Nel Prologo della sua Expositio super Symbolum Apostolorum, S. Tommaso d'Aquino attribuisce alla fede quattro beni.
Il primo, che consiste nel congiungere l'anima con Dio, è descritto nel modo seguente: «Mediante la fede cristiana l'anima contrae con Dio una specie di matrimonio, secondo quanto è scritto in Osea: Ti farò mia sposa per sempre...ti fidanzerò con me nella fedeltà (Os2,21-22). Per questo a chi viene battezzato, con la domanda "Credi in Dio?" viene chiesto per prima cosa di dichiarare la propria fede, perché il Battesimo è il primo dei sacramenti della fede» (1).
Come si vede, viene determinata una relazione tra quest'unione mirabile e il sacramento del battesimo. L'Aquinate scrive di "una specie" di matrimonio, certamente per evitare che si possa credere ad una sorta di unione ontologica tra Dio e l'anima. L'unione, che avviene in virtù del battesimo, ma non senza la professione della fede, determina una trasformazione reale dell'essere. Nel linguaggio teologico si parla di rigenerazione, di nuova creazione, di adozione. Le descrizioni impiegate sono diverse, come richiede un mistero che non può essere spiegato in modo esaustivo da nessuna immagine, ma che riceve nuova luce dall'accostamento sapiente di tutte. Nella Lettera agli Efesini (1, 6) questo mistero è descritto con l'immagine della grazia con la quale siamo stati gratificati: la grazia che ci ha trasformati nell'intimo, che ci ha riempito di grazia (non è facile tradurre il verbo, che ha in se stesso il termine grazia), perché potessimo diventare figli adottivi in Cristo. In Ef 1, 13 a questo dono, assolutamente gratuito, corrisponde la risposta del credente: «Anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso». È lo Spirito santo che segna l'anima, irrevocabilmente, nella conformazione a Cristo e nell'accoglienza della grazia che Egli ci ha meritato con il suo sangue. Così, nel momento stesso della nostra rigenerazione, noi siamo inseriti nel mistero sponsale di Cristo e della Chiesa. Il prevalere di aspetti mondani anche nella Chiesa, e l'esasperazione di alcune immagini scritturistiche a discapito di altre, non consentono di saper riconoscere agevolmente in questo patto sponsale le origini stesse della nostra rigenerazione e della conseguente vita di fede. Anche una riduzione della portata mistagogica dei sacramenti (da non confondere con il cammino di "iniziazione") esercita il suo influsso su questa percezione visibile dell'inserimento nel Corpo di Cristo. A ragione bisogna dire che siamo inseriti nel corpo visibile della Chiesa, il corpo che ci è donato in questo pellegrinaggio terreno, perché siamo inseriti in quel mistero di amore sponsale che non si lascia esaurire dalla temporalità. «Questo mistero è grande», ammonisce l'Apostolo (cf. Ef 5, 32). Il fatto che Paolo legga il patto coniugale come riflesso della sponsalità che lega Cristo alla Chiesa, rafforza la nostra considerazione. È la vita cristiana tutta che dev'essere compresa a partire da quel rapporto! Perciò possiamo capire la "specie" di matrimonio di cui parla S. Tommaso. Nessuno di noi è la Chiesa, ma ciascuno, per la sua parte e secondo i doni di grazia ricevuti, deve portare in sé il riflesso di quell'amore che lo ha generato alla vita eterna. Questa è l'assunzione seria e responsabile che il credente fa del mistero della Chiesa nella sua stessa vita. E in questo modo la sua stessa anima diventa il luogo in cui la sponsalità della Chiesa assume un volto, si traduce in una testimonianza, sostiene una speranza. Anzi, l'anima diventa bella della stessa bellezza che Cristo ha donato alla Chiesa per mezzo del suo lavacro (cf. Ef 5, 25-27). S. Gregorio Nazianzeno la considera conformata alla bellezza del Logos, quando descrive il "felice ritorno" che noi compiamo nel dono della somiglianza con Cristo (2).
Non si può comprendere la realtà della Chiesa se si prescinde dal suo essere sposa e perciò madre. La centralità che queste categorie assumono nei primi secoli non può essere soppiantata da acquisizione nuove e pur feconde. Ora, neppure la rigenerazione battesimale può essere compresa senza questo riferimento. S. Agostino insiste molto sul rapporto tra Maria e la Chiesa proprio a motivo della verginità e della maternità. In un sermone del tempo di Natale scrive: «La vergine santa Chiesa celebra pertanto oggi il parto della Vergine. Ad essa si riferisce l'Apostolo quando dice: Vi ho fidanzati ad un solo sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine casta. Come mai vergine casta riferito a tanta gente di ambo i sessi, riferito non solo ai giovani consacrati e alle vergini ma anche agli sposati, padri e madri? Come mai vergine casta se non per l'integrità della fede, della speranza e della carità? Cristo, che avrebbe ricostituito la verginità nel cuore della Chiesa, prima l'ha conservata nel corpo di Maria. Nelle nozze umane la donna è consegnata allo sposo e perde la sua verginità; la Chiesa invece non potrebbe essere vergine se lo sposo a cui viene consegnata non fosse figlio di una vergine» (3). E altrove dice: «Questi è il più bello tra i figli dell'uomo, figlio di Maria la santa, sposo della Chiesa santa, che ha reso simile a sua madre: infatti l'ha fatta madre per noi e la custodisce vergine per sé. Alla Chiesa infatti si riferisce l'Apostolo quando dice: Vi ho fidanzati ad un solo sposo, per presentarvi a Cristo come una vergine casta . Di essa dice ancora l'Apostolo che è nostra madre, non schiava ma libera, i cui figli, pur essendo l'abbandonata, sono più numerosi di quelli di colei che ha marito. La Chiesa, come Maria, rimane per sempre integra e feconda pur rimanendo incorrotta. Quanto Maria meritò di conservare nel corpo la Chiesa lo conserva nel cuore; la differenza è che Maria partorì un solo figlio, la Chiesa ne partorisce molti, da riunire però in unità tramite quell'unico figlio di Maria» (4).
Siamo rigenerati, dunque, dal grembo verginale e sempre fecondo della Madre Chiesa e siamo uniti ad altri fratelli per essere una cosa sola in Cristo, Figlio della Vergine.
Possiamo dire che la conformazione battesimale a Cristo è anche una "specie" di conformazione alla Chiesa, nel senso che Cristo si rende presente per mezzo della Chiesa nell'esistenza concreta di chi è stato rigenerato.
Non deve stupirci, pertanto, che S. Massimo il Confessore consideri la Chiesa quale immagine e forma dell'anima: «La santa Chiesa può essere non soltanto l’immagine dell’intero uomo, dico di quello che consiste dell’unione di corpo ed anima, ma anche della stessa anima considerata per se stessa per mezzo della ragione. Poiché infatti (...) l’anima generalmente consiste in una intellettiva e vitale potenza: l’intellettiva si muove spontaneamente secondo volontà, la vitale invece involontariamente secondo natura, come è, rimane ferma. Ed ancora, all’intellettiva appartiene il principio contemplativo e l’attivo: e (...) il contemplativo si chiama intelletto, l’attivo ragione; e l’intelletto muove la facoltà intellettiva, la ragione rende previdente la facoltà animale. E quello è ed è chiamato sapienza, dico l’intelletto, quando mantenga del tutto immobili i propri movimenti verso Dio; e la ragione allo stesso modo è ed è chiamata saggezza, quando con la forza saggiamente congiungendo alla mente la facoltà animale da lui governata con previdenza, mostra che non è differente, ma che, come lui, porta la stessa e medesima immagine di Dio, per mezzo della virtù» (5).
Osserva S. Bernardo: «Tale conformità marita l'anima col Verbo, poiché così essa si rende simile per mezzo della volontà a Colui cui è simile per natura e Lo ama come ne è amata. Se dunque ama perfettamente, ha contratto le nozze. Che cosa vi è di più giocondo di tale conformità? Qual cosa più desiderabile di quella carità da cui proviene che tu, o anima, non contenta degli insegnamenti degli uomini, da te stessa con fiducia ti avvicini al Verbo, sia sempre unita al Verbo, interroghi familiarmente il Verbo e lo consulti su ogni cosa, fatta tanto capace di comprendere, quanto sei audace nel desiderio? È questo veramente un contratto di connubio spirituale e santo. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso, in verità, in cui volere e non volere le stesse cose fa di due uno spirito solo. E non c'è da temere che la disparità delle persone renda in qualche modo imperfetto l'accordo delle volontà, perché l'amore non sente soggezione reverenziale. Infatti amore viene da amare, non da riverire. ... L'amore abbonda nel proprio senso, l'amore quando giunge assimila e sottomette tutte le altre affezioni. Perciò chi ama, ama ed altro non sa» (6).
La fede muove l'intelletto e lo rende capace di obbedire a Dio, ma nel contempo induce la ragione a ritenere assolutamente conveniente questo movimento dell'essere. Bisogna, però, intendere cosa si voglia dire quando si afferma che l'intelletto può cogliere la verità.
Un certo ottimismo teologico, riconducibile alla cosiddetta svolta antropologica, ha finito per esasperare ciò che è naturale. All'uomo, naturalmente costituito come interlocutore di Dio, non serve nient'altro che la sua condizione di creatura per poter essere raggiunto direttamente dalla salvezza. Il vangelo sarebbe pertanto una semplice elevazione dell'umanità ad una vita migliore. Altra cosa è sostenere, invece, che l'uomo sia capace di Dio. Infatti, «l'uomo, grazie alla natura spirituale e alla capacità di conoscenza intellettuale e di libertà di scelta e di azione, si trova, fin da principio, in una particolare relazione con Dio. La descrizione della creazione (cf. Gen 1-3) ci permette di constatare che l'“immagine di Dio” si manifesti soprattutto nella relazione dell'“io” umano con il “Tu” divino. L'uomo conosce Dio, e il suo cuore e la sua volontà sono capaci di unirsi con Dio («homo est capax Dei»). L'uomo può dire “sì” a Dio, ma anche dirgli “no”. La capacità di accogliere Dio e la sua santa volontà, ma anche la capacità di opporsi ad essa» (7) .
L'intelletto dell'uomo, ferito dal peccato originale, non ha certamente perduto del tutto la capacità di conoscere la verità. Tuttavia, proprio a motivo del peccato, esso è esposto a limiti e ad errori. Non potremmo spiegarci altrimenti la radicale opposizione che alcuni manifestano a tutto quello che evoca non solo una trascendenza e la possibilità di una Rivelazione, ma anche un ordine naturale che determini il riconoscimento di una legge morale. Tra i difetti dell'intelletto bisogna menzionare almeno l'orgoglio e l'accecamento spirituale. Osserva a questo proposito R. Garrigou-Lagrange: «L'orgoglio dello spirito (...) ci dà tale fiducia nella nostra ragione e nel nostro giudizio, che non ci sentiamo affatto disposti a consultare altre persone (...) Questo potrebbe portarci a ricusare agli altri la libertà che esigiamo per le nostre opinioni, a non sottomettersi che molto, molto imperfettamente alle direttive del Sommo Pastore, ed anche ad attenuare e a minimizzare i dogmi, sotto pretesto di spiegarli meglio di quanto sia stato fatto fino ad ora» (8). L'accecamento spirituale è, invece, quella disposizione che porta a preferire i beni transitori a quelli eterni e a distogliere lo sguardo dalla luce della verità che vuole rifulgere nell'anima.
Pure la volontà conosce impedimenti derivanti dallo stato di decadenza dell'uomo. «Per giungere a purificare e fortificare la volontà, è necessario agire secondo le convinzioni profonde della fede cristiana, e non secondo lo spirito proprio, più o meno mutevole secondo le circostanze e i moti dell'opinione. Dopo aver riflettuto davanti a Dio e pregato per ottenere la sua grazia, dobbiamo agire con risolutezza nel senso del dovere o di quanto più ci sembra conforme alla volontà divina» (9).
La fede, ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei, è «fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1). S. Tommaso evidenzia che il credere «è un atto dell'intelletto che aderisce alla verità sotto il comando del volere» (10). La fede è quindi una virtù dell'intelletto, per mezzo della quale noi possiamo aderire al mistero della vita intima di Dio. Attraverso la fede noi obbediamo a Dio e gli prestiamo il primo, fondamentale culto.
Così il culto ragionevole (cf Rm 12,1) diventa la dimensione nuova dell'offerta che il credente può fare di se stesso a Dio per mezzo di Cristo. È questo movimento di uscita da sé che determina il passaggio dall'io privato all'Io più grande di Cristo, di fronte al quale è anche l'Io della Chiesa. Per questo si viene battezzati nella fede della Chiesa. Se la rigenerazione dell'uomo deve significare l'ingresso nella vita stessa di Dio, occorre che Dio stesso comunichi non solo questa vita, ma persino l'atto con il quale l'uomo acconsente di essere attirato ed inserito vitalmente in questo Io più grande. La grazia che gratifica diventa, allora, la grazia che eleva e che santifica attraverso l'accoglienza da parte di colui al quale essa è comunicata attraverso la fede: «Con il battesimo di rigenerazione la grazia divina ci trasmette due beni, di cui l'uno supera infinitamente l'altro. Ci elargisce subito il primo, quando con la stessa acqua cancella ogni macchia di peccato e rinnova lo splendore dell'immagine divina in ogni tratto della nostra anima; per elargirci il secondo poi, che è quello della somiglianza, attende la nostra cooperazione» (11).
La professione di fede precede sempre il battesimo. Anche quando il nuovo cristiano non può intenderla e farla propria, essa gli appartiene come il primo atto del suo inserimento nel corpo della Chiesa. L'Io più grande pronuncia per lui le parole che costituiscono, qui in terra, il consenso al patto d'amore con cui Cristo vuole raggiungerci per mezzo della Sua Chiesa. La volontà dell'anima non ha un ruolo marginale, come non lo ha mai la volontà dell'amante di essere assimilato all'amato. E, tuttavia, la professione di fede, con le sue articolazioni delle verità che Dio ha voluto liberamente rivelare, esprime la grandezza della volontà salvifica di Dio, senza la quale nessuna volontà umana potrebbe elevarsi sino a Lui. Per questo la fede ci è donata. Per questo non è mai mortificante che sia la Chiesa a dirci in qual modo noi possiamo corrispondere all'amore di Cristo, e non è mai opprimente l'apprendere da essa cosa potrebbe distoglierci dall'essere effettivamente raggiunti dalla grazia della salvezza. L'emancipazione dalla Chiesa non è mai affermazione di libertà; è sempre capitolazione alle richieste del proprio io ancor prima che asservimento ad altre volontà. Tutto si gioca, invece, nell'equilibrio tra il proprio io e l'Io della Chiesa. Ancora una volta bisogna richiamare le parole di Benedetto XVI: «La sua risurrezione è stata dunque come un'esplosione di luce, un'esplosione dell'amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé. Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra. Essa giunge a noi mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova. È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (2, 20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c'è di nuovo, ma trasformato, purificato, "aperto" mediante l'inserimento nell'altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così "uno in Cristo" (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. "Io, ma non più io": è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della "novità" cristiana chiamata a trasformare il mondo» (12).
Cosa comporta, allora, la vita di fede per l'anima? Il vincolo sponsale, che la Tradizione ha sempre richiamato, diventa desiderio di comunione con Cristo. Bisogna lasciarsi trasformare, se si desidera trasformare il mondo. Non può esservi volontà più alta e profonda che questa. «Come infatti cresce il dialogo con Dio nell'anima nostra, quando la sua parola viene accolta, capita, trattenuta, così cresce anche la vita dell'anima. Viceversa, quando viene a mancare la parola di Dio nell'anima, succede che anche la vita dell'anima venga meno. Pertanto, come l'unione dell'anima e del corpo è animata, nutrita e sostenuta dal soffio vitale, così l'anima nostra è vivificata dalla parola di Dio e dalla grazia spirituale. Perciò dobbiamo cercare in ogni modo ‑ come cosa primaria rispetto a tutto il resto - di raccogliere in noi le parole di Dio e di trasfonderle nel nostro intimo, nei sentimenti, nelle sollecitudini, nei pensieri e nelle azioni. Solo così i nostri atti corrisponderanno alle parole delle Scritture e il nostro agire non sembrerà discordare dai precetti celesti. Allora potremo dire anche noi: La tua parola mi fa vivere» (13).
È necessario che la fede della Chiesa sia riscoperta e proposta come il nutrimento della propria fede. Non si deve intendere soltanto la fede professata, bensì la fede vissuta, vale a dire la fede nella sua complessità (vita sacramentale, direzione spirituale, formazione, correzione fraterna, ascolto dei grandi testimoni e dei Dottori, carità, opere di misericordia, etc.). Sarebbe ben poca cosa la volontà d'essere uniti a Cristo, se Egli non dovesse essere il Cristo della fede. Resteremmo confinati al nostro io, ed il nostro desiderio, per quanto apprezzabile, consegnerebbe l'anima alla sterilità dello spirito. Bisogna chiedersi se la crisi della fede non sia dipesa anche dall'aver voluto ignorare o celare la verità che Cristo ha affidato alla Chiesa; se non sia correlata ad un impegno per il mondo che non sempre corrisponde al disegno di Dio per il mondo. Quando la professione di fede diventa incomprensibile, è segno che ci sottraiamo all'Io più grande invece di lasciarsi attrarre e trasformare. L'autentica conversione è frutto della fede in quanto è l'espressione evidente di questa volontà d'essere raggiunti da Cristo nella Chiesa e per mezzo della Chiesa. Come nota S. Ambrogio: «Il Verbo di Dio trapassa l'anima e la rischiara tutta come un chiarore di luce eterna. E sebbene egli abbia una potenza che si estende attraverso tutti, che tutti raggiunge e che sta sopra tutti ‑ perché per tutti egli è nato da una vergine, per i buoni e per i malvagi, come sopra buoni e malvagi fa nascere anche il suo sole ‑, tuttavia egli riscalda unicamente chi gli si avvicina» (14).
«Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). È l'eterno presente dell'amore di Cristo, che è sempre lo stesso (cf. Eb 13,8). Oggi mi ama e continua ad offrire se stesso al Padre. È questa offerta che mi raggiunge attraverso la fede. Ed è la stessa offerta che diviene il vincolo d'amore che mi lega alla sua vita divina, il fidanzamento che mi porta in dote la vita stessa di Dio. Possa la Chiesa essere sempre feconda di figli che vivono la fede, ad essi consegnata nel santo battesimo, come patto d'amore sponsale. Perché soltanto un'anima che sente d'essere amata e che intende corrispondere all'amore, saprà essere un'anima che vive la vita stessa della Chiesa e la riflette nella santità personale e nelle opere della fede.
Antonio Ucciardo
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Note
(1) S. Tommaso d'Aquino, Il Credo, in Opuscoli spirituali, Bologna, Edizioni Studio domenicano, 1999, p.34.
(2) Cf. H. Rahner, L'ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Roma, Ed. Paoline, 1971, p. 65.
(3) S. Agostino, Discorso 188, 3.4.
(4) S. Agostino, Discorso 195, 2.
(5) S. Massimo Confessore, Mistagogia, V.
(6) S. Bernardo, Sermoni sul Cantico dei Cantici, 83, 3.
(7) B. Giovanni Paolo II, Catechesi all'Udienza generale, 23 aprile 1986.
(8) R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, Roma, Edizioni Vivere In, 2000 (rist.), vol II, p. 110.
(9) Ivi, p. 130.
(10) S. Tommaso d'Aquino, Somma Teologica, II-II, q. 4, a. 5.
(11) Diadoco di Fotica, Considerazioni sulla fede, 89.
(12) Benedetto XVI, Discorso al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, 19 ottobre 2006.
(13) S. Ambrogio, Commento al Salmo 118, 6. 1,6‑7.
(14) Ivi, 19, 38.
http://www.formazioneteologica.it/index.php?categoria=12&sezione=15