di Giovanni Tortelli
Ormai da cinquant’anni la dottrina discute del fondamento teologico delle conferenze dei vescovi, da quando cioè il Concilio Vaticano II scelse di non pronunciarsi sull’argomento e si limitò ad un riordinamento della materia offrendo solo qua e là degli spunti per collocare le conferenze all’interno del principio della comunione-collegialità della Chiesa, punto di origine e di incontro di tutte le fila della nuova ecclesiologia.
Nel merito: una riunione di vescovi nell’ambito di una nazione o di un territorio, può dirsi di diritto divino in nome del principio della collegialità, considerato che si tratta di un consesso limitato nello spazio e nel numero? L’unità della Chiesa, che noi professiamo nel Simbolo apostolico e che vediamo verticalmente rispecchiata nella figura del Successore di Pietro e Capo del Collegio episcopale, può ammettere delle assemblee episcopali di diritto divino che non siano universali?
1. Queste domande coinvolgono tre presupposti essenziali risultanti dal nuovo scacchiere conciliare:
a) la riconosciuta sacramentalità dell’ufficio episcopale;
b) la natura di diritto divino del Collegio episcopale universale «cum et sub Petro»;
c) il rafforzamento del ceto episcopale nei confronti delle prerogative del Successore di Pietro.
Il Concilio Vaticano II è stato tuttavia solo il punto d’arrivo di un lungo cammino compiuto dalle conferenze nel campo del diritto ecclesiastico.
E’ noto che le
assemblee regionali di vescovi, nate spontaneamente nell’Alto Medioevo a cominciare dalla Spagna, dalla Francia e dal Belgio e poi in tutta l’Europa settentrionale per adattare il diritto comune alle esigenze dei diversi territori su cui si dispiegava la presenza missionaria della Chiesa, col tempo hanno acquistato sempre più importanza, andando lentamente a sostituirsi ai concili particolari, anche se i papi hanno avuto nei loro confronti degli atteggiamenti discontinui. Nella storia recente, il beato Pio IX guardò le riunioni episcopali con la diffidenza di chi temeva per l’unità della Chiesa e non esitava ad affermare che lo Spirito Santo era presente nei Concilii ma non nelle assemblee dei vescovi (
Act. Syn. II/4, pag. 450), mentre il suo successore Leone XIII cominciò a favorirle, forse perché vi vedeva un valido strumento a difesa dei diritti della Chiesa verso le pretese degli arrembanti Stati liberali. Anche san Pio X le accolse e cominciò a regolarle, ed il codice del 1917 riconobbe ai consessi episcopali dei modesti ma concreti poteri (cann. 1507 e 1909), anche se alcuna veste giuridica venne loro attribuita né tanto meno venne riconosciuto loro un ambito nazionale (can. 292.1). Anche Pio XI non si nascose “i possibili pericoli che possono venire da queste riunioni generali dei Vescovi ed Arcivescovi di tutta la regione o lo Stato” – tuttavia “il loro uso è legittimo e utile a far del bene” (
ud. gen. 19.6.1925). Ma il maggior contributo giunse da Pio XII (si veda anche l’enciclica
Fidei donum del 1957), fatto questo abbastanza sorprendente considerato il suo carattere poco incline al decentramento e alle deleghe, ma per nulla sorprendente se si pensa alla divisione dell’Europa in due blocchi politici contrapposti e alle particolari esigenze di compattezza della sofferente Chiesa dell’Est, coi drammi ancora freschi della rivolta ungherese e dell’insanabile frattura fra la forte Chiesa polacca e quel regime statale repressivo della libertà religiosa.
Il contributo di papa Pacelli si distinse per l’intelligenza con cui favorì lo sviluppo delle conferenze ovunque nel mondo: non più «in forza» di una proliferazione di norme di diritto comune di scarsa adattabilità alle varie contingenze nazionali, bensì «attraverso» l’approvazione di statuti particolari a seconda delle diverse condizioni operative delle singole conferenze e tutto nell’unità dei principi di diritto e di un controllo comunque esercitato su di essi da parte della Santa Sede (cfr. G. Feliciani,
Le Conferenze episcopali, Il Mulino – Bologna 1974).
Anche se non si parlava ancora di episcopati nazionali, ormai la nazionalizzazione non faceva più paura, Roma poteva contare sul fatto che agli Stati di diritto nati dopo la seconda guerra mondiale interessavano più i rapporti politici diretti con la Santa Sede che il controllo statale sui vescovi e sulle diocesi.
Proprio per il fatto di essere nate dalla prassi – e quindi di subire tutte le modificazioni dovute alla variazione dei quadri storici nazionali, come quella di poter essere anche soppresse dalla Suprema Autorità – ed inoltre poiché non rivestivano il carattere di essenzialità nella vita della Chiesa, i papi succedutisi nel tempo considerarono sempre le conferenze come enti di diritto ecclesiastico.
2. Fu sulla forte spinta di episcopati nazionali ben individuati (cfr. R. de Mattei,
Il Concilio Vaticano II – Una storia mai scritta, Lindau-Torino 2010, pagg. 190 e segg.) tesi a rivendicare in ogni sede maggior ruolo e dignità per i vescovi, che il Vaticano II maturò una nuova prospettiva, riconoscendo la legittimità storica delle conferenze e poi esplicitamente il loro ambito «nazionale», attributo che fu inserito nel III Schema conciliare
de episcopis ac de dioecesium regimine (in
Act. Synod. II/2, pagg. 364-392), infine adombrando un unico asse fra collegialità episcopale e conferenze come successivi strumenti organizzativi: l’intera dottrina incontrò poi, in un IV Schema, l’approvazione di tutta l’Assise e com’è noto fu promulgata da Paolo VI col decreto
Christus Dominus del 28.10.1965.
L’ecclesiologia uscita dal Vaticano II, la quale poggiava il fondamento della Chiesa su quell’
affectio collegialis che un tempo aveva unito i Dodici a Gesù Cristo e fra di loro, veniva ora riaffermata come il collante di tutto l’episcopato, e quindi costituiva la motivazione alla base anche di quella parte dell’episcopato che si riuniva in ogni singola nazione (così
Lumen gentium cap. III punto 23d; decreto Christus Dominus punti 1, 2 e 3 del Proemio; motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6.8.1966, art. 41; Instrumentum laboris della Congregazione per i vescovi del 1.7.1987, parte I).
Nel 1974 Paolo VI confermò la natura di diritto ecclesiastico dei consessi episcopali e ribadì che essi non costituivano né delle forme particolari di concilii né di parlamenti
(Angelus del 22.9.1974).
Successivi interventi normativi – fra cui, importantissimo, il nuovo codice di diritto canonico del 1983, fino ad arrivare al motu proprio di Giovanni Paolo II
Apostolos suos del 21.5.1998 – modificarono ulteriormente le conferenze sotto l’aspetto istituzionale, ma continuarono a non definirne mai il fondamento teologico.
3. Ho detto all’inizio che l’osservazione del fondamento teologico delle conferenze presupponeva tre elementi della nuova ecclesiologia conciliare:
a) la sacramentalità dell’episcopato;
b) la collegialità episcopale;
c) il rispetto delle prerogative del Romano Pontefice. Col primo, si è riconosciuto che la consacrazione conferisce al vescovo “la pienezza del sacramento dell’Ordine”, “il sommo sacerdozio”, “la somma del sacro ministero” (
LG, punto 21) e lo introduce immediatamente in un rapporto “di unità, di carità e di pace” con tutti gli altri vescovi e col Vescovo di Roma (
LG, punto 22a) in un Ordine dei Vescovi “(…) il quale è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa” (
LG, punto 22b) e che ha – proprio per la sua natura sacramentale – carattere di permanenza (secondo presupposto), ma sempre in unione e sotto la suprema autorità del Successore di Pietro (terzo presupposto).
Ora, l’universalità che il Collegio episcopale manifesta nel senso dell’unità di tutti i vescovi uniti al Successore di Pietro, è proprio l’elemento che manca alle riunioni parziali dei vescovi, tale da far cadere per la sua sola assenza la natura di diritto divino delle conferenze nazionali e tale da farle ritenere invece degli strumenti meramente operativi del corpo episcopale.
Tuttavia, proprio in conseguenza delle nuove scelte ecclesiologiche, una buona ed autorevole parte dei teologi – sulla spinta del rafforzamento della figura episcopale uscita dal Concilio, e considerandola per di più sotto una prospettiva ontologica, quindi più come «organo ministeriale» che come «persona fisica consacrata» – ravvisava nelle riunioni particolari dei vescovi lo stesso
fine della Chiesa universale, inducendoli a ritenere che la natura divina è la medesima sia che si tratti di Chiesa universale che di consessi parziali. Rahner poteva così affermare che le conferenze erano uno strumento con medesima finalità e natura della Chiesa, “cioè quella della
cura pastoralis di cui ogni vescovo è portatore di fronte a tutta la Chiesa e di fronte ai membri che gli sono più vicini” (K. Rahner,
Sulle Conferenze episcopali, in
Nuovi Saggi, 1 – Roma 1968, pag. 604).
Ma anche il domenicano Congar – il grande livellatore conciliare di tutte le prerogative del Romano Pontefice – non aveva dubbi sulla natura di diritto divino delle conferenze: solo la loro forma esteriore era improntata al diritto ecclesiastico, così che la sostanza divina
(ius divinum) si riversava o si rivestiva della forma ordinaria (
ius ecclesiasticum), diventando l’
ius ecclesiasticum solo un modo d’esercizio, ma quasi insignificante, del
ius divinum (Y. M.-J. Congar,
Collegialité, Primauté, in
Esprit et vie n. 96/1986).
E dubbi sul fondamento divino delle conferenze non ne aveva nemmeno Kasper , per il fatto di essere espressione del principio ontologico della sacra collegialità (W. Kasper,
Der theologische Status, in
Theologische Question Tübingen num. 167/1987, pagg. 1-6). Anche per A. Angel le conferenze erano situate sicuramente nell’ambito della comunione ecclesiale, e con immagine vagamente poetica ancorché di scarso rigore scientifico, le paragonava ai cerchi sull’acqua che si inanellano dal centro verso la periferia, dimostrando così di funzionare “come istanze intermedie attraverso le quali la comunione ecclesiale o dovrebbe dilatarsi tendendo ad abbracciare l’intera
communio ecclesiastica, o concentrarsi intorno alla Chiesa diocesana” (A. Angel,
Le Conferenze episcopali: istanze intermedie? Lo stato teologico della questione, Ed. Paoline – Cinisello B. 1992, pag. 221). E perciò compartecipi, e quindi della stessa natura, della Chiesa universale.
A corroborare le loro tesi quegli Autori si richiamavano anche alla previsione dell’art. 753 cod.iur.can. 1983 per cui anche le conferenze sarebbero titolari del
ius magisterii, una delle tre funzioni dell’ufficio episcopale ricevute con la consacrazione, e quindi segno indelebile della medesima sacramentalità che sarebbe goduta, per così a dire a cascata, anche dalle conferenze particolari. Qualcuno vedeva in questa attribuzione il riconoscimento che le conferenze avevano soppiantato, assumendone i poteri, i concili particolari caduti in desuetudine (A. Dulles,
Bishop’s Conference, in
Origins 1984 num. 13, pag. 530-531). Della stessa opinione F. J. Urrutía, per il quale “quando la conferenza insegna, essa stessa come tale esercita il magistero, e non i singoli vescovi in quanto aderiscono alla dottrina che è contenuta nella dichiarazione. Per questo, sia i vescovi che i fedeli sono obbligati a dare il loro assenso con la dovuta venerazione religiosa alla dottrina proposta dalla conferenza (F. J. Urrutía,
De exercitio muneris docendi a conferentiis Episcoporum, in
Periodica de re morali, canonica, liturgica, Pont. Univ. Greg. 1987 vol. LXXVI, pag. 607).
Ora, se tutto il fondamento teologico di diritto divino delle conferenze si regge sul solo
munus docendi riconosciuto dal can. 753, la confutazione è facile: tutte le fonti primarie attribuiscono questo
munus solo al papa, ai concili e ai vescovi sparsi nel mondo (in comunione col papa) mentre tacciono riguardo alle conferenze, segno che
ubi lex non voluit, non dixit. Per di più, il
munus viene previsto da uno strumento operativo e pratico di secondo livello come il codice di diritto canonico che non può non tener conto del silenzio delle fonti primarie e quindi quando ne parla, lo fa certamente con l’intenzione di attribuire il
munus docendi ai «singoli vescovi» che fanno parte del consesso parziale e non al consesso in sé, in quanto è il vescovo in persona l’autentico dottore e maestro della fede per i credenti che gli sono affidati, e non la conferenza in quanto tale (lo dice espressamente anche il can. 455.4 peraltro rammentato proprio da Ratzinger in V. Messori-J. Ratzinger,
Rapporto sulla fede, Ed. San Paolo, Cinisello B. 2005, pag. 60; in questo senso anche G. Ghirlanda,
de Episcoporum Conferentia, in
Periodica de re morali, cit., 1987 vol. LXXVI, pag. 575).
4. Ma più in generale, forti dubbi sulla natura di istituzioni di diritto divino delle conferenze, sorgono in considerazione di altri aspetti:
a) il collegio dei vescovi nelle conferenze non è universale: la collegialità episcopale così come è stata concepita dal Vaticano II ha un senso e un valore solo se unita al Successore di Pietro,
cum et sub Petro, e mai senza, mentre le conferenze nazionali di solito non sono presiedute, né convocate, né approvate dal papa;
b) le conferenze trattano solitamente di temi pastorali che hanno un’attinenza coi problemi delle singole diocesi che formano il territorio, e non trattano mai di questioni di carattere universale;
c) la Santa Sede ha un potere di
recognitio che incide in via costitutiva sulle deliberazioni vincolanti delle conferenze, tanto che senza l’esercizio del controllo della Santa Sede le deliberazioni della conferenza sono prive di efficacia vincolante;
d) né la Tradizione né altre fonti di diritto le hanno mai contemplate nel numero degli organi essenziali della Chiesa;
e) infatti, la Santa Sede può in ogni modo costituire ma anche modificare e perfino sopprimere talune conferenze, come è più volte accaduto nella storia e come prevede il can. 449.1 del nuovo codice.
5. Allo stato attuale, e fin quando un atto della Suprema Autorità non scioglierà definitivamente la questione, le conferenze continueranno ad operare come mere istituzioni ecclesiastiche, articolazioni operative e pratiche del ministero episcopale ad ausilio di quello e non complementari o sostitutive di quello: “Eppure, non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così com’è voluta da Cristo: hanno soltanto una funzione pratica, concreta” (così J. Ratzinger in V. Messori-J. ratzinger,
Rapporto sulla fede, cit., pag. 60).
Il sacro ministero episcopale è personale e la sacralità non può trasferirsi né oggettivamente né automaticamente sul consesso per il solo fatto che vi partecipa una pluralità di vescovi.
Per concludere: se la collegialità così com’è stata concepita ed attuata nel Concilio Vaticano II ha un’importanza per la fondazione teologica delle conferenze, essa ce l’ha non come causa diretta ma come quadro di riferimento ecclesiologico nel quale anche le conferenze – come enti strumentali della Chiesa – vivono ed operano. Se si vuole, si potrà anche parlare di «identico fine» fra Chiesa universale e riunioni dei vescovi delle Chiese locali, ma il fine particolare, territoriale, determinerà sempre una collegialità imperfetta, non riconducibile al significato e al senso che il Concilio volle dare al termine di collegialità episcopale.
L’istituto della conferenza episcopale dovrà pertanto continuare ad essere considerato una mera
persona iuridica in quanto realtà creata e regolata secondo il diritto umano (can. 113.2 cod.iur.can.), ben diversa dalla
persona moralis «ex ipsa ordinatione divina» (can. 113.1 cod.iur.can.) termine col quale si vuol indicare solo il centro: vale a dire la Chiesa cattolica stessa e la Santa Sede (riguardo alla quale, peraltro, solo l’ufficio del Romano Pontefice viene riconosciuto
ex divina ordinatione, mentre non lo sono ad esempio nemmeno gli uffici che ruotano più direttamente intorno al Sommo Pontefice come quelli della Curia Romana, che sono considerati sì enti ecclesiastici ma non istituiti
ex divina ordinatione).
www.conciliovaticanosecondo.it 25 settembre 2013