di Sandro Magister
23 nov
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Ha riconosciuto lui per primo che la tesi da lui sostenuta arriva a “sovvertire la concezione dell’aborto da parte della Chiesa”. La tesi cioè che si è “persona umana” solo “dopo il quarto/quinto mese” di gravidanza, e quindi prima di questa data l’aborto non è più un omicidio e nemmeno un peccato, se compiuto con buone motivazioni.
A sostenere questa tesi è un vescovo molto noto e stimato, Luigi Bettazzi (nella foto), 99 anni, l’ultimo vescovo italiano ancora in vita che abbia preso parte al Concilio Vaticano II, quand’era ausiliare del cardinale e arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro che in quel Concilio svolse un ruolo di primissimo piano.
L’ha fatto in un articolo di due pagine su “Rocca” del 15 agosto, la rivista della “Pro Civitate Christiana” di Assisi, storica voce del cattolicesimo progressista e pacifista. Un articolo presentato come “Riflessioni sull’aborto” e intitolato “Posterius”, l’avverbio latino che significa “più tardi”.
L’eco di questa sua presa di posizione è stata inizialmente tenue. Ma a metà novembre, sempre su “Rocca”, un teologo moralista dei più letti e studiati, Giannino Piana, già docente di etica nelle università di Torino e di Urbino, ha ripreso e sviluppato le argomentazioni di Bettazzi, premettendo di condividerle. Anche lui riconoscendo che questa loro tesi “contrasta con la dottrina tradizionale della Chiesa”, ma per subito aggiungere che “l’autentica tradizione cristiana non può e non deve essere pensata come un blocco monolitico, da trasmettere in maniera mummificata e ripetitiva”. Perché anzi è “ una tradizione aperta e innovativa, costantemente in crescita” e “il coraggio di cambiare, nel pieno rispetto della sostanza evangelica, è la via da percorrere per renderla credibile e universalizzabile”.
Basta questo per avvertire la forza dirompente della tesi di Bettazzi e Piana. Ma non meno rivelatori sono gli argomenti con cui essi la sostengono.
Bettazzi comincia col distinguere tra “ragione” e “intuizione”, cioè tra una forma di conoscenza della realtà di stampo intellettualistico e calcolante, cartesiano, tutta centrata sull’”io”, e un’altra invece – da valorizzare – più attenta al pascaliano “esprit de finesse”, alle ragioni del cuore, e più centrata sul “noi”.
Poi cita la Genesi dove si legge che “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”, per ricavarne che la narrazione biblica individua in ciò che è plasmato con la polvere del suolo “qualcosa di preliminare che non è ancora il singolo essere umano”, che diventerà tale solo dopo, con l’alito di vita.
E si chiede: “Quale sarebbe il momento dell’alito di vita che rende ciò che è preliminare una persona umana?”.
La “ragione”, risponde Bettazzi, “ci dice che quello sarebbe il momento in cui lo sperma maschile feconda l’ovulo femminile”. Ma l’”intuizione” è più incerta e aperta al mistero. Esita a dire che quella nuova realtà sia già una persona. Lo è forse dopo l’insediamento dell’ovulo fecondato nell’utero materno? Lo è a tre mesi di gravidanza, quando le varie parti del corpo sono già configurate?
No. risponde il vescovo. Molto più convincente, scrive, è ciò che ha sostenuto “una scienziata moderna” di cui tace il nome, secondo cui “l’essere umano diventa un autonomo individuo, una persona, solo quando diventa in grado, ancora nel seno materno, di poter vivere da essere umano e di respirare autonomamente: quindi non prima del quarto/quinto mese, come Giovanni Battista che nel sesto mese sussultò nel grembo di Elisabetta al saluto di Maria”.
Intervenendo a sua volta, il teologo Piana, specialista in bioetica e già presidente dell’Associazione italiana dei teologi moralisti, nel riprendere la tesi di Bettazzi insiste soprattutto sul “sentire” particolare della donna, “contrassegnato da un coinvolgimento esistenziale unico” nel conoscere “il processo umano in cui si diventa persona”, che “non è in alcun caso racchiudibile entro schemi predefiniti” e “si presenta come perennemente aperto”.
Quel che è certo, scrive Piana, è che “il momento di inizio della vita personale vada spostato ben in avanti rispetto all’atto della fecondazione e non si possa parlare in senso stretto di aborto se non a considerevole distanza da quell’evento”. Il che comporta che “la soppressione della vita che si verifica nei primi mesi della gravidanza, per quanto grave, non possa essere qualificata come omicidio”.
A questa tesi dirompente Roma ha risposto finora col silenzio. Eppure Francesco è molto drastico in materia. Ha detto e scritto più volte che compiere un aborto è “eliminare una vita umana”, è “assoldare un sicario per risolvere un problema”. E ha sempre fatto capire che per lui e per la Chiesa ogni nuova vita umana è “persona” a partire dal concepimento, non quattro o cinque mesi dopo.
Ma forse il papa non sa – o mostra di non sapere – quel che ha detto pubblicamente un suo vescovo, con voce sicuramente non isolata.
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Ha riconosciuto lui per primo che la tesi da lui sostenuta arriva a “sovvertire la concezione dell’aborto da parte della Chiesa”. La tesi cioè che si è “persona umana” solo “dopo il quarto/quinto mese” di gravidanza, e quindi prima di questa data l’aborto non è più un omicidio e nemmeno un peccato, se compiuto con buone motivazioni.
A sostenere questa tesi è un vescovo molto noto e stimato, Luigi Bettazzi (nella foto), 99 anni, l’ultimo vescovo italiano ancora in vita che abbia preso parte al Concilio Vaticano II, quand’era ausiliare del cardinale e arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro che in quel Concilio svolse un ruolo di primissimo piano.
L’ha fatto in un articolo di due pagine su “Rocca” del 15 agosto, la rivista della “Pro Civitate Christiana” di Assisi, storica voce del cattolicesimo progressista e pacifista. Un articolo presentato come “Riflessioni sull’aborto” e intitolato “Posterius”, l’avverbio latino che significa “più tardi”.
L’eco di questa sua presa di posizione è stata inizialmente tenue. Ma a metà novembre, sempre su “Rocca”, un teologo moralista dei più letti e studiati, Giannino Piana, già docente di etica nelle università di Torino e di Urbino, ha ripreso e sviluppato le argomentazioni di Bettazzi, premettendo di condividerle. Anche lui riconoscendo che questa loro tesi “contrasta con la dottrina tradizionale della Chiesa”, ma per subito aggiungere che “l’autentica tradizione cristiana non può e non deve essere pensata come un blocco monolitico, da trasmettere in maniera mummificata e ripetitiva”. Perché anzi è “ una tradizione aperta e innovativa, costantemente in crescita” e “il coraggio di cambiare, nel pieno rispetto della sostanza evangelica, è la via da percorrere per renderla credibile e universalizzabile”.
Basta questo per avvertire la forza dirompente della tesi di Bettazzi e Piana. Ma non meno rivelatori sono gli argomenti con cui essi la sostengono.
Bettazzi comincia col distinguere tra “ragione” e “intuizione”, cioè tra una forma di conoscenza della realtà di stampo intellettualistico e calcolante, cartesiano, tutta centrata sull’”io”, e un’altra invece – da valorizzare – più attenta al pascaliano “esprit de finesse”, alle ragioni del cuore, e più centrata sul “noi”.
Poi cita la Genesi dove si legge che “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”, per ricavarne che la narrazione biblica individua in ciò che è plasmato con la polvere del suolo “qualcosa di preliminare che non è ancora il singolo essere umano”, che diventerà tale solo dopo, con l’alito di vita.
E si chiede: “Quale sarebbe il momento dell’alito di vita che rende ciò che è preliminare una persona umana?”.
La “ragione”, risponde Bettazzi, “ci dice che quello sarebbe il momento in cui lo sperma maschile feconda l’ovulo femminile”. Ma l’”intuizione” è più incerta e aperta al mistero. Esita a dire che quella nuova realtà sia già una persona. Lo è forse dopo l’insediamento dell’ovulo fecondato nell’utero materno? Lo è a tre mesi di gravidanza, quando le varie parti del corpo sono già configurate?
No. risponde il vescovo. Molto più convincente, scrive, è ciò che ha sostenuto “una scienziata moderna” di cui tace il nome, secondo cui “l’essere umano diventa un autonomo individuo, una persona, solo quando diventa in grado, ancora nel seno materno, di poter vivere da essere umano e di respirare autonomamente: quindi non prima del quarto/quinto mese, come Giovanni Battista che nel sesto mese sussultò nel grembo di Elisabetta al saluto di Maria”.
Intervenendo a sua volta, il teologo Piana, specialista in bioetica e già presidente dell’Associazione italiana dei teologi moralisti, nel riprendere la tesi di Bettazzi insiste soprattutto sul “sentire” particolare della donna, “contrassegnato da un coinvolgimento esistenziale unico” nel conoscere “il processo umano in cui si diventa persona”, che “non è in alcun caso racchiudibile entro schemi predefiniti” e “si presenta come perennemente aperto”.
Quel che è certo, scrive Piana, è che “il momento di inizio della vita personale vada spostato ben in avanti rispetto all’atto della fecondazione e non si possa parlare in senso stretto di aborto se non a considerevole distanza da quell’evento”. Il che comporta che “la soppressione della vita che si verifica nei primi mesi della gravidanza, per quanto grave, non possa essere qualificata come omicidio”.
A questa tesi dirompente Roma ha risposto finora col silenzio. Eppure Francesco è molto drastico in materia. Ha detto e scritto più volte che compiere un aborto è “eliminare una vita umana”, è “assoldare un sicario per risolvere un problema”. E ha sempre fatto capire che per lui e per la Chiesa ogni nuova vita umana è “persona” a partire dal concepimento, non quattro o cinque mesi dopo.
Ma forse il papa non sa – o mostra di non sapere – quel che ha detto pubblicamente un suo vescovo, con voce sicuramente non isolata.
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