giovedì 31 ottobre 2013
Compendio di demonologia: «I Diavoli. Guida essenziale»
Mueller, in difesa del sacerdozio ministeriale
Intervento del Prefetto per la Dottrina della Fede a Palermo, nella facoltà teologica di Sicilia San Giovanni evangelista
Il prefetto della congregazione della Dottrina della fede, monsignor Ludwig Gerhard Mueller, denuncia la "furia della critica al sacerdozio ministeriale" che, anche in ambito cattolico, ha avuto, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, una matrice protestante, e difende il celibato sacerdotale, contestando l'idea che si tratti di un "relitto di un passato ostile alla corporeità" o della "unica causa della penuria di sacerdoti".
L'arcivescovo Mueller ha tenuto oggi un discorso a Palermo, nella facoltà teologica di Sicilia San Giovanni evangelista, in occasione della presentazione del volume dell'opera omnia di Joseph Ratzinger relativo al sacramento dell'ordine. Mueller ha sottolineato che Ratzinger evidenzia che "laddove viene meno il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico" viene meno, tra l'altro, la motivazione che introduce a una "ragionevole comprensione" del celibato quale "segno escatologico del mondo di Dio che verrà".
E "se la relazione simbolica che appartiene alla natura del sacramento viene oscurata, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla corporeità e viene additato e combattuto come l'unica causa della penuria di sacerdoti. Non da ultimo, scompare poi anche l'evidenza, per il magistero e la prassi della Chiesa, che il sacramento dell'ordine debba essere amministrato solo a uomini. Un ufficio concepito in termini funzionali, nella Chiesa, si espone al sospetto di legittimare un dominio, che invece dovrebbe essere fondato e limitato in senso democratico".
Monsignor Mueller cita, in particolare, la "crisi della dottrina del sacerdozio, avvenuta durante la Riforma protestante" e la "crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo ed esplosa dopo il concilio Vaticano II, delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo".
E, per quanto riguarda i la motivazione "infra-ecclesiale" della crisi del sacerdozio, "come mostra nei suoi primi interventi, Raztinger possiede fin dall'inizio una viva sensibilità nel percepire da subito quelle scosse con cui si annunciava il terremoto: e ciò soprattutto nell'apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all'esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.
Spesso, da parte cattolica, non ci si è resi conto delle visioni pregiudiziali che soggiacevano all'esegesi scaturita dalla Riforma. E così sulla Chiesa cattolica (e ortodossa) si è abbattuta la furia della critica al sacerdozio ministeriale, nella presunzione che questo non avesse un fondamento biblico".
http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/mueller-sacerdozio-29156/
mercoledì 30 ottobre 2013
Contenuto teologico ed esemplarità metodologica del «Gesù di Nazaret» di Joseph Ratzinger. Storia e fede legate a filo doppio
Simposio. Pubblichiamo alcuni stralci della relazione tenuta dal cardinale prefetto della Congregazione delle Cause dei santi nel simposio della Fondazione Joseph Ratzinger che si è svolto alla Pontificia Università Lateranense e in Vaticano.
di Angelo Amato
Sant’Ambrogio nel suo commento al Salmo 45 scriveva: «Bussa alla porta: la porta è Cristo. Bussa alla porta del Verbo, perché ti sia aperto, e tu possa dire il mistero di Cristo e trovare i tesori nascosti in Cristo». Queste parole si adattano bene alla meditazione teologica di Benedetto XVI su Gesù. Egli ha bussato alla porta del cuore di Cristo, che lo ha introdotto e guidato alla contemplazione amorosa del suo mistero. Nei tre volumi cristologici risalta all’evidenza la sensibilità del Pontefice emerito alla presenza diffusa e prossima di nostro Signore Gesù Cristo. Se scrive di lui è perché lo cerca, lo desidera, lo ama, perché gli è grato per l’abbondanza del suo perdono, della sua misericordia, della sua grazia. Papa Benedetto potrebbe ripetere con Ambrogio: «Oggi, mentre vi sto parlando, egli è con me, qui, in questo punto, in questo momento».
In queste giornate di studio sulla relazione tra storia e cristologia si è spalancato il vasto e laborioso cantiere interdisciplinare che, in varie parti del mondo e da vari punti di vista, sta apportando singolari apporti alla moderna ricerca sui Vangeli. Questa semplice constatazione contribuisce a superare un certo fissismo nell’approccio storico-teologico a Gesù di Nazaret e a ridimensionare, se non proprio ad annullare, quell’ideologia del sospetto che, dal Settecento in poi, con le varie fasi della Leben Jesu Forschung, si è annidata nello studio dell’autenticità storica dei dati biblici.
A questo miglioramento di prospettiva contribuiscono in modo determinante discipline come l’archeologia, la papirologia, lo studio comparato delle biografie greco-romane con i Vangeli. Questi apporti hanno avuto come conseguenza la conferma dell’affidabilità storica dei Sinottici, del quarto Vangelo, dell’apporto paolino alla storia e alla figura di Cristo. È stata inoltre ribadita l’importanza della lettura patristica del Nuovo e dell’Antico Testamento, che tanta luce ha gettato, soprattutto con i concili dei primi secoli, nella comprensione sempre più penetrante del dato cristologico. Sono tutti contributi che rinnovano l’impostazione metodologica e contenutistica del fare e insegnare cristologia oggi.
I tre volumi del Gesù di Nazaret di Benedetto XVI respirano a pieni polmoni questo nuovo clima di ricerca e di valutazione, lontano da limitanti e ormai superati pregiudizi ideologici. E risiede proprio qui la loro decisiva rilevanza per l’odierna cristologia accademica e per un valido approdo, fondato e non acritico, al suo naturale traguardo non solo di conoscenza di Cristo ma soprattutto di vita in Cristo. Il legame infatti tra il fondamento storico e le sua rilevanza teologica e spirituale è indispensabile per una proposta cristologica completa e affidabile.
In questa linea Benedetto XVI dialoga con i più validi studiosi dell’antichità cristiana per una riaffermazione del valore storico-documentario dei dati biblici. Ribadendo la continuità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede egli elabora una esemplare cristologia prepasquale, che ripercorre l’intera parabola terrena di Gesù, contemplato nei suoi atteggiamenti, nelle sue azioni, nelle sue parole. In tal modo, egli pone rimedio a tre limiti della cristologia contemporanea, denunciati nel 2003 nel volume In cammino verso Gesù Cristo (Unterwegs zu Christus): una grave decristologizzazione, che riduce Gesù a semplice modello di umanità piuttosto accomodante, che nulla esige e tutto approva; il rifiuto della presenza del soprannaturale nella storia, che conduce a una interpretazione sedicente “scientifica”, ma in realtà “ideologica”, della sua figura; infine, una malintesa attualizzazione, che diventa criterio arbitrario di individuazione dell’autenticità o meno delle parole e delle azioni di Gesù, tralasciando elementi centrali del mistero di Cristo per evidenziare solo quanto si “presuppone” sia “attuale”: «Le presupposizioni riguardo a ciò che Gesù non poteva essere (Figlio di Dio), e riguardo a ciò che doveva essere, diventano criteri d’interpretazione e fanno apparire come frutto di rigore storico ciò che in realtà è unicamente il risultato di premesse filosofiche» (In cammino verso Gesù Cristo, Cinisello Balsamoo, San Paolo, 2004).
Nel suo trittico, il Santo Padre rilegge quindi la “storia” di Gesù nella sua completezza e cioè nella sua duplice valenza di avvenimento spazio-temporale (Historie) e di evento salvifico (Geschichte). Si tratta della pienezza armonica dell’evento Cristo, così come ce lo consegna la prima predicazione apostolica postpasquale.
La storia di Gesù non è una creazione mitologica della prima comunità cristiana o una conseguenza delle condizioni socio-politiche ed economiche del tempo. Essa è un supporto ineliminabile della realtà di Gesù, sia per non farne un eroe immaginario o un semplice maestro atemporale di umanità, sia per non incorrere in un fideismo acritico, come capita per le letture fondamentaliste della Bibbia.
L’originalità del cristianesimo risiede proprio nell’affermazione che la storia umana ha ospitato l’evento Cristo, dono di amore del Padre a tutta l’umanità, il Verbo fatto carne da adorare, il Redentore da amare, il Giudice escatologico da onorare. Con ciò si afferma che la globalità del suo evento e ogni singolo suo “mistero” è storia di salvezza di Dio Trinità per l’uomo. In Cristo, la storia umana è diventata evento salvifico.
Non quindi sola fides, perché fides sine historia sarebbe infondata. Né, tanto meno, sola historia, perché historia sine fide sarebbe insufficiente per cogliere la verità del dono di Dio in Cristo. Pertanto historia et fides sono inscindibilmente unite e costituiscono i pilastri della verità del cristianesimo, che è salvezza nella storia e nella fede.
Per la fede biblica — nota il Papa emerito — è indispensabile e fondamentale il factum historicum, il riferimento, cioè, a eventi storici realmente accaduti. L’incarnatus est non è un’affermazione poetica o simbolica, ma fortemente realistica. Per questo egli opta per un’interpretazione ecclesiale (esegesi canonica), che, confidando nei risultati dell’indagine storico-critica, non ne assolutizza, però, il valore e non ne condivide l’atteggiamento di sospetto metodico.
I suoi criteri interpretativi sono quindi: fiducia nell’attendibilità storica del dato neotestamentario; affermazione dell’unità e della continuità tra Antico e Nuovo Testamento; importanza ermeneutica della tradizione viva della Chiesa; attenzione all’analogia della fede, intesa come consonanza delle corrispondenze interne del dato di fede.
Questo quadro metodologico è accompagnato da una presupposto contenutistico che presenta Gesù come il nuovo Mosè profetizzato dalle Scritture. Ciò che rendeva decisiva la figura di Mosè non era tanto la sua potenza taumaturgica o la liberazione del suo popolo dalla schiavitù egiziana, quanto invece l’aver conversato “a faccia a faccia” con Dio, come fa l’amico con l’amico. Questo accesso immediato a Dio gli permise di comunicare la parola di Dio e la sua volontà di prima mano e senza falsificazione.
Questa familiarità aveva, però, dei limiti. Mosè, pur parlando con Dio, non vide mai il suo volto, ma solo le sue spalle. La visione piena di Dio sarebbe stata appannaggio del nuovo Mosè, che avrebbe vissuto al cospetto di Dio non solo come amico, ma come Figlio. E da questa comunione filiale egli avrebbe attinto la sua autorità dottrinale, l’efficacia delle sue opere di potenza, l’originalità dei suoi atteggiamenti: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni, 1, 18). Benedetto XVI vede realizzata in Gesù, pienamente e senza limiti, la promessa del nuovo profeta e del mediatore della nuova alleanza. È questa la chiave per la retta comprensione di Cristo, il cui insegnamento “con autorità” non proviene da un apprendistato umano ricevuto in una scuola, quanto piuttosto dall’immediato contatto con il Padre, che egli vede faccia a faccia e del quale è “la Parola”: «La dimensione cristologica, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, la “cristologia”, è presente in tutti i discorsi e in tutte le azioni di Gesù».
È questa la chiave di lettura dell’evento Cristo consegnatoci dai Vangeli. Nei tre volumi quindi si ha una straordinaria e inedita sintesi di “cristologia prepasquale”, che è sostanzialmente una concreta offerta da parte di Gesù, prima della Pasqua, di tutti gli indizi per una comprensione corretta del suo mistero. Una cristologia che, da parte di Gesù, è già esplicita, ma che, prima della Pasqua, rimane ancora implicita per i discepoli, che lo confesseranno con fede solo nell’incontro con Lui come Risorto.
L'Osservatore Romano, 30 ottobre 2013
martedì 29 ottobre 2013
I nodi del pastore Bergoglio
Fu lui a importare in Argentina dalla Germania la devozione alla Madonna "che scioglie i nodi". Agli studi preferiva la cura d'anime. E oggi fa lo stesso: lascia ad altri l'esposizione della dottrina. Come nel caso della comunione ai divorziati risposati
di Sandro Magister
ROMA, 29 ottobre 2013 – Da quando è stato eletto papa, Jorge Mario Bergoglio è costantemente sotto lo sguardo del mondo, che ne scruta ogni gesto e ogni parola.
Ma la sua precedente biografia ancora attende di essere altrettanto investigata.
Il libro di Nello Scavo "La lista di Bergoglio" ha sollevato il velo sul ruolo dell'allora giovane gesuita negli anni di piombo della dittatura militare:
Il gesuita che umiliò i generali
Ma ancora poco si conosce dei sei anni in cui Bergoglio fu superiore della provincia argentina della Compagnia di Gesù, tra il 1973 e il 1979, e dei reali motivi che portarono alla sua successiva emarginazione, fino all'esilio nella periferica residenza gesuita di Córdoba come semplice direttore spirituale.
Fu in uno di quei suoi anni difficili che Bergoglio si recò in Germania "per ultimare la tesi dottorale", come dice succintamente la sua biografia ufficiale nel sito web del Vaticano.
Era il marzo del 1986. Bergoglio avrebbe compiuto 40 anni in dicembre. Per la tesi di dottorato aveva scelto come tema Romano Guardini, il grande teologo tedesco che fu maestro di due futuri papi, Paolo VI e Benedetto XVI, e di cui Bergoglio aveva letto e ammirato soprattutto due libri: "Il Signore", sulla persona di Gesù, e "Der Gegensatz", edito in spagnolo col titolo "Contrasteidad", molto critico della dialettica hegeliana e marxista.
Ma da come si svolse quella sua trasferta in Germania e da come essa si interruppe dopo soli pochi mesi, con l'abbandono della tesi dottorale, si può dedurre che Bergoglio compì quel viaggio più per ordine dei suoi superiori gesuiti che di sua spontanea volontà.
Nell'intervista autobiografica "El Jesuita" Bergoglio avrebbe poi raccontato che in Germania, ogni volta che vedeva decollare un aereo, sognava di essere lui a bordo, verso l'Argentina. Tanta era la sua voglia di tornare in patria.
Gli archivi di Romano Guardini erano a Monaco, mentre la facoltà teologica nella quale Bergoglio avrebbe difeso la sua tesi dottorale era la Sankt Georgen di Francoforte.
Ma egli non si limitò a fare la spola tra queste due città. Da Monaco si arriva velocemente in treno anche ad Augsburg.
E fu lì che la sua trasferta tedesca cambiò radicalmente di segno.
*
Ad Augsburg, nella chiesa dei gesuiti, dedicata a San Pietro, c'è una venerata immagine mariana: la Madonna "che scioglie i nodi".
Maria vi è raffigurata mentre scioglie i nodi di un nastro che le porge un angelo, e che un altro angelo riceve da lei senza più i nodi. Il significato è trasparente. I nodi sono tutto ciò che complica la vita, le difficoltà, i peccati. E Maria è colei che aiuta a scioglierli.
Bergoglio fu molto colpito da questa immagine mariana. Quando pochi mesi dopo fece ritorno in Argentina, portò con sé un buon numero di cartoline con la Madonna "che scioglie i nodi".
La tesi dottorale fu abbandonata sul nascere e lo stesso pensiero di Romano Guardini non lasciò su Bergoglio un'impronta duratura. Nell’intervista di papa Francesco a "La Civiltà Cattolica" in cui egli dedica ampio spazio ai suoi autori di riferimento, Guardini non c’è. Né è citato in altri suoi scritti e discorsi.
Ma in compenso, grazie a quel suo soggiorno in Germania nel 1986, Bergoglio fece inconsapevolmente nascere in Argentina una nuova devozione mariana.
Un artista al quale aveva dato la cartolina acquistata ad Augsburg riprodusse l'immagine e la offrì a una parrocchia del popolare Barrio de Agronomía, nel centro di Buenos Aires.
Ospitata nella chiesa, l'immagine di Maria "desatanudos" attrasse un numero crescente di devoti, convertì peccatori e segnò un'inattesa crescita della pratica religiosa. Al punto che dopo pochi anni si consolidò la tradizione di un pellegrinaggio all'immagine, proveniente dall'intera Buenos Aires e anche più da lontano, il giorno 8 di ogni mese.
"Mai come quella volta mi sono sentito uno strumento nelle mani di Dio", confidò Bergoglio a un confratello gesuita che fu suo discepolo, padre Fernando Albistur, oggi professore di scienze bibliche al Colegio Máximo di San Miguel, a Buenos Aires.
Padre Albistur lo racconta in un libro fresco di stampa curato da Alejandro Bermúdez, con le interviste a dieci gesuiti e a dieci laici argentini amici di Bergoglio da lunga data.
E non è il solo. Nello stesso libro anche padre Juan Carlo Scannone, il più autorevole dei teologi argentini, già professore del giovane gesuita Bergoglio, riferisce lo stesso episodio.
A giudizio di Scannone, il caso della Madonna "che scioglie i nodi" aiuta a capire più a fondo il profilo "pastorale" di papa Francesco e la sua accentuata attenzione al "popolo".
*
Bergoglio non è mai stato un teologo, tanto meno un accademico. Tra i teologi dice di prediligere Henri De Lubac e Michel de Certeau. Ma non perché ne abbia assimilato le posizioni complessive, peraltro tra loro diversissime. Di De Lubac cita quasi sempre un solo saggio: "Meditazioni sulla Chiesa", e di esso quasi sempre un solo passaggio: quello contro la "mondanità" della Chiesa.
Anche da papa egli è dunque soprattutto uomo d'azione, d'azione pastorale. Chi l'ha conosciuto da vicino e gli è amico da anni – come i venti intervistati del libro di Alejandro Bermúdez – vede in lui eccezionali qualità di comando e notevole abilità di calcolo. Ogni suo gesto, ogni sua parola, non sono mai lasciati al caso. E la sua priorità è la cura pastorale del "popolo" che gli è affidato, che da quando è papa vede allargato a tutto il mondo.
La sua predicazione si addice volutamente a questo profilo. È primariamente rivolta alla gente comune, ai deboli di fede, ai peccatori, ai lontani. Non presi nel loro insieme, ma come se il papa voglia parlare a tu per tu con ciascuno di essi.
Come nel Vangelo Gesù è esigentissimo nei comandamenti ma si rivolge ai singoli peccatori con misericordia, così vuol fare papa Francesco.
Sulle questioni disputate, sul nascere, sul morire, sul generare, è di una ortodossia dottrinale indiscussa: "Il parere della Chiesa lo si conosce e io sono figlio della Chiesa", ha tagliato corto nell'intervista a "La Civiltà Cattolica".
Ma l'esposizione dottrinale la lascia ad altri e per sé riserva lo stile misericordioso della cura d'anime.
L'esempio più lampante di questa azione congiunta è di pochi giorni fa, quando sulla questione disputata della comunione ai cattolici divorziati e risposati papa Francesco ha fatto intervenire il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller. Che in un ampio documento ha ribadito in tutto e per tutto le ragioni del "no" alla comunione:
Divorziati risposati. Müller scrive, Francesco detta
L'arcivescovo Müller è uno dei pochi capi di curia che Francesco ha confermato nel ruolo. Un uomo quindi di sua piena fiducia. Al quale non ha esitato di affidare anche il compito – nello stesso documento – di dissipare gli equivoci nati da alcune formulazioni su "misericordia" e "coscienza" usate dallo stesso papa nel proprio pubblico conversare.
L'inaugurazione di questo doppio registro comunicativo – in questo caso del papa e del suo custode di dottrina – è sfuggita quasi del tutto ai media, tuttora abbagliati dalle presunte "aperture" di Francesco. Ma è prevedibile che si riprodurrà altre volte e su altri temi.
E consentirà forse di sciogliere un nodo interpretativo dell'attuale pontificato: quello dell'apparente distacco di papa Bergoglio dai suoi predecessori nell'affrontare la cosiddetta "sfida antropologica".
lunedì 28 ottobre 2013
Il silenzio liturgico
Il silenzio liturgico
Quando è l'assenza di parola ad esprimere il mistero
di Peter Kwasniewski
Un amico mi ha inviato un affascinante saggio dal titolo "Il silenzio liturgico" di Charles Harris, tratto da una collezione anglicana di studi denominati "Liturgia e Culto" (1932), edizione W. K. Lowther Clarke. Ne sono stato talmente avvinto, che ho deciso di presentarne un riassunto con numerose citazioni e con qualche applicazione alla nostra attuale vita liturgica.
Harris cita una grande quantità di fonti liturgiche dei primi tempi della cristianità, al fine di sostenere la sua tesi secondo la quale la recita silenziosa di tutta o parte dell'anafora (o canone) della liturgia eucaristica, era divenuta la norma fin dall'inizio, sia nella Chiesa d'Oriente che di Occidente. Tale realtà - e soprattutto, la teologia e spiritualità soggiacenti che la determinano - è un richiamo ammonitore per i cattolici di Rito Romano perché mantengano con zelo e diffondano il Canone silenzioso (nell'usus antiquior) oppure siano portati a rivalutarlo e recuperarlo (nel Novus Ordo). Tale antica e durevole tradizione, come pure la direzione ad orientem e l'esercizio di ruoli liturgici da parte di ministri ordinati, manifesta la grande riverenza che si deve a Nostro Signore Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento.
Innanzitutto, Harris tratta della psicologia del silenzio, con queste parole:
"Lo scopo del silenzio (oppure della recita sommessa o sussurrata) è di acquietare i sensi esteriori per porli in una condizione di ricettività, e così indurre tranquillità, riposo, pace interiore, rilassare la tensione del sistema nervoso, inducendo gradualmente a uno stato di pacifica attesa di Dio, e aprendo allo stesso tempo il proprio 'subconscio' o 'inconscio' all'influsso della grazia e dell'ispirazione religiosa" (p. 775).
Chi partecipa a Messe feriali silenziose conosce bene la pace profonda e la sacra calma che regnano in un'anima e nella chiesa stessa, e per quanto io sia un ardente fautore della Messa solenne cantata, riconosco che vi è un prezioso valore devozionale e un potere mistico-ascetico nella 'Missa lecta' o 'Missa recitata'. Ma, da maestro di coro, mi ha sempre colpito il silenzio che ci può essere anche all'interno di una Messa cantata, sia durante il canone che durante il rito di Comunione. L'antico Rito Romano ha in genere il carattere di accesso al 'riposo' di Dio, il misterioso riposo sabbatico del settimo giorno che anticipa la gloria dell'eterno ottavo giorno della beatitudine celeste.
In secondo luogo, Harris tenta di individuare l'origine della transizione da una anafora parlata a una anafora del tutto o parzialmente silenziosa.
"A un tempo indeterminato della Chiesa dei primi secoli, fu consuetudine graduale, sia in oriente che in occidente, recitare alcune tra le più solenni preghiere eucaristiche, particolarmente la maggior parte del canone, con voce sommessa o non udibile. Tale recita fu denominata 'mistica' (mysticos), un epiteto che ne esprime bene il significato... Provocava un senso irresistibile non soltanto di umiltà, ma anche di 'abiezione' e di 'nullità' che ben si addice alla creatura introdotta alla presenza immediata del suo Creatore" (p. 775).
Quasi en passant, Harris abbozza un giudizio complessivo sul carattere o tipo del culto cattolico a confronto con il culto protestante:
"Ci sono ovvi svantaggi, sia di genere devozionale che intellettuale, nella recita silenziosa del canone o anafora. Ma d'altra parte, non si può negare che la preghiera 'mistica' del celebrante è un fattore primario per la formazione di quell'atmosfera emozionante di adorazione estasiata che è la nota distintiva del culto cattolico lungo i secoli, e che il culto di tipo più intellettuale, istruttivo ed 'edificante' dei moderni protestanti sembra incapace di evocare" (p. 776).
Mi ha amareggiato questa descrizione del culto cattolico, poiché corrisponde oggi all'usus antiquior, mentre quella del culto 'protestante' si allinea con la descrizione del Novus Ordo: intellettuale, istruttivo, e (nel migliore dei casi) edificante, secondo l'intenzione dei suoi architetti, ma non certo caratterizzato da "un'atmosfera emozionante di adorazione estasiata". Sono convinto infatti che molti cattolici che sono passati dalla forma ordinaria a quella straordinaria, non lo abbiano fatto esclusivamente o primariamente per fuggire dagli abusi dilaganti, ma soprattutto per trovare un rifugio spirituale che assicuri meditazione e adorazione. Quasi una monastica "fuga dal mondo" per trovare Dio. Se non incontriamo il Dio vivente nella preghiera e non usciamo da noi stessi per adorarlo in spirito e verità, non potremo sperare di vivere da cristiani nella società attuale. E' indispensabile alternare un ritmo di raccoglimento interiore a un ritmo di impegno esteriore, e forse è proprio l'appello insistente nel Novus Ordo all'impegno, all'attività, all'evangelistico, che ha esaurito le più intime risorse spirituali dei cattolici, necessarie per combattere il mondo, la carne e il diavolo.
In terzo luogo, Harris afferma che la recita silenziosa o 'mistica' dell'anafora è legata a una sottolineatura ancora più forte, sia nei testi liturgici che nella predicazione, della mirabile realtà dei divini misteri del corpo e sangue di Cristo affidati alla Chiesa. Benché "fin dall'inizio della cristianità un certo grado di stupore e timore accompagnasse la celebrazione dei santi misteri, come appare chiaro dal linguaggio di San Paolo (1 Cor. 11, 26-33)" (p. 776), possiamo rilevare con maggiore chiarezza tale coscienza nelle tre principali liturgie orientali: quella di San Giacomo, di San Giovanni Crisostomo e di San Basilio.
Harris sostiene che la liturgia di San Giacomo, che conteneva la primitiva liturgia di Gerusalemme, esisteva già sostanzialmente nella sua attuale forma fin dal 348, e venne composta tra il 330 e il 335 a causa delle sue allusioni alla cristologia nicena. Più della data, è interessante per il nostro scopo la descrizione fatta da Harris:
"Un'atmosfera di stupore mistico pervade l'intera liturgia. I fedeli sono descritti 'colmi di timore e stupore' nell'offrire 'questo temibile e incruento sacrificio', ulteriormente descritto come 'ministero temibile e venerabile (phriktes)'. Dopo la consacrazione, gli elementi vengono chiamati 'santificati, preziosi, ineffabili, immacolati, gloriosi, terriibili (phoberon), stupefacenti (phrikton), divini (theon)" (p. 777).
Troviamo molte frasi simili in San Cirillo di Gerusalemme, a conferma che era il linguaggio familiare dei cristiani di quel periodo, a metà del IV secolo. La liturgia di San Basilio, attribuita con buona ragione allo stesso santo (ca. 330-379), non si differenzia:
"Un senso di stupore 'numinoso' pervade questa liturgia che parla dei misteri non solo come 'divini, santi, immacolati, immortali, celesti ed emozionanti', ma anche di 'tremendi' o 'temibili' (phrikton, letteralmente 'rabbrividenti') (p. 778).
Harris ritiene che il commento di San Giovanni Crisostomo a 1 Cor. 14,16 faccia pensare che parti dell'anafora fossero recitate ad alta voce, specialmente le parole conclusive "per tutti i secoli dei secoli", che costituivano il segnale per la risposta "Amen" da parte del popolo - esattamente come il Rito Romano fa pronunciare o cantare al celebrante "per omnia saecula saeculorum", con la medesima risposta.
A livello di testimonianze della prassi universale nella Chiesa dei primi secoli, abbiamo una sorprendente omelia di fonte nestoriana, tenuta del sacerdote Narsai del tardo V secolo (Narsai morì nel 502), che ci dice nella Omelia 17 che dopo il 'Sursum corda' e prima del 'Sanctus':
"tutto il corpo ecclesiale osserva il silenzio, e tutti si dispongono a pregare con sincerità nel loro cuore. I sacerdoti sono immobili e i diaconi restano in silenzio... tutto il popolo sta immobile in silenzio, tranquillo e sottomesso... I misteri sono ben preparati, gli incensieri fumano, le lampade brillano, e i diaconi reggono e agitano ventagli a somiglianza di sentinelle (cioè angeli). Su quel luogo scende un silenzio profondo e una quiete sovrana, colmo e straripante di lucentezza e splendore, bellezza e potenza" (p. 779).
Narsai racconta inoltre che il sacerdote pronuncia l'epiclesi con voce non udibile, poiché prega "con timore e tremore, e intensa venerazione", per cui un araldo annuncia all'assemblea che è giunto il momento dell'epiclesi, in modo che tutti vi si dispongano con riverenza e adorazione. L'araldo grida: "In silenzio e timore state in piedi: la pace sia con noi. Tutto il popolo abbia timore in questo momento in cui gli adorabili misteri sono compiuti con la discesa dello Spirito".
Harris termina il discorso sulle liturgie orientali, notando che la prassi della recita silenziosa o 'mistica' dell'anafora era di uso ufficiale e comandato fin verso la fine del secolo VIII - e ciò malgrado il fatto che l'imperatore Giustiniano avesse tentato, nel 565, di proibire tale prassi per decreto imperiale, ordinando che il sacerdote pronunciasse le orazioni della liturgia ad alta voce! Attorno agli anni in cui Harris scriveva, era evidente che la medesima prassi della recita silenziosa vigeva nel Rito Romano, almeno dal secolo VIII.
Infine Harris, dopo aver riassunto l'importanza data dalla tradizione anglicana alla parola vernacolare parlata, lancia una proposta pratica alla Chiesa anglicana, della quale egli è membro, al fine di recuperare qualcosa della dimensione mistica andata perduta. La sua proposta finisce per avere un singolare rilievo anche per noi cattolici contemporanei, alla ricerca di modalità per la celebrazione del Rito Romano con riferimento alla "regola aurea", il Rito Romano tradizionale, antenato ed esemplare del Rito Romano riformato:
"Non è necessario parlare ad alta voce per rendere udibile la voce. E' possibile infatti ottenere un completo effetto 'mistico' di silenzio recitando il canone a voce molto bassa e sommessa, ben udibile in chiesa da ciascun ascoltatore attento, divenendo così espressiva e carica della più profonda venerazione religiosa. Non è auspicabile, per soddisfare una o due persone parzialmente sorde, alzare la voce impedendo in questo modo la devozione dell'assemblea, devozione tanto più intensificata e accresciuta quanto più la voce ha un tono sommesso" (p. 782).
Pur non essendo d'accordo con Harris nella tesi che si ottenga un 'completo' effetto mistico di silenzio con un canone recitato ad alta voce, sia pure con tono più basso, la portata del suo consiglio è certamente importante ed efficace. Mi ricorda l'invito fatto dal Cardinale Ratzinger a riesaminare il canone per valutare il ritorno della preghiera silenziosa per certe parti del canone stesso, al fine di una doverosa risposta di riverenza orante che, per ironia, la continua recita di testi divenuti familiari può diminuire se non addirittura escludere.
La lezione più generale che si trae dalla ricerca di Harris è che la recita silenziosa o 'mistica' del canone risale a una tradizione della metà del primo millennio della cristianità. Per chi ha grande apprezzamento per ciò che è antico, questo è veramente antico; e dal momento che le esigenze dell'uomo sono fondamentalmente le stesse in ogni epoca, la Chiesa, avendo da subito trovato nella liturgia ciò che meglio si addice per la celebrazione della realtà e per la salvezza delle persone, ha conservato gelosamente tale approccio lungo i secoli. "Il Signore sta nel suo tempio santo. Taccia, davanti a lui, tutta la terra!" (Ab. 2,20).
Per chi pensa che l'uomo moderno abbia bisogno di cose diverse dall'uomo di altre epoche, è palese che il motivo dell'antichità non abbia alcun peso. Ma per essere davvero coerente, il modernista non deve mai dare forza alle sue posizioni appellandosi alle prassi o testimonianze antiche, deve invece modellare la sua liturgia da cima a fondo di testa propria, senza riferirsi al passato. Una volta messo da parte il criterio di tradizione in quanto inappropriato per l'uomo moderno, è ovvio che qualsiasi scelta che si ispiri a un millennio o a un secolo passato, sarà puramente arbitraria o politica.
Chiunque creda che si dovrebbe rendere culto in continuità con i nostri progenitori, riceverà la liturgia da essi tramandata con gratitudine - con le sue fondamentali caratteristiche che non sono mai cambiate, quale l'orientamento di clero e popolo ad oriente, e quelle caratteristiche che ebbero la loro forma definitiva nel periodo patristico e non furono mai abbandonate fino alla sperimentazione degli anni '60.
fonte: New Liturgical Movement, 14/10/2013
http://www.newliturgicalmovement.org/2013/10/the-silent-canon-is-worship-supposed-to.html
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri
http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_det.php?neid=2673
sabato 26 ottobre 2013
Premio Ratzinger. Il Papa: Benedetto XVI ha fatto teologia "in ginocchio", i suoi libri risvegliano la fede
I libri su Gesù scritti da Benedetto XVI hanno permesso di scoprire o di rafforzare la fede in molte persone e hanno aperto una nuova stagione di studi sui Vangeli. È la considerazione centrale espressa stamattina da Papa Francesco, che ha insignito due teologi – un britannico e un tedesco – del “Premio Ratzinger”, giunto alla terza edizione e promosso dalla Fondazione vaticana "Joseph Ratzinger-Benedetto XVI".
di Alessandro De Carolis
Hanno fatto del bene a tanti, questo è indubbio, che fossero studiosi o gente semplice, vicini o lontani da Cristo. Questo è il risultato prodotto dai tre libri su Gesù di Nazaret, scritti da Benedetto XVI tra il 2007 e il 2012, e in generale il bene operato dalla sua sapienza teologica, frutto di preghiera prima che di impegno intellettuale. Papa Francesco lo ha riconosciuto e celebrato pubblicamente nel giorno e nel contesto più appropriati, al cospetto dei due teologi – il britannico Richard Burridge e il tedesco Christian Schaller – che hanno ricevuto dalle mani di Papa Francesco il Premio intitolato al Papa emerito. Ma la consegna del cosiddetto “Nobel della teologia – come viene considerato il Premio Ratzinger dalla sua istituzione, nel 2010 – ha fornito a Papa Francesco soprattutto l’occasione per una riflessione personale sul valore della trilogia scritta da Benedetto XVI-Joseph Ratzinger. Ricordando lo stupore di alcuni di fronte a testi che non erano propri del magistero ordinario, Papa Francesco ha osservato:
"Certamente Papa Benedetto si era posto questo problema, ma anche in quel caso, come sempre, lui ha seguito la voce del Signore nella sua coscienza illuminata. Con quei libri lui non ha fatto magistero in senso proprio, e non ha fatto uno studio accademico. Lui ha fatto dono alla Chiesa e a tutti gli uomini di ciò che aveva di più prezioso: la sua conoscenza di Gesù, frutto di anni e anni di studio, di confronto teologico e di preghiera – perché Benedetto XVI faceva teologia in ginocchio, e tutti lo sappiamo – e questa l’ha messa a disposizione nella forma più accessibile”.
“Nessuno può misurare quanto bene ha fatto con questo dono; solo il Signore lo sa”. E tuttavia, ha soggiunto Papa Francesco:
“Tutti noi ne abbiamo una certa percezione, per aver sentito tante persone che grazie ai libri su Gesù di Nazaret hanno nutrito la loro fede, l’hanno approfondita, o addirittura si sono accostati per la prima volta a Cristo in modo adulto, coniugando le esigenze della ragione con la ricerca del volto di Dio”.
E non solo il cuore alla ricerca o alla riscoperta di Gesù è stato toccato dalle parole del Papa emerito. Anche la mente di tanti studiosi – ha riconosciuto Papa Francesco – ha ricevuto nuova linfa:
“L’opera di Benedetto XVI ha stimolato una nuova stagione di studi sui Vangeli tra storia e cristologia, e in questo ambito si pone anche il vostro Simposio, di cui mi congratulo con gli organizzatori e i relatori”.
Con i vincitori del Premio Ratzinger 2013, Papa Francesco si è congratulato anche a nome di Benedetto XVI – con il quale ha detto di essersi incontrato "quattro giorni fa" – e li ha salutati con questo augurio: “Il Signore benedica sempre voi e il vostro lavoro al servizio del suo Regno”.
del sito Radio Vaticana 26 ottobre 2013
Papa Francesco: «È una grazia vergognarsi dei propri peccati davanti a Dio»
Per molti credenti adulti, confessarsi davanti al sacerdote è uno sforzo insostenibile – che induce sovente a scansare il Sacramento – o una pena tale che al dunque trasforma un momento di verità in un esercizio di finzione. San Paolo, nella Lettera ai Romani commentata da papa Francesco, fa esattamente il contrario: ammette pubblicamente davanti alla comunità che nella “sua carne non abita il bene”. Afferma di essere uno “schiavo” che non fa il bene che vuole, ma compie il male che non vuole. Questo accade nella vita di fede, osserva il Papa, per cui “quando voglio fare il bene, il male è accanto a me”:
“E questa è la lotta dei cristiani. E’ la nostra lotta di tutti i giorni. E noi non sempre abbiamo il coraggio di parlare come parla Paolo su questa lotta. Sempre cerchiamo una via di giustificazione: ‘Ma sì, siamo tutti peccatori’. Ma, lo diciamo così, no? Questo lo dice drammaticamente: è la lotta nostra. E se noi non riconosciamo questo, mai possiamo avere il perdono di Dio. Perché se l’essere peccatore è una parola, un modo di dire, una maniera di dire, non abbiamo bisogno del perdono di Dio. Ma se è una realtà, che ci fa schiavi, abbiamo bisogno di questa liberazione interiore del Signore, di quella forza. Ma più importante qui è che per trovare la via d’uscita, Paolo confessa alla comunità il suo peccato, la sua tendenza al peccato. Non la nasconde”.
La confessione dei peccati fatta con umiltà è ciò “che la Chiesa chiede a tutti noi”, ricorda papa Francesco, che cita anche l’invito di san Giacomo: “Confessate tra voi i peccati”. Ma “non – chiarisce il Papa – per fare pubblicità”, ma “per dare gloria a Dio” e riconoscere che è “Lui che mi salva”. Ecco perché, prosegue il Papa, per confessarsi si va dal fratello, “il fratello prete”: è per comportarsi come Paolo. Soprattutto, sottolinea, con la stessa “concretezza”:
“Alcuni dicono: ‘Ah, io mi confesso con Dio’. Ma è facile, è come confessarti per e-mail, no? Dio è là lontano, io dico le cose e non c’è un faccia a faccia, non c’è un quattrocchi. Paolo confessa la sua debolezza ai fratelli faccia a faccia. Altri: ‘No, io vado a confessarmi’ ma si confessano di cose tanto eteree, tanto nell’aria, che non hanno nessuna concretezza. E quello è lo stesso che non farlo. Confessare i nostri peccati non è andare ad una seduta di psichiatria, neppure andare in una sala di tortura: è dire al Signore ‘Signore sono peccatore’, ma dirlo tramite il fratello, perché questo dire sia anche concreto. ‘E sono peccatore per questo, per questo e per questo’”.
Concretezza, onestà e anche – soggiunge papa Francesco – una sincera capacità di vergognarsi dei propri sbagli: non ci sono viottoli in ombra alternativi alla strada aperta che porta al perdono di Dio, a percepire nel profondo del cuore il suo perdono e il suo amore. E qui il Papa indica chi imitare, i bambini:
“I piccoli hanno quella saggezza: quando un bambino viene a confessarsi, mai dice una cosa generale. ‘Ma, padre ho fatto questo e ho fatto questo a mia zia, all’altro ho detto questa parola’ e dicono la parola. Ma sono concreti, eh? Hanno quella semplicità della verità. E noi abbiamo sempre la tendenza di nascondere la realtà delle nostre miserie. Ma c’è una cosa bella: quando noi confessiamo i nostri peccati come sono alla presenza di Dio, sempre sentiamo quella grazia della vergogna. Vergognarsi davanti a Dio è una grazia. E’ una grazia: ‘Io mi vergogno’. Pensiamo a Pietro quando, dopo il miracolo di Gesù nel lago: ‘Ma, Signore, allontanati da me, io sono peccatore’. Si vergognava del suo peccato davanti alla santità di Gesù Cristo”.
giovedì 24 ottobre 2013
Celebrazione di Cristo Re a Prato
Il Figlio dell'uomo troverà la fede sulla terra?
Proponiamo un brano dell'omelia di P. Serafino M. Lanzetta, nella Domenica XXIX del T. O., anno C.
di P. Serafino Lanzetta, FI
Il Signore nel Vangelo secondo Luca (18,1-8) di questa domenica ci pone una domanda che ci sorprende: è un monito e anche un enigma: «Quando il Figlio dell’uomo verrà troverà la fede sulla terra?». Perché il Signore lo chiede a noi? Forse lui non lo sa? E’ una domanda che particolarmente oggi ci interroga profondamente: abbiamo la fede e potremo conservarla?
Le insidie soggettiviste del momento attuale sono una minaccia alla fede. Sembra che credere in Dio fermamente e senza dubbi non sia più possibile. Data la nostra debolezza, Dio dovrebbe rassegnarsi ad un uomo ammalato e incapace, e così dovrebbe salvarlo con i suoi dubbi, con il suo ateismo di fondo.
Questa è la minaccia del relativismo che pretende di trasformare dal di dentro la fede; la minaccia dell’uomo che pretende di adattare Dio alle sue debolezze e non vuole più aprire il cuore e la ragione al mistero infinito e all’amore di Dio.
L’uomo rassegnato, che dice di non poter credere, è in verità un uomo che vuole fare Dio a sua immagine. Come fare per credere e credere nella verità? Dobbiamo pregare, pregare senza mai stancarci.
La preghiera però esige le formule di preghiera, le preghiere basilari (Pater, Ave Maria, Angelus, S. Rosario, ecc.), come la professione della fede esige le formule della fede, il Simbolo. Come non è possibile credere ignorando o cambiando le formule dogmatiche, quantunque strumentali all'atto di fede, così non è possibile pregare rettamente trascurando le preghiere e pensando di ridurre tutto al "cuore" o di poter pregare in modo sufficiente con una sola preghiera "fatta bene", come si suol dire. Tanti cattolici diventano sempre più buddisti: pregano se stessi, contemplano se stessi.
Credo per pregare e prego per credere fermamente fino alla fine. Fino alla venuta del Figlio dell'uomo.
mercoledì 23 ottobre 2013
“Combattere l’aborto non è un optional”. Chaput vs. Bergoglio
di Matteo Matzuzzi
“Il diritto alla vita non è semplicemente una priorità. E’ la questione fondamentale su cui poggia l’intera architettura della battaglia in difesa della dignità umana”. Charles Chaput, sessantottenne arcivescovo di Filadelfia in attesa della possibile porpora cardinalizia, non ci pensa proprio a confinare in determinati “contesti” le battaglie in difesa di quei princìpi non negoziabili che per Papa Francesco possono diventare ossessionanti se ripetuti all’infinito. Chaput di aborto ed eutanasia parla, spiega ai suoi fedeli che si può lottare contro queste due “tragedie” della contemporaneità anche ribadendo gli appelli per tutti coloro che soffrono di povertà, violenza e ingiustizia. Anche mandando a Lampedusa il proprio elemosiniere, sottratto al compito di “firmare pergamene”. Una cosa, insomma, non dovrebbe escludere l’altra. Neppure nella fitta agenda papale. L’arcivescovo pellerossa (è membro della tribù Prairie Band Potawatomi) lo precisa con un messaggio pubblicato sul sito della sua diocesi: “Tutti gli attacchi diretti contro la vita umana innocente, come l’aborto e l’eutanasia, colpiscono le fondamenta della casa di Dio”. Una casa che se non difende l’Evangelium Vitae, se dimentica di richiamarsi a quanto scritto poco meno di vent’anni fa da Giovanni Paolo II in una delle sue più celebri encicliche, rischia di crollare: “E’ come averla costruita sulla sabbia”, spiega Chaput. Contro l’aborto bisogna lottare, sul terreno della politica e dai pulpiti delle chiese; bisogna tenere la posizione e mai arretrare, perché “se si accetta quella violenza si viola il primo e più importante diritto umano, il diritto alla vita stessa”. Tutti i “pubblici ufficiali della chiesa cattolica – aggiunge – sono obbligati a cercare di costruire politiche consistenti per la promozione della persona umana in tutte le fasi della sua vita”.
La ventata d’aria fresca che giunge da Santa Marta e che soffia sulla chiesa universale, dunque, piace a ciascuno a modo suo. Non è la prima volta che l’arcivescovo cappuccino si mostra perplesso davanti a parole e opere del Papa gesuita. Chaput, infatti, aveva già fatto conoscere il suo pensiero lo scorso luglio, a margine degli eventi collegati alla Giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro: “L’ala destra della chiesa non ha mostrato felicità per l’elezione” di Bergoglio al Soglio di Pietro, diceva, e comunque “non si può immaginare che il Papa non sarà così pro life e a favore del matrimonio tradizionale come i pontefici del passato”. Certo, al momento – sottolineava allora Chaput, Francesco “non ha espresso queste cose in modo combattivo”. Il punto di divergenza è chiaro: “Penso che al Papa interessi dire che non ha intenzione di essere coinvolto in questioni politiche”, ma “questioni come l’aborto e il matrimonio non sono questioni politiche. Sono questioni di dottrina e morale. E noi vescovi, tutti, dobbiamo parlare di queste cose”. Compreso il vescovo di Roma.
Da sempre uno dei più strenui difensori della morale della chiesa nello spazio pubblico (non a caso nel 2009 mandava in stampa un libro intitolato “Render Unto Caesar: Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life”), monsignor Charles Chaput è uno dei dieci candidati alla presidenza della Conferenza episcopale americana. Il mandato triennale del cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, sta scadendo, e le urne si apriranno tra qualche settimana a Baltimora, in occasione dell’assemblea generale annuale (11-14 novembre). Il favorito è l’attuale vicepresidente, l’arcivescovo di Louisville, Joseph Kurtz: moderato, affabile, apprezzato dai confratelli vescovi. Ma oltre ai dieci candidati, spiccano le assenze eccellenti. Prima fra tutte, quella del cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, impossibilitato a concorrere alla carica a causa dell’impegno come membro (unico nordamericano) della speciale consulta chiamata da Francesco ad aiutarlo nel governo della chiesa universale che riunitasi ai primi d’ottobre, si ritroverà a Roma, albergo di Santa Marta, a inizio dicembre. All’ordine del giorno, la riforma del Sinodo.
Prima il Vangelo e poi la dottrina. Il segreto di Jorge Mario Bergoglio secondo Victor Manuel Fernández, uno dei teologi più vicini al Papa
Monsignore, vorrei entrare subito “in medias res”. Nel libro con Abraham Skorka, Jorge Mario Beroglio svolge una breve introduzione nella quale parla dell’importanza della “cultura dell’incontro”. E dice che a volte l’uomo arriva a identificarsi di più con “i costruttori di mura che con quelli di ponti”. I media di tutto il mondo lodano le “aperture” di Francesco, stupìti più che altro del fatto che egli non insiste anzitutto sui princìpi ma – come ha detto lui stesso nell’intervista concessa il 19 settembre a Civiltà Cattolica – su “ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus”, insomma sull’essenziale, sul Vangelo. È a suo avviso questo il tratto fondamentale del nuovo pontificato? L’annuncio del Vangelo prima della morale? Oppure qual è il suo tratto caratteristico?
L’annuncio del cuore del Vangelo prima d’ogni altra cosa è una caratteristica importante di Francesco, ma è da intendere nel contesto di un rinnovamento della missione della Chiesa. Il Papa pensa che una Chiesa che vuole uscire da se stessa e raggiungere tutti debba necessariamente adattare il suo modo di predicare. Soprattutto, egli applica un criterio proposto dal Concilio Vaticano II spesso dimenticato e trascurato: la “gerarchia delle verità”. Francesco ci invita a riconoscere che molte volte, i precetti della dottrina morale della Chiesa vengono proposti fuori dal contesto che dà loro significato. Il problema maggiore si ha quando il messaggio che la Chiesa annuncia si identifica soltanto con questi aspetti che tuttavia non manifestano per intero il cuore del messaggio di Gesù Cristo. Mentre una pastorale missionaria non può essere ossessionata dalla trasmissione disorganizzata di un insieme di dottrine da imporre con la forza dell’insistenza.
Quando la Chiesa assume uno stile missionario diretto a tutti, senza eccezioni o esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che c’è di più bello, di più grande, di più attraente e nello stesso tempo di più necessario. Certo, tutte le verità rivelate sono credute con la medesima fede, ma alcune di loro sono più importanti perché esprimono più direttamente il nucleo fondamentale che è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo. Ci deve essere una proporzione adeguata soprattutto nella frequenza con la quale alcuni argomenti o accenti vengono inseriti nella predicazione. Per esempio, se un parroco lungo l’anno liturgico parla dieci volte di morale sessuale e soltanto due o tre volte dell’amore fraterno o della giustizia, vi è una sproporzione. Ugualmente se parla spesso contro il matrimonio fra omosessuali e poco della bellezza del matrimonio. Oppure se parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della parola di Dio. Insomma, ogni verità si comprende meglio se posta in relazione armoniosa con tutto il messaggio cristiano, perché in tale contesto tutte le verità si illuminano a vicenda. Il Vangelo invita soprattutto a rispondere all’amore salvifico di Dio, riconoscendolo negli altri e in se stessi, al fine di cercare il bene di tutti.
Questo invito non dovrebbe essere posto per nessun motivo in secondo piano! Se questo invito non brilla con forza e appeal, la morale della Chiesa rischia di diventare come un castello di carta: è qui che risiede il nostro più grande pericolo. Il messaggio perde la sua freschezza e cessa di avere il cosidetto “odore del Vangelo”. Certo, c’è poi anche lo stile del Papa, che non solo mira all’essenziale, ma lo esprime in modo chiaro e con segni. E a giudicare dagli effetti di questo fenomeno, non possiamo che guardarlo con occhi positivi, seppure esso dia fastidio in alcuni luoghi minoritari e poco rappresentativi dell’intera Chiesa.
In Italia è recentemente uscito un retroscena secondo il quale nel 2005, se Bergoglio fosse stato eletto Papa, si sarebbe chiamato Giovanni XXIV. Così, infatti, lo stesso Bergoglio avrebbe risposto al cardinale Francesco Marchisano, dalle radici piemontesi come il futuro Francesco, all’atto dell’elezione di Ratzinger. Marchisano era allora arciprete della Basilica di San Pietro. Al di là della veridicità o meno del retroscena, è papa Roncalli il Papa al quale Bergoglio ispira il suo pontificato? E in particolare, a suo avviso cosa pensa egli del Concilio Vaticano II? Si dice che dopo anni di tentativi di interpretare in senso conservatore o progressista il Concilio (le grandi “battaglie” sull’ermeneutica) egli ritenga che sia arrivato il momento di “farlo” il Concilio. È così?
Francesco è diverso da tutti i Papi che l’hanno preceduto. Certo, può avere caratteristiche di uno o dell’altro, ma sempre nella strada aperta dal Concilio. Senza dubbio egli rimane al di fuori delle discussioni teoriche sul Concilio perché semplicemente interessato a continuare lo spirito di rinnovamento e riforma che viene dal Concilio. In questo senso si pone fuori da ogni ossessione ideologica, senza pause o giravolte, con l’intenzione di portare la Chiesa fuori da se stessa così da raggiungere tutti. Ciò che ho detto sul criterio della “gerarchia delle verità” vale anche per molti altri percorsi di riforma che ha aperto il Concilio e che sono rimasti a metà strada.
Per quel che si sa la giornata di papa Francesco ha tre momenti fissi: la meditazione della Scrittura il mattino presto prima della Santa Messa; la recita del Rosario il pomeriggio; un’ora di adorazione eucaristica la sera. Nell’intervista a Civiltà Cattolica ha detto che la sua preghiera è “memoriosa”. Cosa intende? Cosa significa pregare per Francesco? Lo ha mai visto pregare? Come pregava in Argentina?
Il tema della memoria è una cosa su cui egli insiste molto ed è una chiave per conoscerlo. Non dobbiamo guardare le novità che egli porta come uno sradicamento, come un oblìo della storia viva della Chiesa. Egli spiega spesso che la memoria è una dimensione della nostra fede, in analogia alla memoria di Israele. Cita spesso gli Apostoli che non dimenticarono mai il momento in cui Gesù toccò il loro cuore: “Erano circa le quattro del pomeriggio”, dice Giovanni. E spesso ricorda le persone che sono state toccate in modo speciale, così da mostrare a tutti la gioia del credere. A volte si tratta di persone semplici e a noi vicine nella vita di fede. Bergoglio ama ricordare la seconda lettera a Timoteo: “Ho in mente la sincerità della vostra fede, una fede che fu prima in tua nonna Loide e in tua madre Eunice”. Perciò egli crede che la Chiesa non possa rinunciare alla propria ricca tradizione e che sarebbe sciocco pretendere di ripartire da zero. Egli non è un progressista senza radici, come qualcuno vorrebbe presentarlo. La sua preghiera è “memoriosa”, perché quando prega ricorda le persone che ha incontrato nel corso della giornata e cerca di raccogliere il messaggio che gli ha lasciato ciò che ha vissuto. La sua preghiera è piena di volti e nomi. Quando incontra la gente egli si mostra vicino, attento, affettuoso, e porta nella preghiera tutte quelle persone. In questo senso la sua è una preghiera “memoriosa”.
Non è un mistero per nessuno che negli anni passati i rapporti fra il cardinale Bergoglio con la presidente Kirchner sono stati difficili. Di Bergoglio il quotidiano argentino “Il Clarin” ha ricordato la vicinanza al gruppo peronista di destra “Guardia di Hierro”, con cui, negli anni – scrive il quotidiano -, avrebbe continuato a mantenere un legame spirituale. Quanto c’è di vero in questo? E soprattutto: è verosimile che il Papa auspichi in futuro un ritorno in argentina di un peronismo moderato che sappia legare con la Chiesa e i suoi convincimenti?
Penso che il suo rapporto con la presidente Kirchner non sia stato correttamente interpretato. Alcuni hanno creduto che alcune affermazioni delle sue omelie fossero attacchi personali contro di lei. Ma non è così. Del resto nessun politico può dire di avere o di avere avuto Bergoglio come proprio alleato politico, sia di sinistra sia di destra. Perché le sue parole possono soddisfare oggi, ma domani possono essere lette al contrario come pericolosi attacchi. Penso infatti che chiunque ha una qualche forma di potere, anche di potere ecclesiastico, non può non sentire su di sé lo “sperone” di Bergoglio, come una spina nel fianco, perché egli è e sarà sempre l’interprete di coloro che non hanno potere. Nel 2000 Bergoglio ha espresso un suo grande auspicio: “Che il potere non sia un privilegio inespugnabile”. E ciò vale per un presidente, un governatore, un uomo d’affari, un cardinale, e anche per i membri della Curia Romana. Il suo messaggio è il seguente: se hai accettato il potere senza privilegi, è necessario che usi il potere per servire e devi esporti ai reclami di tutti con umiltà, soprattutto i reclami dei deboli sono ascoltati. Se hai accettato una qualche forma di potere, allora devi sottometterti al controllo degli altri. Comunque, una certa affinità di Bergoglio al peronismo c’è e ha a che fare con due fatti: il peronismo assunse con forza la dottrina sociale della Chiesa e i suoi valori e comprese la cultura dei settori più poveri della società. Ma ciò non significa che Bergoglio abbia mai sostenuto un qualche potere politico. Fra l’altro egli ha sempre avuto un dialogo cordiale con tutti i politici.
Nell’intervista a Civiltà Cattolica, Bergoglio cita il beato Pietro Favre come suo modello. Chi fu Favre? Perché è un modello per Bergoglio?
Il beato Favre ha portato alla compagnia di Gesù un particolare modo di accompagnare le persone in un percorso di crescita. Accompagnare è una questione chiave per i gesuiti. Favre ha insistito sulla necessità di dare tempo alla gente, di rispettare i tempi di ognuno. Era un maestro di dolcezza, di pazienza e di dialogo con tutti. Bergoglio ricorda una frase di Favre che dice che “il tempo è il messaggero di Dio”, e la interpreta dicendo che “il tempo è superiore allo spazio”. Favre preferiva non perdere tempo in discussioni teoriche con i protestanti e sottolineava la necessità per la Chiesa di maturare e crescere nella testimonianza del Vangelo. Credo che tutto questo abbia molto a che fare con lo stile di Francesco, lontano da polemiche teoriche e in grado di esprimere le proprie convinzioni in una testimonianza attraente. Le riforme non vengono fatte per forza o in fretta, perché devono essere sempre accompagnate da una riforma interna. Tutto ciò è ben presente in Favre.
Colpisce molto in Francesco la sua ricerca dell’essenziale e anche di una certa austerità. Gira con macchine utilitarie, non ama sfarzi e lussi, visita i profughi e parla ai poveri. A Civiltà Cattolica dice di essere vicino alla corrente mistica di Louis Lallemant e Jean-Joseph Surin. Entrambi predicano la necessità di “spogliarsi” per arrivare a Dio. È questa la strada che Bergoglio vuole compiere?
Il suo non è amore del sacrificio fine a se stesso né un’ossessione per l’austerità. Si tratta di una “spoliazione” interiore, una rinuncia a indugiare troppo su se stessi, così da mettere Dio e gli altri al centro della propria vita e non se stessi. Ciò ha anche un significato pastorale, perché implica stare più vicini ai poveri, ai loro limiti, alla loro condizione sociale, alle loro umiliazioni. Per questo a Bergoglio non piacciono i sacerdoti princìpi o i vescovi “da aeroporto”, o gli ecclesiastici che amano le vacanze troppo costose, le cene nei migliori ristoranti, i preziosi d’oro e d’argento ostentati sui capi di abbigliamento, le continue visite a persone potenti, o coloro che amano parlare molto di se stessi o che si sentono diversi dagli altri. Tutto ciò che è mondanità spirituale che avvelena la Chiesa.
Si parla molto a Roma delle riforma della struttura della Chiesa: una nuova curia romana, una nuovo collegialità nell’esercizio del governo. Di Joseph Ratzinger è famosa la lezione nella quale disse che la vera riforma della Chiesa non è nelle strutture ma nel cuore di ognuno. Qual è a suo avviso l’idea di riforma propria di Bergoglio?
Le due cose insieme, perché la sua idea di riforma non è ideale, ma incarnata. Senza dubbio egli pensa che una riforma esteriore delle strutture non si sostiene senza uno spirito e uno stile di vita adeguato. Ma mi sembra che che la cosa più importante non sia la semplificazione della struttura della Curia romana, ma lo sviluppo di altre forme di partecipazione (sinodi, conferenze episcopali, consultazione dei laici, etc) che negli ultimi anni sono state più formali che reali. Senza dubbio questo sviluppo richiede che alcuni settori della Curia Romana cessino di essere eccessivamente giuridici, inquisitori e insieme maestosi, correndo fra l’altro il rischio di diventare autoreferenziali. Alcune volte ho sentito personalità della in Curia dire “noi” senza includere tutta la Chiesa, e nemmeno il Papa ma soltanto se stessi. Francesco ci ricorda che Gesù in realtà ha dato a Pietro e agli Apostoli una missione speciale, non una struttura centrale che comunque può avere soltanto una funzione ausiliaria.
Più volte papa Francesco ha parlato del Demonio. Nel libro con Skorka vi dedica un capitolo dove afferma: “Credo nell’esistenza del Demonio. Forse il maggior successo in questi tempi è stato farci credere che non esiste, che tutto possa essere risolto su un piano meramente umano. Come dice Giobbe, la vita dell’uomo sulla terra è una lotta…”. Che significato assume nella spiritualità ignaziana la figura del Demonio? Ha mai fatto esorcismi?
Non lo ho mai sentito parlare di esorcismi, ma del Diavolo sì. Penso che il parlare del Diavolo sia un invito a stare attenti, perché se non curiamo la nostra sanità interiore e le nostre reali intenzioni diventiamo facilmente marionette guidate da altre forze di dissoluzione e di menzogna. Significa che la sua visione della vita e della realtà non è ingenua, ma molto realistica. È necessaria una vigilanza serena, fiduciosa nell’amore del Signore, ma costante.
Nelle scorse settimane uno dei pensatori più influenti della cosiddetta teologia della liberazione è stato ricevuto da Francesco. Alcuni commentatori hanno addirittura scritto che con questo gesto “la Chiesa sdogana la teologia della liberazione”. È così? Cosa pensa Bergoglio della teologia della liberazione e in che rapporto sta con essa?
Non è possibile pensare che questo Papa possa sostenere una teologia della liberazione fondata su un’analisi marxista. Tuttavia, egli farà propria ogni difesa della dignità dei poveri e tutte le critiche dei sistemi economici ideologici, di ogni speculazione finanziaria, di ogni assolutizzazione della libertà di mercato, cose che finiscono per creare nuove ingiustizie. D’altra parte i poveri non dovrebbero essere soltanto oggetto di una liberazione operata da altri più illuminati, ma essere rispettati come persone attive, con la propria cultura, un modo proprio di vedere la vita, una religiosità caratteristica.
Come è diventato amico di Bergoglio? Ci sono dei momenti che ricorda in modo particolare della vostra amicizia?
Io non la chiamerei amicizia, ma filiazione. Anche se c’è una grande affinità di idee, per me egli è stato ed è soprattutto un grande padre che è riuscito a riconoscere e promuovere il meglio di me. Così teneramente ha tollerato i miei errori, le vanità e le impazienze, e sempre mi ha spinto, in particolare con la sua testimonianza, a continuare, a maturare e a crescere. Posso citare tre momenti speciali: uno era nel 2007, quando siamo tornati dalla V Conferenza dei vescovi ad Aparecida, dove ho rappresentato i sacerdoti argentini. Viaggiavo con lui sul volo di ritorno verso Buenos Aires e per tre ore abbiamo discusso alcune questioni che mi hanno aiutato a capire il suo pensiero. Un altro momento importante fu nel suo ufficio, quando alcune persone anonime avevano inviato in Vaticano alcune critiche su tre miei articoli. Ma dopo un anno e mezzo le risposte che io inviavo per chiarire sembravano non convincere. In quell’occasione abbiamo avuto un grande colloquio spirituale nel quale egli ha insistito perché io alzassi la testa e non lasciassi che mi togliessero la dignità. Infine, il mio incontro con lui a Santa Marta nel mese di agosto quando gli ho dato un abbraccio già da vescovo.
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Divorziati risposati. Müller scrive, Francesco detta
Un documento del prefetto della dottrina riconferma il no alla comunione e fa chiarezza su "coscienza" e "misericordia". Gelate le aspettative di cambiamento. Ma torna in campo una "ipotesi Ratzinger"
di Sandro Magister
ROMA, 23 ottobre 2013 – "Credo che questo sia il tempo della misericordia", aveva detto papa Francesco sull'aereo di ritorno dal Brasile, rispondendo a una domanda sulla comunione ai divorziati risposati.
Ma che la "misericordia" predicata da papa Jorge Mario Bergoglio preluda a una revoca del divieto della comunione, come molti avevano arguito, è ormai da escludere.
Il no l'ha calato – visibilmente con l'approvazione del papa – il prefetto della congregazione per la dottrina della fede, l'arcivescovo Gerhard Ludwig Müller, su "L'Osservatore Romano" di oggi, con un documento di piena riconferma della dottrina della Chiesa cattolica in materia, diffuso contemporaneamente in sette lingue.
Un documento che dedica la sua parte finale proprio a una messa in guardia da un'interpretazione "falsa" della misericordia:
"Attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia si incorre nel rischio della banalizzazione dell’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare. Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia.
"Gesù ha incontrato la donna adultera con grande compassione, ma le ha anche detto: 'Va’, e non peccare più' (Giovanni, 8, 11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dalle istruzioni della Chiesa; anzi, essa concede la forza della grazia per la loro piena realizzazione, per il rialzarsi dopo la caduta e per una vita di perfezione a immagine del Padre celeste".
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Non solo. Papa Francesco aveva acceso delle aspettative di cambiamento – sempre sull'aereo di ritorno dal Brasile – anche quando si era richiamato all'esempio delle Chiese ortodosse che nel matrimonio "permettono una seconda unione".
Ma anche qui il pronunciamento del prefetto di dottrina ha chiuso ogni varco:
"Oggi nelle Chiese ortodosse esiste una varietà di cause per il divorzio, che sono solitamente giustificate con riferimento alla 'oikonomìa', la clemenza pastorale per i singoli casi difficili, e aprono la strada a un secondo o terzo matrimonio con carattere penitenziale. Questa prassi non è coerente con la volontà di Dio, chiaramente espressa dalle parole di Gesù sulla indissolubilità del matrimonio. […] Talvolta si sostiene che la Chiesa [cattolica] abbia di fatto tollerato la pratica orientale, ma ciò non corrisponde al vero".
E più avanti:
"Anche la dottrina della 'epichèia', secondo la quale una legge vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente, non può essere applicata in questo caso, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, che non è dunque nella disponibilità autoritativa della Chiesa".
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Un terzo punto su cui il pronunciamento di Müller ha voluto fare chiarezza – anche qui in riferimento implicito a parole del papa malamente interpretate – riguarda "un concetto problematico di coscienza", utilizzato come lasciapassare alla comunione:
"Sempre più spesso viene suggerito che la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla coscienza personale dei divorziati risposati. Questo argomento, che si basa su un concetto problematico di 'coscienza', è già stato respinto nella lettera della congregazione [per la dottrina della fede] del 1994. Certo, in ogni celebrazione della messa i fedeli sono tenuti a verificare nella loro coscienza se è possibile ricevere la comunione, possibilità a cui l’esistenza di un peccato grave non confessato sempre si oppone. Essi hanno pertanto l’obbligo di formare la propria coscienza e di tendere alla verità; a tal fine possono ascoltare nell’obbedienza il magistero della Chiesa, che li aiuta 'a non sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo, ma, specialmente nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a rimanere in essa' (Giovanni Paolo II, lettera enciclica 'Veritatis splendor', n. 64).
"Se i divorziati risposati sono soggettivamente nella convinzione di coscienza che il precedente matrimonio non era valido, ciò deve essere oggettivamente dimostrato dalla competente autorità giudiziaria in materia matrimoniale. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, un sacramento, sulla cui validità non solamente il singolo per se stesso, ma la Chiesa, in cui egli mediante la fede e il battesimo è incorporato, è tenuta a decidere".
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In linea generale, il documento del prefetto della dottrina ribadisce "che, in caso di dubbi circa la validità della comunione di vita matrimoniale che si è interrotta, questi devono essere esaminati attentamente dai tribunali competenti in materia matrimoniale".
Ma Müller anche riconosce che in un contesto come l'attuale i matrimoni "invalidi" sono molto numerosi.
Esattamente come aveva fatto notare papa Francesco, sempre sull'aereo di ritorno da Rio de Janeiro, quando ricordò che il suo predecessore a Buenos Aires, il cardinale Quarracino, diceva: "Per me la metà dei matrimoni sono nulli, perché si sposano senza maturità, senza accorgersi che è per tutta la vita, perché lo fanno per convenienza sociale".
Ma se i matrimoni nulli sono in così gran numero, come potranno i tribunali diocesani esaminarli tutti, accertandone giuridicamente l'invalidità?
Müller non pone esplicitamente questa domanda, nel suo documento. Cita però un articolo di Joseph Ratzinger del 1998 ripubblicato su "L'Osservatore Romano" del 30 novembre 2011, nel quale il predecessore di papa Francesco affacciava i pro e i contro di una ipotesi di soluzione: il possibile ricorso a una decisione in coscienza di accedere alla comunione, da parte di un cattolico divorziato e risposato, qualora il mancato riconoscimento di nullità del suo precedente matrimonio (per effetto di una sentenza ritenuta erronea o per la difficoltà di provarne la nullità in via processuale) contrasti con la sua fondata convinzione che quel matrimonio sia oggettivamente nullo.
Si può presumere che il sinodo dei vescovi dell'ottobre del 2014 – al quale papa Francesco ha affidato la questione – esaminerà proprio questa "ipotesi Ratzinger" per innovare in materia, pur nella riaffermazione dell'assoluta indissolubilità del matrimonio.
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Nel diffondere in sette lingue il documento di Müller, "L'Osservatore Romano" premette che sulla questione della comunione ai divorziati risposasti "si sono succeduti interventi diversi".
L'allusione è in particolare a un testo liberalizzatore che è circolato recentemente tra il clero della diocesi tedesca di Friburgo.
Alle tendenze espresse da questo testo, Müller risponde così, nel suo documento:
"Alla crescente mancanza di comprensione circa la santità del matrimonio, la Chiesa non può rispondere con un adeguamento pragmatico a ciò che appare inevitabile, ma solo con la fiducia nello 'Spirito di Dio, perché possiamo conoscere ciò che Dio ci ha donato' (1 Corinzi, 2, 12). Il matrimonio sacramentale è una testimonianza della potenza della grazia che trasforma l’uomo e prepara tutta la Chiesa per la città santa, la nuova Gerusalemme, la Chiesa stessa, pronta 'come una sposa adorna per il suo sposo' (Apocalisse, 21, 2).
"Il Vangelo della santità del matrimonio va annunciato con audacia profetica. Un profeta tiepido cerca nell’adeguamento allo spirito dei tempi la sua propria salvezza, ma non la salvezza del mondo in Gesù Cristo. La fedeltà alle promesse del matrimonio è un segno profetico della salvezza che Dio dona al mondo: 'chi può capire, capisca' (Matteo, 19, 12)".
http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350630