Giovanni Scalese
Al di là delle tante considerazioni che si possono fare sul vangelo di questa domenica, mi ha
particolarmente impressionato il linguaggio che Gesú usa con i farisei. Da notare, come premessa, che Gesú, ai farisei che lo interrogano sulla liceità del divorzio, chiede: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Segno, questo, che egli si attende che essi rispondano citando il sesto comandamento («Non commettere adulterio»). E invece quelli replicano: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Ignorando la legge che proibisce, ricordano l’eccezione che autorizza. Ebbene, per giustificare la deroga fatta da Mosè al comandamento di Dio, Gesú dà la seguente spiegazione: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma».
Mi hanno colpito molto queste parole di Gesú. Oggi un’affermazione del genere sarebbe inconcepibile. A seguito della “conversione pastorale” che la Chiesa ha compiuto negli ultimi cinquant’anni e che ha visto una forte accelerazione nell’ultimo quinquennio, nessuno si sognerebbe di rispondere nel modo in cui ha risposto Gesú. Oggi si direbbe: Per la vostra debolezza, per la vostra fragilità Mosè ha previsto una deroga al comandamento. E invece no; Gesú dice: «Per la durezza del vostro cuore». Si direbbe che, se in questo brano evangelico c’è qualcuno duro di cuore, secondo i parametri dell’odierna pastorale, questi sia proprio Gesú, non certo i farisei, che invece sono preoccupati di trovare nelle pieghe della legge divina, cosí esigente, qualsiasi appiglio per venire incontro alla fragilità umana. Gesú, anziché commuoversi di fronte alle difficoltà, alle prove, alle ferite di un’umanità sofferente, parla di “durezza di cuore”. A quanto pare, Gesú non si fa scrupolo di rinfacciare a questa umanità tanto piagata la sua durezza di cuore. Vogliamo accusare Gesú di insensibilità, di rigidità, di scarso senso pastorale, di chiusura dinanzi alle prove della vita e alla debolezza della natura umana? O, vista la distanza che separa il nostro linguaggio dal suo linguaggio, non sarà piuttosto il caso di interrogarci sulla validità degli attuali metodi pastorali?
Di fronte alla condiscendenza di Mosè e dei farisei verso l’umana debolezza, Gesú non esita a proporre agli uomini il progetto iniziale di Dio in tutta la sua purezza e sublimità. Un ideale astratto, lo si liquiderebbe sbrigativamente ai nostri giorni; un ideale che ignora i limiti oggettivi della nostra condizione creaturale. Se Gesú si mostra cosí esigente con noi, ci sarà pure un motivo. Non è forse venuto nel mondo proprio per risanare l’umanità malata e permetterle di rispondere, con la grazia, alla sua sublime vocazione? Il Concilio di Trento, citando Sant’Agostino, ci assicura: «Dio non comanda l’impossibile; ma, quando comanda, ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, e ti aiuta perché tu possa farlo» (Decreto sulla giustificazione, c. 11; cf Agostino, De natura et gratia, 43, 50).
Q
Pubblicato da Querculanus
Mi hanno colpito molto queste parole di Gesú. Oggi un’affermazione del genere sarebbe inconcepibile. A seguito della “conversione pastorale” che la Chiesa ha compiuto negli ultimi cinquant’anni e che ha visto una forte accelerazione nell’ultimo quinquennio, nessuno si sognerebbe di rispondere nel modo in cui ha risposto Gesú. Oggi si direbbe: Per la vostra debolezza, per la vostra fragilità Mosè ha previsto una deroga al comandamento. E invece no; Gesú dice: «Per la durezza del vostro cuore». Si direbbe che, se in questo brano evangelico c’è qualcuno duro di cuore, secondo i parametri dell’odierna pastorale, questi sia proprio Gesú, non certo i farisei, che invece sono preoccupati di trovare nelle pieghe della legge divina, cosí esigente, qualsiasi appiglio per venire incontro alla fragilità umana. Gesú, anziché commuoversi di fronte alle difficoltà, alle prove, alle ferite di un’umanità sofferente, parla di “durezza di cuore”. A quanto pare, Gesú non si fa scrupolo di rinfacciare a questa umanità tanto piagata la sua durezza di cuore. Vogliamo accusare Gesú di insensibilità, di rigidità, di scarso senso pastorale, di chiusura dinanzi alle prove della vita e alla debolezza della natura umana? O, vista la distanza che separa il nostro linguaggio dal suo linguaggio, non sarà piuttosto il caso di interrogarci sulla validità degli attuali metodi pastorali?
Di fronte alla condiscendenza di Mosè e dei farisei verso l’umana debolezza, Gesú non esita a proporre agli uomini il progetto iniziale di Dio in tutta la sua purezza e sublimità. Un ideale astratto, lo si liquiderebbe sbrigativamente ai nostri giorni; un ideale che ignora i limiti oggettivi della nostra condizione creaturale. Se Gesú si mostra cosí esigente con noi, ci sarà pure un motivo. Non è forse venuto nel mondo proprio per risanare l’umanità malata e permetterle di rispondere, con la grazia, alla sua sublime vocazione? Il Concilio di Trento, citando Sant’Agostino, ci assicura: «Dio non comanda l’impossibile; ma, quando comanda, ti ammonisce di fare quello che puoi e di chiedere quello che non puoi, e ti aiuta perché tu possa farlo» (Decreto sulla giustificazione, c. 11; cf Agostino, De natura et gratia, 43, 50).
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