PISTOIA – «Non è mia intenzione entrare nel merito della discutibilissima recente legge sul biotestamento, nei confronti della quale mi auguro che almeno sia consentita l’obiezione di coscienza. Una legge pressoché inutile e quindi, anche solo per questo, dannosa. Sarebbe stato molto meglio se i legislatori fossero rimasti rispettosamente un passo indietro riguardo a circostanze così complesse e personali della vita che toccano il rapporto di fiducia tra medico e paziente, tra libera volontà del malato e obbligo di cura da parte del medico. Circostanze che non richiedono certo carte bollate e avvocati, perché così poi va a finire, ma un accompagnamento premuroso e riservato, carico di attenzione e di amore, in “scienza e coscienza”, come si dice.
In questo momento mi preme piuttosto parlare dal punto di vista morale, per favorire il discernimento della coscienza che, lo ricordo, non consiste nell’“inventare” il comportamento ma nell’ascolto attento della voce interiore di Dio che chiama la persona al bene, qui e ora, cioè nelle circostanze concrete della vita. Una voce che risuona ugualmente nel cuore e nella ragione di ogni uomo come nella rivelazione che si è compiuta in Cristo.
Dunque, dal punto di vista morale, darsi la morte non è mai una cosa buona. Seppure a volte si verifichino condizionamenti soggettivi tali da togliere in parte o del tutto la responsabilità e la libertà. Ovviamente non è una cosa buona nemmeno aiutare uno a togliersi la vita, altrimenti arriveremmo all’assurdo che se incontro chi si vuol buttare giù da un ponte per suicidarsi, sarebbe bene che gli dessi una spinta.
Non è però buono nemmeno l’accanimento terapeutico. Quando si è ormai in un processo ineluttabile di morte e non c’è più alcuna possibilità di uscire da questa situazione, è disumano accanirsi con medicine inutili, con terapie assolutamente inefficaci, con interventi terapeutici invasivi e sproporzionati. Occorre lasciarsi morire e far morire in pace, anche perché la morte non è la fine della vita e noi non siamo i padroni della vita e della morte. Si può sempre invece, anzi si deve, combattere il dolore e alleviare le sofferenze, a meno che uno non intenda liberamente rinunciare a tali cure palliative.
Non è cosa buona inoltre smettere di mangiare e bere per darsi la morte, anche se si ritenesse senza qualità la propria esistenza; ancor più non è bene smettere di nutrire e idratare una persona, pur se si fosse costretti a farlo in modo artificiale. Anche se lo chiedesse la persona stessa o, ancor peggio, se fossimo noi a sospendere nutrimento e idratazione perché si giudica senza valore la sua vita. Conseguentemente, non sono da darsi disposizioni anticipate di trattamento che prevedano una tale ipotesi.
C’è un solo caso in cui questa scelta è lecita nei confronti degli altri ed è evidente: quando la persona sia ormai morta oppure non sia più in grado di assimilare il cibo e i liquidi. E c’è un solo caso in cui tale scelta è lecito compierla in rapporto a se stessi: quando per nutrirsi e idratarsi fosse necessario un intervento pesantemente invasivo e debilitante in una situazione ormai definitivamente compromessa e prossima alla morte. A fronte di questi limiti, ci sono invece dei precisi doveri. Alcuni riguardano la medicina: adoperarsi perché siano sconfitte le malattie debilitanti, superate le menomazioni dovute ai traumi, alleviati i dolori. Altri riguardano tutti noi, sia che siamo coinvolti in prima oppure in terza persona, sia che si tratti di fine vita terrena oppure di debilitazione permanente grave: lasciarsi accompagnare o accompagnare con l’affetto sincero dell’amicizia, in un rapporto pieno di fiducia tra medico e paziente, fino al momento che solo Dio conosce».
+ Mons. Fausto Tardelli
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