mercoledì 11 settembre 2013

La scuola svuotateste








La laïcité imposta agli studenti francesi non è solo un tic nazionale, ma fa tendenza ovunque




di Giorgio Israel

Una ventata di mentalità totalitaria vestita di politicamente corretto sta distruggendo il sistema dell’istruzione che ha governato l’occidente per un paio di secoli: non più creazione di conoscenze e cultura come strumenti di libertà dell’individuo, ma meccanismo standardizzato per plasmare gli individui entro ideologie preconfezionate. Certo, il mondo è complesso, standardizzare è difficile, le differenze nazionali persistono, pur indebolite, e Giulio Meotti (“L’abracadabra del pol. corr.”, il Foglio, 29 agosto) ha bene descritto la realtà francese, le sue inveterate tendenze laiciste e giacobine. Ma il motto “la scuola non deve trasmettere conoscenze ma forgiare i valori dell’individuo” non esce solo dalla cucina francese: circola ovunque. Un professore mi racconta di un consiglio di classe aperto dal dirigente con la perentoria indicazione: “E’ prioritario stabilire il modello di persone che vogliamo formare”. E non è roba che esce solo dalla cucina della “gauche”. Si pensi a Monsieur Claude Thélot, uno dei massimi esperti mondiali di problemi scolastici, che presiedette nel 2003, su mandato di Jacques Chirac (un “gauchiste”?) una commissione sul futuro della scuola.

Tre anni fa, invitato in Italia con tutti gli onori, dichiarò che i professori insistono sulle conoscenze e invece dovrebbero occuparsi meno di trasmettere il sapere e di più della formazione della personalità degli allievi. Del resto, tanti docenti francesi da anni si battono contro questa visione totalitaria e si scontrano con i poteri enormi della burocrazia centralista: hanno subito ispezioni, ammonimenti, tagli di stipendi perché “insegnavano” invece di “formare le teste”. Nel 2005, il celebre matematico Laurent Lafforgue entrò a far parte dell’Alto Consiglio dell’Educazione francese. Inorridito dalle prescrizioni di funzionari ed “esperti”, scrisse al presidente del Consiglio che “per me è esattamente come se fossimo un Alto Consiglio dei Diritti dell’Uomo e decidessimo di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per la promozione dei Diritti Umani”. Fu cacciato su due piedi. Va detto che la critica di Edgar Morin del provvedimento di Peillon (“L’uguaglianza imposta uccide la libertà, non può essere stabilita per decreto”) è una manifestazione sesquipedale di ipocrisia. Proprio lui ha proposto l’ideologia della “costruzione delle persone” con il libro-manifesto “La testa ben fatta”, che ha distorto il senso del detto di Montaigne contro il nozionismo – “E’ meglio una testa ben fatta che una testa ben piena” – in un proclama contro la trasmissione delle conoscenze.

Certo, Morin avrebbe applaudito se avessero scelto la sua versione del costruttivismo. I fabbricanti di teste hanno vedute differenziate ma sono liti in famiglia. Li unisce il proposito fondante dell’internazionale della “nuova” istruzione: basta con le conoscenze e con la cultura, basta con i “saperi del passato”, l’istruzione deve essere un sistema di fabbricazione di individui “nuovi”, dotati di capacità adatte alle esigenze della società contemporanea. In sintesi: basta con le conoscenze, viva le “competenze”, nel linguaggio della convenzione di Lisbona. Qualcuno parla addirittura, ridicolmente, di “competenze della vita”, le sfumature sono tante, ma è comune la pretesa totalitaria di fare dell’istruzione un sistema di “formazione di teste”.

Chi non fosse convinto che la distruzione della cultura passata sia vista come la chiave per imporre la dittatura del politicamente corretto, può leggere “Humanism and Democratic Criticism” (2004), dell’intellettuale americano-palestinese Edward Said (il celebre autore di “Orientalism”). Said descrive le università statunitensi prima degli anni Ottanta: culle della tradizione culturale e letteraria dell’occidente, in cui si leggevano con devozione Omero, Erodoto, Eschilo, Platone, Aristotele, la Bibbia, Virgilio, Dante, Cervantes, sant’Agostino e Dostoevskij. Racconta compiaciuto come nel giro di un ventennio questa tradizione fu distrutta per creare un nuovo “umanesimo” libero dagli efferati “essenzialismi” e razzismi della letteratura classica; e cita come modello la “rigenerazione” della Columbia University, di cui era diventato professore. Fu un gigantesco svuotamento di teste per rifarle daccapo. Manco a dirlo, nelle teste venne messo qualcos’altro. Difatti, è un gigantesco imbroglio far credere che si possano confezionare teste “ben fatte” senza metterci nulla dentro: il modo con cui le si confeziona presuppone il contenuto auspicato. Ma è la pretesa in sé, l’idea di “svuotare” e rifare il recipiente che costituisce l’aberrazione primaria. Voler rifare le teste secondo i principi del laicismo giacobino è aberrante, ma non sarebbe meglio se si trattasse di principi religiosi integralisti, o dell’ateismo di stato che veniva praticato in Urss, o delle ideologie nazi-fasciste.

Piaccia o non piaccia, la Francia è un paese molto importante in ambito culturale: un tempo si diceva che “ogni uomo colto deve passare per Parigi”. L’antica gloria è ormai scolorita – anche se il postmodernismo statunitense è frutto di una colonizzazione del pensiero di Foucault e Derrida – ma il suo passato ha molto da insegnare. Prendiamo, ad esempio, il riferimento al 1789. Di per sé non vuol dir molto: nel 1789 vi sono molte cose diverse. A quale 1789 si riferisce il ministro Peillon quando dice di volerne realizzare gli ideali? Pensa alle visioni dell’istruzione del marchese di Condorcet o alle teorie educative di Jean-Jacques Rousseau? Non c’è dubbio: Jean-Jacques è il profeta del ministro Peillon, e di tanti rifacitori di teste di altri paesi, anche di tendenze tutt’altro che laiciste.

Condorcet e Rousseau: da tempo si dibatte in Francia sui due pensatori, individuando la contrapposizione tra “istruzione” ed “educazione” come il nodo da dirimere. Non intendiamo riproporre tal quale lo scientismo di Condorcet che – lo ricordavamo su queste pagine contro le teorie della democrazia temperata dal governo dei tecnici – pretendeva che “una nazione che non è governata da filosofi cade in mano ai ciarlatani”. Ma la visione dell’istruzione di Condorcet è una delle espressioni più alte della democrazia liberale. E’ l’idea moderna di un sistema di istruzione di massa garantito dallo stato che offra pari opportunità a tutti. Lo scopo non è affatto indottrinare i cittadini, bensì fornire cultura e conoscenza come strumento di libertà, con cui essi decideranno autonomamente le forme della loro presenza nella realtà sociale. La scuola non educa ma “istruisce”, formando con la cultura capacità critiche autonome. Da questo punto di vista, la “trasmissione” della conoscenza è fondamentale e fa dell’insegnante una figura centrale nella società. E’ una funzione che è stata mirabilmente descritta da Hannah Arendt: l’insegnante “si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo si assume la responsabilità. Di fronte al ragazzo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini della terra che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo”. E’ evidente che – come spiega la filosofa – questo richiede un fondo di atteggiamento “conservatore”: solo così, offrendo gli strumenti per la comprensione critica del mondo in cui entra il giovane si dimostra “che noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano l’occasione di intraprendere qualcosa di nuovo”.

Ora dilaga l’opposto: non bisogna fornire conoscenze, ma forgiare gli individui, secondo i precetti di Rousseau, che nell’“Emile” definisce l’istruzione “educazione a vivere”, insegnamento al giovane dell’uso delle facoltà che danno il sentimento dell’esistenza. Parlando dei giovani e, in particolare, dei suoi figli, Rousseau esclama: “Vivere è il mestiere che voglio insegnargli!”. Peccato che ai suoi cinque figli abbia insegnato questo mestiere abbandonandoli tutti nella ruota… scacco dell’arrogante pretesa di volere nientemeno che insegnare agli altri a vivere, invece di attenersi all’intento di fornire gli strumenti critici per decidere liberamente come costruire la propria vita.

Ma i rousseauiani di ogni sponda rovesciano la frittata: secondo loro, la scuola come istruzione sarebbe “impositiva” in quanto “trasmette” conoscenze. Loro, si “limiterebbero” a fornire i metodi per fare da sé, come se imporre la metodologia del vivere non fosse ciò che di più impositivo si possa immaginare. Predicano le virtù dell’autoformazione: ognuno ricomincia da zero, ricostruendo il sapere e l’insegnante fa solo l’allenatore, il “facilitatore” (come si dice oggi). E’ faticoso confutare una visione tanto irragionevole e ridicola: è la fatica che prova il buon senso di fronte al muro dell’ideologia. Il trionfo postumo dell’educatore ginevrino si manifesta nel dilagare universale del costruttivismo. Dopo gli orrori dell’eugenetica si credeva ingenuamente che la pretesa di “costruire l’individuo perfetto” fosse un brutto ricordo del passato: e invece la vediamo riemergere in ogni ambito, dalla genetica alle scienze sociali. Si credeva che il ricordo degli asili infantili sovietici di Aleksandra Kollontaj, in cui si costruiva il nuovo uomo socialista, potessero destare soltanto ilarità e la pena, e invece pullulano pedagogisti che citano come la Bibbia il poema pedagogico di Makarenko. Ed ecco che il ministro di uno stato democratico si propone di formare l’ “uomo nuovo” laico, facendo fare una figura da ultraliberale a Jules Ferry.

La manifestazione forse più importante di tale rigurgito di totalitarismo è l’ossessione di introdurre nella gestione sociale, e nell’educazione, i concetti (rozzamente mutuati dalle scienze esatte) di “oggettività” e “standardizzazione”. Il risultato, nell’istruzione, è la progressiva riduzione della figura dell’insegnante a un burocrate votato ad applicare le direttive che vengono da centri esterni: amministrazioni statali, enti di valutazione, aziende private – tutti autoreferenziali e fuori controllo – sia pure entro differenti tradizioni nazionali: in Francia prevale il centralismo statalista, in America l’invadenza di imprenditori privati come Bill Gates, che propongono di mettere un bracciale elettronico agli studenti per stimare il grado di attenzione in classe e così “valutare” gli insegnanti. Ci vorrebbe un libro per analizzare le varie forme che assume il dilagante costruttivismo sociale. Ora è sotto i riflettori quello francese. Ma merita attenzione il modo con cui, negli Stati Uniti, il crollo della diga rappresentata dal legame con la tradizione umanistica classica ha trasformato il costruttivismo pedagogico di John Dewey in un’ideologia violenta che definisce l’insegnamento dell’ortografia e della fonetica come una “violenza su minori” da rimpiazzare con i precetti del politicamente corretto.

Limitiamoci a dare un’occhiata in casa nostra. Strano paese l’Italia, in cui la gran varietà di opinioni e l’individualismo sembrano escludere la presenza di tendenze orientate in una direzione definita. Eppure il costruttivismo sociale pedagogico dilaga anche qui. Nessun proclama laicista, nessun manifesto ideologico esplicito, ma l’idea di trasformare la scuola in un luogo in cui si “costruiscono le persone” è diffusa, coperta dietro la maschera “buona” dell’assistenzialismo agli “esclusi”. E’ il progetto dell’ex ministro Profumo di trasformare la scuola da centro d’istruzione a “ambiente d’interazione allargata… aperto agli studenti e alla cittadinanza, centro di coesione territoriale e di servizi alla comunità, un vero e proprio centro civico”. Avete un problema, vi fa male la pancia, vi ha lasciato la fidanzata, avete un disagio psico-fisico o la vostra famiglia è un disastro? Andate a scuola. Esagerazioni? Si legga la normativa del diluvio che sta per cadere sulla scuola, i Bes (Bisogni educativi speciali). Prevede che “ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, possa manifestare Bes: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. E per farlo si ricorre a strutture pesanti, come i “Gruppi di lavoro per l’inclusione” formati da “educatori culturali”, “assistenti alla comunicazione”, esperti istituzionali o in convenzione, genitori e, by the way, insegnanti.

La capacità di questi “esperti” di imporre la loro dittatura è collaudata. Mi limito a citare il caso di un dipartimento universitario di Psicologia che, ottenuta una convenzione con un plesso scolastico elementare per esplorare le “caratteristiche cognitive e psicologiche di bambini che presentano ritardo mentale”, infilò nelle cartelle dei bambini una richiesta ai genitori di autorizzare uno screening di massa, con l’avvertimento intimidatorio che la mancata collaborazione avrebbe avuto “gravi conseguenze a livello sociale”. Nella disattenzione generale la scuola viene trasformata in un sistema di costruzione e controllo sociale, in cui l’apprendimento è marginale rispetto alla creazione di una coscienza politicamente corretta dell’“inclusione”.
Come mai si è giunti a questo punto in un paese per decenni dominato dalle culture comunista e cattolica? Certo, il costruttivismo sociale era costitutivo della cultura comunista. Ma, la tradizione italiana, ha difeso a oltranza l’importanza dello studio rigoroso e “faticoso” e, in particolare, il valore degli studi classici. Si pensi alle celebri pagine di Gramsci sul valore del latino, di sapore quasi gentiliano, o al culto per la letteratura e il rigore linguistico di Togliatti. Negli anni Settanta, Luigi Berlinguer attaccava duramente le tendenze nella comunità europea verso un’istruzione praticistica e difendeva il sapere disinteressato e il primato della conoscenza. Con il muro è crollato tutto e l’antico costruttivismo ha assunto vesti postmoderne, in cui primeggiano i dogmi del politicamente corretto, e la scuola va trasformata nel senso descritto da Profumo.

Sul versante della cultura cattolica, un’opera decisiva di demolizione è stata compiuta dal “donmilanismo” – uso questo termine per venire incontro a chi dice che don Milani non è mai giunto alle aberrazioni dei suoi interpreti più fanatici. Ma c’era anche un altro polo, rappresentato da don Giussani, cui si deve una critica chiara, diretta e devastante dell’ideologia dell’autoformazione, contro la distruzione della figura del “maestro”. Ma è sconcertante vedere che parecchi suoi seguaci, mentre ribadiscono l’adesione ai suoi insegnamenti, perseguono forme di costruttivismo educativo, esibendo una singolare schizofrenia tra una visione che mette al centro la persona e i valori umani e una visione tecnocratica, tra l’educazione centrata sulla trasmissione della cultura e l’educazione come ingegneria sociale. Ci si chiede come possa un cattolico proporre l’“Emilio” di Rousseau come vangelo della pedagogia. Eppure anche questo accade.
Così, nello sbandamento e sgretolamento culturale, capita in Italia che si operi per il trionfo di qualcosa che, per altro verso, viene additato come un nemico: un relativismo e un politicamente corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via ministerial-burocratica, meno clamorosa di quella francese ma non meno insidiosa.






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