lunedì 15 ottobre 2012

Il "progresso" nel Magistero di Benedetto XVI





Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l'Urbaniana


di Rodolfo Papa

L’“ermeneutica della continuità” affermata da Benedetto XVI a proposito delle interpretazioni del Concilio Vaticano II, può essere interpretata come una categoria che consente di leggere la storia, in modo profondo ed efficace, sfuggendo alle opposte trappole del progressimo e del regressismo. Come ha efficacemente scritto il card. Kurt Koch «Papa Benedetto XVI non vuole assolutamente tornare indietro, ma andare in profondità – come il granello di senape che cresce solo nella profondità della terra»[1]. Entro questo orizzonte ermeneutico, possiamo comprendere l’analisi del “progresso” condotta da Benedetto XVI nelle sue Encicliche.

Nella Deus caritas est, Benedetto XVI mostra le radici culturali della “filosofia del progresso” e gli aspetti disumani in essa sottesi[2]. In modo particolare vede nel marxismo un tipico esempio di progressismo volto in realtà a “bloccare ogni rivolgimento verso un mondo migliore”: «L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre bisogno. Il tempo moderno, soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell'impoverimento: chi in una situazione di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà, questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia»[3].

L’unico vero progresso è quello che perfeziona l’uomo, è quello finalizzato al bene: «In verità, l'umanizzazione del mondo non può essere promossa rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù — è “un cuore che vede”. Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e agisce in modo conseguente»[4].

Ma soprattutto nella Spe salvi il mito del progresso viene analizzato nelle sue radici culturali e criticato nei suoi presupposti sbagliati. Innanzitutto ne viene svelata la sua insufficienza soggettivistica; il mito del progresso significa che l’uomo si sente autore del Paradiso; la restaurazione del “paradiso perduto” non viene più attesa dalla fede, ma dal collegamento tra scienza e prassi «questa “redenzione “, la restaurazione del “paradiso” perduto, non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi. Non è che la fede, con ciò, venga semplicemente negata; essa viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo».

La speranza si trasforma, a partire da Bacone, in “fede nel progresso”: «Questa visione programmatica ha determinato il cammino dei tempi moderni e influenza pure l'attuale crisi della fede che, nel concreto, è soprattutto una crisi della speranza cristiana. Così anche la speranza, in Bacone, riceve una nuova forma. Ora si chiama: fede nel progresso. Per Bacone, infatti, è chiaro che le scoperte e le invenzioni appena avviate sono solo un inizio; che grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell'uomo. Così egli ha presentato anche una visione delle invenzioni prevedibili – fino all'aereo e al sommergibile. Durante l'ulteriore sviluppo dell'ideologia del progresso, la gioia per gli avanzamenti visibili delle potenzialità umane rimane una costante conferma della fede nel progresso come tale»[5].

L’utopia del progresso consiste, dunque, nella secolarizzazione della speranza.
Il centro dell’idea del progresso consiste nella esaltazione della ragione scientifica e della libertà sociale e politica: «Al contempo, due categorie entrano sempre più al centro dell'idea di progresso: ragione e libertà. Il progresso è soprattutto un progresso nel crescente dominio della ragione e questa ragione viene considerata ovviamente un potere del bene e per il bene. Il progresso è il superamento di tutte le dipendenze – è progresso verso la libertà perfetta. Anche la libertà viene vista solo come promessa, nella quale l'uomo si realizza verso la sua pienezza»[6].

In modo particolare, nell’Ottocento la speranza appare sviluppata nei termini di “fede nel progresso”, ma è proprio nell’Ottocento che si manifestano i limiti del progresso stesso, innanzitutto con l’esplosione della questione sociale dei lavoratori: «L'Ottocento non venne meno alla sua fede nel progresso come nuova forma della speranza umana e continuò a considerare ragione e libertà come le stelle-guida da seguire sul cammino della speranza. L'avanzare sempre più veloce dello sviluppo tecnico e l'industrializzazione con esso collegata crearono, tuttavia, ben presto una situazione sociale del tutto nuova: si formò la classe dei lavoratori dell'industria e il cosiddetto “proletariato industriale”, le cui terribili condizioni di vita Friedrich Engels nel 1845 illustrò in modo sconvolgente».

Al progresso lineare ed inesorabile, si sostituisce l’idea di un progresso che si impone con la rivoluzione: «Per il lettore doveva essere chiaro: questo non può continuare; è necessario un cambiamento. Ma il cambiamento avrebbe scosso e rovesciato l'intera struttura della società borghese. Dopo la rivoluzione borghese del 1789 era arrivata l'ora per una nuova rivoluzione, quella proletaria: il progresso non poteva semplicemente avanzare in modo lineare a piccoli passi. Ci voleva il salto rivoluzionario. Karl Marx raccolse questo richiamo del momento e, con vigore di linguaggio e di pensiero, cercò di avviare questo nuovo passo grande e, come riteneva, definitivo della storia verso la salvezza – verso quello che Kant aveva qualificato come il “regno di Dio”. Essendosi dileguata la verità dell'aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell'aldiqua».

Il progresso verso il meglio si è spostato dall’orizzonte delle scienze a quello della politica scientificamente pensata: « Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose»[7].

Il superamento delle ambiguità del progresso passa attraverso la critica del progresso stesso; il Pontefice fa riferimento ad Adorno: «Innanzitutto c'è da chiedersi: che cosa significa veramente “progresso “; che cosa promette e che cosa non promette? Già nel XIX secolo esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l'ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male»[8]. L’unico vero progresso è quello che forma l’uomo in senso morale.

Il progresso addizionabile e quantitativo riguarda le realtà materiali; il progresso propriamente umano non può essere misurato in tali termini: «Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali. Il tesoro morale dell'umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa»[9].

La soluzione alle ambiguità del progresso umano sta nella virtù teologale della Speranza, che non è attesa di un futuro migliore ma certezza della salvezza: “Spe salvi facti sumus” (Rm 8,24).

La ricorrente meditazione di Benedetto XVI sulla parabola del granello di senape (Mc 4, 30-32) ancora ci può illuminare. Come scrive Koch: «Il granello di senape non è solo un paragone della speranza cristiana, ma evidenzia anche che il grande nasce dal piccolo non per mezzo di stravolgimenti rivoluzionari e neppure perché noi uomini ne assumiamo la regia ma perché ciò avviene in modo lento e graduale, seguendo una dinamica propria. Di fronte a esso l’atteggiamento cristiano può solo essere di amore e pazienza, che è il lungo respiro dell’amore»[10].


*
NOTE
[1] K. Koch, Il mistero del granello di senape. Fondamenti del pensiero teologico di Benedetto XVI, trad.it., Lindau, Torino 2012.
[2] Per quanto segue, cfr. R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012, cap. III.
[3] Benedetto XVI, Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 17 – corsivo aggiunto.
[4] Ibid., n. 31 b – corsivo aggiunto.
[5] Id., Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 17 – corsivo aggiunto.
[6] Ibid., n. 18 – corsivo aggiunto.
[7] Ibid., n. 20 – corsivo aggiunto.
[8] Ibid., n. 22 – corsivo aggiunto.
[9] Ibid., n. 24.
[10] K. Koch, Il mistero del granello di senape, p. 8.

Zenit  15 ottobre 2012



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