testa. Ecco come ci è riuscito


Pochi giorni fa Adam Smith-Connor, un fisioterapista cinquantunenne di Southampton, è stato condannato da un tribunale inglese a due anni di carcere – subito commutati in libertà vigilata – e a pagare 9.000 sterline di spese legali per avere tenuto, nel novembre 2022, il capo chino e le mani giunte nei pressi del British Pregnancy Advisory Service, una clinica abortiva di Bournemouth. L’accusa è quella di avere violato l’ordine di protezione dello spazio pubblico ed essersi rifiutato di andarsene dopo che le forze dell’ordine gli avevano chiesto di allontanarsi.

Alla domanda su cosa stesse facendo, Adam Smith-Connor aveva risposto che stava pregando in silenzio per il figlio che lui e la sua fidanzata avevano deciso di abortire ventidue anni prima. Il giorno prima Adam aveva informato della sua veglia silenziosa il Consiglio distrettuale via email. Smith-Connor e il suo avvocato stanno preparando un ricorso.


Adam Smith-Connor, l’uomo condannato a due anni con la condizionale 
e a una multa di 9.000 sterline per avere pregato in silenzio nei pressi di 
una clinica abortiva (foto via ADF UK)



La lettera del governo scozzese all’attivista anti aborto

Lo scorso 4 ottobre Emma, un’attivista prolife di Edimburgo, in Scozia, ha ricevuto una lettera dal governo scozzese che la avvisava del fatto che casa sua, a causa della vicinanza con l’ospedale, si trova ora in una abortion censorship zone, una “zona cuscinetto” in cui sono vietati assembramenti, proteste e veglie contro o (che ironia) a favore dell’aborto.

Emma indossa spesso una maglietta con scritto “Pro life and proud” e organizza incontri con altri attivisti in casa sua. Entrata in vigore il 24 settembre, la nuova legge britannica sul “Safe access” ha reso reato qualsiasi azione entro 200 metri da una struttura per l’aborto che potrebbe “influenzare” la decisione di qualcuno di accedere, fornire o facilitare un’interruzione di gravidanza.


Cosa si può e cosa non si può fare vicino alle cliniche per l’aborto

Nella lettera del governo a Emma c’è scritto che anche riunioni in un luogo privato come un’abitazione possono essere un reato se visibili dall’esterno, e che «è possibile segnalare un gruppo o un individuo che si ritiene stia violando la legge». A raccontarlo è lei stessa a Madeleine Kearns su The Free Press, in un lungo articolo che ricorda come una legge del genere sia già in vigore in Irlanda del Nord da un anno, e che da fine ottobre lo stesso succederà in Inghilterra e Galles.

Nulla di nuovo, in realtà, si tratta della codificazione di una tendenza in atto nel Regno Unito da un decennio almeno, come spiega la giornalista della testata online diretta da Bari Weiss e come Tempi ha spesso documentato: «Dieci anni fa, nel 2014, il Parlamento ha autorizzato i consigli locali a creare e controllare le proprie leggi sui comportamenti antisociali. L’intenzione era quella di migliorare “le capacità professionali e l’integrità della polizia”. Ma dal 2018, cinque distretti del Regno Unito hanno utilizzato questi poteri per limitare in modo aggressivo ciò che le persone possono fare, dire e persino pensare, vicino alle cliniche per l’aborto».


Il prete accusato per un adesivo


Nel marzo 2023 la scienziata in pensione Livia Tossici-Bolt è stata fermata dalla polizia perché stava nei pressi di una clinica abortiva tenendo in mano un cartello con su scritto “Qui per parlare, se vuoi”. Il suo processo inizierà nella primavera del 2025. A Birmingham Isabel Vaughan-Spruce, 47 anni, è stata arrestata per aver pregato in silenzio fuori da una clinica per l’aborto.

Nella stessa città un sacerdote, padre Sean Gough, è stato accusato di “preghiera silenziosa” e per avere parcheggiato nei pressi di una clinica la sua auto con un adesivo sul paraurti recante la scritta “Le vite dei nascituri contano” (Tempi ne aveva scritto qui). Poco più di un anno fa, racconta ancora The Free Press, un volontario prolife di nome Patrick Parkes, 57 anni, stava pregando in silenzio fuori da una clinica per l’aborto a Birmingham quando la polizia lo ha minacciato di una multa chiedendogli di spostarsi altrove, «fuori dalla zona di esclusione, dove hai i tuoi diritti umani».


Padre Sean Gough, arrestato a Birmingham perché mostrava 
un cartello in cui affermava di pregare per la libertà di parola (foto via ADF)


Aborto e non solo. Libertà di parola in pericolo nel Regno Unito

Da anni nel Regno Unito si osserva una preoccupante restrizione della libertà di espressione, e non solo per mano dei laburisti (anche se da quando è al governo Starmer ha già fermato la legge che intendeva tutelare la libertà di parola nelle università e iniziato a far arrestare chi sosteneva le rivolte xenofobe dei mesi scorsi con post sui social). Eppure è un paese che «ha una tradizione secolare di difesa della libertà di espressione», nota la giornalista di The Free Press.

«In teoria, l’Human Rights Act del 1998 dovrebbe proteggere i “diritti assoluti” dei britannici, tra cui la libertà di pensiero, parola, coscienza e religione. Ma negli ultimi anni, il Regno Unito è diventato sempre più censorio. Le autorità hanno arrestato cittadini per aver condiviso accidentalmente informazioni errate e per essersi travestiti da terroristi per Halloween. In Gran Bretagna, le persone che pubblicano commenti “offensivi” online possono ricevere pene detentive più severe rispetto ai molestatori sessuali».


Una legge contro l’attività religiosa

Se oggi chi prega in silenzio nei pressi di una clinica abortiva può essere arrestato e multato è a causa di una legge voluta dai conservatori nel 2014, l’Anti-social Behaviour, Crime and Policing Act, il cui utilizzo sempre più ampio da parte dei Consigli locali ha fatto sì che una norma pensata per colpire molestie pubbliche relativamente minori come l’abbandono dei rifiuti per strada diventasse la clava con cui colpire le idee “sgradite”.

Jeremiah Igunnubole, un avvocato di Alliance Defending Freedom che difende i quattro accusati citati prima ha detto a The Free Press che questa norma consente ai consiglieri locali di «giocare a “giudice, giuria, boia” introducendo e applicando le proprie leggi con “poca o nessuna supervisione”». Ecco come cinque consigli locali nel Regno Unito e due distretti di Londra sono stati liberi di istituire zone di censura sull’aborto.

«Il linguaggio di queste ordinanze spesso prende di mira esplicitamente l’attività religiosa. Nel settembre 2022, le autorità di Birmingham, ad esempio, hanno vietato “qualsiasi atto di approvazione o disapprovazione o tentativi di atti di approvazione o disapprovazione, rispetto a questioni relative ai servizi di aborto, con qualsiasi mezzo” all’interno della zona, quindi hanno citato la preghiera come esempio. Nel frattempo, la legislazione locale di Bournemouth, introdotta nell’ottobre 2022, vieta le “veglie” in cui i partecipanti “pregano ad alta voce, recitano le scritture, si genuflettono, spruzzano acqua santa a terra o si fanno il segno della croce se percepiscono che un utente del servizio [sic] sta passando”».


Le assoluzioni

L’applicazione di queste regole crea cortocircuiti farseschi, spesso volutamente cercati da chi si presenta davanti alle cliniche per pregare in silenzio e viene fermato dalla polizia. Padre Gough è stato assolto una prima volta per insufficienza di prove; stessa sorte per Vaughan-Spruce, arrestata a dicembre 2022 perché sorpresa a sostare in silenzio vicino a una clinica: perquisita, la donna è stata portata nella stazione di polizia dove le sono state mostrate fotografie di lei in piedi.

«Stavi pregando?», le hanno chiesto. «Non lo so. A volte pregavo, altre volte mi distraevo e pensavo al pranzo…». Vaughan-Spruce ha voluto andare a processo, ed è stata assolta. Lo stesso è successo a marzo 2023, e alla fine la donna è riuscita anche a ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. Ma che cosa succederà adesso, con la nuova legge sulla censura dell’aborto che entrerà in vigore a fine mese?


Prolife aggressivi e minacciosi? Falso

L’inchiesta di The Free Press sottolinea come la narrazione mainstream sugli attivisti prolife fuori dalle cliniche abortive li dipinga come minacciosi e aggressivi nei confronti delle donne che vanno ad abortire, e che le zone cuscinetto si siano rese necessarie per proteggere chi ha scelto di andare a interrompere una gravidanza.

I casi di manifestazioni aggressive sono in realtà pochissimi: «Nel 2018, Sajid Javid, allora ministro degli Interni britannico, ha indagato sulle attività antiabortiste al di fuori delle cliniche e ha concluso che “le principali attività segnalateci … includono preghiere, esposizione di striscioni e distribuzione di volantini”», pertanto non serviva nessuna zona cuscinetto, le leggi già in vigore su aggressioni e minacce bastavano ed avanzavano.


Il primo ministro britannico, il laburista Keir Starmer (foto Ansa)

Il governo conservatore le ha fatte lo stesso, però, e Javid «ha almeno tentato di introdurre una tutela per la preghiera silenziosa. Ma il nuovo governo laburista, eletto a luglio, è andato avanti senza tenerne conto. Il neo-nominato ministro della Tutela Jess Phillips ha affermato: “Non resteremo seduti a tollerare molestie, abusi e intimidazioni mentre le persone esercitano il loro diritto legale all’assistenza sanitaria, motivo per cui abbiamo accelerato questa misura per renderla operativa senza ulteriori ritardi”».


Pregare in silenzio è un reato d’opinione?

Quello che emerge dall’attenzione particolare delle forze dell’ordine verso chi prega in silenzio davanti alle cliniche è un atteggiamento già visto in altri casi che con l’aborto non c’entrano: negli ultimi dodici mesi l’Inghilterra è stata attraversata da numerose manifestazioni pro Palestina, con migliaia di uomini per strada a invocare la distruzione di Israele e a minacciare e aggredire fisicamente gli ebrei. In questi casi governo e polizia si sono limitati a guardare. Manifestazioni analoghe ma contro l’immigrazione sono state invece controllate e represse con ben altra forza.

Scrive The Free Press che «ad agosto la società di sondaggi YouGov ha scoperto che il pubblico ritiene ampiamente che il Regno Unito sia soggetto a una sorta di “polizia a due livelli”, in cui coloro che infrangono l’ortodossia progressista vengono trattati più duramente degli altri a causa dei loro punti di vista».

I casi degli arresti per preghiera silenziosa nei pressi delle cliniche abortive segnalano un duplice pericoloso attacco alla libertà religiosa e alla libertà di opinione. Siamo ai livelli della psicopolizia dell’orwelliano 1984. E a chi esulta perché zone cuscinetto e arresti per chi prega permetterebbero a chi abortisce di farlo senza subire pressioni psicologiche andrebbe chiesto se è felice di vivere in un Paese nel quale avere un’opinione può essere un reato. Come dice Vaughan-Spruce a The Free Press, l’istituzione di queste zone di censura dovrebbero preoccupare tutti, sia i prolife sia i prochoice. «Oggi tocca ai cristiani, domani potrebbe capitare a chiunque non pensi ciò che il governo ritiene appropriato pensare».






Da 95 Paesi per pregare (in latino) sulla tomba di Pietro


Ancora una volta il Populus Summorum Pontificum ha radunato a Roma i fedeli da tutto il mondo legati al rito antico, più vivo che mai. L'omelia del card. Müller e un'immagine di unità tra i popoli nell'amore di Cristo.



Pellegrinaggio

Ecclesia 



Stefano Chiappalone, 28-10-2024

Con la Santa Messa celebrata da mons. Marian Eleganti, vescovo emerito di Coira, nella parrocchia personale di Trinità dei Pellegrini si è conclusa la XIII edizione del pellegrinaggio ad Petri sedem del Populus Summorum Pontificum (25-27 ottobre): dal 2012 convengono annualmente nella Città Eterna realtà ecclesiali e pellegrini legati alla liturgia tradizionale provenienti da tutto il mondo per pregare sulla tomba di Pietro e manifestare così la comunione con la Chiesa universale.

Come negli anni scorsi il pellegrinaggio è stato preceduto dal 9° incontro di Pax Liturgica, che si è svolto nella giornata del 25 ottobre presso l’Augustinianum, alla presenza dei cardinali Gerhard Ludwig Müller e Robert Sarah e di mons. Eleganti (dell’incontro e del pellegrinaggio ha offerto una puntuale fotocronaca il blog Messainlatino.it, oltre a una sintesi degli interventi). Quindi nel pomeriggio il pellegrinaggio ha avuto ufficialmente inizio con i vespri nella Basilica di Santa Maria ad Martyres (Pantheon) officiati da mons. Eleganti. Sabato mattina l'imponente processione, partendo dalla Basilica dei Santi Celso e Giuliano verso San Pietro per il momento centrale del pellegrinaggio che ha radunato circa 800-900 persone secondo le prime stime.

Partecipazione ancor più significativa negli ultimi anni, dopo che il motu proprio Traditionis Custodes ha abolito il Summorum Pontificum (ma non certo il popolo che vi si riconosce) e imposto drastiche restrizioni al rito antico fin dentro la Basilica vaticana: per questi fedeli è aperta, sì, ma non del tutto, poiché dallo scorso anno nel momento (e nel luogo!) culminante del pellegrinaggio è concessa loro l’adorazione eucaristica ma niente Messa all’altare della Cattedra. Ma da quali intenzioni è animato questo fiume di gente desiderosa di pregare in latino e secondo un rito che periodicamente si vorrebbe rottamare? Il pellegrinaggio, si legge nel sito del Populus Summorum Pontificum, raduna «fedeli, preti e religiosi di tutto il mondo, che intendano partecipare alla nuova evangelizzazione al ritmo della forma extraordinaria del rito romano» e «testimoniano l’eterna giovinezza della liturgia tradizionale».

«Siamo, molto semplicemente, cattolici che hanno compreso come la soluzione della crisi della Chiesa sia lasciare da parte il cibo inconsistente che ha affamato e indebolito l'ecumene negli ultimi cinquant'anni, come tutte le indicazioni sociologiche dimostrano, e ritornare al pasto sostanzioso che ha nutrito abbondantemente la Chiesa per quasi duemila anni»: così Rubén Peretò Rivas, direttore del Centro Internazionale di Studi Liturgici, ha aperto l’incontro di venerdì. Ma ancora più forte parlano le storie di chi attraverso la bellezza della liturgia ha trovato la via del ritorno “a casa”, nel seno della Chiesa: è il caso di Yeng Pin Chan, giovane stilista cinese, cresciuta in una famiglia atea, che nel 2021 a Londra si è imbattuta in un “nuovo mondo” nella Messa (sia novus ordo sia in rito antico) celebrata al Brompton Oratory. A condurvela è stato il suo fidanzato italiano, a sua volta ritornato alla fede “per via liturgica”. In breve, grazie a queste Messe Yeng Pin Chan ha scoperto di Chi fosse il cuore che batteva dentro quell’arte cristiana che lei già ammirava. E nel 2023 è stata battezzata col nome di Elena.

Nella sua relazione il card. Müller ha ricordato la responsabilità dei pastori di tramandare il depositum fidei senza cedere alle mode. A questo compito è vincolata l’infallibilità del Papa, contro la falsa accusa protestante che confonde l’infallibilità con l’arbitrio. Nell’omelia di sabato, durante l’adorazione e la benedizione eucaristica in San Pietro, Müller ha sottolineato che «al termine del pellegrinaggio ad Petri Cathedram noi adoriamo Cristo, il Figlio del Dio vivente», richiamando l’attenzione sulla radicale «differenza tra fede e ideologia. Il cristianesimo non è una teoria astratta sulle origini del cosmo e della vita, o un’ideologia per migliorare la società, ma l’incontro con una Persona», cioè Cristo che come duemila anni fa, «oggi parla direttamente a ciascun individuo attraverso l’insegnamento della Chiesa» e «nei sette sacramenti ci dona la sua grazia». Benché la secolarizzazione spinga a «vivere come se Dio non ci fosse» gli amari frutti di questa prospettiva esistenziale si sono già manifestati nelle ideologie del Novecento e in quelle attuali: «Il nazismo e il fascismo in Germania e in Italia, il comunismo in Cina, il consumismo capitalista e le ideologie del gender e del transumanesimo hanno trasformato il mondo in un deserto nichilista». Al contrario, «il cristianesimo è la religione della verità e della libertà, dell’amore e della vita».

Non «guardiani di musei», ma «credenti legati a Gesù da un’amicizia personale», è stata l'esortazione di Müller. E a giudicare dai giovani presenti e dalle numerose famiglie con bambini, di guardiani di musei ce n'erano ben pochi. E a Cristo riconducono le «magnifiche testimonianze della cultura greco-romana cristianizzata alle cui fonti attingiamo. È la sintesi di fede e ragione, aperta a tutte le culture, che si è manifestata nel Logos, cioè in Gesù Cristo», fonte dell’«umanizzazione del mondo» scaturita dal cristianesimo e della pace cui i cristiani sono chiamati a contribuire. «Se l’antica Roma rappresentava l’idea di pace tra i popoli sotto il dominio della legge, la Roma cristiana incarna la speranza dell’unità universale di tutti i popoli nell’amore di Cristo».

Speranza condensata nella colletta della Messa di Cristo Re (che nel calendario tradizionale ricorre l’ultima domenica di ottobre), con cui ieri a Trinità dei Pellegrini si è concluso il pellegrinaggio: «che la grande famiglia umana, disgregata dal peccato, si sottometta al dolcissimo imperio di Lui» («ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavíssimo subdántur império»). Unità tra i popoli nell’amore di Cristo simbolicamente prefigurata anche dalle 95 bandiere nazionali (quelle di ciascun Paese in cui viene celebrata almeno una Messa in rito antico) che sabato mattina sfilavano verso San Pietro, verso il cuore della Roma cristiana. Un’immagine che vale più di mille discorsi sulla pace, insieme alla riprova, ancora una volta, di quanto scriveva a suo tempo Benedetto XVI, ovvero che «anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia». Tra i numerosi fedeli che ieri erano inginocchiati persino all'esterno di Trinità dei Pellegrini l'età media si aggirava sui trent'anni. Chi si aspettava una invasione di “barbari indietristi” è rimasto deluso.





domenica 27 ottobre 2024

Cattolici nelle banlieue culturali, ma c'è ancora domani




Irrilevante. La cultura cattolica oggi è irrilevante. Perché il cattolico non riesce ad imparare la lingua del secolo. Ma se l'oggi non vuole essere evangelizzato, guardiamo al domani. Se non possiamo dare le perle ai porci, custodiamole per giorni più promettenti.


La crisi della fede

Editoriali 




Irrilevante. La cultura cattolica oggi è irrilevante. E parliamo sia della cultura autenticamente cattolica sia di quella fintamente cattolica, tinta tra il verde ambientalismo e i multicolori LGBT. Quest’ultima è anonima perché mimetica, ossia imita, seppur con toni più sbiaditi, il trend popolare in fatto di costumi e scostumatezze. È una Chiesa camaleonte. E qui sta la condanna all’estinzione di tale cultura. Seguir la Chiesa docente quando, mollata la dottrina e diventata fan della chimica, bercia contro l’anidride carbonica? Meglio la Thunberg, perché più radicale. Decidersi di andare a Messa perché benedette sono pure le coppie omoerotiche? Preferibile Vladimir Luxuria o Alessandro Zan perché più puri nelle loro fatiche rivoluzionarie. Prendere in mano la Bibbia perché ormai abbiamo navi che raccolgono in mare migranti battenti la bandiera della CEI? Più credibile farsi battezzare come mozzo sulla Sea-Watch dal capitano Carola Rackete.

Veniamo però alla cultura autenticamente cattolica. Anche questa è sprofondata nella insignificanza più nera, ma per motivi opposti. Il mondo è nemico di Cristo e quindi anche del suo pensiero, fatto tutto di angoli acuti e lati taglienti. La nave di Pietro ha scaricato in un paio di scialuppe di salvataggio alcuni membri dell’equipaggio perché questi avevano deciso di continuare la spedizione in mare aperto, a loro affidata dall’Armatore, quando invece capitano ed ufficiali avevano pensato bene di tornare in porto. Difficile continuare la missione seppur non impossibile.

Fuor di metafora: il primo motivo dell’irrilevanza della cultura cattolica sta nel fatto che è sostenuta da quattro gatti. Secondo motivo: lo sparuto gruppo di superstiti comanda appunto un paio di bagnarole. A parte qualche eccezione, i cattolici, quelli veri, non sono direttori di importanti giornali, rettori di università, governatori di regione, ceo di grandi aziende, star di Hollywood. Il motivo è assolutamente conseguente a ciò che si appuntava prima: non c’è posto nel mondo per chi lo combatte. Ed infatti, nel rispetto del detto follow the money, la cultura cattolica vale economicamente zero. Zero è il suo peso nel mondo oggi.

Terzo motivo: il cattolico proprio non riesce ad imparare la lingua del secolo. Risultato: è incompreso, talmente incompreso che l’interlocutore capisce esattamente l’opposto di ciò che il cattolico si perita di comunicare e quindi muove a lui guerra perché il suo pensiero è inaccettabile. Il cattolico sostiene ad esempio che l’omosessualità, l’aborto e l’eutanasia siano dei veleni. L’interlocutore capisce che costui odia a morte l’omosessuale, la donna che ha abortito e il paziente che si è tolto la vita. Il cattolico spiega che il divorzio è contro l’amore coniugale. L’interlocutore capisce che costui è nemico della libertà delle persone. Il cattolico dice che Cristo è la salvezza per tutti. L’interlocutore capisce che costui non rispetta i seguaci delle altre religioni. Insomma, la cultura cattolica è incomunicabile perché non esiste un Google translator “Mondo-fede cattolica”. Mancano proprio le minime premesse comunicative, i praeambula della ragione. Se dici tondo e tutti, ma proprio tutti, capiscono quadrato non puoi che essere ignorato, anzi sempre più spesso perseguitato perché non hai ancora accettato il fatto lampante che il cerchio è fatto di angoli.

Il paradosso grottesco sta nel fatto che Papa Francesco ci esorta ad andare nelle periferie. Ma siamo noi che viviamo nelle periferie, nelle baraccopoli della storia (che però sono assolutamente degnissime perchè si celebra il culto a Dio con i sacri crismi). In centro ci stanno gli scippatori della speranza che ti hanno tolto la possibilità di cambiare vita dicendoti di rimanere nel peccato perché comunque Dio ti ama come sei; i truffatori della verità che, con la coscienza sporca, hanno sporcato anche le coscienze degli altri con il risultato che ciò che pare buono, allora buono lo è senz’altro; i violentatori del sacro che hanno stuprato la sacra liturgia; i sequestratori della dottrina che hanno chiesto come riscatto che tu spenga il condizionatore e applichi meglio la 194. Siamo dunque noi a vivere nelle banlieue culturali, nei sobborghi del pensiero. Siamo noi a far da contorno ad un’epoca così liquida che non ha più contorni.

Eppure c’è un eppure. Se il tempo odierno non vuole con tutte le sue forze essere evangelizzato, guardiamo al tempo futuro. Se non possiamo dare le perle ai porci, custodiamole per giorni più promettenti. Oggi forse tutti noi siamo chiamati a diventare, nel senso letterale del termine, conservatori. Custodi non di una cultura, ma dell’unica cultura che possa vantarsi di questo nome, per poi tramandarla in tempi migliori. Tutti noi siamo dunque chiamati a diventare monaci postmoderni. Tra il IV e l’VIII secolo i monaci conservarono la cultura classica e la medesima cultura cristiana mentre il mondo attorno a loro implodeva. I monasteri, si sa, divennero centri che brillavano nel buio della devastazione provocata dalle invasioni barbariche. Il termine “barbaro” deriva del greco e significa “balbettante”: ossia lo straniero per i greci era colui che balbettava l’idioma greco, colui che non sapeva parlare bene la loro lingua. Il barbaro oggi non sa parlare per nulla bene la lingua della fede, della verità, della carità. Noi allora dobbiamo vivere come monaci tra barbari.

E quindi ogni volta che tentiamo di spiegare a nostro figlio, il quale vuole andare a convivere, che è meglio non convivere con le scelte mediocri, ma che bisogna sempre puntare all’eccellenza quando si tratta di amore; all’amico che vuole divorziare che così divorzierà dalla propria felicità; alla collega che vuole il figlio in provetta che uccidere i propri figli non è il modo migliore per averne uno in braccio; ai ragazzi in oratorio che chi si vergogna di Cristo, Cristo si vergognerà di lui; ogni volta che faremo una di queste cose dovremo essere animati non dalla speranza che il nostro interlocutore venga persuaso dalla bontà dei nostri ragionamenti – in un mondo dove nessuno ragiona, l’intelletto è un tasto muto – bensì dalla speranza che agendo così noi perlomeno stiamo conservando il seme buono sotto la neve, custodiamo sottoterra un tesoro che un giorno qualcun altro dissotterrerà. Se non lo faremo, non rimarrà nulla della buona Novella domani.

È una evangelizzazione che guarda non tanto al figlio, amico, collega di oggi, ma al figlio, amico, collega di domani. Questo allora il nostro compito: noi dobbiamo diventare memoria per il futuro, memoria del futuro.





sabato 26 ottobre 2024

I VESCOVI NORVEGESI: ''ESISTONO SOLO DUE SESSI''




I vescovi mettono in guardia dai danni che produce l'ideologia gender e la grande menzogna che una persona possa essere nata nel corpo sbagliato (è la testa che non va, non il corpo)



da Sito del Timone

Insieme a circa 30 altre comunità cristiane in Norvegia, i vescovi cattolici hanno firmato una dichiarazione ecumenica sulle questioni della teoria del genere e della sessualità, per dare «un contributo costruttivo»; il documento intitolato "Dichiarazione ecumenica sulla diversità di genere e sessuale" è stato pubblicato ieri e «nasce in preghiera, dal nostro impegno per la nostra nazione e dal desiderio di costruirla», afferma il presidente della Conferenza episcopale nordica, Erik Varden.

In un'intervista con Cna Deutsch, il vescovo ha spiegato: «Il progetto ha come sottofondo una dichiarazione ecumenica del 2016 sul matrimonio, di cui anche i vescovi cattolici sono stati cofirmatari. Un seminario tenutosi questa primavera ha stimolato l'idea che sarebbe potuto essere costruttivo prendere in considerazione una dichiarazione simile sulla questione della "diversità" sessuale e di genere, un argomento attualmente molto discusso e che incide profondamente sulla vita di molte persone».
In una società che non riconosce, anzi rifiuta, la realtà oggettiva delle cose, è ancor più importante dimostrare che la visione antropologica cristiana «è in linea con i dati empirici. Una comprensione cristiana della vita è eminentemente concreta», spiega ancora con Trondheim. È da qui che prende le mosse la dichiarazione ecumenica, che si prefigge di riconoscere la «realtà biologica [...] nel rispetto dei diritti dei bambini». «Dio è il Creatore dell'universo e lo sostiene nell'esistenza. Ha creato l'essere umano come uomo e donna. Tutti gli esseri umani sono creati a immagine di Dio. Tutti sono profondamente amati da Lui e possiedono lo stesso inalienabile valore e la stessa inviolabile dignità. Il matrimonio, secondo l'ordine della creazione e del diritto naturale, è l'unione tra un uomo e una donna. Il matrimonio è stato istituito da Dio, confermato da Cristo e dagli Apostoli, e riconosciuto dalla Chiesa cristiana in tutti i secoli (cfr. Genesi 1,26-28 e Matteo 19,4-6). Il matrimonio tra un uomo e una donna costituisce il quadro biblico per le relazioni sessuali. Altre forme di relazioni sessuali sono varianti di una "diversità sessuale" che contraddice la teologia della creazione biblica e l'etica di Gesù, anche se tali relazioni fossero caratterizzate da fedeltà duratura», così inizia la dichiarazione.

SPIEGARE L'OVVIO

Poiché è necessario oramai spiegare l'ovvio, nel testo si ribadisce la realtà biologica dell'uomo e della donna: «Esistono solo due sessi biologici: maschile e femminile. Il sesso dell'essere umano è deciso nel momento del concepimento. Il nostro sesso è determinato dalla grandezza e dalla funzione delle cellule germinali»; per poi spiegare che «l'idea che esista un sesso soggettivo e una "identità di genere" che si possa scegliere liberamente e che si basi sui sentimenti è il risultato di un'ideologia e non ha fondamento nella biologia o nella scienza naturale».

Chiarendo che la Chiesa cattolica non è «un corpo lontano, cinico e burocratico», bensì «Mater et Magistra» - afferma ancora nell'intervista il presidente della Conferenza episcopale nordica -, l'impegno dei sacerdoti sarà sempre accompagnare tutti, in quanto «ogni essere è amato da Dio». Tuttavia, si chiarisce che «come pastori [...] siamo ordinati a proclamare e insegnare non idee di nostra creazione, ma il Vangelo di Cristo come insegnato ed esposto dal Magistero della Chiesa cattolica». Da "Madre e Maestra", la Chiesa ha una profonda conoscenza ed esperienza nel campo dell'animo umano e della persona, per questo «cerca di farci crescere oltre le nostre categorie e aspettative troppo ristrette, verso quella pienezza dell'essere che la tradizione cristiana chiama santità, una partecipazione alla vita di Dio stesso», senza fare «concessioni a scapito delle verità bibliche, anche se tali verità sono in conflitto con linee guida politiche o tendenze sociali attuali».

I DANNI DELL'IDEOLOGIA GENDER

A partire da questi assunti, nella dichiarazione si passa a mettere in guardia rispetto ai danni che producono l'ideologia gender e la grande menzogna che una persona possa essere nata nel corpo sbagliato - la storia di Luka Hein ne manifesta tutte le ferite -: «È estremamente problematico far confrontare i bambini e gli adolescenti con l'idea [...] che esistano "ragazzi, ragazze e altri generi" e insegnare loro che esiste un "genere interiore"». La dichiarazione invita a guardare ai danni già fatti: «Le conseguenze della vicenda della clinica Tavistock in Inghilterra sono un esempio ben noto di come sono state affrontate queste ferite, ma non è certo l'unico», aggiunge nell'intervista von Trondheim.

I vescovi affrontano poi il tema dei diritti, oggi innominabili, che ha il bambino: «Privare consapevolmente e intenzionalmente un bambino della possibilità di conoscere la madre o il padre o le famiglie dei genitori biologici - ad esempio attraverso la fecondazione artificiale o la maternità surrogata - è una violazione della volontà creativa di Dio e dei diritti del bambino». Sebbene infatti «tutti i bambini sono ugualmente preziosi e amati da Dio, indipendentemente dal modo in cui sono stati concepiti», è necessario ribadire che «il benessere del bambino deve sempre avere la priorità rispetto alle richieste e ai desideri degli adulti», senza peraltro contrastare la stessa Convenzione Onu sui diritti dell'infanzia nell'articolo 7 citata dai vescovi: «È un diritto umano del bambino conoscere i propri genitori e, per quanto possibile, essere accudito da loro».

In ultimo, la dichiarazione afferma: «La libertà di opinione e di coscienza e la libertà religiosa sono per noi valori centrali ed essenziali»; ed è proprio all'interno di questa libertà che «crediamo che anche la nostra voce meriti di essere ascoltata», prosegue l'intervista. Senza far mistero che «le autorità governative e le istituzioni pubbliche abusino del loro mandato e del loro potere quando cercano di costringere cittadini e organizzazioni ad adattarsi alla "teoria queer" riguardo al genere, alla sessualità e al matrimonio» è ancor più urgente il ruolo della Chiesa nell'«affermare la preziosità della vita la preziosità della vita di ogni persona in cui vogliamo riconoscere una sorella, un fratello, un potenziale amico, vedendola, per quanto possibile, come la vede Dio, cioè con immensa speranza», conclude il vescovo Varden.


Titolo originale: I vescovi norvegesi firmano dichiarazione ecumenica: Esistono solo due sessi
Fonte: Sito del Timone, 16 ottobre 2024
Pubblicato su BastaBugie n. 896





giovedì 24 ottobre 2024

Pio XI sulla lingua latina




Nella traduzione di Chiesa e postconcilio da OnePeterFive un interessante articolo di Massimo Scapin sul centenario di Latinarum letterarum di Pio XI, ricco di riflessioni da non lasciar cadere. Il riferimento alla Sacrosanctum concilium, mi offre l'occasione per una nota personale al riguardo e quindi per un ripasso sul tema. Invito anche ad approfondire altri aspetti attraverso i link inseriti in riferimento ad alcuni punti del testo. 




Massimo Scapin, 20 ottobre 2024

Decorre esattamente un secolo dalla data, il 20 ottobre 1924, in cui Papa Pio XI emanò il Motu Proprio Latinarum litterarum, istituendo una cattedra speciale di Letteratura latina presso la Pontificia Università Gregoriana. Questa iniziativa mirava non solo a rilanciare lo studio del latino ma anche a sottolinearne l’attualità duratura all’interno della Chiesa. Papa Pio XI descrisse in modo toccante il latino come “tamquam magnifica cælestis doctrinæ sanctissimarumque legum veste”, ovvero “una magnifica veste della dottrina celeste e delle leggi più sante”.

L’impegno di Papa Pio XI per l’educazione del clero fu inequivocabile, come dimostra questa iniziativa, la terza di una serie di inviti all’azione che seguono le lettere apostoliche riguardanti i seminari (Officiorum omnium, 1 agosto 1922) e gli studi dei religiosi (Unigenitus Dei Filius, 19 marzo 1924). La sua incrollabile dedizione sottolineò l’importanza cruciale degli studi latini all’interno della Chiesa.

Evidenziando il ruolo fondamentale del latino nell’educazione letteraria e nella formazione sacerdotale, il Motu Proprio sottolineava il suo profondo legame con la dottrina e la missione della Chiesa. Il latino non serviva solo come mezzo di comunicazione, ma anche come ponte tra le generazioni passate e future della Chiesa. Elevando la competenza del clero in latino, Papa Pio XI cercò di arricchire la sua crescita spirituale e intellettuale, promuovendo un più profondo apprezzamento per la lingua come dono divino.

Questa occasione ci spinge a riflettere sul significato della lingua latina nella musica sacra e nella liturgia cattolica, in particolare alla luce degli insegnamenti delineati in un documento solenne come la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). [vedi nota 1]

Esiste un profondo legame tra la Chiesa cattolica e Roma, una città immortalata da Dante come “quella Roma onde Cristo è romano” (Purgatorio 32, 102), pertanto la città è riconosciuta come il cuore e il centro del cristianesimo. Questo legame duraturo trascende i confini geografici e temporali, incarnando l’universalità della Chiesa di Dio, che è cattolica, come sottolineato da Benedetto XV, “nullamque apud gentem vel nationum extranea”: non è un’intrusa in nessun paese, né è estranea a nessun popolo. [1] Quando la Chiesa di Roma ereditò l’Impero romano, abbracciò anche la lingua latina come veicolo universale di fede. Questa lingua è fondamentale e indelebile, servendo da “sorgente abbondante di civiltà cristiana e ricchissimo tesoro di devozione” all’interno della Chiesa latina, come ha notato Paolo VI. [2] Inoltre, rimane la lingua nativa delle antiche preghiere e degli insegnamenti dei Padri della Chiesa.

L’importanza della tradizione musicale della Chiesa è sottolineata nella Sacrosanctum Concilium, che afferma: “Eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne” (n. 112). Nel corso della storia, numerosi Papi, tra cui San Gregorio Magno († 604), Benedetto XIV († 1758), Leone XII († 1829), Pio VIII († 1830), Gregorio XVI († 1846), Pio IX (1878), Leone XIII († 1903), San Pio X († 1914), Pio XI († 1939) e Pio XII († 1958), hanno sostenuto questa tradizione, riconoscendone il profondo significato spirituale. La Sacrosanctum Concilium promuove il ripristino di questa tradizione e l’impegno continuo nei suoi confronti, ingiungendo (vedi nota 1):

Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un’edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole (n. 117).
Queste direttive sono in netto contrasto con qualsiasi idea di abolizione del canto gregoriano o di proibizione dell’uso della lingua latina.

La costituzione conciliare afferma inequivocabilmente che l’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo (n. 113).

Sebbene siano ammesse alcune eccezioni per l’uso della lingua volgare in circostanze specifiche, tali concessioni non devono sminuire l’importanza del latino, che è prescritto nei termini più chiari (n. 36). Il canto gregoriano, ritenuto “particolarmente adatto alla liturgia romana” e meritevole di “un posto d’onore nei servizi liturgici” (n. 116), necessita intrinsecamente dell’uso della lingua latina [qui].

Nel contesto di quel “mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica.” (n. 123), la musica sacra [vedi] intraprende un magnifico viaggio storico dal canto gregoriano alla “polifonia classica, che, come molto ben detto, raggiunse il massimo della sua perfezione nella scuola romana attraverso l’opera di Giovanni Pierluigi da Palestrina”. [3]

La lingua latina rimane una parte indelebile dell’identità della Chiesa, profondamente radicata nella Vulgata, la traduzione “popolare” della Bibbia di San Girolamo († 420), che rimane il testo “ufficiale” della Chiesa latina, e nell’anima della Chiesa di Roma. Come ha affermato Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie dal 2007 al 2021:

La lingua latina continua a essere la lingua liturgica tipica della Chiesa, la lingua con la quale la Chiesa esprime la propria fede nel segno della cattolicità. Popoli di cultura diversa e di diversa lingua ritrovano nel latino liturgico la propria comune appartenenza, che non riguarda soltanto lo spazio geografico, ma anche quello temporale, il presente e il passato. [4]

Il latino trascende i meri costrutti grammaticali; è un mezzo puro che trasmette i misteri della fede. La sua essenza ineffabile e la sua portata universale costituiscono la pietra angolare indispensabile della musica sacra.

Nel commemorare il centenario del Motu Proprio Latinarum litterarum di Papa Pio XI, riaffermiamo il legame duraturo tra latino e musica sacra. Come custodi di questa eredità, possiamo custodire e preservare la profonda eredità spirituale racchiusa nella lingua latina e nelle sue sacre tradizioni musicali.






[1] Benedetto XV, Maximum Illud, 30 novembre 1919, n. 16.
[2] Sacrificium Laudis, 15 agosto 1966.
[3] Benedetto XV, Non senza vivo, 19 settembre 19 1921.
[4] Intervista del 2008.
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Nota di Chiesa e post-concilio
 
1. È vero che la Sacrosanctum Concilium definisce il gregoriano il canto proprio della Messa romana; ma, poiché si è “riscritta” la liturgia cattolica tagliando, annacquando e modificando con elementi protestanti e si è posto al centro di tutto il nuovo impianto teologico-liturgico della “doppia-mensa” (cibo della parola affiancato a quello della comunione: presenza mediata dal testo che oscura la Presenza reale), è evidente che, quale conseguenza naturale, si abbandona il canto gregoriano in quanto espressione di una “docenza” non più connaturale alla nuova ecclesiologia.
Tuttavia, se effettivamente la stessa Costituzione non prevedeva l'abolizione del latino e l'estromissione del gregoriano, essa contiene – dopo affermazioni di principio condivisibili – i famigerati "ma anche" che hanno consentito tutte le eccezioni successive con l'infiltrazione di proposizioni ambigue e teologicamente sospette. Molte le abbiamo individuate e documentate nel nostro indefesso lavoro di anni. Sono queste che permettono di parlare del famoso "contro-spirito del concilio", come lo chiamava mons. Gherardini; cioè dell'innovazione subdola e neppure codificata in senso solenne, ma attraverso la prassi... Ci sono diversi spunti qui.
Non possiamo ignorare che alcune pratiche che la Sacrosanctum Concilium non aveva mai contemplato – e che di fatto influiscono sulla lex credendi –furono permesse nella liturgia, come la Messa versus Populum, la Santa Comunione nella mano, l’eliminazione totale del latino e del canto gregoriano in favore della lingua volgare nonché di canti e inni che non lasciano molto spazio per Dio, e l’estensione, al di là di ogni ragionevole limite, della facoltà di concelebrare la Santa Messa.
Sui molti riferimenti e implicazioni riguardanti la Sacrosanctum concilium, riprendo anche quanto già espresso altrove, colpita dal fatto che da parte di alcuni conservatori si obietti che il Novus Ordo in realtà si sia allontanato dalla SC e, più che del Concilium, esso sia frutto del Consilium. Lo si afferma partendo dal fatto che Paolo VI affidò il lavoro a uno speciale super-comitato ad hoc, il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, i cui progetti raggiunsero il completamento nel Rito riformato e furono da lui approvati diversi anni dopo la conclusione del Concilio. Il rito post-conciliare è un prodotto di quest'ultimo e non del primo. Non è nato da Sacrosanctum Concilium, è nato come rifiuto e ripudio dei principi, scevri delle eccezioniespressi, da Sacrosanctum Concilium. Anche la lettura più superficiale di quel documento rende molto chiaro che il rito post-conciliare è stato creato andando BEN oltre il mandato conciliare e, in alcuni punti, contraddice nettamente la lettera stessa di quel mandato. Questa è la realtà della situazione e, con tutto il rispetto per l'ufficio del papato, il potere delle chiavi che Cristo ha dato a Pietro non è il potere di dichiarare che la realtà è qualcosa di diverso da ciò che è.







Peraltro non possiamo ignorare che la SC oltrepassa la Mediator Dei di Pio XII fin dal primo paragrafo [vedi]; inoltre il n.47 della stessa Costituzione, sulla "natura del sacrosanto mistero eucaristico", passa sotto silenzio sia il fine propiziatorio (espiatorio) del Sacrificio, che il termine transustanziazione, inopinatamente assente dall'intero documento. 









mercoledì 23 ottobre 2024

La crisi della transizione rivoluzionaria globale





Di Guido Vignelli, 21 Ott 2024


Il prefisso trans è stato propagandato dai poteri culturali e mass-mediatici a tutti i livelli, da quello sessuale a quello scientifico e politico, al fine di realizzare un trans-bordo ideologico dalla normalità all’anormalità, dal naturale all’innaturale, dal biologico all’artificiale, insomma dall’ordine al disordine.

In particolare, il prefisso trans viene oggi usato per elaborare parole, slogan e massime che mirano a favorire una transizione globale, di carattere culturale, la quale dovrebbe compiersi mediante una serie di transizioni parziali, da realizzare gradualmente in vari settori cruciali, tutte ritenute non solo come positive, ma anche come necessarie perché inevitabili.

Per fare in modo che l’opinione pubblica accetti in fretta di subire queste transizioni prima che ne capisca la pericolosità, i loro propagandisti le presentano correlate alla sempre efficace scusa di dover risolvere un grave problema dalla cui soluzione dipenderebbe la sopravvivenza del benessere o della pace.

Difatti, ogni transizione è stata giustificata come urgente e necessario intervento per rimediare a una corrispondente emergenza. Così, da anni si succedono, e talvolta anche si accavallano, emergenze ambientali, sanitarie, economiche, energetiche, sociali, politiche, pedagogiche e religiose, per culminare oggi con quella bellica.

Le transizioni parziali in crisi

In una prima fase, l’opinione pubblica ha creduto a queste emergenze e ha accettato di subire le rispettive transizioni, anche compiendo gravi sacrifici, il più grave dei quali è stato non l’aver perso alcune libertà per pretesi motivi di sicurezza, ma l’aver sospeso l’uso del buon senso per obbedire a imposizioni tanto assurde quanto inutili o dannose.

Tuttavia, nonostante le precauzioni prese da intellettuali, mass-media, politici e magistrati, negli ultimi tempi stanno sempre più manifestandosi le contraddizioni e i danni causati dalle transizioni già avviate, anche perché esse non stanno risolvendo le supposte emergenze, ma anzi ne stanno suscitando di nuove, questa volta vere. Tutto ciò sta cambiando notevolmente il panorama occidentale.

Infatti, un’ampia parte dell’opinione pubblica sta passando dalla fiducia alla diffidenza e alla ostilità verso molte di quelle transizioni in corso; anzi, molti ambienti sociali stanno manifestando verso di esse non solo rifiuto ma anche opposizione, tanto che alcuni poteri pubblici hanno già dovuto ricorrere a interventi repressivi per assicurarne l’applicazione.

Le transizioni parziali e le loro crisi


Vediamo ora brevemente, uno alla volta, i molti aspetti concreti di transizione parziale necessari per comporre quella globale.

Transizione culturale. Essa mira a cancellare, ad esempio mediante la censura woke, quelle identità culturali e quelle conquiste di civiltà che presuppongono differenze, diseguaglianze e discriminazioni di ogni tipo.

Transizione pedagogica. Essa mira a realizzare quella culturale, mediante una educazione scolastica e mass-mediatica che indottrini le nuove generazioni.

Transizione politica. Essa mira a ridurre le concrete libertà civili col pretesto di realizzare la massima sicurezza sociale, dirigendo e controllando ogni aspetto della vita quotidiana del cittadino.

Transizione sanitaria. Essa mira a medicalizzare l’intera vita quotidiana del cittadino, ponendolo alla continua dipendenza del sistema sanitario.

Transizione sessuale. Essa mira a imporre una sessualità e una famiglia polimorfa, policentrica e anticoncezionale, favorendo l’omosessualità e la transessualità.

Transizione demografica. Essa mira a ridurre al massimo la natalità delle nazioni occidentali per farle occupare da masse prolifiche immigrate dal Sud o dall’Est, al fine di realizzare un unico popolo neutro e inclusivo mescolando comunità, etnie e razze.

Transizione ecologica. Essa mira a favorire al massimo l’esigenze della “biosfera” sottomettendole quelle della società umana.

Transizione economica. Essa mira a ridurre al massimo la proprietà privata per favorire una “economia circolare” che non lavora ma gioca col virtuale e consuma i beni rimasti, per poi costruire una “società povera per i poveri”.

Transizione produttiva. Essa mira a ridurre al massimo il lavoro reale per ridurre industria, agricoltura e commercio al livello minimo di sopravvivenza.

Transizione energetica. Essa mira a ridurre al massimo i prodotti e i combustibili inquinanti favorendo così una società “a chilometro zero”, ossia senza inutili spostamenti.

Transizione tecnologica. Essa mira a trasformare l’uomo reale in virtuale, ponendolo alle dipendenze del sistema tecnico, nella prospettiva del transumanesimo.

Transizione religiosa. Essa mira a cancellare quelle verità dogmatiche, leggi morali e gerarchie ecclesiali che impediscono la costituzione di un’unica Chiesa “ecumenica”, ossia relativista e neutrale.

Lascio al lettore il compito di fare un facile esercizio: alla luce delle cronache di questi ultimi anni, egli può verificare quanto ciascuna di queste transizioni parziali oggi non sia più accettata come prima, ma anzi sia contestata dalla opinione pubblica più consapevole; questo utile esercizio gli permette di spiegare l’odierna instabilità globale e di suscitare qualche speranza sul futuro.

Un ipotetico “conflitto di classi”


Per spiegare questo interessante fenomeno di crisi, l’arguto Boni Castellane ha proposto (su La Verità del 13-10-2024) un curioso paragone che ricorre ai rapporti tra i tre “stati”, ossia alle tre classi istituzionali (clero, nobiltà a popolo) che anticamente composero la tradizionale società dell’Ancien Régime.

Ossia oggi, per importanza e influenza, il “primo stato” è il clero ideologico, tecnologico, politico e soprattutto mass-mediatico; esso pretende di realizzare ad ogni costo la transizione globale rivoluzionaria, rinnovando così il passato “tradimento dei chierici”. Il “secondo stato” è la nobiltà amministrativa e produttiva; essa tenta di resistere alle transizioni economiche, o almeno di rinviarle più possibile, perché le considera affrettate e anzi dannose alla società. Il “terzo stato” è il popolo lavoratore e consumatore; esso tenta di opporsi a quelle transizioni, perché ha cominciato a pagarne le pesanti conseguenze nella vita quotidiana.

Ovviamente, oggi non può realizzarsi quella storica alleanza tra il clero e la borghesia che, ai tempi della Rivoluzione Francese, prevalse mettendo in minoranza la nobiltà e isolando il Re dal popolo. Tuttavia, secondo Boni Castellane, oggi potrebbe nascere un’alleanza tra la nuova nobiltà produttiva e il nuovo popolo lavoratore, al fine d’isolare e combattere la presuntuosa e parassitaria casta dominante del clero post-moderno.

L’attuale dibattito sui mass-media ci fa capire che la classe dominante teme quest’alleanza tra le due classi insorgenti, anche perché essa potrebbe vincere le due ben note cricche che da tempo manovrano istituzioni e governi occidentali – quella globale operante nell’ONU e quella continentale operante nell’Unione Europea – e metterebbe in pericolo il sopra descritto progetto di transizione globale.

Mossa da questo timore, la classe dominante sta affrettando i tempi per portare a compimento la sua opera, anche a costo di commettere gravi errori. A questo fine, essa sembra disposta a usare ogni mezzo, perfino a imporre alla intera società un nuovo potere, tendenzialmente totalitario, capace non solo di sospendere ma anche abolire le libertà e garanzie politiche, perfino quelle costituzionali.

Si tratta di una nuova transizione: quella dalla democrazia alla cosiddetta democratura (ossia “dittatura democratica”), che la Sinistra falsamente attribuisce alle intenzioni della Destra proprio perché, in realtà, intende realizzarla contro di questa. Si può supporre che anche questa transizione verrà giustificata con una relativa emergenza, che potrebbe assumere le dimensioni e la gravità di una guerra nazionale o internazionale.

Stando così le cose, la questione da porsi rimane la seguente: o la setta rivoluzionaria riuscirà a imporsi prima che la società possa salvarsi dalla rovina; o questa società civile riuscirà a organizzarsi e a impedire al nuovo potere settario d’imporsi con la forza e l’astuzia. Il fausto risultato dipenderà sia dallo spirito di preghiera, di azione e di sacrificio che animerà la pars valentior della popolazione, sia soprattutto dall’aiuto della divina Provvidenza.







Greenpeace alla follia dichiara guerra ai gas intestinali



Greenpeace dichiara guerra al meteorismo animale e auspica così meno allevamenti, meno metano, meno carne e meno allevatori. È il canone della privazione, il minimalismo intellettuale conseguenza inevitabile del massimalismo ideologico.


ideologie

Editoriali 




«Ciao Carmla [sic], se senti la parola metano, a cosa pensi? Beh, se pensi a rutti e flatulenze delle mucche allora sei sulla strada giusta. Non sto scherzando, Carmla: il 31% delle emissioni di metano proviene dal settore zootecnico, ossia principalmente dalla digestione delle mucche e dal letame di mucche, maiali e polli, spesso stipati in allevamenti intensivi. […] Gli animali allevati sono la più grande fonte di metano di origine antropica a livello globale. […] Come l'anidride carbonica, il metano è un gas a effetto serra, cioè riscalda il pianeta ed è 80 volte più forte dell'anidride carbonica su un periodo di 20 anni dall’emissione». Parola di Greenpeace.

Rutti e flatulenze pensavamo che fossero problemi di educazione e, se riferiti alle bestie, problemi inesistenti perché gli animali fanno quello che madre natura comanda loro di fare. E sta qui il corto circuito della lettera aperta degli ambientalisti: un atto naturale di un animale inquina la natura, un comportamento naturale sarebbe contro natura. O forse contro l’idea artefatta della natura elaborata dai verde crociati, dove occorre disciplinare pure i moti intestinali di oves et boves.

Dato che le mucche notoriamente sono poco ambientaliste e soprattutto non ne vogliono sapere di limitare le proprie emissioni ed eiezioni, ecco che i pacificatori in verde se la prendono con gli allevatori. Una manovra che si inserisce nella strategia più ampia volta a cancellare la carne rossa dalle nostre tavole e tra poco anche i fagioli perché gasogeni. Meglio le cavallette perché incapaci di produrre peti.

Dunque abbiamo appreso che il meteorismo animale è letteralmente il nemico numero uno dell’ambientalismo. I gas serra sono nulla se confrontati con i gas intestinali. Il buco dell’ozono è direttamente connesso ad altri orifizi. I ruminanti allora ci faranno piombare in una fornace ardente che nulla ha a che vedere con i Novissimi, ma con i Verdissimi, ossia i proclami apocalittici di fine di un mondo surriscaldato da quadrupedi inclini alla fermentazione gastrica e bipedi che dovrebbero preferire morire di fame che di caldo.

Quindi la soluzione di Greenpeace è semplice: meno allevamenti, meno metano, meno carne, meno allevatori e perciò meno ricchezza perché meno occupazione, meno risparmio perché se un bene scarseggia aumenta di prezzo. È il canone della privazione, la regola della miseria indotta, il disciplinare della sottrazione, il dogma della detrazione. È la decrescita idiota. Il minimalismo intellettuale conseguenza inevitabile del massimalismo ideologico. È l’ipotrofia del pensiero effetto naturale l’ipertrofia della lettura della realtà a senso unico che non permette di vedere i fatti per quello che sono: un grado in più nei mari non rende il merluzzo bollito senza passare dalla pentola.

La lettera di Greenpeace? Flatus vocis. Anzi, una flatulenza.





martedì 22 ottobre 2024

Nell'idolatria del Sé non c'è spazio per le nascite



Nel 2023 sono nati 13mila bambini in meno del 2022. Dietro il dato Istat c'è il solipsismo elevato a status symbol. Che alla fine chiederà il conto: la denatalità di oggi è la solitudine di domani.


Culle vuote

Editoriali 




Un numero che certifica che la vitalità italiana è in regressione, che il nostro punto vita si sta snellendo ma l’estetica non ne guadagna, che il popolo dei bambini è ormai un’etnia in via di estinzione che sopravvive in una riserva indiana. Questo numero è 3,4. L’Istat pubblica la ferale notizia che nel 2023 sono nati in Italia 13mila bambini in meno rispetto al 2022. Il 3,4% in meno.
Ogni anno, alla pubblicazione del report dell’Istat, siamo qui a ripetere la litania dei motivi per cui, prima che le culle, gli uteri delle donne sono vuoti: l’aborto in primis, poi lo scarso valore che riconosciamo ai figli, la notte oscura dei valori umani, la fede ridotta a stoppino fumigante e molti altri.

Ma forse il motivo ultimo è banale. Ci piace stare da soli. Ammettiamolo. Il solipsismo è stato elevato a status symbol e così l’universo misura in altezza, lunghezza e profondità quanto il nostro Io, la propria esistenza è campo minato in cui è vietato a terzi mettere piede ed alti bastioni vengono alzati per proteggere il cuore della vita di ciascuno che prende il nome di privacy.
È l’idolatria del Sé che non può lasciare spazio ad altro da Sé. Una recita questa che non tollera coprotagonisti che potrebbero fare ombra all’attore principale. Figurarsi un cucciolo di uomo che pur non sapendo ancora parlare riesce a mettere in scacco i genitori a suon di pianti e deiezioni ed ad ottenere attenzione, risorse psico-fisiche così elevate che la stanchezza assurge a condizione ontologica di padre e madre e poi tempo, tempo e ancora tempo e tra l’altro proprio quel tempo che, prima dello spuntare di questo nuovo fiore nel giardino di casa, aveva i toni della libertà, della spensieratezza, delle sere passate con gli amici, dello sport. Insomma il tuo tempo migliore, ora è suo. È tutto suo, anche la considerazione della moglie che, elevatasi al rango di madre, presidia questa sua conquista difendendola anche nei confronti del marito che più che padre spesso si sente solo maschio. E dunque è inconcepibile il figlio per coloro i quali sono buchi neri dove anche la luce di una nuova vita viene risucchiata al suo interno.

Per il solipsista radicale e integrale – e un po’ tutti lo siamo – l’altro diviene amico, fidanzato, marito se promette un certo utile. Tutti incasellati in un foglio di calcolo Excel. Tutti in una partita doppia dove le entrate devono superare le uscite. Questa deforma mentis rende sterili nel cuore prima che nelle gonadi. E allora il figlio, così si filosofa, è una perdita esistenziale, un crack finanziario, uno spreco di spazio ed ore, un rischio che nessuna agenzia assicurativa vorrebbe mai coprire, una trappola nascosta nel percorso che porta alla realizzazione personale.

Questo è l’immaginario collettivo che avvelena le coscienze e le fa piccole, micragnose, asfittiche nei propri aneliti. E soprattutto le rende cieche con la menzogna. Perché il figlio – se è vero che non chiede molto, ma tutto – dà anche tutto. Ti regala il titolo di padre e madre, quegli artisti che insieme a Dio hanno chiamato ad esistenza e dal nulla una nuova persona. Un piccolo uomo o una piccola donna la cui preziosità è maggiore di tutto il cosmo creato. E di questa creatura dal valore incommensurabile tu sei il padre e la madre. La tua responsabilità verso di lui è ciò che comprensibilmente ti sfianca, ma anche ciò che ti rende onore. L’esistenza stessa del figlio è la celebrazione per i genitori delle loro virtù che, con il sangue, hanno dovuto acquisire: la pazienza, il consiglio, il discernimento, la giustizia, la mitezza, l’umilità, il perdono, la speranza. Il figlio è l’allenatore esigente che non ti permette di fare sconti a te stesso, che non tollera che si abbassi l’asticella, ma che pretende che venga posta sul punto più alto. Il figlio è l’anello, legato ai successivi anelli, di quella catena generazionale che eterna il tuo nome.

E poi anche sposando l’utilitarismo più estremo non potremmo che sperare in uno tsunami di parti che possa rinverdire il Bel Paese. Meno siamo, più siamo vecchi. È la famigerata immagine della piramide rovesciata, dove pochi giovani dovrebbero sostenere il carico dell’assistenza di un popolo di anziani. Le risorse saranno quelle che saranno e ad ognuno spetteranno solo alcune briciole della torta. E con le briciole non campi o campi male. Meno figli, più badanti.
E ancora: meno figli, più morti perché meno figli significa più anziani abbandonati a se stessi e l’abbandono è l’anticamera dell’obitorio. Quella solitudine, che prima avevamo abbracciato con entusiasmo e che gli invidiosi chiamavano individualismo, anche ora ci abbraccia, ma nascondendo in una mano un coltello ben affilato. Quella solitudine che era una torre di avorio, ora è un carcere. Un carcere dove si esce solo per finire sul patibolo. Allora porre il baricentro esistenziale su di sé, sul proprio nome, farà solo scrivere più velocemente quello stesso nome sulla nostra lapide. Perché è impensabile che il nostro sistema sanitario diventi solo un ospizio. I più deboli saranno lasciati indietro in questa ritirata dalla carità e dalla compassione e così avremo più culle vuote e più bare piene.

Si raccoglierà infine ciò che abbiamo seminato, anzi, ciò che non abbiamo seminato. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo» (Gv 12, 24). Occorre morire a se stessi per far posto all’erede gattonante, altrimenti l’alternativa è la solitudine più spietata. E si sa: anche tra gli animali che vivono in branco, l’esemplare che rimane isolato è più facile vittima dei predatori. E il nostro predatore numero uno è la morte.

Non inganniamoci poi, non pensiamo che riusciremo a bloccare il nostro orologio biologico, che certe misere e fatiscenti esistenze senili non ci toccheranno in sorte, che il pannolino lo abbiamo lasciato parecchi decenni fa e non lo incontreremo mai più sulla nostra strada con il nome di pannolone.
E dunque siamo fieramente egoisti, siamo furbi: mettiamo al mondo una folta progenie che, anche se non è il motivo più nobile al mondo ma di certo nemmeno ignobile, ci permetterà di scampare al nostro personale inverno esistenziale, di non vivere da scarti di macelleria, di sfuggire alla sopravvivenza per vivere appieno seppur centenari, di spirare tra gli abbracci dei parenti e non tra le sponde di un letto di ospedale con accanto soltanto la compagna di tutta una vita: la solitudine.





domenica 20 ottobre 2024

Perché il Crocifisso è archetipo di ogni Bellezza?





20 Ottobre 2024


Molti ritengono che certi crocifissi adornati e con forme non proprio da croci siano del tutto inappropriati. E’ davvero così?

E’ ben conosciuto il Crocifisso di Cimabue (1240-1302), del 1288, una tavola di centimetri 448 x 390 che si trova a Santa Croce a Firenze. E’ riprodotto nella foto. Gesù sembra adagiato sulla Croce. Le stigmate sono ben visibili, ma non colpiscono immediatamente lo sguardo. Colpisce il volto di Gesù, che, dopo aver vissuto gli spasmi della sofferenza, si mostra sereno. Colpiscono anche le immagini che sono agli estremi del patibolum (asse trasversale della Croce), che raffigurano la Vergine e san Giovanni, i due personaggi più importanti che accompagnarono Gesù fino alla morte. Oltre tutto questo, colpisce anche un’altra cosa …e molto di più: la forma della Croce. Ovviamente non ci riferiamo alla forma della Croce come croce, quanto all’eleganza di questa forma: una croce che ha una schematicità e simmetria evidenti. Si tratta di un modo di rappresentare la Croce di Gesù molto diffuso nel medioevo; lo stesso Cimabue lo utilizzò più volte.

Questo modo di rappresentare la Croce di Gesù vuol significare che nella Croce c’è una bellezza dinanzi alla quale nessuno sguardo può rimanere indifferente. Non si tratta di una bellezza che avrebbe la croce in quanto tale, ma la Croce per eccellenza: appunto la Croce del Redentore. In questo caso la bellezza è data dal fatto che la Croce rappresentata è sì una croce, ma non è semplicemente questa. E’ una croce, perché comunque è evidente la forma tipica e inoltre la presenza di Cristo dissolve qualsiasi dubbio, ma non è semplicemente una croce perché ci sono delle forme che ne smussano la durezza e ne abbelliscono la struttura. Insomma, coloro i quali rappresentavano la Croce di Gesù in tal modo (in questo caso Cimabue) volevano dire che la Croce di Cristo è archetipo di bellezza.

“Archetipo” significa “principio”, “modello esemplare”. Dunque la Croce di Cristo è modello esemplare di bellezza. La bellezza si realizza quando il segno (nel caso delle arti figurative) o la parola (nel caso della letteratura) riescono ad esprimere qualcosa che sia soddisfacente per il vivere, quando riescono ad esprimere una domanda, e preferibilmente anche una risposta, capaci di centrare e risolvere la questione del vivere.

Torniamo al Crocifisso di Cimabue del 1288. Ci sono ben tre verità evidenti che esso esprime bene. La prima è Cristo stesso inchiodato sulla Croce. La seconda è la Croce in quanto tale con la sua specifica forma. La terza è l’eleganza della Croce.

La prima (Cristo inchiodato alla Croce) è l’unicità della risposta cristiana alla questione della morte. Secondo il Cristianesimo la morte non è stata creata da Dio ma è entrata nel mondo in conseguenza del peccato originale. Posizione, questa, che non ha l’Islam, che, pur credendo nel peccato originale, afferma che questo peccato avrebbe riguardato solo Adamo ed Eva senza procurare alcuna conseguenza nei discendenti. Dunque la morte esisterebbe perché Dio stesso l’ha voluta. Le religioni orientali (induismo, buddismo…) pretendono, invece, risolvere la questione della morte affermando la sua non-esistenza: dal momento che l’individualità umana è un’illusione e dal momento che la morte è la distruzione dell’individualità, allora anche la morte sarebbe un’illusione. Conclusione che è alquanto ridicola. Il Cristianesimo, invece, da una parte non invita ad amare la morte in sé, perché essa è una conseguenza del peccato e non qualcosa che Dio avrebbe introdotto nella vita umana, dall’altra dà una risposta consolante: l’uomo non è solo dinanzi a questo grande mistero; Dio, incarnandosi, ha fatto esperienza della morte e l’ha sconfitta con la Resurrezione.

La seconda verità del Crocifisso di Cimabue (la Croce e la sua forma) riguarda il come vivere la Verità di Cristo. La croce ha due assi, uno verticale e l’altro orizzontale. L’asse verticale simboleggia il rapporto tra l’uomo e Dio: l’uomo che è chiamato ad elevarsi per incontrare il suo Signore e per farsi giudicare dal suo Signore. L’asse orizzontale, invece, simboleggia il rapporto tra uomo e uomo. L’uomo non può vivere da solo, egli incontra la verità in una dimensione comunitaria, che è la Chiesa. Nello stesso tempo, però, l’asse orizzontale è inchiodato su quello verticale a conferma che non può esistere autentico rapporto comunionale se non nell’individuale riconoscimento di Dio. D’altronde lo dice stesso la parola “fratello”, si può riconoscere l’altro come fratello se prima si riconosce un padre comune.

La terza verità (l’eleganza della Croce) è la dimensione armonica: l’unione delle due verità precedenti danno come esito la bellezza, perché sono due verità che si completano a vicenda e che dicono all’uomo che tutto può essere risolto a condizione che quell’Evento (la Crocifissione) non vada disperso con l’empietà e con il rifiuto della Grazia santificante.

L’eleganza è il segno di una bellezza che attira lo sguardo, ma senza un’eccessiva ricercatezza di elementi decorativi. L’eleganza è la sintesi di tre componenti: la sobrietà, l’austerità e il decoro. Non è né solo sobrietà né solo austerità né solo decoro, ma il giusto “dosaggio” di tutti e tre. La Croce di Cimabue esprime, con eleganza, l’unicità della risposta cristiana.

San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) nel De diligendo Deo afferma a proposito del Sacrificio di Cristo sulla Croce: “La prima volta che ha operato, ha dato me stesso a me stesso, ma la seconda volta mi ha donato sé, e dandomi sé mi ha restituito a me stesso.” Dio, creando l’uomo, ha dato l’uomo all’uomo; offrendosi sulla Croce ha dato all’uomo Se stesso e, dando Se stesso, ha fatto sì che l’uomo fosse restituito all’uomo. La Croce di Cristo è la possibilità di far sì che l’uomo scopra finalmente l’armonia tra la sua vita e il reale. La sofferenza, il dolore e la morte non sono più uno scandalo. O meglio: continuano ad esserlo sul piano dell’esito, nel senso che rimangono conseguenze del peccato originale e quindi non previste e non volute nel progetto originario di Dio, ma non lo sono più sul piano del vivere, nel senso che ad esse c’è una risposta. La Croce di Cristo è il faro che s’intravede tra le nebbie più fitte del vivere. E’ la luce che si può scorgere anche nella notte più buia. Gesù non è venuto a togliere la croce dalla vita dell’uomo, ma a renderla vivibile e capace di produrre frutti inimmaginabili: “Chi vuol seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Matteo 16).

Cesare Pavese (1908-1950) ne Il mestiere di vivere scrive: “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio stato fondamentale ci si accorge che esso combacia col proprio destino e si trova la pace.” Pavese, con grande onestà intellettuale, afferma che non può esservi pace fin quando non si riesce a far “combaciare” il proprio stato, cioè la propria esistenza, con il “proprio destino”. E per “proprio destino” intende la comprensione del proprio essere nel mondo, di accorgersi cioè che c’è un fine per il proprio esistere.

Ebbene, il Crocifisso di Cimabue esprime proprio questo. L’eleganza della forma della Croce, il tenue contrasto dei colori, la perfetta simmetria della figura sono i segni della risposta vera ed insostituibile che la Croce di Cristo offre alla vita dell’uomo. E che quindi il Crocifisso è archetipo della Bellezza.