8 GENNAIO 2023
di Piefrancesco Nardini
«Qual è il problema più grave?»
Quale risposta dovremmo dare da cattolici a questa domanda?
La logica e la coerenza vorrebbero questa risposta: «il peccato mortale».
Ponete però questa domanda a chi si professa cattolico ai nostri giorni. Quanti vi risponderebbero così?
Il timore che siano veramente in pochi è più che fondato: è la realtà attuale a dircelo, non la presunzione.
Un gran numero di persone che si professano cattoliche vi risponderebbe ad esempio con cose tipo «la povertà», «la mancanza di lavoro per tutti», «le diseguaglianze sociali», «i bimbi che muoiono di fame», ecc…
È chiaro che tutte queste cose, intese in modo giusto, sono di certo questioni importanti e da risolvere, a volte vere e proprie emergenze.
Non dovrebbero però essere la risposta principale, la più grande preoccupazione per un cattolico.
Anticipiamo la critica: non vuol dire disinteressarsi delle cose materiali e dei problemi del mondo, come se si fosse estraniati dalla realtà in cui si vive. Ci sono, anzi, delle situazioni in cui è preciso dovere di stato di un cattolico quello di impegnarsi nella vita terrena.
Il cattolico si dovrà impegnare per rendere migliore il mondo in cui vive, ma sempre tenendo ferma la sua meta principale: il Paradiso.
I problemi delle risposte sopra elencate sono due. Il primo più superficiale, il secondo più profondo.
Il primo è l’assoluta mancanza di visione soprannaturale, l’immanentizzazione totale dello sguardo sulla vita.
Si fa fatica ad avere una risposta che riguardi la parte spirituale della vita, che riguardi il rapporto della società con Dio, con Cristo, Re di tutto. Solo aspetti meramente materiali.
Oramai si pensa solo a questa vita, raramente ci si sofferma su quelli che sono i Novissimi, anche solo in maniera semplice e superficiale. La vita eterna, quel che succederà dopo la morte, non è minimamente nei pensieri della maggior parte delle persone. Si vive come se non ci fosse. Una sorta di nichilismo pratico, nel senso che non si è realmente e consapevolmente nichilisti, ma all’atto pratico si vive come tali.
In questo modo è ovvio che l’unico vero problema sia quello materiale e non quello spirituale.
Il secondo problema che si evince è probabilmente la causa del primo.
Lo si espone con una domanda: ai nostri giorni quanti cattolici sanno realmente cos’è il peccato mortale? Quanti conoscono la differenza con quello veniale? E, soprattutto, quanti credono realmente alla realtà di questa verità?
Vi sembra si stia esagerando? Vi sembra che possa essere una forzata ricerca di qualcosa che non c’è?
Andate in giro a chiedere queste cose a chi si professa cattolico, provate. E vedrete, ahinoi, che alla fine queste domande non sono esagerate.
Molte sono le volte in cui si è sentito parlare di azioni peccaminose come se non lo fossero, come se, anzi, fossero la normalità. Molte volte si parla con persone che, proclamatesi cattoliche, non conoscono la propria fede, almeno non in maniera completa e, soprattutto, autentica.
Il problema è la mancanza di conoscenza della propria fede da parte di oramai troppi cattolici.
Il peccato mortale è «una disobbedienza alla legge di Dio, in cosa grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso» (Catechismo San Pio X, n. 143) e «si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia divina» (n. 144). In questi casi si parla di “membra morte” della Chiesa[1], che mantengono i vincoli esterni (professano la stessa fede, comunicano agli stessi Sacramenti ecc…), ma in esse «come in rami secchi non fluisce più la linfa vitale»[2]. Tornerà a scorrere dopo la Confessione.
Perché la risposta normale alla domanda iniziale per un cattolico dovrebbe essere “il peccato mortale”?
Intanto perché l’uomo è stato creato da Dio «per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita, e per goderLo poi nell’altra in paradiso» (Catechismo San Pio X, n. 13). Queste è il fine ultimo dell’uomo, e lo è anche se si crede che non ci sia un aldilà, che la vita terrena è tutto.
Il peccato grave è dunque l’ostacolo che non permette all’uomo di raggiungere il suo fine. Questo, per quanto si voglia sminuire la portata del fine ultraterreno, è realtà insita, istintiva dell’umanità: l’uomo tende istintivamente a qualcosa di trascendente. Vale anche per chi non crede alla realtà del peccato grave e per chi (per comodità, per ideologia, per altro) vuol credere che non porti alla dannazione eterna (se non ci si confessa).
Incide però, anche qui nonostante l’incredulità di alcuni, anche sulla vita quotidiana dell’uomo.
È stato sempre ben spiegato dai maggiori teologi morali e dai più disparati santi della Chiesa che il peccato grave, oltre alla dannazione eterna come effetto definitivo, ha anche un altro effetto durante la vita: quello di trattenere sempre più in esso le persone.
Se Tizio cade in peccato grave e non si confessa subito (o prima possibile), è certo che inizierà a conviverci sempre più, allentando in modo esponenziale il suo essere ricettivo alla coscienza e passerà periodi sempre più lunghi in quello stato. Ci si adagia, si inizia a pensare che tanto non cambia molto confessarsi oggi o tra tre giorni alla Messa domenicale, così i tre giorni diventano cinque e poi sette. E, nel frattempo, si continua magari a commettere altri peccati gravi, pensando che tanto oramai si è già in peccato e non cambia nulla farne un altro. Il Nemico è maestro in questi giochetti, che trascinano sempre più dentro le sabbie mobili del peccato.
Perché questo incide sulla vita quotidiana dell’uomo?
Chi vive in uno stato di peccato grave e di lassismo spirituale sarà più propenso ad ammettere come tollerabili determinati comportamenti socialmente non ammissibili e correrà il rischio di fare cose che non avrebbe fatto se in stato di grazia e con Confessione frequente e direzione spirituale o di aumentarne la quantità, se già abituato a compierne.
Se Tizio (sempre lui…) si lascia inguaiare dalle sabbie mobili del peccato grave, la sua coscienza si anestetizza e magari, in una situazione di difficoltà con la moglie, sarà più aperto e spinto al tradimento che mai avrebbe preso in considerazione in stato di grazia. Se sempre lui è un piccolo delinquente, potrebbe aderire più facilmente, per la coscienza annebbiata dal peccato, a crimini ancora più gravi o reiterare con maggior frequenza quelli a cui è abituato, quando invece confessatosi più facilmente potrebbe avvicinarsi al chiudere con quella vita, se non addirittura costituirsi.
[1] V. Dizionario di Teologia Dommatica, Parente-Piolanti-Garofalo, voce “membri della Chiesa”. Nell’Esortazione postsinodale Amoris Laetitia si legge invece che i divorziati risposati civilmente «possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa» (299). Il divorzio e i rapporti sessuali fuori dal matrimonio sono peccato grave, verità di fede. Coloro che sono in peccato grave per la dottrina bimillenaria della Chiesa sono “membra morte”. Nel documento firmato da Papa Francesco quindi il divorzio e la fornicazione non sono più peccato? Visto che coloro che li mettono in atto sono “membra vive” e che questa terminologia significa essere in stato di grazia…
[2] Dizionario cit.
di Piefrancesco Nardini
«Qual è il problema più grave?»
Quale risposta dovremmo dare da cattolici a questa domanda?
La logica e la coerenza vorrebbero questa risposta: «il peccato mortale».
Ponete però questa domanda a chi si professa cattolico ai nostri giorni. Quanti vi risponderebbero così?
Il timore che siano veramente in pochi è più che fondato: è la realtà attuale a dircelo, non la presunzione.
Un gran numero di persone che si professano cattoliche vi risponderebbe ad esempio con cose tipo «la povertà», «la mancanza di lavoro per tutti», «le diseguaglianze sociali», «i bimbi che muoiono di fame», ecc…
È chiaro che tutte queste cose, intese in modo giusto, sono di certo questioni importanti e da risolvere, a volte vere e proprie emergenze.
Non dovrebbero però essere la risposta principale, la più grande preoccupazione per un cattolico.
Anticipiamo la critica: non vuol dire disinteressarsi delle cose materiali e dei problemi del mondo, come se si fosse estraniati dalla realtà in cui si vive. Ci sono, anzi, delle situazioni in cui è preciso dovere di stato di un cattolico quello di impegnarsi nella vita terrena.
Il cattolico si dovrà impegnare per rendere migliore il mondo in cui vive, ma sempre tenendo ferma la sua meta principale: il Paradiso.
I problemi delle risposte sopra elencate sono due. Il primo più superficiale, il secondo più profondo.
Il primo è l’assoluta mancanza di visione soprannaturale, l’immanentizzazione totale dello sguardo sulla vita.
Si fa fatica ad avere una risposta che riguardi la parte spirituale della vita, che riguardi il rapporto della società con Dio, con Cristo, Re di tutto. Solo aspetti meramente materiali.
Oramai si pensa solo a questa vita, raramente ci si sofferma su quelli che sono i Novissimi, anche solo in maniera semplice e superficiale. La vita eterna, quel che succederà dopo la morte, non è minimamente nei pensieri della maggior parte delle persone. Si vive come se non ci fosse. Una sorta di nichilismo pratico, nel senso che non si è realmente e consapevolmente nichilisti, ma all’atto pratico si vive come tali.
In questo modo è ovvio che l’unico vero problema sia quello materiale e non quello spirituale.
Il secondo problema che si evince è probabilmente la causa del primo.
Lo si espone con una domanda: ai nostri giorni quanti cattolici sanno realmente cos’è il peccato mortale? Quanti conoscono la differenza con quello veniale? E, soprattutto, quanti credono realmente alla realtà di questa verità?
Vi sembra si stia esagerando? Vi sembra che possa essere una forzata ricerca di qualcosa che non c’è?
Andate in giro a chiedere queste cose a chi si professa cattolico, provate. E vedrete, ahinoi, che alla fine queste domande non sono esagerate.
Molte sono le volte in cui si è sentito parlare di azioni peccaminose come se non lo fossero, come se, anzi, fossero la normalità. Molte volte si parla con persone che, proclamatesi cattoliche, non conoscono la propria fede, almeno non in maniera completa e, soprattutto, autentica.
Il problema è la mancanza di conoscenza della propria fede da parte di oramai troppi cattolici.
Il peccato mortale è «una disobbedienza alla legge di Dio, in cosa grave, fatta con piena avvertenza e deliberato consenso» (Catechismo San Pio X, n. 143) e «si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia divina» (n. 144). In questi casi si parla di “membra morte” della Chiesa[1], che mantengono i vincoli esterni (professano la stessa fede, comunicano agli stessi Sacramenti ecc…), ma in esse «come in rami secchi non fluisce più la linfa vitale»[2]. Tornerà a scorrere dopo la Confessione.
Perché la risposta normale alla domanda iniziale per un cattolico dovrebbe essere “il peccato mortale”?
Intanto perché l’uomo è stato creato da Dio «per conoscerLo, amarLo e servirLo in questa vita, e per goderLo poi nell’altra in paradiso» (Catechismo San Pio X, n. 13). Queste è il fine ultimo dell’uomo, e lo è anche se si crede che non ci sia un aldilà, che la vita terrena è tutto.
Il peccato grave è dunque l’ostacolo che non permette all’uomo di raggiungere il suo fine. Questo, per quanto si voglia sminuire la portata del fine ultraterreno, è realtà insita, istintiva dell’umanità: l’uomo tende istintivamente a qualcosa di trascendente. Vale anche per chi non crede alla realtà del peccato grave e per chi (per comodità, per ideologia, per altro) vuol credere che non porti alla dannazione eterna (se non ci si confessa).
Incide però, anche qui nonostante l’incredulità di alcuni, anche sulla vita quotidiana dell’uomo.
È stato sempre ben spiegato dai maggiori teologi morali e dai più disparati santi della Chiesa che il peccato grave, oltre alla dannazione eterna come effetto definitivo, ha anche un altro effetto durante la vita: quello di trattenere sempre più in esso le persone.
Se Tizio cade in peccato grave e non si confessa subito (o prima possibile), è certo che inizierà a conviverci sempre più, allentando in modo esponenziale il suo essere ricettivo alla coscienza e passerà periodi sempre più lunghi in quello stato. Ci si adagia, si inizia a pensare che tanto non cambia molto confessarsi oggi o tra tre giorni alla Messa domenicale, così i tre giorni diventano cinque e poi sette. E, nel frattempo, si continua magari a commettere altri peccati gravi, pensando che tanto oramai si è già in peccato e non cambia nulla farne un altro. Il Nemico è maestro in questi giochetti, che trascinano sempre più dentro le sabbie mobili del peccato.
Perché questo incide sulla vita quotidiana dell’uomo?
Chi vive in uno stato di peccato grave e di lassismo spirituale sarà più propenso ad ammettere come tollerabili determinati comportamenti socialmente non ammissibili e correrà il rischio di fare cose che non avrebbe fatto se in stato di grazia e con Confessione frequente e direzione spirituale o di aumentarne la quantità, se già abituato a compierne.
Se Tizio (sempre lui…) si lascia inguaiare dalle sabbie mobili del peccato grave, la sua coscienza si anestetizza e magari, in una situazione di difficoltà con la moglie, sarà più aperto e spinto al tradimento che mai avrebbe preso in considerazione in stato di grazia. Se sempre lui è un piccolo delinquente, potrebbe aderire più facilmente, per la coscienza annebbiata dal peccato, a crimini ancora più gravi o reiterare con maggior frequenza quelli a cui è abituato, quando invece confessatosi più facilmente potrebbe avvicinarsi al chiudere con quella vita, se non addirittura costituirsi.
[1] V. Dizionario di Teologia Dommatica, Parente-Piolanti-Garofalo, voce “membri della Chiesa”. Nell’Esortazione postsinodale Amoris Laetitia si legge invece che i divorziati risposati civilmente «possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa» (299). Il divorzio e i rapporti sessuali fuori dal matrimonio sono peccato grave, verità di fede. Coloro che sono in peccato grave per la dottrina bimillenaria della Chiesa sono “membra morte”. Nel documento firmato da Papa Francesco quindi il divorzio e la fornicazione non sono più peccato? Visto che coloro che li mettono in atto sono “membra vive” e che questa terminologia significa essere in stato di grazia…
[2] Dizionario cit.
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