sabato 28 aprile 2018

“Se il chicco di grano...”





di Padre Giovanni Scalese 28-04-2018

L’altro giorno stavo preparando un post su Sua Maestà (la Regina Elisabetta), i parrucconi di Sua Maestà (i giudici inglesi), i boia di Sua Maestà (i medici dell’Alder Hey Hospital) e i cappellani di Sua Maestà (l’episcopato d’Inghilterra e del Galles), quando è arrivato l’appello di Thomas Evans a sospendere qualsiasi tipo di intervento che non fosse la preghiera. E cosí quel post è rimasto incompiuto, e forse è stato bene cosí. Arrivati a questo punto, non conviene piú occuparsi di Sua Maestà e della sua Corte. Meglio lasciarli al loro destino, dal momento che l’ira di Dio incombe su di loro (Gv 3:36). E su tutti noi.


Permettete invece che vi racconti ciò che è accaduto lunedí scorso, 23 aprile, festa di San Giorgio. Avevo deciso di recitare il Rosario e la coroncina della divina Misericordia e di celebrare la Santa Messa per Alfie. Per esperienza, ormai di lunga data, quando desidero ottenere qualche grazia, uso questo sistema, che si è rivelato infallibile: si viene sempre, in un modo o nell’altro, esauditi. Questa volta ho voluto chiedere un miracolo. Quale, ho lasciato a Dio deciderlo. E in effetti di miracoli, in questi giorni, ne abbiamo visti tanti, uno piú sorprendente dell’altro. Segno che Dio non abbandona il suo popolo fedele e ascolta le sue preghiere. Arrivato al momento della comunione, però, le suore hanno intonato l’antifona dal Comune di un martire nel tempo pasquale: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Alleluia» (Gv 12:24-25). Lí ho capito che Alfie sarebbe morto; ma non perché i medici e i giudici lo volevano morto, bensí perché aveva una missione da compiere: doveva portare—deve portare—molto frutto. E per questo doveva morire, per non rimanere solo. Quale sia la missione che Alfie, il chicco di grano caduto in terra, deve compiere, non sappiamo; ma presto ci verrà rivelato.


Mons. Negri ha voluto rendere ad Alfie l’onore delle armi. Un bel pensiero, che però presuppone che Alfie si sia arreso. L’onore delle armi viene concesso a quei soldati che, dopo una lunga e valorosa resistenza, si arrendono. Ma Alfie non si è arreso; non è stato sconfitto. Egli ha vinto; gli sconfitti sono coloro che volevano la sua morte. Alfie è un martire e, come tutti i martiri, è un vincitore: «Questi sono i santi che hanno vinto per mezzo del sangue dell’Agnello; hanno disprezzato la vita fino a subire la morte; per questo regnano con Cristo in eterno. Alleluia» (antifona d’ingresso del Comune dei martiri nel tempo pasquale; cf Ap 12:11). Il fatto che fosse ancora un infante non gli impedisce di essere un martire, come lo sono stati i Santi Innocenti:

I bambini, senza saperlo, muoiono per Cristo, mentre i genitori piangono i martiri che muoiono. Cristo rende suoi testimoni quelli che non parlano ancora. Colui che era venuto per regnare, regna in questo modo. Il liberatore incomincia già a liberare e il salvatore concede già la sua salvezza … O meraviglioso dono della grazia! Quali meriti hanno avuto questi bambini per vincere in questo modo? Non parlano ancora e già confessano Cristo! Non sono ancora capaci di affrontare la lotta perché non muovono ancora le membra, e tuttavia già portano trionfanti la palma della vittoria (Quodvultdeus).
Q

Pubblicato da Querculanus 





Pistoia: Rosario e S.Messa per Alfie e la conversione dell' occidente. Domenica 29 aprile




Chiesa di San Vitale 
via della Madonna - Pistoia 

Domenica 29 aprile 

Santo Rosario ore 17:30

Santa Messa ore 18:00

per Alfie e la conversione dell' occidente







venerdì 27 aprile 2018

Il sorriso di Alfie







In tutta questa pazzesca vicenda inglese, con un bambino in grave stato di danno cerebrale per il quale più tribunali – contro il fondamentale principio del neminem laedere, contro la volontà dei genitori e contro quella di Dio, cui vogliono scippare la facoltà di decretare il dove, il come e il quando della morte altrui – hanno stabilito che il suo «best interest» sia crepare il prima possibile; ebbene, in questo circo assurdo e tanatologico, c’è una cosa che mi ha colpito e, devo dire, parecchio rasserenato: il sorriso di Alfie mentre riposa. Lo si vede in una foto di questa notte, diffusa poche ore fa.

E’ il sorriso di un bimbo che dorme, magari sogna e – quel che è più importante – se ne infischia bellamente dei giudici necrofili, dei medici eugenisti e dei poliziotti che piantonano la sua stanza. No, il dramma proprio non lo sfiora. Con quell’innocenza che non puoi descrivere ma solo ammirare, lui sorride. E respira autonomamente da 60 ore, dimostrando la debolezza di certi pronostici «scientifici» e l’incanto di una Speranza che esige di essere creduta perché fatta di carne. Dio solo sa come finirà questa vicenda dove horror giuridico ed eroismo umano e genitoriale si stanno sfidando, ma intanto Alfie ci ha sorriso. Ed è tutto ciò che conta.



Giuliano Guzzo






Per una retta liturgia







di Aldo Maria Valli   26-04-2018

«Sembra che oggi gran parte della liturgia, almeno nella sua attuazione pratica, si sia ridotta ai soli due movimenti kerigmatico-catechistico ed epicletico-comunicativo con la scomparsa o la forte riduzione della posizione latreutico-contemplativa».

Scrive così don Enrico Finotti in una delle sue risposte dedicate alla liturgia. In un primo tempo sembra linguaggio per iniziati, ma don Finotti non lascia mai i suoi interlocutori senza spiegazione. Sempre attento alle osservazioni dei fedeli, l’autore resta colpito dal fatto che una di loro mostri stupore dopo aver visto un sacerdote in preghiera, e di conseguenza si interroga: se nella liturgia la dimensione della preghiera, agli occhi di un fedele comune, non appare più come centrale, vuol dire che c’è qualcosa che non funziona. Perché la liturgia è per sua natura preghiera pubblica. E allora ecco la spiegazione: oggi la liturgia privilegia i momenti in cui il sacerdote si rivolge al popolo per annunciare la parola di Dio (posizione kerigmatica) e quelli in cui si volge ai fedeli per agire su di loro con i medesimi gesti di Gesù (posizione epicletica), ma non favorisce i momenti in cui il sacerdote, rappresentando il Signore alla testa del popolo (posizione latreutica), dovrebbe rivolgersi a Dio come l’assemblea e guidare i fedeli nella lode e nell’adorazione.

Nella liturgia attuale c’è dunque come uno scompenso, un disequilibrio, ed è evidente che tutto ciò ha a che fare con la posizione del sacerdote. Una posizione che, nella liturgia riformata dal Concilio Vaticano II, è funzionale all’idea di Messa intesa come mensa, ma non come sacrificio.

Chi difende la riforma voluta dal Concilio accusa facilmente di «tradizionalismo» tutti coloro che si pongono il problema della posizione assunta dal sacerdote durante la Messa. Ma non si tratta di nostalgia e non è una fissazione. Si tratta invece di entrare nel significato profondo dell’azione liturgica. E, se si fa questo passo, la questione del conversi ad Dominum non può non apparire come decisiva. Come scrive bene don Finotti, «si deve riconoscere che celebrare la parte sacrificale della Messa (dall’offertorio alla comunione) rivolti nel medesimo senso verso il quale guarda l’intera assemblea, secondo la tradizione costante della Chiesa, suscita in modo immediato ed efficace quel comune (sacerdote e popolo) guardare ad Deum che è costitutivo della liturgia».

Le domande che i fedeli pongono al liturgista sulla rivista Liturgia: culmen et fons riguardano un po’ tutto: dalla veglia di Natale alla Via Crucis, dalle feste patronali alla settimana per l’unità dei cristiani. Inoltre molti desiderano entrare nel dettaglio delle questioni, interrogandosi in modo sempre più specifico. Per esempio: che cos’è precisamente un rito e quali sono le sue componenti? Chi gestisce le regole della liturgia rinnovata? Qual è l’importanza dell’abito sacerdotale? Che fine ha fatto la liturgia delle ore?

Il pregio di don Finotti sta nella capacità di unire rispetto del sacro e buon senso. La parola chiave è equilibrio. Che significa rispettare la gerarchia dei valori. Alla Messa si va non per mettere in scena una cena, ma per rinnovare il sacrificio eucaristico. Non si va per esibire la creatività umana, ma per rendere gloria a Dio. Non si va per gratificare il protagonismo del sacerdote o dell’assemblea, ma per pregare e adorare. Solo se i valori vengono messi nella giusta gerarchia l’azione liturgica che ne scaturisce risulta corretta.

Importanti sono le parole che don Finotti dedica all’equivoco circa l’autenticità della liturgia, come se autentico corrispondesse a spontaneo. Rispondendo a una domanda che parla del mito dell’«animazione» della Messa, mito modernista che è fonte di infiniti abusi, l’autore spiega: «Autentico non è ciò che è spontaneistico e irriflessivo, ma l’autenticità esige adesione alla verità e forza di volontà per realizzare nelle opere lo splendore del vero, del buono e del bello. L’oggettività è quindi una condizione imprescindibile dell’autenticità, che è invece inquinata da un soggettivismo sterile privo di ogni riferimento veritativo. La vera autenticità è il frutto maturo di un itinerario che implica la ricerca intellettuale, la formazione spirituale e l’esercizio della volontà. La disciplina e il sacrificio nella costante obbedienza alla Chiesa sono condizioni necessarie per raggiungere tale virtù, mantenerla e difenderla. L’errore in tale materia provoca una disaffezione per l’intero impianto liturgico oggettivo della Chiesa (Messa, sacramenti, sacramentali, anno liturgico, ecc.) e una sostituzione a tutto campo con creazioni soggettive private o comuni, una “liturgia” soggettivistica che non rappresenta il pensiero di Cristo, non contiene il suo mistero e perciò non salva. Essa è in fin dei conti un atto idolatrico e una pia illusione, il riflesso sempre cangiante dei propri sentimenti e delle sensibilità del “gruppo celebrante”. Ma così la dimensione soggettiva e privata del gruppo ha preso il posto di quella oggettiva e pubblica del popolo, quale referente primario della liturgia».

Credo che queste parole andrebbero stampate e distribuite in tutte le chiese, a beneficio dei fedeli ma anche dei sacerdoti. In nome del mito dell’animazione liturgica (del tutto arbitrario e fondato unicamente sul protagonismo umano) c’è stata un’imposizione dello spontaneismo. Sembra un controsenso, eppure è ciò che è avvenuto. E i risultati sono sotto gli occhi, e le orecchie, di tutti.

Ovviamente la liturgia spontaneista va di pari passo con l’immagine di un Dio buonista, come nota giustamente un lettore che scrive: «Siamo ormai impregnati di una concezione riduttiva del concetto di Dio: un Dio buonista che ha deposto ogni sua maestà e che sollecita una confidenza quasi banale». E a questo Dio buonista ci si accosta, di conseguenza, «col linguaggio feriale e immediato, non più attento al senso dell’adorazione che fu richiamato a Mosè presso il roveto ardente».

È drammaticamente vero. E di questa incapacità di distinguere il sacro dal profano fa le spese la liturgia. Il che non è problema formale, perché quando si parla di liturgia la forma è sostanza.

E qui don Finotti va dritto al nocciolo della questione: «È un dato constatabile che è ormai molto diffusa una mentalità buonista su Dio per cui Egli è ritenuto così disponibile a noi e così facilmente accessibile da negare ogni sforzo di purificazione e di ricerca nel conoscere la sua volontà, discernere la sua parola e seguire le sue leggi. Un Dio buonista, facile nel rapporto e privo di ogni oscurità, diventa il riflesso della nostra psicologia, illudendoci davanti ad un idolo frutto della nostra fantasia. Un’idea a buon mercato di un Dio del tutto asservito ad ogni nostra inclinazione talvolta viene giustificata con il ricorso al termine evangelico Abbà, quasi che questa confidenza eliminasse ormai ogni residuo di maestà, di grandezza e di mistero. Un Dio così prossimo a noi da essere del tutto fungibile ad ogni nostra estrosità diventa un “dio fai da te”, che in definitiva ammette ogni capriccio della nostra fragile e contorta psicologia. Con una simile visione di Dio ogni forma liturgica è compromessa fin dalle sue radici più profonde in quanto il soggettivismo estremo intacca le basi stesse della spiritualità e del concetto di Dio e del rapporto intimo con lui nella vita spirituale».

Occorre riconoscere che, oggi, ci vuole del coraggio per parlare così. Ma il nodo sta tutto qua. Il degrado nell’azione liturgica è frutto di una teologia distorta, che ha messo l’uomo, e non Dio, sull’altare. Una teologia che chiede di celebrare l’uomo, non Dio.

Scrive ancora don Finotti: «Se si perde il senso interiore dell’adorazione e della soggezione alla maestà di Colui che rimane sempre ineffabile e al di là della nostra portata, non ci si può aspettare una forma liturgica conforme a precise regole oggettive e ispirata al gusto della grandezza e del mistero, connaturale alla forma classica della liturgia della Chiesa nell’intero arco della tradizione. È allora evidente che tutti coloro che sono vittime di una simile visione preferiscano lo spontaneismo, fuggano ogni sottomissione a norme rituali, e ritengano autentica una celebrazione il più possibile libera come la Messa celebrata in un prato o in un contesto ricreativo. La libertà estrosa del rapporto interiore con Dio privo di ogni orientamento oggettivo, di ogni verifica dottrinale conforme ad una sana ortodossia e di una consonanza con la tradizione disciplinare maturata nei secoli, si riflette in una liturgia in accordo con questo fragile stato interiore, che si declina nelle espressioni più disparate e contraddittorie che scaturiscono da una spiritualità già malata e selvaggia fin nei reconditi sentimenti dell’anima. La infinita bontà e misericordia di Dio non possono mai essere disgiunte dalla sua giustizia, la sua vicinanza e accondiscendenza non possono mai spogliarsi dalla sua maestà e il rispetto dei diritti divini non può mai essere disatteso impunemente dalla creatura, che “senza il creatore svanisce” (GS 36). Quindi la celebrazione retta della liturgia non può mai prescindere dal retto concetto di Dio e dalla recezione completa e sinfonica dei suoi attributi divini. La sana teologia sta quindi sempre alla base di una retta liturgia».

Che cosa aggiungere? Soltanto un sentito ringraziamento a don Enrico Finotti per questo suo servizio alla verità.

Aldo Maria Valli

Il testo qui riprodotto è la prefazione al nuovo libro di don Enrico Finotti Se tu conoscessi il dono di Dio. Il liturgista risponde, edito da Chorabooks e disponibile su Amazon

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mercoledì 25 aprile 2018

CASO ALFIE. Paglia e vescovi inglesi, quando i pastori sono inutili



Ancora una volta, a proposito della questione morale relativa alla vicenda del piccolo Alfie Evans, i vescovi hanno saputo dire solo due cose: che la sfida è complessa e che bisogna uscirne trovando un consenso tra tutti gli interessati. Ci si chiede: per ricordarci due cose così vuote sono proprio necessari dei pastori?



Stefano Fontana 25-04-18

Ancora una volta, a proposito della questione morale relativa alla vicenda del piccolo Alfie Evans, i pastori della Chiesa cattolica, ossia i vescovi, hanno saputo dire solo due cose: che la sfida è complessa e che bisogna uscirne trovando un consenso tra tutti gli interessati. Ci si chiede: per ricordarci due cose così vuote sono proprio necessari dei pastori? Per così poco siamo troppo perfino noi poveri fedeli laici.

E poi ancora: ad affermazioni di questo tipo, così evanescenti, che tipo di obbedienza, o di ossequio, o di semplice ascolto dobbiamo? A cosa servono le innumerevoli cattedre di teologia morale delle istituzioni accademiche cattoliche, pontificie e non, se poi l’indicazione davanti alla vita o alla morte, davanti allo Stato-padrone che procede come un Dio, un Uomo, un Animale, una Macchina e decreta chi è degno di vivere o no, si riduce a dire che la realtà è complessa e che bisogna procedere concordi?

Da tempo nella Chiesa si nota una grande attenzione pastorale per come si agisce piuttosto che per i contenuti dell’agire stesso. È così che diventa assolutamente prioritario agire concordi e condividere. Fare una certa cosa “insieme” diventa più importante di stabilire se quella cosa è buona o meno buona. È uno dei tanti modi in cui oggi si preferisce la pastorale alla dottrina.

Mi viene in mente una famosa frase di don Lorenzo Milani: «Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia». È una frase che non ho mai capito. Sortirne insieme è proprio anche di una banda di briganti, se eliminiamo il contenuto di quel sortirne insieme. Sortirne insieme non basta a rendere buona una azione. L’azione è buona o non è buona in sé, indipendentemente da quanti raggiungono un accordo su di essa. Non è mai il consenso a stabilire la bontà e la verità delle cose e farle insieme dice solo che si sono fatte insieme, niente altro.

A proposito di Alfie Evans, mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha dichiarato: «Date le soluzioni comunque problematiche che si prospettano nell’evoluzione delle circostanze, riteniamo importante che si lavori per procedere in modo il più possibile condiviso. Solo nella ricerca di un’intesa tra tutti, un’alleanza d’amore tra genitori, famigliari e operatori sanitari, sarà possibile individuare la soluzione migliore per aiutare il piccolo Alfie in questo momento così drammatico della sua vita».

Una convergenza d’amore è senz’altro auspicabile. Ma l’amore è guidato o meno dalla verità. Per qualcuno anche uccidere il piccolo Alfie potrebbe essere riconducibile ad un atto d’amore. Anche il giudice che ha emesso la sentenza potrebbe essere stato spinto da un atto d’amore, evitando ad Alfie di proseguire una vita che secondo lui era senza senso.

Procedere in modo il più possibile condiviso è pure una cosa apprezzabile, ma per fare cosa? Ammettiamo per assurdo che tutti e tre i soggetti in causa – genitori, giudici, sanitari – fossero concordi nel far morire il piccolo Alfie: quel consenso sarebbe apprezzabile? O sarebbe meglio che qualcuno avesse dissentito, rompendo una colpevole armonia di vedute? “Sortirne da soli” talvolta è meglio che “sortirne insieme”, non sono gli accordi a fare la verità, ma il contrario.

Lo stesso concetto lo abbiamo più o meno ritrovato nella dichiarazione resa pubblica dai vescovi inglesi, perfino con una notevole aggravante: «Noi affermiamo la nostra convinzione che tutti coloro che stanno prendendo decisioni angosciose riguardanti la cura di Alfie Evans agiscono con integrità e per il bene di Alfie, secondo come lo vedono».

Qui addirittura il concordismo è svincolato da una minima ricerca della verità e del bene, perché il bene di Alfie può essere visto da più punti di vista. Quindi non solo l’essere concordi viene proposto come un bene, indipendentemente dai contenuti ma solo per il fatto di concordare, ma si sostiene anche che si agisce concordi anche quando si opera in base a diverse concezioni del bene. Chiamiamolo un concordismo nella discordanza. Perché mai un fedele inglese dovrebbe ascoltar5e i suoi vescovi? E se i vescovi non si meritano l’ascolto dei fedeli a cosa servono?

Il concordismo, con questa sua smania appiccicosa per il condividere e per il consenso, elimina ogni residuo riferimento all’oggettività del bene. I pastori ricorrono al concordismo come unica indicazione da dare nella complessità delle situazioni. Come se la luce del Verbo incarnato ci avesse lasciato sperduti e ciechi dentro situazioni indecifrabili anziché farci vedere la verità, che nel caso di Alfie Evans era addirittura lampante, altro che complessità.

Al concordismo e alla condivisione bisogna ormai fare obiezione di coscienza, rifiutarsi di “sortirne insieme” e avere il coraggio in certi casi di “sortirne da soli”.


















LA BATTAGLIA DI ALFIE Assassini, non ci sono altre parole




Assassini. Sono solo degli assassini. Non c’è altro modo con cui definirli. Medici, giudici, politici e anche ecclesiastici. Tutti degli assassini.



Riccardo Cascioli 25-04-2018

Assassini. Sono solo degli assassini. Non c’è altro modo con cui definirli. Medici, giudici, politici e anche ecclesiastici. Tutti degli assassini. Chi ha visto cosa è successo ieri, con Alfie continuare a respirare malgrado il distacco dal ventilatore, e ancor prima con quel suo muovere gli occhi e reagire agli stimoli che gli arrivavano da intorno, non può sfuggire a questa evidenza: si vuole uccidere un bambino chiaramente vivo. Disabile grave, certo. Quasi certamente senza speranza di guarire o migliorare significativamente, certo. Ma vivo. Una persona, la cui vita è sacra. E lo vogliono uccidere. Gli uomini si sono presi ciò che è di Dio. Un bambino che ha solo bisogno di sentire ancora l’amore attorno a sé, l’amore che i suoi genitori non hanno mai smesso di dargli. Un amore che egli stesso contribuiva a generare con la sua presenza.

Con Alfie vogliono togliere un pezzo di amore da questo mondo. Con Alfie vogliono uccidere anche la speranza, quella speranza che anche tanti uomini di Chiesa – a cominciare dall’Inghilterra – sembrano non avere più da tempo.

Ma l’amore che Alfie, aiutato dai suoi indomabili genitori Tom e Kate, ha saputo far rinascere nei cuori di milioni di persone non andrà perduto. Malgrado le tenebre cerchino di prendere il sopravvento, la Luce è lì, più spendente che mai. Per chi vuole vederla, e seguirla.















domenica 22 aprile 2018

Lo zampino del solito Rahner sull’inferno


Karl Rahner SJ (1904-1974)



Nel pensiero di Rahner, il tema del peccato e dell’inferno sono così trasportati dal terreno metafisico a quello esistenziale. Nell’esistenza, a cui l’uomo si riduce come essere essenzialmente storico, è impossibile giungere a conclusioni definitive e certe sulla responsabilità personale.


di Stefano Fontana (22-04-2018)

Le polemiche sorte dopo le fantasiose (secondo l’ufficio stampa della Santa Sede) rivelazioni di Eugenio Scalfari del suo colloquio con Papa Francesco, hanno riportato l’attenzione di molti sull’inferno. Sappiamo bene che la Scrittura ne parla e il Catechismo non lascia dubbi in merito. Però i dubbi continuano ad emergere qua e là e non solo quelli suggeriti da Scalfari ma anche quelli sostenuti dai teologi. A cominciare anche da Karl Rahner, forse il massimo teologo cattolico contemporaneo, almeno per l’influenza esercitata in vita e, ora, tramite i numerosissimi suoi
Rahner dedica alla colpa e quindi anche all’inferno, il terzo capitolo della sua opera sistematica principale Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, edito per la prima volta a Friburgo in Brisgovia nel 1976, quando l’autore aveva già 72 anni. Qui egli dice che il no a Dio, in cui consiste propriamente il peccato mortale che prelude alla realtà dell’inferno, non si può spiegare, si deve lasciare sussistere come mistero. La dottrina della Chiesa, secondo lui, non dice in quale caso il no a Dio è diventato realtà, «neanche dice se in pochi o in molti». Non è possibile sapere quando siamo in peccato mortale e, quindi, l’inferno potrebbe essere affollato oppure no, e potrebbe essere anche vuoto. L’Inferno è una illustrazione plastica – una specie di “mito” – della perdizione e «non sappiamo mai con un’ultima sicurezza se siamo realmente peccatori». Sappiamo che possiamo esserlo, che quella del peccato è una minaccia permanente, ma non abbiamo mai conoscenza definitiva di esso e, quindi, tantomeno della reale portata dell’inferno. Peccato e inferno sono una possibilità e non una realtà.

Nel pensiero di Rahner, il tema del peccato e dell’inferno sono così trasportati dal terreno metafisico a quello esistenziale. Nell’esistenza, a cui l’uomo si riduce come essere essenzialmente storico, è impossibile giungere a conclusioni definitive e certe sulla responsabilità personale. Le scienze umane – compresa la psicanalisi – smontano il male e lo riconducono a cause molteplici, contraddittorie, inspiegabili o addirittura assurde. Esse indagano i sottofondi della volontà e della responsabilità umane e smontano l’idea di un “io” fino in fondo padrone di se stesso. Sicché l’uomo «non possiede mai una sicurezza assoluta circa la qualità oggettivale e quindi morale delle sue azioni». Non può possederla perché in esse c’è il contenuto materiale dell’azione ma la motivazione di coscienza è indefinibile e irraggiungibile, così frantumata nella complessità esistenziale dell’io. Né ci possono essere, in questa prospettiva, azioni che “gridano vendetta al cospetto di Dio”, che per il contenuto materiale intrinsecamente malvagio e non ordinabile a Dio non sono mai da fare (gli intrinsece mala di cui parla la Veritatis splendor). Nella realtà esistenziale dell’uomo l’azione in sé e l’azione per noi non sono mai separabili. Lo sarebbero se l’uomo fosse al di sopra della sua esistenza e la potesse valutare dall’alto e dal di fuori, ma egli ne è coinvolto. Ciò vale per tutti gli aspetti della fede: anche il Cristo in sé e il Cristo per me sono inseparabili. Per questo tutto è (anche) interpretazione.

I confini tra il peccato e la virtù sono così labili e fumosi. Le cose si confondono, e può capitare che sotto il crimine non ci sia nulla, in quanto fenomeno di una situazione pre-personale subita, non voluta, frutto di contingenze storiche o di debolezze, «mentre dietro la facciata di una rispettabilità borghese può nascondersi un no a Dio».

La concezione del peccato si fa allora fluida e indefinibile perché viene abbandonata la visione metafisica della persona, della coscienza che emerge comunque sempre dai condizionamenti esistenziali, dell’anima e del suo rapporto ontologico con la legge morale naturale e con la grazia di Dio.

Lo stesso passaggio si nota nella visione rahneriana del peccato originale. Questo esprime, secondo lui, la situazione esistenziale dell’uomo il quale si trova sempre dentro situazioni co-plasmate da altri, anche con azioni cattive. Il male ci precede e quando noi operiamo non lo facciamo mai da soli e in modo isolato, ma ci misuriamo con una realtà co-plasmata dagli altri nel male. Quando acquistiamo una semplice banana (come esemplificato dallo stesso Rahner nell’opera sopra ricordata) ci rapportiamo ad una realtà di colpa che ha co-plasmato quella banana. Questa è la realtà esistenziale del peccato originale che poi il racconto biblico ha espresso immaginificamente nel racconto dell’albero, del serpente, della mela e della donna. Non c’è solo il male che compio io, c’è anche una oggettivazione del male frutto della colpa altrui e di tutti. Ciò inquina irrimediabilmente ogni singola decisione ed azione dell’uomo: «Il peccato originale in senso cristiano non significa che l’originaria azione personale della libertà del primo o dei primi uomini trapassi su di noi come una nostra colpa morale». Il peccato originale rappresenta in questo suo modo la situazione esistenziale dell’uomo e il linguaggio della Genesi va visto come «retroconclusione eziologica dell’esperienza esistenziale», vale a dire che prima l’uomo ha fatto l’esperienza esistenziale della co-plasmazione nel male di tutto ciò che egli fa e poi ha indicato plasticamente la causa di ciò nel racconto dell’Eden.

Sono evidenti gli echi di questa concezione in tanti aspetti della predicazione della Chiesa oggi.





(fonte: lanuovabq.it)


















sabato 21 aprile 2018

Quel “diritto alla felicità” che sopprime la libertà






di Aldo Maria Valli 20-04-2018

Oggi è un giorno tristissimo perché la Corte suprema britannica ha respinto il ricorso finalizzato a evitare che l’Alder Hey Hospital di Liverpool stacchi la ventilazione ad Alfie Evans ed a consentire il trasporto di Alfie in un altro ospedale.

Ai genitori di Alfie non resta che un’ultima carta: un ulteriore appello urgente alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Altrimenti Alfie dovrà morire lunedì.

Un quadro drammatico, terribile, degno di un racconto dell’orrore, di fronte al quale anche papa Francesco è intervenuto. Due giorni fa, prima dell’udienza generale in piazza San Pietro, il pontefice ha infatti ricevuto in forma privata Thomas Evans, il papà del piccolo Alfie. Accompagnato da Benedetta Frigerio, coraggiosa giornalista della Nuova Bussola Quotidiana che sta seguendo passo passo la vicenda, Thomas Evans ha potuto spiegare a Francesco la situazione e gli ha chiesto di far sentire la sua voce, così che il ventilatore che mantiene in vita il bambino non sia staccato dopo che nei giorni scorsi la Corte d’appello di Londra ha respinto la richiesta dei genitori di trasferire Alfie all’estero, al Bambino Gesù di Roma o a Monaco. Troppo elevato il livello di rischio, hanno sostenuto i giudici, ribadendo che il «miglior interesse» per Alfie, affetto da una malattia neurodegenerativa, è di essere lasciato morire.

Durante l’udienza generale Francesco è poi tornato sulla vicenda: «Attiro l’attenzione di nuovo su Vincent Lambert (quarantunenne francese ricoverato all’ospedale di Reims, sulla cui sorte è in atto lo scontro tra la moglie, che vorrebbe staccare la spina, e i genitori, che si battono per tenerlo in vita, ndr) e sul piccolo Alfie Evans. Vorrei ribadire e fortemente confermare che l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio, e che il nostro dovere è fare del tutto per custodire la vita. Pensiamo in silenzio e preghiamo perché sia rispettata la vita di tutte le persone, specialmente di questi due fratelli nostri».

Francesco era già intervenuto altre due volte a proposito di Alfie. La prima con un tweet pubblicato sul proprio account ufficiale lo scorso 4 aprile («È la mia sincera speranza che possa essere fatto tutto il necessario per continuare ad accompagnare con compassione il piccolo Alfie Evans e che la profonda sofferenza dei suoi genitori possa essere ascoltata. Prego per Alfie, per la sua famiglia e per tutte le persone coinvolte»); la seconda vota domenica scorsa al termine del Regina Coeli, quando disse: «Affido alla vostra preghiera le persone, come Vincent Lambert, in Francia, il piccolo Alfie Evans, in Inghilterra, e altre in diversi Paesi, che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari. Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse. Preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita».

Rispetto per la vita, dunque. Un concetto che il papa ha ribadito, in generale, in numerose occasioni, accostandolo spesso all’esortazione di combattere quella che lui ha definito la «cultura dello scarto», della quale sono vittime le persone più deboli e indifese, come, appunto, i bambini, ma anche gli anziani, i disabili, i poveri, i migranti, i profughi.

Sette punti critici

Eppure, nonostante questi appelli, gli attivisti pro-vita di tutto il mondo non sembrano essere tra i più grandi fan del papa. È quanto nota John-Henry Westen in un articolo su lifesitenews(https://www.lifesitenews.com/blogs/7-reasons-why-pro-lifers-are-unhappy-with-pope-francis-leadership) nel quale spiega che se Giovanni Paolo II era considerato il leader mondiale del movimento per la vita e anche Benedetto XVI veniva visto come un convinto difensore della vita, oggi, con Francesco, la situazione è molto diversa

Perché? I principali motivi, secondo Westen, sono sette.

Il primo è che fin dall’inizio di questo pontificato c’è stato un evidente cambiamento nel grado di attenzione verso la vita rispetto ad altre preoccupazioni. Decisivo, sotto questo profilo, un passaggio dell’intervista del papa alla Civiltà cattolica, nel 2013: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».

Questa linea è stata confermata in seguito, sia nelle interviste sia negli insegnamenti ufficiali, fino all’ultima esortazione apostolica Gaudete et exsultate, dove troviamo due punti nei quali la questione dell’aborto è menzionata sì, ma con lo scopo, più che altro, di criticare i pro-life: «La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto» (101); «Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli» (102).

Questo atteggiamento di Francesco – ed è il terzo punto indicato da Westen – va di pari passo con l’ammirazione, pubblicamente espressa, per una storica rappresentante radicale da lui definita «grande italiana» per il suo lavoro in materia di immigrazione, un giudizio che ha sconcertato e addolorato tanti sostenitori della vita che non possono dimenticare l’impegno diretto e continuativo di quell’esponente politica a favore dell’aborto e della cultura della morte. Senza contare che, proprio in virtù dell’elogio papale, la signora (che in una terribile foto di alcuni decenni fa possiamo vedere impegnata a insegnare come praticare aborti in modo rudimentale) è stata invitata a parlare in alcune chiese cattoliche.

Inoltre, ed è il quarto punto, dopo l’elezione di papa Francesco il Vaticano ha incominciato a ospitare, per interventi pubblici, personaggi che sono strenui paladini del controllo demografico fondato su contraccezione e aborto. È il caso, per esempio, di Paul Ehrlich , profeta della bomba demografica, del demografo John Bongaarts , dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, dell’economista e consulente Onu Jeffrey Sachs e del professor John Schellnhuber, catastrofista accanito, secondo il quale l’unica soluzione per i guai del mondo sta nella riduzione drastica della popolazione. Né si può dimenticare che il responsabile del Pontificio consiglio per le scienze del Vaticano, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, è lui stesso un sostenitore del «population control».

Tra i vescovi e i cardinali tenuti in alta considerazione da Francesco (quinto punto) ce ne sono alcuni che non si segnalano certamente per la loro sintonia con i pro-life, mentre uomini di Chiesa apertamente pro-vita sono caduti in disgrazia. Tra i primi si possono ricordare il cardinale americano Blase Cupich, i belgi Danneels e de Kesel e il tedesco Kasper. Al contrario, cardinali come Burke e Müller, dichiaratamente pro-life, stati emarginati.

Francesco, rileva Westen, ha inoltre ridimensionato l’impegno pro-life della Pontificia accademia per la vita, nominandone membri, fra gli altri, personaggi favorevoli all’aborto come il rabbino Fernando Szlajen (secondo il quale la Bibbia richiederebbe di abortire nel caso di pericolo per la vita della madre, di stupro e di patologie irreversibili o terminali nel feto), e il teologo anglicano Nigel Biggar, che ha detto: «Sarei incline a determinare una possibilità di aborto fino alla diciottesima settimana dopo la concezione, che è approssimativamente il tempo più prossimo all’evidenza di un’attività cerebrale e dunque della coscienza» , posizione diversissima da quella cattolica, secondo la quale siamo di fronte a una persona, con piena dignità, fin dal primissimo istante del concepimento.

Infine – settimo punto – papa Francesco ha espresso una certa sintonia, specie nella Laudato sì’, verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2015-2030 formulati dalle Nazioni Unite, se non che fra tali obiettivi c’è anche il 3.7, dove si chiede di «garantire entro il 2030 l’accesso universale ai servizi di assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva, inclusa la pianificazione familiare, l’informazione, l’educazione e l’integrazione della salute riproduttiva nelle strategie e nei programmi nazionali», e sappiamo che il concetto di pianificazione familiare include contraccezione e aborto.

Questo il quadro tracciato da John-Henry Westen e rispetto al quale occorre seriamente interrogarsi. Specie alla luce delle domande che proprio una vicenda come quella di Alfie Evans sta mettendo drammaticamente in evidenza.

Se il dovere della felicità nega la libertà

Su La Nuova Bussola Quotidiana (http://lanuovabq.it/it/lo-stato-e-il-dovere-della-felicita-a-danno-della-liberta) il professor Michele Paolini Paoletti scrive molto opportunamente: «Uno degli aspetti più apparentemente paradossali di questa storia è che il paese in cui è nato il liberalismo moderno – il Regno Unito – sia anche il luogo in cui si mina il diritto alla vita di un bimbo. Il diritto alla vita è giustamente annoverato tra i primi diritti indisponibili in tutte le dichiarazioni dei diritti umani ed in tutti i testi classici del liberalismo. In generale, nessuno può privare un essere umano della propria vita, anche se in alcune legislazioni si ammettono eccezioni come la legittima difesa e la pena di morte, che non hanno a che fare con il caso di Alfie». Ma allora, «come è possibile che lo Stato britannico, per mezzo dei suoi giudici, giunga ora ad imporre la morte ad un bimbo nel “miglior interesse” di quest’ultimo? La risposta sembra semplice: perché sono tutti impazziti. E non è lontana dal vero, in effetti, perché la permanenza nell’errore da parte di molti sta rasentando la follia. Ma se vogliamo combattere una battaglia culturale davvero efficace, dobbiamo comprendere la logica che ci ha condotti fin qui. A mio avviso, una svolta decisiva è giunta nel momento in cui si è imposto allo Stato di tutelare i cosiddetti “diritti positivi”. I diritti che ho prima citato sono tutti negativi. Dire che ciascuno di noi ha diritto alla vita equivale ad affermare che nessuno – neppure lo Stato – può privarci della vita. Dire che ciascuno di noi ha diritto alla libertà equivale ad affermare che nessuno – neppure lo Stato – può privarci della libertà. E così via. Nondimeno, gli Stati moderni si sono posti anche il compito di tutelare altri diritti: quelli al possesso di qualcosa o al raggiungimento di un certo stato. Ad esempio: il diritto al lavoro, quello alla casa, o quello al reddito (come si propone da alcuni anni). E, più in generale, un non ben definito diritto alla felicità o al benessere dei suoi cittadini. Tali diritti sono appunto positivi. Ora, la tutela e la promozione dei diritti positivi da parte dello Stato sembra essere un atto innocente e ben gradito. Chi non sarebbe lieto di ricevere dallo Stato una casa, un lavoro e un reddito? Eppure, nei diritti positivi si cela una trappola quasi diabolica. Se io ho il diritto a godere di un certo benessere, lo Stato ha il dovere di garantirmi quel benessere. Ma per garantirmi un certo benessere, lo Stato deve definire: (a) in cosa consista più precisamente il mio benessere; (b) quali sono le situazioni che lo realizzano (che devono essere predisposte dallo Stato con le sue risorse); (c) quali sono le situazioni che lo impediscono (che devono essere eliminate dallo Stato, eventualmente anche tramite la coercizione). In aggiunta, i “vecchi” diritti negativi sembrano impallidire di fronte alla concretezza dei diritti positivi. Perché curarsi della propria libertà, quando lo Stato può metterti in una condizione di benessere se solo rinunci ad un pezzetto (più o meno grande) di quella libertà? Ed eccoci ad Alfie. Il benessere di Alfie – stabilisce lo Stato – consiste nel condurre una vita votata al maggior numero possibile di piaceri fisici e al minor numero possibile di dolori fisici. La situazione di Alfie, però, impedisce di realizzare questo genere di benessere. Dunque, Alfie deve morire: è nel suo “miglior interesse”, la sua vita non è utile al progetto di benessere sanzionato dallo Stato. E così sia. Chiaramente, la tutela dei diritti positivi da parte dello Stato apre spiragli sempre più ampi al totalitarismo. Lo Stato, volendo garantire a ciascuno di noi una certa condizione positiva, si prende la briga di stabilire cosa dobbiamo desiderare e cosa non dobbiamo desiderare, come dobbiamo realizzare i nostri desideri e come non dobbiamo realizzarli. Insomma, lo Stato si prende la briga di decidere delle nostre vite. Noi abbiamo la missione di dire un secco “no!” a questa tendenza. Dobbiamo farlo anche quando lo Stato promette di tutelare i beni che ci stanno a cuore. Dietro quella promessa, infatti, si nasconde il ricatto del Potere, che ci strapperà lentamente quei beni e li fagociterà, lasciandoci sempre più soli ed inermi. Lo dobbiamo fare per Alfie».

Ecco, questa è la frontiera culturale sulla quale occorre collocarsi nell’impegno a favore della vita sempre e comunque. Una frontiera rispetto alla quale i vecchi slogan sullo sviluppo sostenibile, ora sposati in ritardo da tanti esponenti della Chiesa cattolica che così credono di essere à la page, appaiono irrimediabilmente incongrui.

Contro la falsa libertà

Benedetto XVI, insediandosi sulla cattedra di vescovo di Roma (7 maggio 2005), in una storica omelia, dopo aver sottolineato che il papa «non deve proclamare la proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte a ogni opportunismo», ne ricavò due doveri oggi essenziali: il primo è quello di ripetere costantemente «Dominus Jesus, Gesù è il Signore», il secondo quello di predicare «in modo inequivocabile l’inviolabilità dell’essere umano, l’inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale», ed è questa l’unica via per contrastare «tutti i tentativi apparentemente benevoli verso l’uomo» e le «errate interpretazioni della libertà».

In un testo del 1947 (Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana, Brescia, 2005) Romando Guardini mise in guardia con grande chiarezza dalla discriminazione operata sempre da chi postula «lo spaventoso concetto di una “vita priva di valore vitale”».

«Prime vittime furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili – e, infatti, molti di essi vennero uccisi – e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero chiuso la serie. Ma a questo punto la sfera dell’esistenza degna dell’uomo era definitivamente abbandonata, poiché una tale mentalità è barbarie nuda e cruda».

Scriveva ancora Guardini: «La malattia sopportata con coraggio, la incapacità di rendimento dalla quale fioriscano bontà, saggezza, maturità sono assai più “valori vitali” di una salute che renda brutali e di una perizia tecnica che estrometta l’esistenza». «Al forte è affidato l’indifeso, e nel fatto che l’uno usa la sua superiorità per proteggere l’altro, sta la differenza tra forza e prepotenza».

In questo giorno triste, oltre a unire le nostre preghiere a quelle dei genitori di Alfie, meditiamo sulla lezione di papa Benedetto e di Guardini.

Aldo Maria Valli












giovedì 19 aprile 2018

Paolo VI e la riforma liturgica. La approvò, ma gli piaceva poco





di Sandro Magister 19-04-2018

"Lo vuole il papa". È così che monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), l'artefice della riforma liturgica che seguì al Concilio Vaticano II, metteva ogni volta a tacere gli esperti che contestavano l'una o l'altra delle sue innovazioni più sconsiderate.

Il papa era Paolo VI, che in effetti aveva affidato proprio a Bugnini il ruolo di segretario e factotum del consiglio per la riforma della liturgia, presieduta dal cardinale Giacomo Lercaro.

Bugnini godeva di pessima reputazione presso alcuni dei componenti del consiglio. "Scellerato e mellifluo", "manovratore", "sprovvisto di cultura come di onestà": così l'ha definito nelle sue "Memorie" il grande teologo e liturgista Louis Bouyer (1913-2004), stimatissimo da Paolo VI.

Il quale papa, alla fine, fu sul punto di fare cardinale Bouyer e punì Bugnini esiliandolo come nunzio a Teheran, resosi conto dei danni che aveva procurato e della falsità di quel "Lo vuole il papa" di cui il reprobo si faceva scudo.

Nei decenni successivi, comunque, gli eredi di Bugnini dominarono il campo. Il suo segretario personale Piero Marini fu dal 1983 al 2007 il regista delle cerimonie pontificie. E di recente sono usciti su Bugnini dei libri che ne esaltano il ruolo.

Ma tornando a Paolo VI, come egli visse la vicenda della riforma liturgica? I difensori della liturgia preconciliare additano in lui il responsabile ultimo di tutte le innovazioni.

In realtà tra Paolo VI e la riforma che man mano prendeva corpo non c'era affatto quella sintonia che i critici gli rimproverano.

Anzi, non poche volte Paolo VI soffriva per ciò che vedeva compiersi, e che era all'opposto della sua cultura liturgica, della sua sensibilità, dello spirito con cui lui stesso celebrava.

C'è un piccolo libro, uscito nei giorni scorsi, che getta una nuova luce proprio su questa personale sofferenza di papa Giovanni Battista Montini per una riforma liturgica di cui non condivideva tante cose:

“Paolo VI. Una storia minima”, a cura di Leonardo Sapienza, Edizioni VivereIn, Monopoli, 2018.

In questo libro monsignor Sapienza – che dal 2012 è reggente della prefettura della casa pontificia – raccoglie varie pagine dei "Diari" redatti da colui che con Paolo VI era il maestro delle cerimonie pontificie, Virgilio Noè (1922-2011), poi divenuto cardinale nel 1991.

Con questi "Diari" Noè prolungò una tradizione che risale al "Liber notarum" del tedesco Johannes Burckardt, cerimoniere di Alessandro VI. Nel resoconto di ogni celebrazione Noè registrava anche tutto ciò che Paolo VI gli aveva detto prima e dopo il rito, compresi i suoi commenti a talune novità della riforma liturgica sperimentati per la prima volta in quell'occasione.

Ad esempio, il 3 giugno 1971, dopo la messa di commemorazione della morte di Giovanni XXIII, Paolo VI commentò:

"Come mai nella liturgia dei defunti non si parla più di peccato e di espiazione? Manca completamente l’implorazione alla misericordia del Signore. Anche stamattina, per la messa celebrata nelle Grotte [vaticane], pur avendo dei testi bellissimi, mancava in essi tuttavia il senso del peccato e il senso della misericordia. Ma abbiamo bisogno di questo! E quando verrà la mia ultima ora, domandate misericordia per me al Signore, perché ne ho tanto bisogno!".

E ancora nel 1975, dopo un'altra messa celebrata in memoria di Giovanni XXIII:

"Certo, in questa liturgia mancano i grandi temi della morte, del giudizio…".

Il riferimento non è esplicito, ma Paolo VI qui lamentava, tra l'altro, l'estromissione dalla liturgia dei defunti della grandiosa sequenza "Dies irae", che in effetti oggi non si recita né si canta più nelle messe, ma sopravvive solo nei concerti, nelle composizioni di Mozart, Verdi e di altri musicisti.

Un'altra volta, il 10 aprile 1971, al termine della veglia pasquale riformata, Paolo VI commentò:

"Certo che la nuova liturgia ha molto alleggerito la simbologia. Però la esagerata semplificazione ha tolto degli elementi che una volta facevano molta presa sull’animo dei fedeli".

E chiese al suo cerimoniere: "Questa liturgia della veglia pasquale è definitiva?".

Al che Noè rispose: "Sì, Padre Santo, ormai i libri liturgici sono stati stampati".

"Ma si potrà ancora cambiare qualche cosa?", insisté il papa, evidentemente non soddisfatto.

Un'altra volta, il 24 settembre 1972, Paolo VI replicò al proprio segretario Pasquale Macchi, che lamentava la lunghezza del canto del "Credo":

"Ma ci deve essere qualche isola in cui tutti si ritrovino insieme: ad esempio il 'Credo', il 'Pater noster' in gregoriano...".

Il 18 maggio 1975, dopo aver notato più d'una volta che durante la distribuzione della comunione, in basilica o in piazza San Pietro, c'era chi passava di mano in mano l'ostia consacrata, Paolo VI commentò:

"Il pane eucaristico non può essere trattato con tanta libertà! I fedeli, in questi casi, si comportano da… infedeli!".

Prima di ogni messa, mentre rivestiva i paramenti sacri, Paolo VI continuò a recitare le preghiere previste nel messale antico "cum sacerdos induitur sacerdotalibus paramentis" anche dopo che erano state abolite. E un giorno, il 24 settembre 1972, chiese sorridendo a Noè: "È proibito recitare queste preghiere mentre si indossano i paramenti?".

"No, Padre Santo: si possono recitare, se lo si vuole", gli rispose il cerimoniere.

E il papa: "Ma non si trovano più queste preghiere in nessun libro: anche nella sagrestia non ci sono più i cartelli… E così si perderanno!".

Sono piccole battute, espressive però della sensibilità liturgica di papa Montini e del suo disagio per una riforma che vedeva procedere fuori misura, come lo stesso Noè ha annotato nei suoi "Diari":

"Si ha l’impressione che il papa non sia completamente soddisfatto di quello che è stato compiuto nella riforma liturgica. […] Non sempre conosce tutto quello che è stato fatto per la riforma liturgica. Forse qualche volta gli è sfuggito qualche cosa, nel momento della preparazione e dell’approvazione".

Anche questo dovrà essere ricordato di lui, quando nel prossimo autunno Paolo VI sarà proclamato santo.

*

A titolo di documentazione, ecco qui di seguito – in latino e in lingua moderna – le preghiere che i sacerdoti dicevano mentre indossavano i paramenti sacri e che Paolo VI continuò a recitare anche dopo la loro cancellazione dagli attuali libri liturgici.

Cum lavat manus, dicat:
Mentre si lava le mani, dica:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam: ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.
Concedi, o Signore, che le mie mani siano monde da ogni macchia: affinché possa servirti con purezza di mente e di corpo.

Ad amictum, dum ponitur super caput, dicat:
All'amitto, mentre se lo poggia sul capo, dica:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.
Imponi, o Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per vincere gli assalti del demonio.

Ad albam, cum ea induitur:
Al camice, mentre lo indossa:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruat sempiternis.
Purificami, o Signore, e monda il mio cuore: affinché, purificato nel sangue dell’Agnello, io goda dei gaudii eterni.

Ad cingulum, dum se cingit:
Al cingolo, mentre se ne cinge:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et extingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.
Cingimi, o Signore, col cingolo della purezza, ed estingui nei miei lombi l’ardore della concupiscenza; affinché si mantenga in me la virtú della continenza e della castità.

Ad manipulum, dum imponitur bracchio sinistro:
Al manipolo, mentre se lo pone sul braccio sinistro:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.
Fa, o Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore: affinché riceva con gioia la mercede del mio lavoro.

Ad stolam, dum imponitur collo:
Alla stola, mentre se la pone sul collo:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis: et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.
Rendimi, o Signore, la stola dell’immortalità, perduta per la prevaricazione del progenitore; e sebbene io acceda indegno al tuo sacro mistero, fa che possa meritare il gaudio eterno.

Ad casulam, cum assumitur:
Alla pianeta, mentre se la impone:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.
O Signore, che hai detto: Il mio giogo è soave e il mio carico è lieve: fa che io possa portare questo in modo da conseguire la tua grazia. Così sia.



















lunedì 16 aprile 2018

"Rolando mi ha guidato per far trovare la pace a mio padre"



“Ognuno ha un compito nella vita, una missione: la mia era fare ritrovare la pace a mio padre". Parla Meris, la figlia di Giuseppe Corghi, il partigiano che nel 1945 uccise il seminarista martire Rolando Rivi, oggi beato. Un evento di riconciliazione storico e toccante quello vissuto ieri nel santuario di San Valentino (RE) dove il seminarista è sepolto. A 73 anni da quei fatti, la figlia dell'uomo che sparò a Rivi in odium fidei abbraccia la sorella del seminarista martire e chiede perdono per il padre invocando proprio l'intercessione del beato da lui ucciso. "Una stretta di mano tra le nostre due famiglie sia il simbolo della giusta espiazione per l’odio fraterno".



Andrea Zambrano 16-04-2018

“Ognuno ha un compito nella vita, una missione: la mia era fare ritrovare la pace a mio padre e tentare di riconciliare i nostri cuori. Con l’aiuto di Dio oggi si compirà dentro una stretta di mano”. Meris Corghi ha la voce rotta dalla commozione. E la pieve di San Valentino dove è sepolto il Beato Rolando Rivi, proprio ieri eretta a santuario dal vescovo di Reggio-Guastalla Massimo Camisasca, era troppo piccola per contenere tutti i fedeli che si erano dati appuntamento per questo gesto storico di riconciliazione.


Un gesto che apre una pagina nuova e gloriosa nel difficile percorso di rappacificazione della ferita della guerra civile chiamata Resistenza, che ancora oggi sanguina in un’Italia che fatica ad accettare quella tragedia che portò all’uccisione di migliaia di innocenti solo per odio politico.


Eccola Meris Corghi. Uno sguardo dignitoso e umile. Si presenta così, senza imbarazzi, ma con la mitezza di chi sa di avere la coscienza a posto dopo una lunga traversata nel deserto. Con il suo nome e dice fin dall’inizio di chi è figlia. “Giuseppe Corghi era mio padre”. E’ lui il partigiano che il 13 aprile del 1945 freddò a colpi di pistola il giovane seminarista 14enne Rolando Rivi colpevole di essere soltanto un ragazzino innamorato di Gesù e il prete di domani.


L’evento di riconciliazione tra la figlia dell’assassino di Rolando e la sorella e la cognata della vittima innocente avviene sotto gli occhi delle telecamere, a suggellare un momento storico di riconciliazione frutto della verità. Meris ha partecipato alla messa solenne per l’anniversario dell’uccisione del beato con il figlio che le è stato sempre accanto. Ed è entrata in chiesa all’inizio della celebrazione accompagnata da Alfonsino, assieme a Sergio Rivi, uno dei cugini di Rolando che in questi 30 anni si sono sempre battuti per la verità su quel delitto che la Chiesa ha sancito nel 2013 come martirio in odium fidei.


Insieme depongono una corona di fiori davanti all’altare maggiore della pieve romanica dove il corpo di Rolando è nascosto da un paliotto d’altare che lo raffigura assieme a Maria e Gesù. Il vescovo Camisasca assiste in disparte alla scena, commosso. E durante la messa questa commozione per la potenza di Dio, per intercessione del Beato Rolando, traspare quando il pastore reggiano, nell’omelia, dice che “il perdono che oggi avviene è il segno che Egli è in mezzo a noi. E’ Gesù che, per intercessione di Rolando, attrae i cuori di coloro che oggi chiedono e donano il perdono. Egli è il sole, che scende nelle profondità delle nostre inimicizie per sanarle”.


E Meris è dovuta scendere nelle profondità di quel fatto così tragico del quale lei non poteva essere in alcun modo responsabile per provare a riannodare i fili di una salvezza di cui solo Dio può disporre, ma che però una figlia può chiedere offrendosi in espiazione al posto del padre. Meris usa proprio questa parola così profonda, così drammaticamente piena per esprimere il significato vero del suo gesto: “Questa stretta di mano tra le nostre due famiglie sia il simbolo della giusta espiazione per l’odio fraterno per ogni padre, per ogni nonno, per ogni bisnonno che ognuno ha nella nostra famiglia tornato vivo dalla guerra”.


E’ solo allora che si comprende l’immensità di quel gesto che ci richiama all’eternità, si chiariscono le intenzioni sincere e decisive di questa donna rimasta nel nascondimento per tutta la vita e che solo oggi ha mostrato alla Chiesa di essere una sua figlia prediletta. Meris, in fondo, non ha alcun rancore da esibire, ma chiede sommessamente soltanto che il padre che ama partecipi assieme a Rolando di quella salvezza eterna che ieri è stata la vera protagonista nascosta dietro quella stretta di mano tra Rosanna Rivi, sorella di Rolando e Maria, moglie del fratello Guido e la figlia di Corghi.


Che cosa doveva fare? Consolarsi nell'autogiustificazionismo e coltivare una vita piena di rimorsi? Ha scelto invece la difficile via di una sorta di espiazione vicaria facendosi carico della colpa del padre, ne ha portato il peso pubblicamente per non lasciare nulla di intentato su questa terra affinché l'uomo che ha amato e che ha tanto sbagliato partecipi della beatitudine eterna. In poche parole: questa donna non vuole che il padre vada all'inferno, vuol dire che ci crede, e per questo offre espiazioni (le ha chiamate proprio così) affinché la riconciliazione non sia un momento buonista, ma un vero atto di pacificazione nella verità. Verità che questa donna ha detto, che cosa doveva fare di più? Violentare la sua coscienza e maledire il padre? No, perché non avrebbe concorso per salvargli l'anima, l'unica cosa che le sta a cuore, e giustamente.


Il padre per quel delitto venne condannato assieme a Delciso Rioli a 23 anni di carcere, per poi rifarsi una vita. E in questa vita, trascorsa in provincia di Bologna, a Casalecchio di Reno, nella vita di Giuseppe Corghi entrò Meris, la figlia. Che all’epoca dei fatti non era nata e di quei fatti non parlò mai con il padre. Come però sia venuta a conoscenza di quel terribile segreto è ancora nell’intimità della donna, la quale però ad un certo punto decide di affrontare il destino che l’attende: “Durante un percorso che mi ha trasformato profondamente nell’animo, ho sentito che c’era qualcosa che dovevo fare, ma non sapevo cosa. Non sapevo praticamente nulla di questa vicenda, perché io non ero nata all’epoca e dopo ero troppo piccola per capire i discorsi. Ma, piano piano hanno cominciato ad affiorare dei tasselli, ho cominciato a pormi delle domande e ho iniziato un cammino che mi ha portato fino a qui oggi. Non ho quasi idea di come sia successo, so soltanto che è stato come essere guidata. Sì, sono stata guidata, forse dalla presenza di mio padre nel cercare una risoluzione per poter ritrovare la pace. Forse dalla luce divina che ognuno di noi porta nel cuore, forse dallo stesso beato Rolando che desidera più di ogni altro in questo momento storico e decisivo per il mondo l’unione e la pace”.


Ritrovare la pace. Meris lo dice spesso durante la lettura della lunga lettera al termine della messa (LEGGI LA LETTERA INTEGRALE). “Vi chiedo con immensa umiltà di permettermi di pronunciare queste parole che mi sono state dettate dal cuore. Sono una figlia anche io, come tutti”. E poi si lascia andare a ricordi teneri d’infanzia: “Ho sempre pensato a mio padre come ogni figlia dovrebbe pensare a un padre: una forza, un pilastro, un punto di riferimento. Da lui ho saputo sempre molto dell’amore e molto poco della guerra. Lui era mio padre, il mio esempio. Mi faceva ballare, mi faceva girare sulle punte come una ballerina. Era tutto. E’ impegnativo per me essere qui ora, quello che ha stravolto la vita di mio padre e ha travolto la vita di Rolando è l’odio che cresce tra gli uomini e si trasforma nella guerra”.


Perché “siamo tutti fratelli e nella guerra tutti perdiamo. Avete perso Rolando e si è perduto mio padre, ma Cristo ha salvato tutti gli uomini. Prima di spirare sulla croce usò il suo ultimo fiato solo per perdonare i suoi carnefici. “Padre perdona loro perché non sanno”. E’ questa la speranza recondita e tenace di Meris: che Gesù abbia perdonato quell’uomo che la faceva ballare come una principessa e che l’ha preservata da quel passato così tragico e doloroso.


In fondo, dopo questo lungo cammino, Meris ha capito l’essenziale: “L’unica vera esplosione e mi permetto di parlare a nome di tutti, sia quella della gioia sui sentieri dei nostri figli. Facciamo che diventino creatori di pace come lo è diventato il beato Rolando in questa vicenda e come cerco di esserlo io in questo momento nella memoria di mio padre”. Un appello alla pace che si riverberi anche sull’oggi in cui i signori della morte e della guerra continuano le loro ideologie.


Questo solo importa, se si ha a cuore la vita eterna dei propri cari: “Trasformati nella morte e riuniti dall’amore e dal perdono del Padre, che il sorriso di Rolando possa risplendere su tutti voi e accanto a lui anche quello di mio padre. Ciò che l’odio del separatore ha diviso possa riunirsi nell’amore del sacro Cuore di Gesù e nell’amore del Padre”.


Un lungo applauso ha sciolto l’emozione e la tensione. Le tre donne si sono abbracciate proprio sotto lo sguardo tenero del martire bambino. Il gesto di Meris ci riporta ad un compito fondamentale per l’uomo sulla terra: quello di pregare per tutte le anime, specialmente quelle più bisognose della misericordia di Dio. Sapendo che è nostro compito offrire sacrifici – e niente è più perfetto di una messa - perché il Signore possa farli partecipi di quel mistero eterno al quale oggi, è la speranza di tutti, possano trovarsi uniti, finalmente riconciliati grazie alle preghiere sulla terra, la vittima e il carnefice, il lupo che pascolerà assieme all’agnello. Perché ieri si è accolta davvero la redenzione di Cristo e gli esseri umani divisi dall’odio con Lui saranno perfettamente uniti. E’ la verità della Chiesa che, oggi come sempre viene a ricordarci di non smettere di chiedere la salvezza per le anime che hanno bisogno della nostra intercessione. Una donna che ha sofferto per colpe non sue sta a testimoniarlo. Si è umiliata per amore del padre chiedendo perdono, regalandogli così uno frammento di beatitudine eterna su cui Dio ora potrà far valere la sua giustizia.













sabato 14 aprile 2018

La sommossa per Alfie Evans






Tom Evans cerca di portare via il figlio dall’Alder Hey, la polizia irrompe in ospedale, a centinaia si radunano per chiedere la liberazione del bimbo. Perché l’Inghilterra ha paura della vita «futile» di un bambino?

Aprile 14, 2018 Caterina Giojelli

Gli hanno detto che i supporti vitali di Alfie verranno staccati il prima possibile, al massimo entro il 21 di questo mese. Che non può portare fuori dall’ospedale suo figlio, se lo farà verrà arrestato. Che il bambino è attualmente sotto ordine di protezione, «ma tutto questo è falso. Andremo in appello lunedì», spiega il padre Tom Evans intervistato da Benedetta Frigerio per la Nuova bussola quotidiana. Il 16 aprile il caso di Alfie Evans tornerà dunque davanti ai giudici e fino ad allora, nonostante non sia stata revocata loro la patria potestà, i genitori non potranno trasferirlo da nessuna parte: ha stabilito così un documento del tribunale consegnato ieri dai medici agli Evans che attesterebbe proprio il contrario di quanto sostenuto dallo stesso giudice dell’Alta Corte di Londra Anthony Paul Hayden nell’udienza dell’11 aprile, cioè che Alfie non è prigioniero dell’ospedale pediatrico in cui è ricoverato. Le notizie che giungono da Liverpool sono confuse e contraddittorie; in un comunicato stampa diffuso dalla famiglia si spiega che la notte tra il 12 e il 13 aprile l’ospedale ha ottenuto via fax un ordine per porre il piccolo sotto la custodia del tribunale, esautorando i genitori dei loro diritti. Durante l’udienza dell’11 aprile infatti Hayden, dopo aver definito «futile» la vita del piccolo come parlasse di un trattamento sanitario, aveva deciso di respingere la richiesta di habeas corpus e le controprove presentate dall’avvocato della famiglia, confermando il distacco dei supporti vitali in data, ore e luogo da non rendere pubblici «per tutelare il diritto alla privacy del bambino».

LA REVOCA DEL DOVERE DI CURA. Proprio l’ossessione per la privacy più volte sottolineata in aula dal giudice nella sua durissima reprimenda ai genitori del bambino – rei di aver diffuso sui social i video che documenterebbero un miglioramento delle condizioni di Alfie dopo la diminuzione delle dosi di un farmaco –, ha prodotto un effetto del tutto opposto la sera del 12 aprile, quando Tom Evans, a poche ore dall'”esecuzione” (secondo molti media fissata per il giorno successivo) ha raggiunto l’Alder Hey di Liverpool: passaporti in tasca, parere legale del Christian Legal Center che rappresenta la sua famiglia alla mano, équipe medica polacca ed eliambulanza pronta a partire probabilmente per l’Italia (dove sappiamo che l’ospedale Bambin Gesù ha dato la propria disponibilità al ricovero del bambino, ma si è detto disponibile a un consulto polispecialistico anche l’Istituto neurologico Besta di Milano e l’ospedale di Monaco), il padre di Alfie si è presentato in reparto con ventilatore e valigie per esercitare il proprio diritto genitoriale, revocando formalmente il dovere di cura dall’Alder Hey e trasferendolo ai nuovi medici. Un atto legale ed esecutivo nel Regno Unito, dove, ricordiamolo, nonostante l’avvocato della famiglia avesse invocato per il piccolo l’habeas corpus, richiamandosi cioè al principio fondamentale inglese della inviolabilità personale, il giudice si era rifiutato di pronunciarsi in materia, affermando che il suo “unico mandato” era quello di stabilire un piano di fine vita per Alfie. Secondo il Christian Legal Center i genitori, con il supporto di un team di professionisti medici e con le necessarie attrezzature di supporto vitale, in base alla legge inglese avevano pertanto il diritto di portare via Alfie.

LA POLIZIA IRROMPE IN OSPEDALE. Quello che è successo dopo, tutto filmato dai presenti e diffuso sui social da migliaia e migliaia di persone, è che la polizia chiamata dall’Alder Hey per fermare Evans ha fatto irruzione nell’ospedale, bloccando letteralmente tutte le porte di entrata e di uscita, trasferendo tutti i bambini dal reparto di terapia intensiva dove si trovava Alfie, mentre a centinaia si radunavano fuori a manifestare e chiedere a gran voce la “liberazione” del piccolo. I negoziati si sono protratti fino a notte fonda: pare che sia stato solo a questo punto che i servizi sociali abbiano richiesto un ordine di protezione per il bambino e la rimozione dei diritti parentali ai genitori, e che sia stata inviata una richiesta di ordine restrittivo al giudice da parte dell’ospedale. Non solo, dal comunicato della famiglia si apprende che durante quelle ore concitate il loro avvocato riceveva ordine di presentarsi la mattina seguente a Londra per dare conto al giudice Hayden del parere legale consegnato a Tom Evans. Lo stesso giudice che ha inspiegabilmente dichiarato in tribunale che ad Alfie era stata diagnosticata una malattia mitocondriale, cosa che ad oggi non è stata suffragata da prove. La sommossa di Liverpool rimbalzata su tutti i social è servita: la Corte riesaminerà il caso e, stando al comunicato, valuterà la richiesta di habeas corpus sospendendo fino a lunedì la rimozione dei supporti vitali. Nel frattempo però un bambino resta a tutti gli effetti recluso e ci costringe ancora una volta a prendere posizione laddove si presume che tutto debba essere delegato a leggi e ordinamenti. E a porci delle domande.

SEQUESTRO DI STATO. Ma di cosa hanno paura in Inghilterra? Della vita «futile» di un bambino di 23 mesi a cui non è ancora stata diagnosticata la sua malattia? Dei suoi genitori da fermare e bloccare in formazione antiterroristica? Quello che è certo, come ha scritto Assuntina Morresi sull’Occidentale, è che «ormai il re è nudo», «se Charlie Gard ha acceso i riflettori squarciando il velo sul sistema eutanasico (ma la legge britannica ancora proibisce l’eutanasia) messo in piedi nel Regno Unito, Alfie potrebbe far saltare proprio quel sistema: basta con i sequestri di Stato, basta con la morte di Stato! E il surreale spiegamento di forze messo in campo dagli inglesi mostra quanto le autorità temano questo pericoloso precedente. Ma d’altra parte, quanto può durare la polizia a piantonare un bambino malato di due anni, in terapia intensiva, insieme al suo papà e alla sua mamma? E come pensano di staccare il ventilatore, oggi?». Oggi che due genitori giovani si sono ribellati a tutti i discorsi, le sentenze, i giudici per permettere a un figlio di restare un avvenimento e non un programma difettoso da terminare.

















mercoledì 11 aprile 2018

Santa Gemma, dalla passione nasce l'amore a Cristo








Centoquindici anni fa nasceva al cielo santa Gemma Galgani e allora è quantomai opportuno ricordare in che cosa consistette la santità di questa giovane straordinaria, così cara alla pietà cristiana e altrettanto incomprensibile per chi non crede in Cristo crocifisso e risorto.





Ermes Dovico 11-04-2018

Centoquindici anni fa nasceva al cielo santa Gemma Galgani (1878-1903) e allora è quantomai opportuno ricordare in che cosa consistette la santità di questa giovane straordinaria, così cara alla pietà cristiana e altrettanto incomprensibile per chi non crede in Cristo crocifisso e risorto. In occasione della sua canonizzazione, nel 1940, Pio XII la definì la “stella” del suo pontificato e la chiamò “viva immagine di Gesù Cristo”, parole che ben riflettono i suoi 25 anni di vita terrena, segnati dall’esperienza di un dolore e di un amore ineffabili, che sperimentò di pari passo al crescere dei doni soprannaturali con cui Nostro Signore andava arricchendola.

Il primo luogo in cui imparò ad amare Dio fu la famiglia, dove pure non le mancarono le sofferenze. Quinta di otto figli, Gemma nacque a Capannori, nei pressi di Lucca, da un farmacista di nome Enrico e da Aurelia Landi. Fu in particolare la madre a trasmetterle l’inclinazione ai beni celesti, come Gemma ricordò nella sua Autobiografia, scritta nel 1901 in obbedienza a padre Germano, un passionista che era diventato il suo direttore spirituale e che lei prese a chiamare “babbo mio”. La madre le disse che Gesù era morto in croce per amore degli uomini, le insegnò le prime devozioni e preghiere, che la bimba apprese anche all’asilo delle sorelle Vallini, dalle quali fu mandata a due anni e che al processo per la sua canonizzazione diranno: “… mostrò sviluppato l’uso della ragione ed un’intelligenza precoce, perché potemmo insegnarle subito le orazioni che duravano venticinque minuti senza mai annoiarsi”. A cinque anni la bimba sapeva già leggere perfettamente il breviario per l’ufficio della Madonna e dei defunti.

Presto arrivò la prima grande prova: la malattia della madre, costretta a letto dalla tisi. La piccola Gemma piangeva e pregava ogni sera insieme alla mamma e da lei era stata preparata così: “Io sono malata – mi ripeteva – e dovrò morire, ti dovrò lasciare; o se potessi condurti con me! Verresti?”. Volendo sapere dove, si sentì dire: “In Paradiso, con Gesù, cogli Angeli…”. Il 26 maggio 1885, giorno della sua Cresima, ebbe la prima esperienza mistica: “Tutto ad un tratto una voce al cuore mi disse: Me la vuoi dare a me la mamma? Sì – risposi – ma se mi prendete anche me. No – mi ripeté la solita voce – dammela volentieri la mamma tua. Tu per ora devi rimanere col babbo. Te la condurrò in Cielo, sai? Me la dai volentieri? Fui costretta a rispondere di sì”. La madre morì nel settembre dell’anno seguente mentre Gemma si trovava nella casa degli zii materni, dove il padre l’aveva condotta due mesi dopo la Cresima perché temeva di perdere per contagio anche la figlia, desiderosa di stare sempre accanto a lei.

Alcuni mesi più tardi iniziò il periodo di preparazione alla Prima Comunione, da lei descritto come bellissimo (“ero in Paradiso”): era il 1887 e Gemma studiava catechismo dalle Oblate dello Spirito Santo. Sentendo parlare del Crocifisso al modo di come gliene aveva parlato la madre, espresse a una suora il desiderio di conoscere ogni cosa della Passione di Gesù. Una sera, il racconto dei dolori provati da Nostro Signore suscitò una tale compassione in Gemma che le venne all’istante una forte febbre. La domenica della prima Eucaristia fu per lei il culmine della gioia: “Ciò che passò tra me e Gesù in quel momento, non so esprimerlo. Gesù si fece sentire forte forte alla misera anima mia. Capii in quel momento che le delizie del Cielo non sono come quelle della terra. Mi sentii presa dal desiderio di render continua quell’unione col mio Dio”.

Cresceva in pietà, noncurante delle derisioni di cui era oggetto anche da parte di alcuni familiari, come la sorella Angelina che un giorno entrò con le compagne nella camera di Gemma per schernirla mentre era in preghiera o del fratello Guido che bestemmiava in sua presenza per provocarla. I dolori per la perdita degli affetti, inoltre, continuarono. Nel 1893 vide morire di tubercolosi il fratello prediletto, Gino, un seminarista appena diciottenne. Quattro anni più tardi rimase orfana pure del padre, che a causa di una serie di disgrazie finanziarie lasciò i figli in povertà, tanto che i creditori arrivarono a mettere le mani in tasca a Gemma per spogliarla di quelle poche monete che aveva. Alla bellissima diciannovenne, presa in affido dagli zii, non mancarono convenienti proposte di matrimonio, ma lei non ne volle sapere: diceva che era “tutta di Gesù”. In quel periodo cadde gravemente malata, soffrendo una paralisi alle gambe a cui si aggiunsero un intensissimo dolore alla testa e la perdita dei capelli. Si sentì consolare dall’angelo custode (“se Gesù ti affligge nel corpo, fa per sempre più purificarti nello spirito. Sii buona”, le disse l’angelo, che le appariva da quando aveva 16 anni) e dallo stesso Gesù, ma ebbe comunque momenti di grande difficoltà spirituale.

Nello scoramento per quella situazione fu tentata da Satana, che le promise di guarirla e di fare qualunque cosa per lei se gli avesse dato retta. Quando Gemma stava per cedere, si ricordò di quanto aveva letto nella biografia dell’allora venerabile Gabriele dell’Addolorata (1838-1862), il santo passionista morto ancor più giovane di lei, e disse forte: “Prima l’anima e poi il corpo!”. Gli assalti del demonio, che arrivò a lasciarle i segni fisici delle sue vessazioni, proseguirono, ma la giovane iniziò a ricevere il conforto diretto di san Gabriele. Questi le apparve più volte e pregava accanto a lei, al punto che Gemma disse di sentirne il calore delle mani e il respiro sul viso. “Sorella mia”, la chiamava il santo, che la aiutò ad accettare definitivamente la via del Calvario. Seguirono il voto di verginità, che desiderava fare da tempo, e l’inspiegabile guarigione dopo una novena a Margherita Maria Alacoque (1647-1690): con il suo improvviso rialzarsi dal letto, Gemma meravigliò i medici e tutti i lucchesi, che iniziarono a chiamarla “la ragazzina del miracolo”.

Ma le più grandi grazie dovevano ancora arrivare e si accompagnarono alla maturazione della sua spiritualità passionista. Il Giovedì Santo del 1899 fece per la prima volta l’Ora Santa, un’ora di orazione per tenere compagnia a Gesù agonizzante nel Getsemani: “Mi trovai dinanzi a Gesù crocifisso. Versava sangue da tutte le parti”. Continuò a fare l’Ora Santa ogni giovedì, con Gesù che le condivideva la tristezza mortale provata nell’Orto a causa dei peccati di tutti gli uomini. Un giorno, mostrandole le cinque piaghe aperte, le disse: “Vedi questa croce, queste spine, questo Sangue? Sono tutte opere di amore, e di amore infinito. Vedi fino a qual segno io ti ho amato? Mi vuoi amare davvero? Impara prima a soffrire. Il soffrire insegna ad amare”.

Sta qui la santità di Gemma: capì la realtà del peccato, soffrì per Gesù e con Gesù, tramutando il suo dolore in un amore immenso per le anime che desiderava salvare, volendo strapparle al demonio e consegnarle a Dio. Ecco perché visse tutte le esperienze della Passione, dal sudore di sangue alla coronazione di spine, dalla crocifissione alla flagellazione mistica, fino alle stimmate che le comparvero sulle mani, i piedi e il costato l’8 giugno 1899, precedute da un’apparizione della Madonna, che chiamava “la Mamma mia celeste”. Le stimmate, che la Chiesa ha riconosciuto essere autentiche, si riaprivano ogni settimana alla sera del giovedì per richiudersi dopo le tre del venerdì pomeriggio.

La sua ultima Passione, assistita amorevolmente dalla famiglia Giannini, la visse nel 1903, quando si spense di tubercolosi alle 13:45 del Sabato Santo. Si era addormentata poco prima sentendo suonare le campane di mezzogiorno, già annuncianti (secondo l’uso del tempo) la Resurrezione. Da allora contempla nella gloria eterna il Volto del suo Sposo, che le ha dato il centuplo già in terra: “Soffro, vivo e muoio continuamente, la mia vita con tante altre vite del mondo non la cambierei a nessun patto. Mai non sto ferma: vorrei volare, parlare e a tutti vorrei gridare: Amate Gesù solo”.













martedì 10 aprile 2018

«Se si potesse vedere con gli occhi del corpo quanti demoni hanno invaso la terra, non si vedrebbe più il sole!»








Padre Stefano Manelli*, FI

Il demonio è il grande nemico dell’uomo. È il «nemico numero uno» dice il papa Paolo VI.
Satana appare agli inizi del genere umano, e si presenta «fin da principio omicida, mentitore e padre della menzogna» (Gv 8,44-5). Riesce a far cadere i nostri progenitori Adamo ed Eva, e diventa «il principe di questo mondo» (2 Cor 4,4), «l’accusatore dei nostri fratelli» (Ap 12,10).
Con il peccato originale, quindi, «tutto il mondo è stato posto sotto il maligno» (1 Gv 5,19) e i demoni sono «i dominatori di questo mondo tenebroso» (Ef 6,12).
Come appaiono tenebrosi i primi eventi dell’uma-
nità novella, a causa di questo infernale assassino, che ha «l’impero delle tenebre» (Lc 22,53)!
Il beato Pio da Pietrelcina, in una lettera al suo Padre spirituale ha accennato alla figura mostruosa di satana, visto in una visione come un essere orrendo e gigantesco, alto come una montagna nera...
San Pietro ce lo presenta con l’immagine di un leone ruggente sempre pronto a sbranarci (1 Pt 5,8-9). Come lo tortura l’invidia, perché noi possiamo salvarci! Egli ci vuole tutti con sé all’Inferno.

«L’aurora che sorge... »
Anche una scena stupenda, però, ci appare agli inizi dell’umanità soggiogata da satana e oppressa dal peccato. Una Donna sublime, con il suo Figlio, «schiaccia la testa» (Gn 3,15) al serpente tentatore. L’Immacolata, vincitrice di satana, splende nelle tenebre del peccato, con il suo divin Figlio. L’Immacolata è la disfatta di satana.
La pagina del Genesi in cui Dio stesso presenta l’Immacolata è simile a un’aurora che si alza meravigliosa sulla notte dell’umanità peccatrice. L’autore ispirato del Cantico dei cantici così esclama, rapito: «Chi è costei che s’avanza come l’aurora, bella come la luna, eletta come il sole, tremenda come esercito schierato?» (Ct 6,9).
Questa è l’Immacolata, la Guerriera invincibile, la Signora delle Vittorie, il terrore dei demoni.
Ci basti qui ricordare un particolare narrato da santa Bernadetta Soubirous dell’Immacolata a Lourdes. La piccola veggente vide da un lato della grotta una torma di demoni scalmanati che le urlavano grida infernali. Spaventata, santa Bernadetta alzò subito gli occhi all’Immacolata. E bastò che l’Immacolata volgesse un solo sguardo severo verso i demoni, perché questi si dessero a precipitosa fuga.
Cosi il demonio, di fronte all’Immacolata, dimostra di essere davvero ciò che significa il suo nome Beelzebul: un «dio delle mosche»!

Tentatori in guanti gialli
La tattica del demonio è quella di allettare i sensi e l’immaginazione dell’uomo per far prevaricare lo spirito. Si presenta come un consigliere e un servitore in guanti gialli, con offerte di beni e piaceri seducenti da guadagnare. Così fece con Eva (Gn 3,1-7). Così tentò anche con Gesù nel deserto (Mt 4,1-11) e con tanti santi di ogni tempo: san Benedetto, san Francesco d’Assisi, santa Teresa d’Avila, il santo Curato d’Ars, san Giovanni Bosco, il beato Pio da Pietrelcina.
Abilissimo e scaltro com’è, egli sa servirsi di tutto per rovinarci: gli basta un’occhiata immodesta di David che guarda Betsabea (2 Sam 11,2-26), una golosità di Esaù che vuole un piatto di lenticchie (Gn 25,29-34), un attaccamento al denaro di Anania e Saffira che nascondono dei soldi (At 5,1-10).
Egli tenta persino di proporre cose apparentemente utili per le anime. Si sa che il santo Curato d’Ars predicava in maniera semplicissima, feconda di grazie per le anime. Ebbene, il demonio andò da lui tutto premuroso e lo esortò a predicare in maniera dotta e difficile, assicurandogli la fama di grande predicatore.
Il Santo avvertì l’inganno, respinse l’insidia e continuò con la sua predicazione facile ed efficace. Dovette pagarla, però, con molti dispetti furiosi che il demonio gli fece di giorno e di notte.

«Quattro stupidi... »
Il capolavoro dell’arte di satana è arrivare a convincere gli uomini che egli non esiste. A questo punto, è chiaro, il demonio può trattare gli uomini da veri burattini.
Una volta il beato Pio da Pietrelcina ascoltò una predica in cui l’oratore non faceva che chiedersi se veramente il demonio non esiste, come dicono alcuni. Soltanto alla fine, l’oratore concluse affermando l’esistenza del demonio.
Dopo la predica, il beato Pio ammonì il predicatore dicendogli che quando si parla del demonio bisogna parlare subito della sua esistenza e della sua azione nefasta nel mondo; soltanto alla fine si può aggiungere: «Ci sono, poi, quattro stupidi che osano negare l’esistenza del demonio... ».
Questi «quattro stupidi» oggi sono diventati molti, persino nella Chiesa. Tanto è vero che il papa Paolo VI è dovuto intervenire espressamente con un discorso (il 15-11-1972) per ribadire la verità di Fede sull’esistenza di Satana come persona e per costatare amaramente come il «fumo di Satana» stia affumicando la Chiesa. Come insegna il Catechismo, il diavolo è «una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il “diavolo” è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta in Cristo» (n. 2851).
Un’altra volta, il beato Pio da Pietrelcina disse a una figlia spirituale: «Se si potesse vedere con gli occhi del corpo quanti demoni hanno invaso la terra, non si vedrebbe più il sole!». Contro questi «impuri apostati», come li chiamava lo stesso beato Pio, quale non deve essere la nostra difesa?

«Vigilate e pregate»
Gesù ci ha messo in guardia contro le insidie del diavolo. Egli ci ha insegnato le parole del Padre nostro: «...non ci indurre in tentazione» (Lc 11,4). Egli ci ha raccomandato con cura: «Vigilate e pregate per non cadere nella tentazione» (Mc 14,38).
La vigilanza e la preghiera sono le due grandi forze dell’uomo contro il demonio. Facciamo nostra questa raccomandazione paterna del beato Pio da Pietrelcina: «Figlio mio, il nemico non dorme; all’erta con la vigilanza e la preghiera. Con la prima lo avvistiamo, con la seconda abbiamo l’arma per difenderci».
La vigilanza ci fa avvistare le occasioni pericolose (una lettura, uno spettacolo, una persona, un luogo, una voglia...); la preghiera ci dà la forza di evitare i pericoli, di fuggire le occasioni, come raccomandava san Filippo Neri.
Anche sant’Agostino insegna che il demonio è solo un cane legato, e può mordere solo chi si avvicina a lui. Alla larga, quindi! Se il demonio si fa insolente, ascoltiamo la parola di san Giovanni Bosco che diceva ai suoi giovani: «Rompete le corna al demonio con la Confessione e la Comunione».

Gli schiaccia la testa
San Massimiliano M. Kolbe ha scritto che oggi «il serpente alza la testa in tutto il mondo, ma l’Immacolata gliela schiaccia in vittorie strepitose».
Per battere il demonio nel modo più umiliante bisogna ricorrere all’Immacolata. Il demonio ha letteralmente terrore di Colei, che, da sola, «è terribile come un esercito schierato» (Ct 6,9).
Quando santa Veronica Giuliani veniva assalita fisicamente dal demonio, non appena riusciva ad invocare la Madonna, il demonio, fuggiva precipitosamente urlando: «Non invocare la mia nemica».
La preghiera mariana più forte contro il demonio è il Rosario. Una volta gli fu chiesto durante un esorcismo, quale preghiera egli temesse di più. Rispose. «Il Rosario è il mio flagello!».
Se i cristiani portassero addosso e usassero spesso questo «flagello dei demoni», quante rovine, sventure e peccati in meno sulla terra!








* Fondatore dei Francescani dell'Immacolata