giovedì 12 settembre 2013

La Messa di S. Pio V: un percorso di santità











di Fabio Sansonna

Contrariamente a quanto molti credono, la Messa attuale non è la traduzione fedele della Messa precedente. La Messa di S. Pio V, detta Messa Tridentina, è stata celebrata per 5 secoli, anzi da sempre perché in realtà nella sua essenza si tratta della Messa delle origini, quella dei più antichi pontificali e della riforma gregoriana (tra terzo e sesto secolo d.C). Venne ristrutturata da Alcuino di York durante l’impero carolingio, quando Carlo Magno volle estendere il Rito Romano a tutta l'Europa; infine fu codificata da S.Pio V.

Nell'Alto Medioevo in Francia vigeva il Rito Gallicano (da non confondere col gallicanesimo), introdotto da S. Germano di Parigi nei primi secoli. Durante l’impero carolingio il Rito Gallicano venne praticamente assimilato al Rito Romano, fino a scomparire verso il XIX secolo come rito autonomo, quando quasi ovunque in Francia venne sostituito dal Rito Romano. 

Non è esatto definire Tridentina la Messa di S. Pio V, come spesso viene fatto impropriamente, come se fosse stata formulata così com’è in occasione del Concilio di Trento: essa è invece nella sua essenza la Messa delle origini, per lo meno quella del VI secolo. Le influenze gallicane di epoca carolingia poi, tante volte invocate dai detrattori della Messa di S. Pio V, erano già state parzialmente espuntate al tempo del Concilio di Trento, assieme a tante espressioni eterodosse. E comunque il Rito Gallicano, composto da un santo, era un rito riconosciuto dalla Chiesa, solo era intriso di elementi poetici e abbondava nell'uso dell'incenso come i riti orientali, oltretutto le espressioni gallicane contenute nella Messa di S.Pio V erano formule riservate al sacerdote, non certo strutturali.

Sostenere quindi, come si è fatto dopo la Riforma Liturgica del 1969, di aver riportato il Rito Romano alla sua purezza originaria dei primi tre secoli soltanto per aver espuntato gli elementi gallicani residui, è un'affermazione priva di evidenze, ancora tutta da dimostrare. Poiché non si conosce la struttura completa del Rito Romano nei primi tre secoli, eccetto Confiteor, Gloria, Sanctus ed il Canone I, la semplice sottrazione dei residui gallicani (e germanici) non può dare come risultato la struttura completa della Messa dei primi tre secoli, ma al massimo quella della Messa stazionale del VI secolo: in realtà neanche quella.
Infatti, sono state in parte eliminate, ridotte e alterate le tre orazioni offertoriali contenute negli antichi sacramentari gelasiano, leoniano e gregoriano, tramandate fedelmente da Alcuino e risalenti ai secoli V- VI; inoltre è stato eliminato il salmo 42 dall'Introito ed il salmo 25 del Lavabo, tutti elementi sicuramente privi di influenze gallicane. 

In realtà si è voluto eliminare tutto ciò che è venuto a far parte della Tradizione Cattolica dopo l'Editto di Costantino, considerando "puro" solo ciò che lo aveva preceduto e di cui abbiamo, in campo liturgico, scarsissimi elementi di confronto. Eliminando qua e là col pretesto della ricerca della purezza originaria perduta, sono stati creati tanti spazi vuoti per riempirli con nuove formule inventate.

In realtà l'obiettivo principale e dichiarato dei riformatori era quello di eliminare dalla Messa tutto ciò che creava problemi ai protestanti: volevano purificare il rito dalle influenze germaniche antiche, ma hanno finito per per modificarlo con degli influssi germanici più moderni! E comunque, oggi nessuna persona onesta oserebbe affermare che la forma della Messa attuale è quella dei primi tre secoli. Ma neanche quella dei secoli successivi.

Il problema è che negli ultimi decenni ci si è inventati un'idea poetica, fantasiosa, quasi idilliaca di come fossero la comunità cristiana e la liturgia nei primi tre secoli. I riformatori avrebbero voluto sostituire anche il Canone I che risale al III secolo, ma Paolo VI lo impedì (anche se il testo nel nuovo rito è stato modificato).
Se si pensa poi che certi usi introdotti dalla Riforma Liturgica nel 1969 riprendono usi dei riti neo-gallicani, come l’impiego di più preghiere eucaristiche anziché di un solo canone come nella Messa di S. Pio V, certe obiezioni fanno solo sorridere.

In conclusione, S. Pio V nel XVI secolo ha semplicemente riordinato la liturgia tradizionale in occasione del Concilio tridentino, ma non l’ha reinventata con una Riforma Liturgica fatta per l'occasione da lui o da qualche liturgista. Il vero problema è che negli ultimi decenni troppi nel mondo cattolico hanno ritenuto di essere migliori dei cattolici che ci hanno preceduto nei secoli passati, e hanno creato una mentalità avversa a tutto ciò che è la Tradizione della Chiesa, creando così un’ideologia antitridentina, parallela al progressismo e alla mentalità sessantottina di sistematica ribellione alla figura del Padre, del passato, dell'autorità.
Ma cos’ha da dire oggi questa liturgia antica?
E’ difficile descrivere la ricchezza di questa liturgia, se non la si sperimenta. Già l’inizio è stupefacente: una volta don Giussani ricordava che in seminario, aveva 15 anni, restò colpito dal fatto che un vecchio sacerdote tutto curvo, padre Botta, diceva : “ al Dio che letifica la mia giovinezza” . Erano le parole d'inizio dell' Antica Messa, anche in Rito Ambrosiano. Ed il contrasto tra le parole del salmo 42 e l'anzianità del sacerdote che le pronunciava per quel bambino doveva essere stato proprio sorprendente, tanto che poi scriverà un libro dal titolo: "Realtà e giovinezza. La sfida" (SEI, Torino,1995; vedi pag 17). 
 La Messa di S. Pio V inizia con le parole del salmo 42-43, creando un collegamento diretto con la vita, con la settimana appena trascorsa: la vita oggi espone a contrasti, persone, colleghi che a volte sono nemici, le cose possono andare storte e allora…. si arriva a volte a Messa con un' insoddisfazione per la settimana, per com'è andata, si arriva lì la domenica con questa posizione del cuore. Le parole del salmo 42 pescano dritto in questa posizione e la rilanciano verso Dio, risollevando l’anima del fedele : “ ritornerò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza!”
Don Giussani diceva sempre che il più grande peccato è la dimenticanza: questo modo di iniziare la Messa è come un incontro, capace di ricreare una posizione umana di letizia e di speranza. Il salmo ci ricorda che se ci troviamo in una posizione di insoddisfazione è perché durante la settimana abbiamo dimenticato Dio, e i nemici ne hanno approfittato per toglierci il gusto di vivere. Ma il fatto di essere lì risana, ricostituisce dentro e rilancia verso il destino. “ritornerò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza!” , ecco perché vale la pena andare a Messa! Certo, pronunciare le parole del salmo 42 all'inizio è come chiedere perdono dei peccati, ma è molto più concreto ed esistenzialmente più vibrante di una breve formula di richiesta di perdono formalmente espressa appena prima del Confiteor. Quelle parole del salmo invece tirano dentro quasi di forza nella Messa, nella posizione giusta per partecipare al sacrificio di Cristo ed esserne presi totalmente.

All’Offertorio si percepisce tutta la storia della salvezza, perché Dio va “placato”, mentre oggi si presenta Dio come uno a cui va bene tutto: biblicamente non è così ! All’inizio la Bibbia fa capire che Dio era veramente urtato dopo il peccato originale, tanto che scaccia Adamo ed Eva perché non mangino anche “dell’albero della Vita” oltre che di quello della conoscenza (Genesi 3,22-24). Solo Cristo col Suo sacrificio ha placato il Padre e l’ultima pagina della Bibbia dice che anche l’uomo mangerà dell’albero della Vita (Apocalisse, 22,14). Ma il finale dell' Apocalisse non è "a tarallucci e vino" : “Fuori gli impudichi…gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama la menzogna!”(Apocalisse 22,15). 

Qui si capisce il perché il sangue di Cristo è sparso “per molti” nel testo del Vangelo, mentre il “per tutti” introdotto dalla Riforma Liturgica rappresenta certamente un lodevole, pio e auspicabile desiderio, ma è poco realista e poco corrispondente a quello che ha detto Gesù, per come finisce la Bibbia. Anche quando la infinita misericordia di Dio trabocca, non è mai senza l'impegno della libertà dell'uomo! La misericordia di Dio è infinita, ma solo per il cuore che riconosce fino in fondo il proprio male e accetta di essere ferito da questa infinita misericordia!

Tutto ciò non deve servire a ripresentare l’immagine di un Dio che punisce, ma serve a farci comprendere fino a che punto la vita, innanzitutto la nostra vita, vada presa sul serio! Tutti gli idoli, di ieri e di oggi, così come una certa immagine superficiale e spiritualista di Dio oggi così diffusa, invece inducono a scherzare col senso della vita, della nostra vita, cioè a perdersi nel nulla… Ma la "presunzione di salvarsi senza meriti" è un peccato contro lo Spirito Santo, e l'idea di "merito" cristianamente coincide con quella di desiderio del vero, che la propria vita sia vera! 

Verità è una parola che ha radici nel sanscrito e significa rapporto con Dio. Una cosa è vera se rimanda a Dio, se c'entra con Dio. Essere seri verso la vita significa essere veri. Una volta don Giussani domandò a degli studenti quale fosse il senso del Natale: dopo le varie risposte che tutti possiamo immaginare, irruente come sempre affermò che invece il senso del Natale era ”la serietà verso la vita!”. Infatti, se Dio ha preso così sul serio la nostra vita con le sue miserie, (il peccato originale) tanto da farsi uomo, allora il peccato più grande è dimenticarsi di questo avvenimento e non farne esperienza, non prendere sul serio la vita, la nostra stessa vita che Lui ha preso sul serio prima di noi nascendo nella grotta di Betlemme.

L’Offertorio della Messa Antica ribadisce questa serietà verso la vita ed il senso di offerta continua anche dopo la Consacrazione, perché quella ”ostia pura e immacolata” che viene offerta al Padre, come Gesù Cristo si offrì al Padre nell’Orto degli Ulivi, obbliga a prendere sul serio l’esistenza. Solo con questa coscienza possiamo usufruire utilmente della Sua misericordia. Certi gesti oggi in uso (ma in uso anche anticamente) come il portare il pane e il vino all’altare, rischiano di essere una forma esteriore di nuovo devozionismo e riducono il significato dell’Offertorio se non si ha coscienza che in quel momento viene offerta una Vittima perché noi diventiamo più seri verso la nostra vita. La misericordia è frutto del Suo sacrificio.

Nella Messa di S. Pio V la grande essenzialità e i maggiori spazi di silenzio permettono di riconoscere l’oggettività di ciò che accade durante la Messa, in particolare dopo la Consacrazione. Che senso ha commentare con una frasetta quello che è avvenuto oggettivamente sull’altare? E’ un modo per deviare l’attenzione dal fatto oggettivo, di Cristo che si è reso presente come vittima nel pane e nel vino. Si dice “…in attesa della Tua venuta … “: ma Lui non è già lì? Il problema è se è successo qualcosa di grande o non è successo niente, e questo vale anche davanti ai fatti e alle circostanze che Dio manda nella nostra vita! Al contrario, il clima di silenzio dopo la Consacrazione della Messa Antica obbliga in un certo senso chi partecipa a riconoscere che è avvenuto un fatto, a riconoscere una Presenza, senza distrazioni o equivoci. E questo poi o si impara a fare anche nella vita quotidiana, perché Dio si manifesta nei fatti e nelle circostanze che accadono.

Nella Messa di S.Pio V si capisce meglio perché il Padre Nostro è posto dopo l'Offertorio e la Consacrazione: il Sacrificio del Figlio ha placato il Padre, e solo dopo il sacrificio di Cristo noi siamo riconciliati con Padre e possiamo di nuovo rivolgerGli la parola dicendoGli: Padre Nostro! Ecco perché sarebbe bello anche nell'Antico Rito recitare il Padre Nostro insieme. Questa preghiera corrisponde all'arcobaleno dopo il diluvio, ma per capirlo occorre vivere l'Offertorio con la coscienza della presenza di una vittima che dà la Sua vita per salvarci. Un'ultima osservazione: prima del Padre Nostro si dice “formati al Suo divino insegnamento” mentre nel Rito Antico si dice “Divina Institutione formati”: la Divina Institutione è la compagnia della comunità cristiana, la Chiesa, è questo che forma il cattolico e non …gli insegnamenti: questi formano il …protestante! La parola "institutio" presuppone un contesto educativo fatto di persone, che attuano un insegnamento diretto, mentre per gli insegnamenti scritti o teorici il latino prevede altri vocaboli (es. praecepta).
Anche da un punto di vista educativo il legame con il passato è fondamentale per la formazione di una autentica e solida personalità cristiana. Per questo il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI è uno strumento educativo proposto a tutti, e non una concessione benevola destinata solo ad alcuni. La Messa di S.Pio V non è stata formulata a tavolino da esperti di liturgia, è un tesoro di vita cristiana, un percorso di santità che ci proviene dalla Chiesa e dalla sua tradizione millenaria. Il Canone è quello della Chiesa primitiva dei primi secoli, quello della Chiesa delle persecuzioni, e tante espressioni sono quelle della più autentica e genuina Chiesa delle origini, con un senso del Mistero, cioè del Sacramento, difficilmente percepibile nelle celebrazioni a cui siamo abituati. 
L’uso del latino poi non è per nulla un ostacolo reale, diventa anzi un recupero della coscienza di una storia che ci ha preceduto e continua oggi senza interruzione, essendo poi il latino ancora la lingua universale della Chiesa può aiutare a superare i particolarismi e favorire la coscienza di appartenere ad una unica famiglia, la Chiesa nel mondo. "La tradizione è la condizione del rinnovamento...il presente agisce usando quello che ha ricevuto, usando del passato fino all'istante precedente" . ( da "Realtà e giovinezza. La sfida. Luigi Giussani. SEI, 1995 , pag.165).

Comunque per ulteriori approfondimenti rimando ai libri: "La Riforma della Riforma liturgica" di don Claudio Crescimanno (edizioni Fede & Cultura, Verona,2009) e “Liturgia” di Lorenzo Bianchi (edizioni Piemme, supplemento di 30 giorni del 2002) che paragona la Messa di S.Pio V con quella attuale, dove si sottolinea come certi verbi del testo latino quali "aderire”,“guardare”,”riconoscere”,”permanere”,”seguire”, largamente usati da don Giussani nell'educazione dei giovani, sono totalmente scomparsi nel testo nuovo, sostituiti da vaghe espressioni di impegno, ricerca e sforzo morale.





http://www.ecclesiacatholica.it



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