venerdì 31 marzo 2023

Dieci lunghi anni







CHIESA CATTOLICA | CR 1788

29 Marzo 2023 

di padre Serafino Lanzetta

In questi anni del pontificato di papa Francesco si è prodotta una rivoluzione antropologica dai contorni indefiniti; liquida, come del resto liquida è anche l’apostasia che flagella la Chiesa e la fede dei piccoli. Il cambiamento radicale, o riformismo, inizia con una virata morale di non poco conto, con Amoris laetitia che prova ad allargare le maglie dell’amore. Rivolgendo tutto all’amore (parola più che realtà) si è provocata una re-finalizzazione battezzata come “cambio di paradigma”: non più la legge morale quale via sicura al fine, al bene, al centro dell’agire morale, ma l’amore espressione della misericordia. Quando non c’è più la verità della legge morale che preserva la verità della persona umana da ogni abuso, si sfocia nell’indifferentismo morale e nella giustificazione della pluralità degli amori.

Uno degli effetti più lampanti di questa rivoluzione copernicana è l’ammiccamento alla tesi luterana del peccato al centro dell’essere uomo, difatti sfociata nel più becero clericalismo. Accettare il peccato come inevitabile, rassegnarvisi, per poi scardinare la dottrina morale, è infatti il peggior clericalismo. Ormai non è più necessaria la conversione, ma l’accettazione di sé stessi, accettando il proprio peccato. Si fa dipendere così l’essere dal peccato. In verità, se il peccato non è redento non è neppure redimibile. Cristo è solo un di più inutile. È quel Crocifisso di duemila anni fa con cui Nietzsche voleva che morisse anche la sua morale.

Ma è proprio questo clericalismo contro cui a ragione si scaglia Nietzsche, definendolo “morale dei sacerdoti”, cioè un pretesto moralistico per tenere in pugno le anime dei semplici, costringendole alla rassegnazione a Dio e a Cristo in ragione della coscienza torturante del peccato. A Nietzsche, però, come ai suoi nuovi seguaci, sfuggiva un fatto: il peccato è redento, è sconfitto; al centro del disegno salvifico c’è Cristo e l’uomo nuovo – la vera grandezza dell’uomo è nel poter rinascere – ricreato in Lui mediante il dono della grazia e della carità.

Si è poi tentato un passo successivo. La dialettica “amore versus legge” ha condotto, con un tentativo quasi martellante, come il fatto di essere peccatori, a far posto all’amore omosessuale e alla cultura LGBTQ+, spingendo così la “rivoluzione dell’amore” (o meglio dell’egoismo) fino al ciglio del precipizio. Ormai è evidente che è in gioco non il quanto si può essere pastorali, ma il vero significato attribuito all’essere umano.

Vescovi contro vescovi si azzuffano sul valore immutabile di ciò che Dio ha fatto creando l’uomo. I vescovi americani, in data 20 marzo 2023, approvano un’ottima nota dottrinale per porre il limite morale alle tecnologie che manipolano il corpo umano con mutilazioni volte a cambiare il genere sessuale. Ribadiscono che ciò che Dio ha fatto creando l’uomo è cosa buona e che non si dà mai un “essere nati in un corpo sbagliato”. Corpo e anima sono l’uomo nella sua interezza e entrambi esprimo l’immagine somigliante di Dio. Anche i vescovi scandinavi, in una Lettera pastorale sulla sessualità umana per la Quaresima 2023, ribadiscono la verità non negoziabile del piano naturale del Dio creatore. La Chiesa ascolta tutti ma non baratta la sua dottrina perché c’è di mezzo il vero volto di Dio e perciò la vera dignità dell’uomo da salvaguardare contro le manipolazioni arcobaleno. Contro questi, scendono in campo i vescovi belgi e tedeschi, i quali decidono a maggioranza di benedire le coppie omosessuali e così con la pretesa dell’inclusione e della pastoralità, benedicono l’ideologia omosessualista, scardinando la Rivelazione divina. L’omoeresia sembra ora avere diritto di cittadinanza, accolta, come molti altri errori, sotto il manto misericordioso della pastorale.

Davvero qualcosa di inaudito e senza precedenti. Ormai la battaglia si combatte apertamente nella Chiesa e non su un articolo di fede, quale ad esempio, al tempo dell’arianesimo, il mistero teandrico di Cristo, ma su una questione ancora più fontale, che fa da impalcatura alla fede e che perciò se crolla, crolla inevitabilmente l’edificio della Rivelazione. È in gioco la questione dell’uomo così come creato da Dio e la sua identità di maschio e femmina; il matrimonio quale alleanza naturale e soprannaturale tra l’uomo e la donna, perciò la Chiesa quale mistero sponsale. Se cade la complementarietà tra uomo e donna cade a maggior ragione la significazione tipologico-sponsale di Cristo e della Chiesa, cade il mistero Chiesa, si aboliscono i sacramenti, viene annullata la grazia. E molto altro, con un effetto domino devastante, i cui prodromi sono già in Amoris laetitia. Si tratta di un caso molto serio. Dietro l’apparente misericordia nel benedire ogni tipo di amore, perché in fondo “l’amore è amore”, c’è una menzogna antropologica di un uomo che si vuole fare da sé senza Dio e contro di Lui. Un Eden redivivo, dove il vero maestro in cattedra è il diavolo.

Siamo dinanzi a una rivoluzione che mette mano su ciò che è davvero essenziale, naturale, umano. Ma come tutte le rivoluzioni che si gloriano di questo nome, l’arresto non è mai prevedibile. La nostra è andata ancora più a fondo. Non si arresta all’uomo. Prova poi a sostituire la natura umana, l’uomo creato e redento, con la natura verde, con gli alberi e i ruscelli. La svolta antropocentrica di Gaudium et spes, benedetta da Paolo VI, criticata durante il Concilio da K. Rahner, ma poi promossa e sviluppata proprio da lui nel post-concilio, è ormai solo una reminiscenza arcobaleno di voglie e di istinti benedetti con tanto di acqua santa. Al centro però non c’è più l’uomo, né tantomeno Cristo, ma Madre-Terra. L’ecologismo è la nuova soteriologia, e gli esperti di cambiamenti climatici i suoi profeti. Stupiti, ci si chiede attoniti come si è potuto arrivare a ciò. Cosa non ha funzionato a livello filosofico-teologico perché si postulasse la salvezza del pianeta, condannando il “peccato verde” ma aprendo le porte al peccato vero e alla miseria umana? Cristo non c’è, ma dopotutto non ci sembra neppure così rilevante. È un mezzo per parlare di altro. È un nome per darsi un nome nell’areopago multiculturale e sincretistico di oggi. Dio sembra essere solo un nome per mettere insieme le religioni più diverse. Ma di Dio non c’importa più di tanto.

Cos’è successo? Tra le varie cose che si sono aggrovigliate nel corso di quest’ultimo scorcio di secolo, se vogliamo trovare un punto di partenza, è stato soprattutto un errore di metodo, come scrivevo nel mio ultimo editoriale per Fides Catholica (2 (2022), pp. 5-14). Il metodo pastorale, elevato a principio nel discorso di Giovanni XXIII all’apertura del Vaticano II, ha fatto sì che si rendesse, a lungo andare, prassi la dottrina. L’organo docente, il magistero, fu travasato in quello discente, quando il “Papa buono”, in quel discorso programmatico, invocava un magistero dall’indole più pastorale. Il magistero di prima non era pastorale? O non era stato sufficientemente pastorale? Quale era la misura della vera pastoralità? Nessuno lo sapeva, neppure il papa. Ora siamo di fronte a un problema leggermente diverso, ma una logica conclusione di quell’appello: l’organo docente della Chiesa è diventato discente con il Sinodo sinodale (la tautologia è di fabbrica), mentre quello discente, i fedeli, sempre in virtù dello stesso Sinodo, l’organo docente. Una rivoluzione piramidale, diceva Francesco, in cui la base è al vertice e il vertice capovolto che funge da base. Alcuni fedeli dicono ciò che vogliono, i vescovi apprendono e votano con i fedeli. Pecore di un gregge smarrito che si autoregolano seguendo i dettami del pensiero dominante.

Dopotutto sembra di essere intrappolati in un labirinto autocelebrativo, dove conciliare è sinonimo di sinodale, sinodale sinonimo di Chiesa e Chiesa sinonimo di Concilio Vaticano II. Sì, il problema è da ricondursi all’inizio del Vaticano II, al desiderio di instaurare con la pastoralità conciliare una sorta di dottrina del metodo. Così la dottrina, come sempre concepita, divenne un modo, un metodo soggettivo.

Ci si potrebbe anche chiedere cosa ci si può aspettare subito dopo questa rivoluzione, che ora a ragione è doveroso definire antropo-naturistica, antropologica con risvolti naturistici, di superamento della fissità della natura umana con la flessibilità di forme naturali di vita semplice, vegetale, e con un contatto più intenso con la natura. Cosa aspettarsi? Il nulla. Ma un nulla liquido, anch’esso dai confini indefiniti, incerti, non descrivibili, solo raccontabili. La teologia narrativa è un nuovo approdo della teologia post-metafisica o piuttosto della filosofia religiosa. Forse siamo già in questa fase ma non ce ne accorgiamo. Ci auto-celebriamo. Se c’è però ancora qualcuno che ha a cuore Cristo e la sua Chiesa, la persona umana creata da Dio e il significato dell’essere uomo, faccia qualcosa. Si faccia sentire. L’alternativa è tacere per sempre, ingoiati nei gorghi di un nulla che non appare tale ma che tale è. 


 P.S. Per approfondire questo tema e per scoprire altri temi affini di storia, filosofia e teologia, il lettore può visitare il sito fidescatholica.com e abbonarsi alla nostra rivista teologica.






giovedì 30 marzo 2023

La Francia verso l’Eutanasia. Ma si sceglie comunque sempre la vita






Di Bruno Couillaud, 30 MAR 2023

In Francia Stiamo andando ancora una volta verso una sconfitta legislativa, sociale e morale? I passi avanti verso la legalizzazione dell’eutanasia sembrano provarlo. Tuttavia, è pur sempre possibile convincere i nostri concittadini del vicolo cieco che rappresenta la morte apparentemente “scelta”. Poggiandosi sia sull’antica saggezza che sulle cure palliative e, soprattutto, sulla certezza della Resurrezione, i cattolici hanno più che mai una missione essenziale da compiere.

Nel mio pensiero non c’è né disfattismo, né la volontà di scoraggiare tutti coloro che tengono il punto, ma pare proprio che – salvo miracoli – sia molto poco probabile una vittoria in Parlamento per impedire una legge che autorizza l’eutanasia e il suicidio assistito. L’Assemblea dei cittadini sul ‘fine vita’[1] è uno stratagemma che mira a rendere questa legge ineluttabile e, nel contempo, a ufficializzare l’opinione dominante dandole una falsa legittimità democratica. Ci si chiede, quale legittimità si può riconoscere a dei cittadini estratti a sorte?

Siccome in cinque occasioni[2] abbiamo già denunciato i sofismi messi in opera da decenni per ingannare l’opinione pubblica e ne abbiamo analizzato le forme logiche, oggi tentiamo di ampliare la questione andando questa volta al fondo: la natura del problema è la vita e la sua fine visibile, la morte. Se non si può convincere l’opinione pubblica con la sola battaglia di idee, non si potrebbe farlo in un altro modo?

Diciamo anzitutto che la logica implicita dei sostenitori dell’eutanasia è quella del controllo sulla propria morte in nome della libertà. E qui siamo di fronte a una falsa finestra disegnata sull’orizzonte della nostra esistenza: la scelta della morte sarebbe un’opzione equivalente a quella della scelta di vivere. Quando il bene clamorosamente indiscutibile che rappresenta il dono della vita non può essere messo a confronto con il male oscuro che rappresenta la morte.

In sovrappiù, ciò che si sceglie è di conservare la propria vita, eventualmente difenderla, condurla a un lieto fine, ma la vita stessa è un dono gratuito che va al di là di noi stessi, che si riceve senza sceglierlo. La morte fisica, del corpo, quella che si sperimenta negli altri e che si teme per se stessi è, a suo modo, anche una necessità ineluttabile. Da questo punto di vista, pur se si fanno scelte nella vita, se si accetta di morire, né la vita né la morte sono oggetto di scelta, questo è un primo punto.

Si presumerà allora che si può scegliere la “propria” morte? Sarebbe appannaggio dell’uomo di affermarsi così nella propria dignità: a ciò mira la pretesa scelta del suicidio. Qui ci sono due contraddizioni. In che modo l’affermazione di sé potrebbe optare per la propria sparizione? Assurdità, questa, che rinvia la scelta del suicidio al rango d’illusione, a meno di non essere nichilisti. C’è di più: una contraddizione con l’intuizione naturale più comune, evidente per tutti, di ciò che è un uomo: un essere esistente; ora, tutto ciò che esiste continua ad esistere finché la sua natura glielo permette. Infatti, tutte le culture hanno riconosciuto quest’obbligo primario attribuito all’uomo di conservare la propria esistenza, ciò che più tardi è stato chiamato il primo precetto della legge naturale. Non si può ignorarlo senza quindi perdere la propria natura di essere morale.

È evidente, scegliere la morte in nome della libertà porta a vicoli ciechi.

Pur tuttavia, la morte è un enigma della condizione umana. È il contrario del desiderio più profondo di vivere e «tormenta l’uomo (…) col timore di una distruzione definitiva»[3]. La filosofia ha cercato delle risposte. Per gli Antichi, l’acquisizione della saggezza consisteva nell’imparare a morire (Platone), nell’acquisire il coraggio di far fronte alla morte (Aristotele) o nell’imparare a non temerla (gli stoici). Ma di fronte a questo enigma, la ragione non è sola. Davanti al mistero, prevale la fede perché l’uomo è, per sua natura, un essere religioso. Fa l’esperienza della propria esistenza e della propria natura in quanto mortali, ma anela a un al di là della morte, in migliaia di forme diverse. La morte non è la fine. «La morte non esiste, neanche un istante; ci sono solo due vite», diceva l’abate Huvelin, confessore di San Charles de Foucauld. Bisogna assolutizzare a tal punto la vita terrena e le soddisfazioni di una felicità solo percepibile, per scegliere la morte? Essa diventa in questo caso un atto disperato, quando la felicità, dal punto di vista del semplice edonismo, non appare più possibile. D’altra parte, con «…l’”occultamento della morte”, le società, organizzate sul criterio della ricerca del benessere materiale, sentono la morte come un non senso e, nell’intento di cancellarne l’interrogativo, ne propongono a volte l’anticipazione indolore»[4].

La religione cristiana, in modo molto originale, sostiene la speranza dell’uomo di fronte alla morte, attraverso il suo insegnamento e la sua pratica. È in questo senso che la Chiesa è un passo avanti sulla questione dell’eutanasia, se così si può dire. Deve pure prendere alla lettera Emmanuel Macron e rispondere all’augurio che ha formulato nei suoi confronti in un discorso presso il Collège des Bernardins[5]; la Francia «si aspetta molto precisamente, se permettete, che le facciate tre doni: il dono della vostra saggezza, il dono del vostro impegno e il dono della vostra libertà».

Il dono della saggezza della nostra fede ci insegna che «… a partire da Abramo … la benedizione divina penetra la storia degli uomini, che andava verso la morte, per farla ritornare alla vita…»[6]… che Dio aveva destinato l’uomo a non morire… che la morte era contraria al suo disegno creatore… che l’uomo sarebbe stato preservato dalla morte fisica se non avesse peccato… e, soprattutto, ciò che è al centro del messaggio della salvezza, che Cristo, morendo, ha distrutto la nostra morte e che, resuscitando, ha ristabilito la vita. Cioè, passando dalla morte, Cristo, il nuovo Adamo, ne ha distrutto il regno sul mondo. In altre parole, la prima risposta all’eutanasia consiste nell’annunciare il mistero cristiano e viverlo a fondo. Come dice San Paolo: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini»[7].

Il dono del nostro impegno, ecco la risposta all’eutanasia: promuovere le cure dette “palliative”, integrarle nei servizi ospedalieri, formarne i giovani medici, associarvi volontari e associazioni; rafforzare la ricerca: analgesici, fasi terminali, terapie di supporto; favorire l’accompagnamento ospedaliero dei malati da parte dei medici, del personale, delle famiglie, dei conoscenti, affinché diminuiscano le “richieste” di eutanasia, ecc.[8].

Il dono della nostra libertà, per parlare ed agire, a tempo e contrattempo. «…non basta contrastare nell’opinione pubblica e nei Parlamenti questa tendenza di morte, ma bisogna anche impegnare la società e le strutture stesse della Chiesa in una degna assistenza al morente.»[9], ha ribadito Giovanni Paolo II.

Tre doni. Senza esitare. Che ognuno «accenda una lampada (invece di) maledire l’oscurità»[10].

Bruno Couillaud

[traduzione di Orietta Tunesi dell’articolo pubblica su L’HOMME NOUVEAU – 11 marzo 2023].


[1]Finora il 75% dei 183 cittadini di questa assemblea si è pronunciato per l’apertura alla possibilità legale di “aiuto attivo a morire”, quindi chiaramente per la legalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia.

[2] Dal 2018, vedasi l’HN nn. 1670 (suicidio assistito), 1690 (alimentazione-cura), 1735 (“aiuto attivo a morire”), 1745 (morire “degnamente”), 1755 (scegliere la propria morte).

[3] Gaudium et Spes, n. 18.

[4] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all’assemblea generale della pontificia Accademia per la vita, 27 febbraio 1999.

[5] 9 aprile 2018.

[6] Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1080.

[7] I Co 15, 19.

[8] Elenco dettagliato di tutte queste azioni concrete nel mio libro Manières de penser, pagg. 61-62.

[9] Giovanni Paolo II, ibid.

[10] Titolo di un libro di Marie-Hélène Mathieu, fondatrice dell’OCH (Office chrétien des Personnes handicapées).






Il Buon Ladrone: il primo a entrare nel Regno e tra gli ultimi ad essere invocato





Postato il 28/03/2023 di Investigatore Biblico

“San Disma, il primo a entrare nel Regno e tra gli ultimi ad essere invocato: una mia personale riflessione sul personaggio del Buon Ladrone” 


di INVESTIGATORE BIBLICO


Carissimi lettori,

quest’oggi mi trovavo a riflettere su un passo del Vangelo e su un personaggio che tutti conosciamo.

Sono scaturite in me alcune domande e mi sono reso conto che questo personaggio ha una grande importanza sotto diversi punti di vista. Peccato che sia un personaggio non preso in considerazione come si dovrebbe.



Avete mai sentito parlare di San Disma? Forse non lo conoscete sotto questo nome.

Lo abbiamo sempre sentito nominare con l’appellativo di “Buon Ladrone”, il quale subì la medesima condanna di Gesù.

San Dismas, il Buon Ladrone (santiebeati.it)

La cosa incredibile è, in effetti, quello che accadde quel giorno sulle croci: una Grazia senza precedenti e un segno di Misericordia inconcepibile per la legge e la mentalità del tempo.

Un delinquente, un criminale. E, diciamolo – perché il Vangelo non ce lo racconta -, chissà cosa aveva combinato. Di certo non era stato condannato alla croce per aver rubato una mela.



Quindi, amici, altro che “buon”, abbinato a un termine che oggi fa quasi ridere, “ladrone”.

Potremmo chiamarlo camorrista, stupratore, mafioso, assassino, truffatore, ingannatore, ladro, eccetera. Tutto quello che possiamo immaginare di peggio, appiccichiamolo al personaggio.

Il Vangelo in greco usa il seguente termine, correttamente tradotto da CEI (sia 1974 che 2008) con il termine malfattore:

κακοῦργος [-ον] aggettivo

1 che fa male, ribaldo, malvagio, scellerato, maligno

2 (di cose) malefico, pernicioso, dannoso

3 sostantivo maschile: malfattore, delinquente, ingannatore

Dunque, facendo viaggiare l’immaginazione, posso pensare che il malfattore avesse sentito parlare di Gesù in precedenza (non lo sappiamo di per certo), chissà, magari, ne era rimasto incuriosito, ma in quel momento specifico il suo cuore si apre e riconosce in Gesù la verità: Egli è Dio. Per questo lo implorerà di ricordarsi di lui una volta entrato nel Regno. Perché ormai il malfattore è un credente.


Questo Santo, invocato pochissimo, è forse il più originale e garantito.


E’, infatti, Gesù Cristo – in persona – a canonizzarlo.

Come spesso accade, Dio sceglie i peggiori e reietti, per farne qualcosa di impossibile.

Il personaggio meno probabile – un criminale pentito – è in effetti il primo Santo del Paradiso.

Non entriamo in polemiche correlate ai processi di Beatificazione, di cui, ahimè, sono stati testimoniati alcuni processi di dubbia chiarezza, correlati da ingenti somme di denaro, per cui è stato scritto che bisogna “aggiungere tutto ciò che riguarda le ricerche, l’elaborazione delle “positio”, il lavoro del postulatore e di altri esperti e ricercatori eventualmente coinvolti, la stampa dei volumi, gli allestimenti per la cerimonia. Ed è qui che il costo di una causa per la santità può lievitare in modo impressionante fino a raggiungere la cifra complessiva record di 750mila, come nel caso del processo che ha portato alla beatificazione, nel 2007, di Antonio Rosmini”.

Ma di certo non è mio intento disquisire di ciò che viene evidenziato nell’articolo di cui sopra.

Torno, con enfasi, a San Disma, canonizzato seduta stante da Nostro Signore, e di cui non possiamo mettere in dubbio nulla.

Perché è Santo?

Riflettendo attentamente, il nostro malfattore pentito ha compiuto un atto di fede enorme, che gli è valso il perdono di tutti i peccati, e l’ingresso immediato in Paradiso.

Disma ha riconosciuto in Gesù Crocifisso (condannato alla sua stessa pena) Dio in Persona.

Infatti, implora il Signore, dicendo: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel Tuo Regno” (Lc 23,42).

Come accennavo prima, molto presumibilmente non era la prima volta che sentiva parlare di Lui, chissà, forse, lo avrà anche ascoltato in una predicazione. Ma, agli atti, vista la condanna, la sua vita era rimasta la stessa: non era ancora cambiato.

Condannato alla crocifissione, pertanto, per essere dedito al crimine: omicidi, scorribande, alcool, truffe, frequentazioni notturne, eccetera, secondo la legge del tempo.

Ma quest’uomo ha avuto una fede che sposta le montagne.



Gesù, di fronte a quest’atto di fede, risponde: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel Paradiso” (Lc 23,43), facendone un Santo e accogliendolo nel Regno prima di tutti gli altri.

Di certo emerge una virtù sul finire della sua vita: l’umiltà. Chiedere perdono a Gesù dei suoi innumerevoli peccati, con il cuore, senza “sconti di pena”, considerando che morire in croce non è una passeggiata.

Don Paolo Ciccotti scrive in un articolo sulla Nuova Bussola: “L’insegnamento è chiaro: non si può parlare di misericordia senza lotta al peccato, senza pentimento e conversione. Spesso oggi la misericordia viene invece utilizzata come pretesto per dichiarare il peccato inesistente o al più normalizzato. Capita di frequente di sentir dire “che vuoi, siamo umani!”, come a voler giustificare ciò che invece deve essere smascherato e sradicato perché ci divide da Dio e, dividendoci da Dio, ci divide da noi stessi e dagli altri. Si finisce così di parlare di misericordia a senso unico, senza cioè parlare del pentimento, senza il riconoscimento del nostro peccato, svuotandola così di significato”



Questo Santo, seppur nei pochi istanti finali della sua vita, ha lottato contro il suo peccato e ha compiuto un meraviglioso atto di fede.

Un Santo poco invocato, come dicevo.

Navigando in rete sono reperibili alcune preghiere e invocazioni.

Tuttavia, concedetemelo, ne ho elaborata una mia personale, che voglio condividere con voi, amati lettori.

Usando il Rosario, ho pregato spontaneamente in questo modo:




All’inizio Segno della Croce.

Sui grani grossi Pater, Ave e Gloria.

Sui grani piccoli il versetto del Vangelo: “Gesù ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno…In verità ti dico: oggi sarai con me nel Paradiso”.

In chiusura il Salve Regina.

Naturalmente non ha un imprimatur ecclesiastico.

Ma è Parola di Dio, essendo versetti presi della Bibbia.

Spero vi possa essere di aiuto come lo è stato per me in questi giorni, per la vostra anima e per tutte le vostre necessità.

Investigatore Biblico




mercoledì 29 marzo 2023

Laicità o avversione al cristianesimo?





28 marzo 202

Sorprende che i sostenitori di una malintesa laicità, portino avanti con tanto zelo la battaglia per eliminare il crocefisso dalle aule scolastiche (o il presepe nel periodo natalizio), salvo poi ritenere normale che apposite aule vengano date agli islamici per esigenze di culto. Viene naturale dubitare ed essere indotti a pensare che dietro all'ideale di laicità, il più delle volte, si nasconda solo un'avversione verso il cristianesimo. (Flavio Rozza su FB)


L'Europa che dà di matto per una croce al collo si metterà la mezzaluna. A una giornalista televisiva impediscono di presentare col crocifisso. Succede ovunque. I simboli islamici intanto dilagano e finiremo come il Libano, dove da ieri ci sono due fusi orari per consentire ai musulmani un regolare Ramadan (che il Vaticano ha appena detto "è importante anche per i cristiani"). O sono pazzi o sono in malafede. In ogni caso, questo flaccido multiculturalismo è il nostro harakiri... (vedi).


Basta. Questa non è la chiesa di Gesù. O ci inginocchiamo a Gesù e adoriamo solo lui, perché vero uomo e vero Dio figlio del Dio Altissimo morto e risorto per noi per la nostra salvezza caricandosi tutti i nostri peccati oppure se ascoltiamo il mondo... non ci siamo, siamo fuori rotta ma fuori di molto.







martedì 28 marzo 2023

Il pericolo di una Chiesa sinodale. Prefazione al libro di Bux e Vignelli







Di Stefano Fontana, 28 MAR 2023

Pubblichiamo per gentile concessione dell’Editore la Prefazione di Stefano Fontana al libro di Nicola Bux e Guido Vignelli “La Chiesa sinodale. Malintesi e pericoli di un grande reset ecclesiastico”, uscito in questi giorni per le Edizioni Fede & Cultura [QUI].

Le profonde inquietudini che attraversano la Chiesa cattolica trovano un punto di coagulo nel nuovo concetto di “sinodalità” e nel (nei) percorso sinodale (percorsi sinodali) in corso. Gli Autori di questo libro mettono a fuoco non uno dei tanti motivi di apprensione e incertezza della Chiesa di oggi, ma uno dei principali, se non il principale, perché in grado di lasciare lunghi strascichi nel futuro e incidere su aspetti sostanziali e non solo accidentali della realtà e della vita della Chiesa cattolica. Il sinodo in corso – è stato detto da autorevoli fonti vaticane – non è un evento ma un processo, e si sa che i processi possono compiere danni maggiori dei semplici eventi. Questo libro non è un Instant book, non intende collegarsi ad un evento di cronaca che domani potrebbe essere superato, intende, invece, andare a fondo, mettere seriamente in guardia e fornire spunti per una corretta visione cattolica dei tanti problemi collegati a questa preoccupante fase sinodale.

Quando si parla di sinodalità oggi viene prima di tutto alla mente il Sinodale Weg della Chiesa di Germania, così dirompente nelle sue conclusioni da meritare, senza incertezze, la valutazione di apostasia, più che di scisma, come invece si tende a dire. Lo scisma riguarda la posizione di chi, pur continuando a dirsi cattolico, si svincola dalla sottomissione al papa. In questo caso, però, la posizione del papa non è espressa in modo chiaro e finora non sono arrivate dal supremo magistero né precisazioni né condanne rispetto alle affermazioni del sinodo tedesco. L’apostasia, invece, è il ripudio della fede cattolica, ed è proprio questo che sta avvenendo in Germania. Il libro che qui presentiamo fornisce criteri di grande importanza per valutare gli inquietanti avvenimenti tedeschi, ma non sarebbe corretto limitare il suo significato solo a questo. Il processo sinodale in atto nella Chiesa cattolica, guidato da una nuova visione della sinodalità, è più ampio del Sinodale Weg germanico e i pericoli non vengono solo da Oltralpe bensì anche dal sinodo sulla sinodalità indetto da Francesco e che, dopo la decisione di prolungarlo di un altro anno rispetto alla scansione biennale originariamente prevista, sta quasi diventando un “sinodo permanente”.

Non intendo con ciò dire che il sinodo tedesco abbia un carattere limitato, tutt’altro. Sappiamo bene come in esso si stia sperimentando una iniziativa destinata, fin dalla sua programmazione, ad influire su tutta la Chiesa. Ciò per due motivi: per la ricchezza economica della Chiesa tedesca che le permette di condizionare con i suoi aiuti tante altre Chiese nazionali, e poi per la tradizione teologica progressista che in Germania ha sempre avuto il suo centro principale. Il sinodo tedesco ha una importanza che oltrepassa la Germania anche per un altro motivo: non è chiaro se esso sia nato da una iniziativa autonoma dei vescovi e delle organizzazioni del laicato cattolico di Germania (che, come si sa, sono costituite in grande parte da “impiegati” della Chiesa stessa) o se la sua organizzazione sia stata in qualche modo concordata con Roma. Ci sono buoni motivi per pensare che il sinodo tedesco sia stato concordato come battistrada, come apripista, come esperimento per il sinodo indetto direttamente dal papa.

Quest’ultimo, in ogni caso, è più importante di quello tedesco e se le preoccupazioni sono suscitate soprattutto da quello, l’attenzione principale deve calarsi su questo, dal quale potranno venire innovazioni forse meno dirompenti ma certamente più durature. Questo libro non va quindi letto solo come una risposta alle provocazioni che giungono dalla Germania.

A proposito della sinodalità nella Chiesa c’è da chiedersi se, prima della istituzione da parte di Paolo VI, del Sinodo dei Vescovi, essa non fosse mai stata sinodale. La domanda è importante perché anche a proposito di sinodalità si tende a pensare che il Vaticano II abbia rappresentato una radicale innovazione nel senso di un doveroso aggiornamento. Quando Pio IX scriveva a tutti i vescovi del mondo per chiedere il loro parere in vista della proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione di Maria, o quando lo stesso faceva Pio XII per il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima al Cielo, non si trattava di esempi vivi di sinodalità? Il laicato cattolico del XIX e della prima metà del XX secolo non era maggiormente in grado di “camminare insieme” che non il laicato cattolico della nostra epoca, diviso in tanti rivoli litigiosi tra loro? La sinodalità è un camminare insieme nella verità. Non si tratta tanto di discutere insieme, di accedere tutti al microfono in modo egualitario senza più distinzione tra Chiesa docente e Chiesa discente, di convenire in grandi assemblee dall’esito precostituito, come è stato nei recenti sinodi, a cominciare da quelli sulla famiglia degli anni 2014-2015, e nemmeno si tratta di decidere insieme indipendentemente da cosa si decide. In un tempo ecclesiale come il nostro, in cui la verità è resa incerta e la fede è intesa come dubbio e domanda, c’è meno sinodalità che non in altre fasi nelle quali la verità era sicura e stabile e la fede era vista come uno “stare”, un “permanere”. Ora, questa carenza di sinodalità, da considerare come la conseguenza dell’emergenza delle varie opinioni teologiche sulle stabili verità della fede nella rivelazione, non può esser colmata da un maggior attivismo esteriore, dal moltiplicarsi degli incontri di discussione, dal chiasso delle dichiarazioni strampalate e forzatamente rivoluzionarie, subito riprese dai media di regime, ecclesiali e non. Il caso, fatte le debite differenze, è simile a quello della activa participatio durante la Santa Messa. Il chiasso conseguente all’attivismo forzato dei fedeli, l’andirivieni sull’altare, la fantasmagoria dei gesti e delle didascalie non hanno compensato la vera partecipazione spirituale tanto viva in precedenza quanto ingiustamente vituperata in seguito.

Il nuovo concetto di sinodalità parte da fondamenti che gli autori di questo libro analizzano in profondità. Il “camminare insieme” sinodale è visto oggi come il fondamento, mentre è invece la conseguenza. La teologia di oggi vuole essere più una teologia del “come” piuttosto che una teologia del “cosa”. Il contenuto della verità di fede viene dopo, o almeno è da considerarsi paritetico, rispetto alla disposizione pastorale di chi la professa. La verità vale per metà per il suo contenuto noetico e metà per come la si dice e la si propone. Quando la proporzione non venga addirittura squilibrata e il come finisca per prevalere nettamente sul cosa. A fare la verità – si ritiene oggi – non è solo la verità, ma anche la sua risonanza nelle coscienze. Non è difficile cogliere elementi protestanti e modernisti in questa visione delle cose. La sinodalità, allora, vale di per sé già come “evento” del con-venire insieme, prima ancora di cosa essa dirà sul piano dottrinale, disciplinare o pastorale. E a questo convenire si conferisce la ricchezza di essere mosso dallo Spirito, semplicemente come fatto ed evento storico. Quando si parla di sinodalità, infatti, si invita ad aprirsi al nuovo, a non opporsi al soffio dello Spirito, a non arroccarsi nella difesa del passato, a non legarsi alla tradizione come se fosse una coperta protetta dalla naftalina, a non irrigidirsi sulla dottrina. Ma la sinodalità sta o cade con la verità che professa e le affermazioni di questa nuova retorica sinodalista denotano facilmente una prospettiva storicistica ed esistenzialistica, che del resto è diventata propria di gran parte della teologia cattolica maggiormente accreditata dall’attuale magistero ecclesiastico ed egemonicamente presente nelle istituzioni accademiche cattoliche. Dopo la “svolta antropologica” quale altra visione di sinodalità poteva essere conseguentemente elaborata? Una sinodalità di parte e poco sinodale.

Questa nuova sinodalità era già presente da decenni nelle menti e negli auspici dei teologi del progressismo cattolico e di molti cardinali e vescovi che della nuova teologia erano stati o i protagonisti o i discepoli. La sinodalità come espressione della Chiesa in uscita c’era già in Padre Chenu, come interpretazione dei segni dei tempi c’era già in Congar, come centro di una ristrutturazione della Chiesa come compito e come chance c’era già nel Rahner dei primi anni Settanta del secolo scorso, come occasione per superare il ritardo della Chiesa rispetto al mondo c’era già nel cardinale Martini e nei propositi della cosiddetta “Mafia di San Gallo”. Durante gli episcopati di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la nuova sinodalità fu contenuta, tanto è vero che le conclusioni dei Padri sinodali dovevano essere messe nelle mani del papa che pubblicava poi la relativa Esortazione apostolica post-sinodale. Con Francesco il quadro cambia. La corrente teologica di cui sopra ho fatto qualche nome si è congiunta con i vertici ecclesiali e la nuova sinodalità sta diventando la sinodalità della Chiesa in quanto tale. Questo è il pericolo maggiore, più preoccupante anche delle provocazioni, certamente più pirotecniche ma anche meno durature, del Sinodale Weg tedesco. Il sinodo come era stato da Paolo VI a Benedetto XVI non basta più. La nuova sinodalità ha bisogno di un nuovo sinodo. Il sinodo sulla sinodalità va alla ricerca di una sinodalità che trasformi il sinodo stesso. Infatti, in occasione del sinodo sulla famiglia, “madre” di tutti i sinodi di nuova generazione, Francesco non solo ha voluto che anche proposizioni bocciate dai Padri fossero presenti nella dichiarazione finale, ma egli stesso nell’Esortazione Amoris laetitia si è fatto eco dei lavori sinodali, dicendo esplicitamente che non intendeva riformularli ma solo presentarli. La cosa va correttamente letta, perché densa di conseguenze. Quel sinodo, come del resto i successivi, compreso il sinodo sulla sinodalità attualmente in corso, sono stati preconfezionati dal centro e la sua conduzione è stata rigidamente governata, poi però il Pontefice ha rinunciato a riformulare in proprio le conclusioni, finendo per porsi allo stesso livello del sinodo o, se si vuole, evitando di porsi al di sopra del sinodo. Ciò ha fatto dire a qualcuno che di Esortazioni apostoliche postsinodali non ne verranno più scritte. L’idea di un sinodo che si ponga allo stesso livello del papa è antica e la teologia modernista l’ha sempre fatta propria. L’idea rimane quella di un sinodo non solo consultivo ma decisionale che si ponga a fianco dal papa come sinodo permanente per il governo della Chiesa universale. Durante il Vaticano II le consimili spinte conciliariste sono state bloccate. Ora tocca a quelle sinodali. La recente decisione di Francesco di prolungare il sinodo attualmente in corso di un altro anno, intendendolo non come un evento che si apre e si chiude in un certo tempo, ma come un processo, si colloca in questa direzione.

Infine, dato che la linea espressa fin dalla Evangelii gaudium è di conferire alle conferenze episcopali, in contrasto con ciò che queste hanno sempre rappresentato ossia una struttura ecclesiale amministrativa priva di fondamento teologico, un certo potere di definizione dottrinale, si moltiplicheranno anche i sinodi “locali”, oltre al sinodo universale, e questo metterà a durissima prova la struttura della Chiesa così come finora ci è stato donato di conoscerla.

Per la gravità di questo contesto e per tutti questi motivi, sia benvenuto questo libro.

Stefano Fontana





La Messa proibita: una campagna per la tradizione a Roma





28 marzo 2023 

Comunicato riguardante la campagna iniziata oggi 28 marzo 2023, che alcuni fedeli hanno organizzato a Roma, con dei manifesti in Italiano e Inglese in cui vengono riportate frasi elogiative sulla Messa tradizionale di San Pio V, San Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI.



Aurelio Porfiri


Uno degli elementi per cui il Pontificato di papa Francesco sarà ricordato sarà sicuramente per le sue misure molto severe verso coloro che trovano nella Messa celebrata con il Messale del 1962 un modo più degno di dare gloria a Dio, rispetto alla nuova Messa. Queste misure ad alcuni, anche nel campo progressista, sembrano sproporzionate rispetto a problemi enormi che la Chiesa deve affrontare, come le sfide di una cultura che non solo non è più Cristiana, ma che è sempre più anti Cristiana. Eppure sembra che il problema vero della Chiesa siamo i tradizionalisti.





Io penso che il recente intervento del card. Arthur Roche sulla necessità di limitare la celebrazione di quella Messa perché ora c’è una teologia diversa [vedi] sia stato, dopotutto, chiarificatore. Finalmente si delineano le vere posizioni, senza i compromessi a volte sterili del passato. Viene detto chiaramente che la Chiesa oggi è altro rispetto al suo passato, che ci piaccia o no. Se qualcuno pensa che la Chiesa deve essere una continuità nella sua tradizione, piuttosto che una rottura con essa, ovviamente ora si trova in grande difficoltà perché, al contrario di quello che ci è stato detto negli ultimi decenni sulla continuità fra le varie forme del rito romano, ci si rende conto di quale distanza abissale si è creata tra la Messa tradizionale e quella di Paolo VI. Una distanza che si è oramai cristallizzata e che è molto difficile colmare.


Molto spesso, per il modo in cui è celebrata, la Messa di Paolo VI non sembra essere un’altra forma del rito romano, ma sembra quasi appartenere ad un’altra confessione Cristiana. Mi è capitato di recente di parlare con un noto ed anziano liturgista, certamente non tradizionalista. Parlavamo di alcuni protagonisti della riforma liturgica che lui descriveva con grande ammirazione. Io gli ho domandato se questi protagonisti sarebbero felici di come la riforma è stata portata avanti e lui con molta decisione mi ha detto che questo non è assolutamente quello che si pensava allora.
Ma i fedeli che devono fare in una situazione così difficile? Alcuni cercano dei modi per far percepire il proprio disagio. Ecco il senso di una campagna iniziata oggi 28 marzo 2023 che alcuni fedeli hanno organizzato a Roma, con dei manifesti in Italiano e Inglese in cui vengono riportate frasi elogiative sulla Messa tradizionale di san Pio V, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. I fedeli che hanno organizzato questa iniziativa appartengono ad alcune realtà ben conosciute del mondo cattolico tradizionalista, come quelle dei gruppi che si richiamano al Summorum Pontificum o quella del blog messainlatino tra le altre.
Un primo desiderio era, comprensibilmente, di affiggere i manifesti in zona Vaticano, ma questo sembra non essere stato possibile. Quindi si è deciso per la zona Prati, che è limitrofa al Vaticano e quindi con la speranza che chi deve vedere, possa riflettere sul fatto che questo ostracismo verso il rito con cui migliaia di uomini e donne si sono fatti santi non ha ragione di essere.
Ma io credo che anche loro sanno che è come andare contro i mulini a vento ma c’è chi sceglie di lasciarsi morire e chi invece vuole morire lottando. E noi sappiamo che se la Messa tradizionale viene da Dio, come tutti pensiamo, Dio scenderà in battaglia insieme a coloro che ne difendono gli irrinunciabili diritti, tra cui quello di un culto degno, santo e devoto. 

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COMUNICATO STAMPA



Da questa mattina, per 15 giorni, nei pressi del Vaticano resteranno affisse alcune decine di manifesti dedicati alla Liturgia tradizionale.
Un comitato di promotori, che partecipano a titolo personale pur provenendo da diverse realtà cattoliche (come i blog Messainlatino e Campari & de Maistre, e le associazioni Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum e Ass. San Michele Arcangelo), ha voluto rendere pubblico il profondo attaccamento alla Messa tradizionale proprio quando ne sembra programmata l’estinzione: per amore del Papa, affinché sia paternamente aperto alla comprensione di quelle periferie liturgiche che da qualche mese non si sentono più ben accette nella Chiesa, perché trovano nella liturgia tradizionale la piena e compiuta espressione della fede cattolica tutta intera.
«Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (Benedetto XVI). La crescente ostilità nei confronti della liturgia tradizionale non trova giustificazione né sul piano teologico, né su quello pastorale. Le comunità che celebrano secondo il Messale del 1962 non sono ribelli alla Chiesa; al contrario, benedette da una costante crescita di fedeli e di vocazioni sacerdotali, costituiscono un esempio di salda perseveranza nella fede e nell’unità cattoliche, in un mondo sempre più insensibile al Vangelo, e in un tessuto ecclesiale sempre più cedevole a pulsioni disgregatrici.
Per questo, l’atteggiamento di rifiuto con cui i loro stessi pastori sono oggi costretti a trattarle, non è solo motivo di acerbo dolore, che questi fedeli si sforzano di offrire per la purificazione della Chiesa, ma costituisce anche una grave ingiustizia, davanti alla quale la carità stessa impone di non tacere: «un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla» (S. Gregorio Magno).
Nella Chiesa dei nostri giorni, in cui l’ascolto, l’accoglienza e l’inclusione ispirano ogni azione pastorale, e si vuol costruire la comunione ecclesiale “con metodo sinodale”, questo popolo di fedeli comuni, di giovani famiglie, di ferventi sacerdoti, ha la fiduciosa speranza che la sua voce non venga soffocata, ma accolta, ascoltata e tenuta nella giusta considerazione. Chi va alla “Messa in latino” non è un fedele di serie B, né un deviante da rieducare o una zavorra di cui liberarsi.
Il Comitato promotore(Toni Brandi, Luigi Casalini, Federico Catani,
Guillaume Luyt, Simone Ortolani, Marco Sgroi)
prolibertatemissalis@gmail.com

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PRESS RELEASE


Starting this morning, and lasting for 15 days, several dozen billboards dedicated to the traditional liturgy will be posted near and around the Vatican.
An organizing committee, whose members are participating in a personal capacity and who come from different Catholic entities (such as the blogs, Messainlatino and Campari & de Maistre, and the associations, National Committee on Summorum Pontificum and the St Michael the Archangel Association), wished to make public their profound attachment to the traditional Mass at a time when its extinction seems to be planned. They do so out of love for the Pope, so that he might be paternally opened to understanding those liturgical peripheries that no longer feel welcome in the Church, because they find in the traditional liturgy the full and complete expression of the entire Catholic Faith.
“What earlier generations held as sacred, remains sacred and great for us too, and it cannot be all of a sudden entirely forbidden of even considered harmful” (Benedict XVI, Letter to the Bishops on the occasion of the publication of the Apostolic Letter Summorum Pontificum). The growing hostility towards the traditional liturgy finds no justification on either a theological or pastoral level. The communities that celebrate the liturgy according to the 1962 Roman Missal are not rebels against the Church. On the contrary, blessed by steady growth in lay faithful and priestly vocations, they constitute an example of steadfast perseverance in Catholic faith and unity, in a world increasingly insensitive to the Gospel, and an ecclesial context increasingly yielding to disintegrating impulses.
For this reason, the attitude of rejection with which their own pastors are forced to treat these communities today is not only reason for bitter sorrow, which these faithful strive to offer for the purification of the Church, but also constitutes a grave injustice. In the face of this injustice, charity itself demands that we not remain silent: for “indiscreet silence leaves in error those who might have been instructed” (Pope St Gregory the Great, Pastoral Rule, Book II, chapter 4).
In the Church of our day, in which listening, welcoming, and inclusion inspire all pastoral action, and there is a desire to build ecclesial communion “with a synodal method,” this group of ordinary faithful, young families, and fervent priests has the confident hope that its voice will not be stifled but welcomed, listened to, and taken into due consideration. Those who go to the “Latin Mass” are not second-class believers, nor are they deviants to be re-educated or a burden to be gotten rid of.The Organizing Committee
(Toni Brandi, Luigi Casalini, Federico Catani,
Guillaume Luyt, Simone Ortolani, Marco Sgroi)
prolibertatemissalis@gmail.com














lunedì 27 marzo 2023

L’attuale conflitto tra “Oriente” e “Occidente”: due blocchi geopolitici alternativi o complementari?






Di Guido Vignelli, 24 MAR 2023


Due blocchi geopolitici in conflitto


Il confuso panorama della globalizzazione nella quale stiamo vivendo sembra dominato dal conflitto in corso tra il blocco geopolitico dei “regimi despotici”, erroneamente qualificato come orientale, e quello delle “regimi democratici”, erroneamente qualificato come occidentale.

Questo conflitto sembra mettere in crisi le categorie interpretative finora usate per analizzare la situazione globale e prevedere dove ci sta conducendo il processo rivoluzionario. Di conseguenza, l’opinione pubblica benpensante, disorientata dalla capillare propaganda mass-mediatica, erroneamente identifica l’Occidente con la civiltà cristiana o l’Oriente col mondo comunista, per cui tende a schierarsi per l’uno o per l’altro dei contendenti [1].

Eppure, l’attuale situazione geopolitica può essere chiarita se, applicando vecchie categorie alchemiche alla nuova “ingegneria sociale”, interpretiamo il conflitto in corso come lo scontro tra due tipiche fazioni interne alla Rivoluzione universale, quella distruttiva e quella costruttiva, siano esse alternative o rivali o complementari tra loro.

La prima fazione, descrivibile come la “mano sinistra” dell’agente sovversivo, s’impegna nel facile ruolo di distruggere l’ordine tradizionale per sgombrare la strada all’avvento di quello rivoluzionario, svolgendo il ruolo alchemico di solvere, ossia di trarre il caos dall’ordine (“chaos ab ordo”). La seconda fazione, descrivibile come la “mano destra” dell’agente sovversivo, s’impegna nel difficile ruolo di costruire l’ordine rivoluzionario sulle macerie di quello tradizionale, svolgendo il ruolo alchemico di coagulare, ossia di trarre l’ordine dal caos (“ordo ab chaos”). Si badi però a non intendere le parole sinistra e destra nel loro senso politico, perché una fazione sinistrorsa può diventare retrograda e una destrorsa può diventare avanzata.

In teoria, la fazione distruttiva sarebbe funzionale a quella costruttiva, perché questa dovrebbe mantenere le strabilianti promesse, fatte dalla Rivoluzione ai popoli sottomessi, di condurli a una sorta di nuovo Paradiso Terrestre che risanerà tutti i mali e risolverà tutte le contraddizioni – compresa quella tra l’uomo e Dio – che finora hanno lacerano la natura e la storia. Si tratta del vecchio progetto di costruire una società laicista, razionalistica e tecnocratica che mira a preparare l’avvento del “novus ordo saeclorum”, ossia della “Repubblica Universale”. Questo progetto costruttivo è sembrato realizzarsi durante il periodo storico che va dalla Rivoluzione Francese a quella sovietica.

Lo scontro tra la liberté e l’égalité in funzione della fraternité


Tuttavia, gli occulti “alchimisti sociali” ormai non riescono più a far credere alla popolazione che manterrà le grandi promesse fattele da secoli. Negli ultimi tempi, il loro progetto costruttivo, pur continuando a ottenere grandi vittorie, ha anche subìto arresti, deviazioni e arretramenti che lo hanno reso incerto, insicuro e declinante. Lo hanno dimostrato i fallimenti prima del progetto sovietico, poi di quello “terzomondista” e oggi di quello europeista, ma anche quello di sottomettere la Chiesa sta dando solo tardivi e incerti risultati.

Quest’insuccessi sono dovuti al fatto che la costruzione dell’ordine rivoluzionario viene ostacolata non solo dalle tenaci resistenze (naturali e soprannaturali) sollevate dalle popolazioni non ancora sottomesse ai poteri sovversivi, ma anche dal dilagare dei fattori di disordine e di dissoluzione suscitati e manipolati da quegli stessi poteri.

Allora, negli ultimi tempi, la fazione distruttiva della Rivoluzione sta tentando di sostituirsi a quella costruttiva nella guida del processo sovversivo, per fargli compiere un “salto di qualità” capace di superare la situazione di stallo Infatti, la fazione distruttiva sta imponendo un nuovo progetto – di carattere ecologista, irrazionalista e anarchico – che tenta di alimentare i fattori dissolutivi fino al parossismo, anche se ciò rinvia a un problematico futuro la costruzione della “nuova società”. L’esplosione del Sessantotto fu l’avvio di questo esperimento rivoluzionario, tutt’oggi in corso perché riuscito solo in parte e rimasto incompiuto.

Probabilmente, gli “alchimisti sociali” all’opera sperano che l’attuale scontro tra il fattore distruttivo della liberté liberale e quello costruttivo della égalité socialista non impedirà più l’avvento della fraternité globalista ma anzi lo favorirà. Il risolutivo regime della “solidarietà fraterna” dovrà suscitare tutta la licenza necessaria affinché le passioni e le forze sovversive riescano a dissolvere ogni ordine residuo, ma dovrà anche imporre tutta la repressione necessaria affinché le sopravvissute forze sane non sin approfittino della licenza per restaurare condizioni sociali che violino l’eguaglianza faticosamente ottenuta.

Recentemente, alcuni ideologi rivoluzionari avanzati – come l’israeliano Noah Yuval Harari – hanno auspicato che l’avvento della fraternité sia realizzato da un regime che imponga una “transizione ecologica” capace di realizzare una fusione tra gli uomini e gli altri esseri viventi che faccia evolvere il cosmo dal livello terreno a quello celeste, ossia divino [2].

L’aspetto più inquietante di questa transizione consiste nel fatto che alcuni ingegneri sociali influenti nel mondo politico – come i sociologi Edgar Morin e Michel Maffesoli – sostengono che, per passare dal livello umano a quello sovrumano, bisogna affidarsi alla guida di quel “puro spirito, demiurgo e re del mondo” che gl’ideologi rivoluzionari del XIX secolo (Hegel, Marx, Comte) hanno identificato con Satana, inteso come agente di progresso e di liberazione dell’umanità da ogni forma di “superstizione religiosa” e di “tirannia politica” [3].

L’attuale scontro tra “Oriente” e “Occidente”


Tuttavia, i capi rivoluzionari stanno facendo oggi molta fatica a far accettare ai loro stessi seguaci un così netto e rapido rovesciamento di strategia che, oltre a eludere il mantenimento delle grandi promesse sociali fatte ai popoli, presuppone una diversa concezione del progetto rivoluzionario e un suo cambio nella sua guida. Pertanto, l’attuale crisi geopolitica può essere spiegata come effetto dello scontro tra i due opposti fronti rivoluzionari prima delineati.

Da una parte, vediamo schierarsi una formazione geopolitica composta da molti Governi “democratici”, impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “occidentale”: l’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America, l’Australia e altri. Essi pensano che le conquiste rivoluzionarie finora ottenute (come i cosiddetti “diritti civili”) siano rimaste incompiute e instabili, per cui debbano essere salvate rilanciando il processo rivoluzionario e spingendolo fino alle sue ultime conseguenze, per quanto distruttive siano. Secondo loro, la “nuova società” può nascere solo dall’“uomo nuovo”, per cui le oggettive esigenze della collettività devono sempre essere sottomesse alle soggettive pretese individuali.

A questo scopo, i Governi “democratici” favoriscono il dilagare nel mondo dei nuovi movimenti sovversivi “occidentali” (come quelli ecologisti, immigrazionisti e woke), perché li valutano come una sorta di droga che permetterà alle forze rivoluzionarie di slanciarsi verso la finale meta anarchica, sfondando ogni resistenza fatta da “sistemi chiusi”, “regimi despotici” e “Chiese retrograde” che – per nostalgia della passata società della certezza, della sicurezza e del benessere – si stanno attardando a una fase superata del processo rivoluzionario [4].

Pertanto, questo fronte “occidentale” composto dai Governi “democratici” può essere definito come un fattore estremista, aggressivo e destabilizzante, corrispondente alla “mano sinistra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna mettere in crisi e distruggere piuttosto che difendere e costruire, perché il movimento vale più del suo risultato.

Dalla parte opposta, vediamo schiararsi una formazione geopolitica composta da molti Governi “despotici”, impropriamente posizionati nel quadro geopolitico “orientale”: ossia la Russia, la Cina, l’India, gli Stati islamici e alcuni Stati sudamericani. Essi pensano che dalla nuova fase distruttiva del processo rivoluzionario non apra la strada a nuove conquiste sociali, ma anzi rischi di mettere in pericolo quelle ottenute in passato. Secondo loro, l’“uomo nuovo” può nascere solo dalla “nuova società”, per cui le soggettive pretese dell’individuo devono sempre essere sottomesse alle oggettive esigenze della collettività.

Di conseguenza, questo fronte “orientale” condanna e reprime come arbitrari e retrivi i citati movimenti fanatici e anarcoidi “occidentali”, favoriti da irresponsabili Governi “democratici”, perché sono manifestazione di quella “malattia infantile dell’estremismo” – a suo tempo denunciata da Lenin – che rischia di travolgere il sistema rivoluzionario in un vortice di eccessi deliranti e dissolutori.

Pertanto, questo fronte “orientale” composto dai Governi “despotici” può essere considerato come un fattore di moderazione e di contenimento, corrispondente alla “mano destra” della Rivoluzione globale, secondo la quale bisogna costruire e difendere piuttosto che distruggere e mettere in pericolo, perché il risultato ottenuto vale più del movimento.

Appare ora chiaro che il conflitto in corso sta avvenendo non tra una fazione sovversiva e una conservatrice, ma tra due fazioni rivali interne al potere rivoluzionario globale, ciascuna delle quali si propone come fattore che deve bilanciare l’influenza geopolitica dell’altra.

Conflitto geopolitico, di potere o ideologico?

L’ingannevole propaganda diffusa da entrambe le fazioni ci rende difficile capire la vera origine e portata del loro conflitto. Proviamo comunque a fare qualche ipotesi.

Prima ipotesi. Il conflitto in corso oppone due blocchi mondiali che stanno ridisegnando le loro aree d’influenza e di azione; il terremoto che ci scuote è prodotto dall’attrito tra falde geopolitiche rivali che sta accelerando il processo di globalizzazione da tempo in atto. Se così fosse, tutto potrebbe finire domani con una pace concordata priva di gravi conseguenze.

Seconda ipotesi. Il conflitto in corso non è solo geopolitico ma coinvolge anche due fazioni gemelle e rivali, che stanno litigando sul ruolo da svolgere nel processo rivoluzionario, sul potere da ottenervi e sui mezzi da usarvi. Se così fosse, tutto potrebbe ridursi al confronto strategico tra una tesi e un’antitesi che verrà risolto da una sintesi riconciliatrice che ridisegnerà i ruoli delle fazioni rivali.

Terza ipotesi. Il conflitto in corso non riguarda solo ruoli e mezzi, ma anche il percorso da fare e la meta da raggiungere. Infatti, la fazione “occidentale” proclama il primato della liberté sull’égalité, dei mezzi sul fine, dell’azione sul risultato, della distruzione sulla costruzione; al rovescio, la fazione “orientale” proclama il primato dell’égalité sulla liberté, del fine sui mezzi, del risultato sull’azione, della costruzione sulla distruzione. Di conseguenza, questa rivalità tra liberté ed égalité impedisce ch’esse, riconciliandosi, instaurino insieme il regime di fraternité.

Se così fosse, il conflitto in corso avrebbe radici più profonde e causerebbe conseguenze più vaste di quanto si crede, perché metterebbe in crisi l’intero processo rivoluzionario e anzi la concezione stessa della Rivoluzione. Di conseguenza, il conflitto potrebbe diventare una “guerra civile mondiale” capace di far “esplodere le contraddizioni” del sistema globale e di gettarci nel caos.

Una occasione storica da cogliere

Se quest’analisi è giusta, siccome il Vangelo ammonisce che “ogni regno in sé diviso è destinato a crollare”, possiamo ipotizzare che oggi la Rivoluzione non sta tentando uno dei tanti voltafaccia con i quali disorientare i propri nemici, né sta subendo una delle sue solite “crisi di crescita”; essa sta piuttosto subendo una crisi senile dovuta a una sorta di mutazione genetica che può condurla alla dissoluzione e alla morte.

Lungo l’intero XX secolo, l’intero arcobaleno ideologico – compreso il colore cristiano progressista – diede per scontato che il sistema di potere rivoluzionario fosse “storicamente inevitabile” e quindi “politicamente insuperabile”. Per contro, fin dagli anni 1970, due noti protagonisti della cultura e dell’apostolato cattolico, Augusto Del Noce e Plinio Corrêa de Oliveira, previdero l’imminente fallimento o il suicidio della Rivoluzione, poi avvenuti col crollo del regime comunista e con la crisi della ideologia liberale. Essi previdero pure che tutto ciò avrebbe potuto aprire la strada alla rinascita della cultura e della politica cristiane mediante la formazione di élites tradizionali analoghe all’antica nobiltà europea [5].

Se ciò non è ancora avvenuto, non è tanto a causa della residua forza rivoluzionaria, quanto per colpa della debolezza della classe dirigente cristiana, specialmente di quella ecclesiastica. Dapprima, essa ha tentato di rabberciare il traditore e fallimentare ambiente neo-democristiano, poi ha rinunciato a ogni prospettiva di riscossa, abbandonando i cittadini cattolici al dominio dell’unica classe politica superstite: quella radicale e globalista [6].

Tuttavia, questo drammatico sviluppo della situazione ci conferma che oggi la Divina Provvidenza sta offrendo alle residue forze tradizionali un’altra storica occasione per uscire dalla rassegnazione, superare le divisioni interne e avviare una risolutiva riscossa cristiana cattolica che permetterà di vincere le forze rivoluzionarie. Se il mondo cattolico rinuncerà a questa grande occasione nel timore di essere perseguitati e preferirà rifugiarsi in nuove catacombe rimboccandosi lapide e facendo finta di essere morto, commetterà una grave offesa alla Divina Provvidenza che non ci risparmierà dalla meritata punizione e per giunta rinvierà ulteriormente la promessa vittoria della Chiesa.

Guido Vignelli


[1] Un opportuno chiarimento ci è fornito dal recente libro, curato da Massimo Viglione, intitolato Occidente e occidentalismo, tra realtà storica e ideologia (Il Maniero del Mirto, Roma 2022).

[2] Cfr. N. Y. Harari, Homo deus. Una breve storia del domani, Garzanti, Milano 2016.

[3] Cfr. ad es. M. Borghesi, L’età dello Spirito in Hegel, Studium, Roma 1989.

[4] Bisogna notare che papa Francesco ha espresso una certa simpatia per questi movimenti (cfr. Fratelli tutti, enciclica del 3-10-2020, cap. III).

[5] Cfr. ad es. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1978; P. Corrêa de Oliveira, Nobiltà ed élites tradizionali analoghe, Marzorati, Milano 1993.

[6] Cfr. la denuncia fatta da Silvio Brachetta, La città fondata in Dio, Cantagalli, Siena 2021, cap. IV






domenica 26 marzo 2023

La Perla Preziosa: I Domenica di Passione

 









Domenica 26 Marzo 2023 anno 1/numero 11


Rivista amatoriale di informazione Liturgica e Catechetica - nella Tradizione Cattolica Romana -
a cura dell’Associazione Madonna dell’Umiltà di Pistoia











Agli illustri assassini della nostra santa Liturgia





26 MAR 2023

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by Aldo Maria Valli

di padre Elia Schafer

Alcuni siti, come fece a suo tempo Lectio brevis, hanno rilanciato la lettera aperta scritta dal musicologo monsignor Domenico Celada nei primi anni della rivoluzione liturgica montiniana (1969) indirizzata agli “assassini della nostra Santa Liturgia”. Si tratta di un documento che profetizzava ciò che sarebbe accaduto nella Chiesa; ancora oggi è attualissimo visto il degrado liturgico che con il novus ordo, la nuova messa imposta dal Concilio Vaticano II, si è perpetrato e continua drammaticamente a perpetrarsi in questi nostri tempi di profonda crisi nella Chiesa cattolica. La lettera aperta di monsignor Celada smascherava (e smaschera) lo spirito che animava (e anima) i sabotatori della Messa cattolica.

Ciononostante, da allora il numero dei sacerdoti che hanno aderito a quello spirito, modernista e liberale, è aumentato a dismisura. Il clero che ha tradito Gesù Cristo sembra talvolta prendere il sopravvento della Casa del Signore, della nostra Casa! Occorre ristabilire, riabilitare la Tradizione nella Chiesa. Dio lo vuole, con l’aiuto dei suoi fedeli sacerdoti e del suo piccolo gregge che non si è smarrito nonostante i lupi rapaci che lo insidiano e di cui sono già cadute vittime tante, troppe, pecorelle incaute e sprovvedute.



Prima di leggere la lettera di monsignor Celada, giova meditare anche le parole contenute in un suo articolo pubblicato il 20 febbraio 1969 sul quotidiano Il Tempo. Questo e altri scritti provocarono l’avversione della Curia, la quale si sfogò, togliendo ogni incarico al sacerdote-scrittore (insegnava musica e storia del gregoriano all’Università Lateranense), riducendolo alla più nera indigenza. Dopo poco più dì un anno, si ammalò e morì giovane tra il compianto di tutti quelli che lo avevano conosciuto. Ecco dunque le sue acute e vibranti parole.

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di monsignor Domenico Celada

Ricordo di aver scritto, nel numero dell’aprile-giugno 1966 di una rivista musicale, una nota sulla liturgia dopo il Concilio Vaticano II.

Erano quelli i mesi nei quali andava delineandosi, in tutta la sua tragica portata, il piano demolitore di certi «liturgisti», giunti a proporre quelle cosiddette «messe dei giovani» (accompagnate da orchestrine da balera) che rappresentano – pur prescindendo da qualsiasi considerazione di carattere religioso – il trionfo dell’ignoranza e della stupidità.



Scrivevo allora: «La sacra liturgia attraversa un periodo di grande crisi, forse il più doloroso della sua storia. Mai si vide tanta decadenza e confusione: si stava veramente toccando il fondo…».

In tale occasione mi pervennero messaggi di consenso e di lode, lo posso ben dire, da ogni parte del mondo cattolico: erano lettere di semplici fedeli, di molti sacerdoti e parroci, perfino di vescovi e cardinali. Tuttavia, per essere sincero, debbo dire che mi giunse anche una forte «reprimenda» da parte di quell’ufficio ecclesiastico incaricato della cosiddetta riforma liturgica, ufficio noto col nome di Consilium, sul quale esiste ormai una vastissima letteratura non certo benevola.



L’estensore della «reprimenda» (redatta su carta intestata, con tanto di stemma e numero di protocollo) cominciava col mostrarsi scandalizzatissimo per la mia diagnosi di «crisi» della liturgia, e replicava che, viceversa, «la liturgia attraversa oggi uno dei periodi più fiorenti e più promettenti»; dopodiché sentenziava che i miei rilievi erano di una «falsità supina», e che tutto lo scritto rappresentava una «insinuazione offensiva» e una «valutazione soggettiva ed errata». La mia era, per giunta, una «prosa sconcertante, sfrontata, offensiva e audace».



Emersi a stento, anche se del tutto incolume, da quella frana di aggettivi, raggruppati a quaterne, sotto la quale sarei potuto rimanere soffocato. Da allora non sono trascorsi neppure tre anni.

Una ventina di giorni fa, apro l’Osservatore romano e trovo un articolo di sette colonne (un’intera pagina del quotidiano della Santa Sede) intitolato Storia della Chiesa e crisi della Chiesa.
In esso l’insigne storiografo Hubert Jedin scrive testualmente: «C’è innanzitutto, visibile per tutti, la crisi liturgica. Io non vorrei parlare di caos. Ma quando oggi, di domenica mattina, si fa il giro delle chiese parrocchiali di una città, si trova in ciascuna un servizio divino “organizzato” differentemente; ci si imbatte in omissioni; si odono talvolta letture diverse da quelle previste finora dall’ordinamento delle pericopi; se poi ci si viene a trovare in un altro Paese di cui non si conosce la lingua, ci si sente affatto estranei…».



Mi sembra importante notare come Hubert Jedin, nella sua chiara diagnosi dell’attuale situazione della Chiesa, menzioni «innanzitutto» – ancor prima della crisi della fede – appunto la crisi liturgica, ormai «visibile per tutti». Considerata l’autorità dello scrittore e quella del giornale vaticano, che non ospita mai un articolo se non dopo il più rigoroso controllo, bisogna concludere che oggi la crisi della liturgia è un dato di fatto incontestabile, e che è lecito parlarne e scriverne senza il timore di vedersi recapitare missive piene di aggettivi poco lusinghieri.

D’altra parte, in tre anni sono successe molte cose: la Congregazione dei riti è stata costretta a intervenire contro i molti esperimenti arbitrari con una «dichiarazione» del 29 dicembre 1966 (rimasta peraltro lettera morta), e lo stesso Pontefice, nella famosa allocuzione del 19 aprile 1967, ha espresso il suo dolore e la sua apprensione per quanto accade in campo liturgico, sottolineando il «turbamento dei buoni fedeli» e denunciando una certa mentalità tesa alla «demolizione dell’autentico culto cattolico», implicante altresì «sovvertimenti dottrinali e disciplinari».



Ma interessante è soprattutto il paragone che lo studioso stabilisce fra la crisi attraversata dalla Chiesa nel XVI secolo e quella del tempo presente.
Come superò tale crisi la Chiesa? Risponde Jedin: «Non rinunciando alla sua autorità, né accettando formule equivoche di compromesso, né accogliendo il caos liturgico creato da innovazioni arbitrarie nel servizio divino».

È verissimo.

Se i decreti tridentini ristabilirono la sicurezza della fede, il messale e il breviario di san Pio V unificarono ancor più la liturgia. Non bisogna infatti dimenticare che la lex orandi, secondo l’antico detto, è anche lex credendi: la legge della fede. (Appare quindi logico che all’odierna licentia orandi corrisponda una licentia credendi).

Scrive ancora Hubert Jedin: «Temo che fra non molto in qualche luogo non si troverà più addirittura un messale latino…».

Eppure – ricorda lo studioso – «la stessa Costituzione liturgica (art. 36) mantiene come regola, alla stessa guisa di prima, la liturgia latina. Non sarebbe un non senso che la Chiesa cattolica nel nostro secolo, nel secolo dell’unificazione del mondo, rinunciasse completamente ad un così prezioso vincolo di unità, come è la lingua liturgica latina? Non sarebbe uno scivolare molto tardivo in un nazionalismo già ritenuto sorpassato?».



Si tratta di domande puramente retoriche, in quanto l’inspiegabile rinuncia è già praticamente avvenuta in fraudem legis: contro l’obbligatorietà di una legge conciliare che chiaramente prescrive di conservare l’uso del latino, e contro il diritto dei fedeli cattolici al godimento di un bene comune.

Ora, spezzata l’unità della lingua e distrutta l’identità dei riti, il caos si è esteso dal campo liturgico a quello dottrinale.

Già nell’aprile 1967, Paolo VI cominciava a lamentare «qualche cosa di molto strano e doloroso», e precisamente l’«alterazione del senso della fede unica e genuina». Era la conseguenza – di una logica perfetta e inesorabile – della manomissione del grandioso edificio della Liturgia, ossia dell’aver tradotto, mutilato e sostituito testi e formule che rappresentavano una summa di pietà e di dottrina.

Si comprende oggi più che mai la verità dell’insegnamento di Pio XII nell’enciclica Mediator Dei: «L’uso della lingua latina è un chiaro e nobile segno di unità, e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina».

La crisi della liturgia è ormai «visibile per tutti». Molti inganni sono stati scoperti. Nonostante ciò, gli innovatori continuano a lavorare, con l’affanno proprio di chi non è sicuro di se stesso, per manomettere, stravolgere e demolire quel poco che resta. (È recente un convegno di liturgisti per dissertare intorno a «nuove preci eucaristiche» e ad un nuovo ordo Missae).



A proposito di questi ostinati riformatori che vanno sconciando la liturgia il celebre romanziere cattolico Francois Mauriac ha scritto, or non è molto: «Mi chiedo, in preda a un panico improvviso: e se tutti questi brillanti innovatori non fossero che un branco di atroci imbecilli? Allora non ci sarebbe più scampo: poiché s’è avverato che i sordi riacquistino l’udito, che i ciechi vedano daccapo, è perfino accaduto che i morti risuscitino; ma non c’è nessuna prova, nessun documento, su un idiota che abbia cessato di esserlo».

Mi pare che l’accademico di Francia sia un po’ troppo pessimista. Sembra aver dimenticato che qualsiasi idiota, anche se non può cessare di esser tale, può semplicemente essere messo in condizione di non nuocere.

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Lettera aperta


di monsignor Domenico Celada

È da tempo che desideravo scrivervi, illustri assassini della nostra santa Liturgia. Non già perch’io speri che le mie parole possano avere un qualche effetto su di voi, da troppo tempo caduti negli artigli di Satana e divenuti suoi obbedientissimi servi, ma affinché tutti coloro che soffrono per gli innumerevoli delitti da voi commessi possano ritrovare la loro voce.

Non illudetevi, signori. Le piaghe atroci che voi avete aperto nel corpo della Chiesa gridano vendetta al cospetto di Dio, giusto Vendicatore.

Il vostro piano di sovversione della Chiesa, attraverso la liturgia, è antichissimo. Ne tentarono la realizzazione tanti vostri predecessori, molto più intelligenti di voi, che il Padre delle Tenebre ha già accolto nel suo regno. Ed io ricordo il vostro livore, il vostro ghigno beffardo, quando auguravate la morte, una quindicina d’anni fa, a quel grandissimo Pontefice che fu il servo di Dio Eugenio Pacelli, poiché questi aveva compreso i vostri disegni e vi si era opposto con l’autorità del Triregno. Dopo quel famoso convegno di “liturgia pastorale”, sul quale erano cadute come una spada le chiarissime parole di Papa Pio XII, voi lasciaste la mistica Assisi schiumando rabbia e veleno.

Ora ci siete riusciti. Per adesso, almeno. Avete creato il vostro “capolavoro”: la nuova liturgia.

Che questa non sia opera di Dio è dimostrato innanzitutto (prescindendo dalle implicazioni dogmatiche) da un fatto molto semplice: è di una bruttezza spaventosa. È il culto dell’ambiguità e dell’equivoco, non di rado il culto dell’indecenza. Basterebbe questo per capire che il vostro “capolavoro” non proviene da Dio, fonte d’ogni bellezza, ma dall’antico sfregiatore delle opere di Dio.

Si, avete tolto ai fedeli cattolici le emozioni più pure, derivanti dalle cose sublimi di cui s’è sostanziata la liturgia per millenni: la bellezza delle parole, dei gesti, delle musiche. Cosa ci avete dato in cambio? Un campionario di brutture, di “traduzioni” grottesche (com’è noto, il vostro padre, che sta laggiù non possiede il senso dell’umorismo), di emozioni gastriche suscitate dai miagolii delle chitarre elettriche, di gesti ed atteggiamenti a dir poco equivoci.

Ma, se non bastasse, c’è un altro segno che dimostra come il vostro “capolavoro” non viene da Dio. E sono gli strumenti di cui vi siete serviti per realizzarlo: la frode e la menzogna. Siete riusciti a far credere che un Concilio avesse decretato la sparizione della lingua latina, l’archiviazione del patrimonio della musica sacra, l’abolizione del tabernacolo, il capovolgimento degli altari, il divieto di piegare le ginocchia dinanzi a Nostro Signore presente nell’Eucaristia, e tutte le altre vostre progressive tappe, facenti parte (direbbero i giuristi) di un “unico disegno criminoso”.

Voi sapevate benissimo che la lex orandi è anche la lex credendi, e che perciò mutando l’una avreste mutato l’altra.

Voi sapete che, puntando le vostre lance avvelenate contro la lingua viva della Chiesa, avreste praticamente ucciso l’unità della fede.

Voi sapevate che, decretando l’atto di morte del canto gregoriano della polifonia sacra, avreste potute introdurre a vostro piacimento tutte le indecenze pseudo-musicali che dissacrarono il culto divino e gettano un’ombra equivoca sulle celebrazioni liturgiche.

Voi sapevate che, distruggendo tabernacoli, sostituendo gli altari con le “tavole per la refezione eucaristica”, negando al fedele di piegare le ginocchia davanti al Figlio di Dio, in breve avreste estinto la fede nella reale presenza divina.

Avete lavorato ad occhi aperti. Vi siete accaniti contro un monumento, al quale avevan posto mano cielo e terra, perché sapevate di distruggere con esso la Chiesa. Siete giunti a portarci via la Santa Messa, strappando addirittura il cuore della liturgia cattolica. (Quella S.Messa in vista della quale noi fummo ordinati sacerdoti, e che nessuno al mondo ci potrà mai proibire, perché nessuno può calpestare il diritto naturale).

Lo so, ora potrete ridere per quanto sto per dire. E ridete pure. Siete giunti a togliere dalle Litanie dei santi l’invocazione “a flagello terremotus, libera nos Domine”, e mai come ora la terra ha tremato ad ogni latitudine. Avete tolto l’invocazione “a spiritu fornicationis, libera nos Domine”, e mai come ora siamo coperti dal fango dell’immoralità e della pornografia nelle sue forme più repellenti e degradanti. Avete abolito l’invocazione “ut inimicos sanctae Ecclesiae umiliare digneris”, e mai come ora i nemici della Chiesa prosperano in tutte le istituzioni ecclesiastiche, ad ogni livello.

Ridete, ridete. Le vostre risate sono sguaiate e senza gioia. Certo è che nessuno di voi conosce, come noi conosciamo, le lacrime della gioia e del dolore. Voi non siete neppure capaci di piangere. I vostri occhi bovini, palle di vetro o di metallo che siano, guardano le cose senza vederle. Siete simili alle mucche che guardano il treno. A voi preferisco il ladro che strappa la catenina d’oro al fanciullo, preferisco lo scippatore, preferisco il rapinatore con le armi in pugno, preferisco persino il bruto e il violatore di tombe. Gente molto meno sporca di voi, che avete rapinato il popolo di Dio di tutti i suoi tesori.

In attesa che il vostro padre che sta laggiù accolga anche voi nel suo regno, “laddove è pianto e stridor di denti”, voglio che voi sappiate della nostra incrollabile certezza che quei tesori ci saranno restituiti. E sarà una “restitutio in integrum”. Voi avete dimenticato che Satana è l’eterno sconfitto.

Fonte: https://www.corsiadeiservi.it/it/default1.asp?page_id=1523