Osservazioni di biopolitica.
Di Stefano Martinolli, 28 ottobre 2021
By editorNOTIZIE DSC
Ho letto recentemente alcune lettere, pubblicate su siti online e su alcuni quotidiani italiani, scritte da persone comuni affette da malattie oncologiche avanzate o croniche irreversibili. Tutti raccontavano la loro storia clinica, le loro speranze, il loro desiderio di combattere, i loro dubbi e le loro «cadute». In particolare mi ha colpito un paziente milanese, malato di carcinoma polmonare metastatico in attesa di chemioterapia, che ha osservato, stampato sul foglio per il ritiro del referto della TAC, il costo che la Regione Lombardia aveva sostenuto per quell’esame. Nel 2011 una Delibera della Giunta Regionale aveva infatti inserito tale comunicazione a tutti i cittadini che avrebbero utilizzato il ricovero o le prestazioni ambulatoriali. La questione è giunta fino al Ministero della Salute il cui ministro ha chiesto ufficialmente al Comitato Nazionale di Bioetica di esprimere un parere. Il Comitato ha elaborato così un documento intitolato «Sulla comunicazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale ai pazienti dei costi delle prestazioni sanitarie» (28 settembre 2012) che in realtà è sceso ad un compromesso: in alcuni casi il costo sostenuto va comunicato eventualmente, in altri obbligatoriamente. Il Comitato ha comunque concluso raccomandando di evitare forme di colpevolizzazione e di discriminazione dei malati, rispettando in particolare la riservatezza dei loro dati clinici.
In questi giorni si sta discutendo sull’approvazione di un testo unico sull’eutanasia e suicidio assistito e sul referendum relativo all’eutanasia. Sorgerebbe allora spontanea una domanda: «conviene» allo Stato dare assistenza a malati gravi, terminali oncologici o affetti da malattie croniche irreversibili? A fronte del miglioramento delle tecniche terapeutiche, dell’allungamento della speranza di vita, dell’invecchiamento della popolazione e pertanto della richiesta crescente di trattamenti medici prolungati e costosi, si contrappongono la limitatezza delle risorse economiche e i protocolli sanitari orientati a una riduzione degli sprechi e delle spese ritenute non giustificate.
Da un’analisi approfondita della Sanità italiana e internazionale, specie dopo la pandemia COVID19, sembra farsi strada un modello di riferimento che in bioetica viene chiamato «pragmatismo utilitaristico». In esso sembrano prevalere i criteri economicistici gestionali su quelli sociali, civili o politici. L’utilitarismo (Jeremy Bentham, John Stuart Mill) sostiene infatti la necessità di «minimizzare il dolore», esaltando solo la felicità (happiness) o l’utilità (utility) intese come prevalenza netta del piacere sulla sofferenza. Altri autori ritengono che l’utilitarismo ormai sia talmente entrato nella società da condizionare i vecchi concetti di «bene comune» e «interesse pubblico». Questo ha portato al pensiero contemporaneo in cui il bene «salute» e il valore «vita» sono obbligatoriamente posti in relazione al rapporto costo/beneficio, valori peraltro difficilmente correlabili perché chiaramente disomogenei.
Dal punto di vista del malato, comunque, nulla dovrebbe cambiare in termini di titolarità del diritto alla salute (diritto sancito dall’art. 32 della Costituzione Italiana), come nulla dovrebbe modificarsi nel rapporto con gli operatori sanitari, nell’ambito dell’alleanza di «cura». Il medico in particolare, in queste nuove dinamiche, ricopre un ruolo delicato: è un «doppio agente», deve cioè svolgere una funzione di diagnosi e cura a favore del paziente ma nel contempo deve valutare l’impiego di prestazioni necessarie, più utili e congrue dal punto di vista della spesa sanitaria. Il suo ruolo, dicevo, è delicato perché vi è il serio rischio di sollecitazioni a favore di decisioni di tipo economicistico. Non si può negare poi che, dopo l’aziendalizzazione della Sanità Pubblica, siano spesso prevalse considerazioni economiche in merito alla sostenibilità della spesa di ogni singola realtà locale (vedi i DRG). In quest’ottica, si sono sviluppate tecniche di valutazione (analisi costi/beneficio, costi/efficacia o costi/utilità) che sono state utilizzate come indicatori per misurare la salute prodotta con un determinato intervento sanitario. In pratica si è cercato di quantificare gli anni di vita aggiuntivi o guadagnati, però aggiustati, per la qualità della vita (QALYS: Quality Adiusted Life Years).
«Sfortunatamente», il concetto di qualità della vita resta ancora oggi un oggetto misterioso, di cui tutti parlano ma di cui nessuno è riuscito a dare una definizione e quantificazione univoca. Pertanto non è possibile rispondere con chiarezza alle seguenti domande: ogni terapia, specie quella oncologica, migliora la sopravvivenza e/o la qualità di vita? Entrambe o solo una della due? E quali dei due aspetti è meglio privilegiare? Nel 2011 la rivista Lancet Oncology aveva pubblicato un lavoro con le seguenti dichiarazioni: «molte terapie non devono essere praticate ai malati terminali perché danno una falsa speranza». Gli autori poi si soffermano sulla questione dei costi sanitari, ricordando che le terapie oncologiche «avvengono nelle ultime settimane e mesi di vita» risultando «non solo inutili ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti pazienti e famiglie se fossero state adeguatamente informate». Secondo la prestigiosa rivista, pertanto molti tentativi di cura sarebbero «futili» e sarebbe meglio rinunciare in partenza a trattare i casi gravi. Peccato però che esistano numerosi protocolli – specie nel campo della chemioterapia – che arruolano pazienti con malattie neoplastiche avanzate e che, al di là dei risultati non sempre positivi, hanno permesso di conoscere meglio il comportamento biologico di moltissimi tumori e conseguentemente di sviluppare schemi terapeutici sempre più efficaci in tutte le fasi di malattia, specie quelle iniziali. Del resto, è questa l’impostazione etica della medicina: osservare i fenomeni, analizzarli, passare attraverso tentativi di cura, senza lasciarsi scoraggiare dagli eventuali fallimenti.
Le leggi che favoriscono l’eutanasia e il suicidio assistito non solo uccidono l’uomo con la sua malattia, ma anche e soprattutto la ricerca scientifica, promuovendo quella che si può configurare come «abbandono terapeutico». Chi ci garantisce che, una volta approvate, le risorse finanziarie destinate ai malati oncologici non vengano utilizzate per altro, creando pertanto proprio quella discriminazione che quelle leggi dicono di volere combattere?
Non dimentichiamo che lo scorso anno, in piena pandemia, la SIAARTI (Società degli anestesisti e rianimatori italiani) ha presentato un documento in cui si proponeva, di fronte alla limitatezza delle risorse, di scegliere quali malati di COVID curare e quali «non trattare», specie per quanto riguardava l’ingresso nelle Terapie Intensive. Il criterio era molto semplice: valutare gli anni di vita residua. Siamo tutti d’accordo che queste scelte siano molto difficili e delicate, ma l’impostazione degli autori è chiaramente pro-eutanasica e non considera i classici criteri clinico-laboratoristici che da secoli hanno guidato le decisioni mediche.
Dal punto di vista culturale, la rivendicazione del diritto alla salute personale e dell’integrità fisica rivelano, fortunatamente, un’idea ancora positiva del valore intangibile della vita umana anche nei momenti di fragilità e malattia. Purtroppo, quest’idea è sovente contaminata da una estremizzazione dei «casi limite», cioè di malati con patologie gravissime e con situazioni, appunto, estreme, pertanto non rappresentative dell’ordinarietà. Il caso raro, unico, eccezionale, deve diventare normale, creando panico, ansia e paura fra i malati. «E se capitasse a te?», È questa la domanda provocatoria che viene rivolta dai sostenitori delle leggi eutanasiche che approfittano della fragilità psico-fisica dei pazienti, insinuando che l’unica soluzione «degna» è quella di porre fine alla propria vita. Ma come sempre, la realtà non è virtuale: i malati possono anche guarire e quando questo non è possibile, è necessario fornire loro tutti i supporti medici, sociali e psicologici di cui hanno bisogno.
È necessario promuovere una prospettiva solidaristica a livello comunitario, mediante una allocazione equa delle risorse, la ricerca del bene comune attraverso il bene del singolo e viceversa, un incremento dell’assistenza a chi è più grave e malato.
San Giovanni Paolo II scrisse nel 2004: «guarire se possibile, aver cura sempre» aggiungendo che è necessario «prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti».
Stefano Martinolli
Ho letto recentemente alcune lettere, pubblicate su siti online e su alcuni quotidiani italiani, scritte da persone comuni affette da malattie oncologiche avanzate o croniche irreversibili. Tutti raccontavano la loro storia clinica, le loro speranze, il loro desiderio di combattere, i loro dubbi e le loro «cadute». In particolare mi ha colpito un paziente milanese, malato di carcinoma polmonare metastatico in attesa di chemioterapia, che ha osservato, stampato sul foglio per il ritiro del referto della TAC, il costo che la Regione Lombardia aveva sostenuto per quell’esame. Nel 2011 una Delibera della Giunta Regionale aveva infatti inserito tale comunicazione a tutti i cittadini che avrebbero utilizzato il ricovero o le prestazioni ambulatoriali. La questione è giunta fino al Ministero della Salute il cui ministro ha chiesto ufficialmente al Comitato Nazionale di Bioetica di esprimere un parere. Il Comitato ha elaborato così un documento intitolato «Sulla comunicazione da parte del Servizio Sanitario Nazionale ai pazienti dei costi delle prestazioni sanitarie» (28 settembre 2012) che in realtà è sceso ad un compromesso: in alcuni casi il costo sostenuto va comunicato eventualmente, in altri obbligatoriamente. Il Comitato ha comunque concluso raccomandando di evitare forme di colpevolizzazione e di discriminazione dei malati, rispettando in particolare la riservatezza dei loro dati clinici.
In questi giorni si sta discutendo sull’approvazione di un testo unico sull’eutanasia e suicidio assistito e sul referendum relativo all’eutanasia. Sorgerebbe allora spontanea una domanda: «conviene» allo Stato dare assistenza a malati gravi, terminali oncologici o affetti da malattie croniche irreversibili? A fronte del miglioramento delle tecniche terapeutiche, dell’allungamento della speranza di vita, dell’invecchiamento della popolazione e pertanto della richiesta crescente di trattamenti medici prolungati e costosi, si contrappongono la limitatezza delle risorse economiche e i protocolli sanitari orientati a una riduzione degli sprechi e delle spese ritenute non giustificate.
Da un’analisi approfondita della Sanità italiana e internazionale, specie dopo la pandemia COVID19, sembra farsi strada un modello di riferimento che in bioetica viene chiamato «pragmatismo utilitaristico». In esso sembrano prevalere i criteri economicistici gestionali su quelli sociali, civili o politici. L’utilitarismo (Jeremy Bentham, John Stuart Mill) sostiene infatti la necessità di «minimizzare il dolore», esaltando solo la felicità (happiness) o l’utilità (utility) intese come prevalenza netta del piacere sulla sofferenza. Altri autori ritengono che l’utilitarismo ormai sia talmente entrato nella società da condizionare i vecchi concetti di «bene comune» e «interesse pubblico». Questo ha portato al pensiero contemporaneo in cui il bene «salute» e il valore «vita» sono obbligatoriamente posti in relazione al rapporto costo/beneficio, valori peraltro difficilmente correlabili perché chiaramente disomogenei.
Dal punto di vista del malato, comunque, nulla dovrebbe cambiare in termini di titolarità del diritto alla salute (diritto sancito dall’art. 32 della Costituzione Italiana), come nulla dovrebbe modificarsi nel rapporto con gli operatori sanitari, nell’ambito dell’alleanza di «cura». Il medico in particolare, in queste nuove dinamiche, ricopre un ruolo delicato: è un «doppio agente», deve cioè svolgere una funzione di diagnosi e cura a favore del paziente ma nel contempo deve valutare l’impiego di prestazioni necessarie, più utili e congrue dal punto di vista della spesa sanitaria. Il suo ruolo, dicevo, è delicato perché vi è il serio rischio di sollecitazioni a favore di decisioni di tipo economicistico. Non si può negare poi che, dopo l’aziendalizzazione della Sanità Pubblica, siano spesso prevalse considerazioni economiche in merito alla sostenibilità della spesa di ogni singola realtà locale (vedi i DRG). In quest’ottica, si sono sviluppate tecniche di valutazione (analisi costi/beneficio, costi/efficacia o costi/utilità) che sono state utilizzate come indicatori per misurare la salute prodotta con un determinato intervento sanitario. In pratica si è cercato di quantificare gli anni di vita aggiuntivi o guadagnati, però aggiustati, per la qualità della vita (QALYS: Quality Adiusted Life Years).
«Sfortunatamente», il concetto di qualità della vita resta ancora oggi un oggetto misterioso, di cui tutti parlano ma di cui nessuno è riuscito a dare una definizione e quantificazione univoca. Pertanto non è possibile rispondere con chiarezza alle seguenti domande: ogni terapia, specie quella oncologica, migliora la sopravvivenza e/o la qualità di vita? Entrambe o solo una della due? E quali dei due aspetti è meglio privilegiare? Nel 2011 la rivista Lancet Oncology aveva pubblicato un lavoro con le seguenti dichiarazioni: «molte terapie non devono essere praticate ai malati terminali perché danno una falsa speranza». Gli autori poi si soffermano sulla questione dei costi sanitari, ricordando che le terapie oncologiche «avvengono nelle ultime settimane e mesi di vita» risultando «non solo inutili ma anche contrarie agli obiettivi e alle preferenze di molti pazienti e famiglie se fossero state adeguatamente informate». Secondo la prestigiosa rivista, pertanto molti tentativi di cura sarebbero «futili» e sarebbe meglio rinunciare in partenza a trattare i casi gravi. Peccato però che esistano numerosi protocolli – specie nel campo della chemioterapia – che arruolano pazienti con malattie neoplastiche avanzate e che, al di là dei risultati non sempre positivi, hanno permesso di conoscere meglio il comportamento biologico di moltissimi tumori e conseguentemente di sviluppare schemi terapeutici sempre più efficaci in tutte le fasi di malattia, specie quelle iniziali. Del resto, è questa l’impostazione etica della medicina: osservare i fenomeni, analizzarli, passare attraverso tentativi di cura, senza lasciarsi scoraggiare dagli eventuali fallimenti.
Le leggi che favoriscono l’eutanasia e il suicidio assistito non solo uccidono l’uomo con la sua malattia, ma anche e soprattutto la ricerca scientifica, promuovendo quella che si può configurare come «abbandono terapeutico». Chi ci garantisce che, una volta approvate, le risorse finanziarie destinate ai malati oncologici non vengano utilizzate per altro, creando pertanto proprio quella discriminazione che quelle leggi dicono di volere combattere?
Non dimentichiamo che lo scorso anno, in piena pandemia, la SIAARTI (Società degli anestesisti e rianimatori italiani) ha presentato un documento in cui si proponeva, di fronte alla limitatezza delle risorse, di scegliere quali malati di COVID curare e quali «non trattare», specie per quanto riguardava l’ingresso nelle Terapie Intensive. Il criterio era molto semplice: valutare gli anni di vita residua. Siamo tutti d’accordo che queste scelte siano molto difficili e delicate, ma l’impostazione degli autori è chiaramente pro-eutanasica e non considera i classici criteri clinico-laboratoristici che da secoli hanno guidato le decisioni mediche.
Dal punto di vista culturale, la rivendicazione del diritto alla salute personale e dell’integrità fisica rivelano, fortunatamente, un’idea ancora positiva del valore intangibile della vita umana anche nei momenti di fragilità e malattia. Purtroppo, quest’idea è sovente contaminata da una estremizzazione dei «casi limite», cioè di malati con patologie gravissime e con situazioni, appunto, estreme, pertanto non rappresentative dell’ordinarietà. Il caso raro, unico, eccezionale, deve diventare normale, creando panico, ansia e paura fra i malati. «E se capitasse a te?», È questa la domanda provocatoria che viene rivolta dai sostenitori delle leggi eutanasiche che approfittano della fragilità psico-fisica dei pazienti, insinuando che l’unica soluzione «degna» è quella di porre fine alla propria vita. Ma come sempre, la realtà non è virtuale: i malati possono anche guarire e quando questo non è possibile, è necessario fornire loro tutti i supporti medici, sociali e psicologici di cui hanno bisogno.
È necessario promuovere una prospettiva solidaristica a livello comunitario, mediante una allocazione equa delle risorse, la ricerca del bene comune attraverso il bene del singolo e viceversa, un incremento dell’assistenza a chi è più grave e malato.
San Giovanni Paolo II scrisse nel 2004: «guarire se possibile, aver cura sempre» aggiungendo che è necessario «prendersi cura di tutta la vita e della vita di tutti».
Stefano Martinolli
Nessun commento:
Posta un commento