Molti interpreti – da Juan Carlos Scannone a Massimo Borghesi - sono concordi nel dire che una delle principali fonti del pensiero di Francesco sia la “teologia del popolo”. Ad esaminare però le caratteristiche di questa teologia viene alla luce che essa pone non pochi problemi alla Dottrina sociale della Chiesa come è stata intesa fino a Benedetto XVI.
L’espressione “teologia del popolo” sembra sia stata coniata dal teologo J.L. Segundo che voleva distinguerla anche nel nome dalla teologia della liberazione nella quale rischiava di essere confusa. Però le due teologie mantengono un punto in comune, vale a dire il punto del loro “cominciamento”. Ambedue, infatti, pensano che la nostra conoscenza non abbia mai un carattere certo e autonomo dalla situazione storica in cui siamo inseriti. Per la teologia della liberazione questa situazione storica è la situazione di oppressione economica che chiede una prassi di liberazione, per la teologia del popolo è appunto la vita del popolo cui si appartiene. Il suo punto di partenza è lo “stare insieme”, ossia vivere dall’interno la simbologia sapienziale di un certo popolo. Il punto di partenza non è la dottrina della fede e la tradizione, le quali non possono essere conosciute in sé, ma la vita di un popolo attraverso la simbologia di significati che esso produce, vale a dire attraverso la sua “saggezza”.
Vedendo le cose in questo modo si finisce col pensare che il popolo non sia solo oggetto di annuncio evangelico, ossia non sia solo passivo o recettivo. La sua storia e la sua saggezza accumulata nel tempo non stanno aspettando una verifica alla luce di Cristo e del Vangelo, non sono in attesa di essere evangelizzate. Il popolo è anche soggetto di storia sacra, esso non viene evangelizzato ma si evangelizza, perché Cristo è conosciuto anche tramite la condizione del popolo e le categorie della sapienza popolare che esso ha elaborato. Per esempio, quando Francesco dice che “il pastore deve conoscere l’odore delle pecore” non vuol significare solo la doverosa conoscenza dell’oggetto della pastorale affinché la trasmissione del messaggio evangelico possa essere più efficace in quanto su di esso meglio modulata nella sua espressione. Intese così le pecore rimarrebbero comunque sempre oggetti e non anche soggetti di pastorale. Piuttosto l’espressione vuol dire che l’odore delle pecore è il contesto dentro il quale deve trovare senso l’annuncio in quanto quella è la via scelta da Gesù per farsi conoscere e incontrare. Lo stesso dicasi – per fare un altro semplice esempio – quando Francesco dice che il vescovo talvolta deve stare davanti, ma talaltra deve stare dietro o anche in mezzo al popolo.
La teologia del popolo comporta che anche gli apostoli, le donne, i discepoli e i primi cristiani appartenessero prima di tutto ad un popolo. Così è per le generazioni cristiane successive fino ai nostri giorni. Ne consegue una visione del “Deposito della fede” come qualcosa che dipende dai tempi e quindi dal tempo e che è in continuo cambiamento o evoluzione che dir si voglia. La verità della fede nasce dall’incontro storicamente esperibile tra la vita del popolo e Cristo, ma dato che la vita del popolo cambia, anche questo incontro cambia. L’essere del cristiano dipende dallo stare nel popolo. L’essere vuol dire qualcosa che è immutabilmente, lo stare indica invece qualcosa che c’è ma che cambierà col tempo. Si può anche intendere lo stare nel senso di essere non soggetto al cambiamento, come molti teologi fanno, ma nel contesto della teologia del popolo questo diventa impossibile.
Il principale pericolo è di trasformare il popolo da realtà naturale a realtà immediatamente teologica. Non c’è dubbio che i popoli portano con sé delle saggezze popolari che vanno legittimamente rispettate, il piano naturale però è sottoposto a quello sopra-naturale, che lo valuta e lo purifica. Se, invece, il popolo è caricato già di per sé di significati salvifici, esso non è più qualcosa che va valutato e purificato, ma è esso che valuta e purifica la vita della Chiesa.
Se si parte dal popolo anziché da Dio, si corre il pericolo di scadere in considerazioni di ideologia politica, come avviene per la teologia del popolo soprattutto quando essa parla dei poveri e della povertà. Scopo del Mistero della Salvezza sarebbe allora solo la emancipazione dei poveri e lo sviluppo delle potenzialità sapienziali del popolo. Un altro rischio è l’idea di una appartenenza universale nell’unica Chiesa fatta però da un patchwork di popoli con diverse sapienze popolari ed espressivi di simboli diversi e perfino opposti tra loro ma tutti espressivi della storia della salvezza nella sua dimensione storica e sempre in sviluppo.
Questi pochi accenni forse bastano a mostrare che la teologia del popolo pone seri problemi alla Dottrina sociale della Chiesa.
fonte
L’espressione “teologia del popolo” sembra sia stata coniata dal teologo J.L. Segundo che voleva distinguerla anche nel nome dalla teologia della liberazione nella quale rischiava di essere confusa. Però le due teologie mantengono un punto in comune, vale a dire il punto del loro “cominciamento”. Ambedue, infatti, pensano che la nostra conoscenza non abbia mai un carattere certo e autonomo dalla situazione storica in cui siamo inseriti. Per la teologia della liberazione questa situazione storica è la situazione di oppressione economica che chiede una prassi di liberazione, per la teologia del popolo è appunto la vita del popolo cui si appartiene. Il suo punto di partenza è lo “stare insieme”, ossia vivere dall’interno la simbologia sapienziale di un certo popolo. Il punto di partenza non è la dottrina della fede e la tradizione, le quali non possono essere conosciute in sé, ma la vita di un popolo attraverso la simbologia di significati che esso produce, vale a dire attraverso la sua “saggezza”.
Vedendo le cose in questo modo si finisce col pensare che il popolo non sia solo oggetto di annuncio evangelico, ossia non sia solo passivo o recettivo. La sua storia e la sua saggezza accumulata nel tempo non stanno aspettando una verifica alla luce di Cristo e del Vangelo, non sono in attesa di essere evangelizzate. Il popolo è anche soggetto di storia sacra, esso non viene evangelizzato ma si evangelizza, perché Cristo è conosciuto anche tramite la condizione del popolo e le categorie della sapienza popolare che esso ha elaborato. Per esempio, quando Francesco dice che “il pastore deve conoscere l’odore delle pecore” non vuol significare solo la doverosa conoscenza dell’oggetto della pastorale affinché la trasmissione del messaggio evangelico possa essere più efficace in quanto su di esso meglio modulata nella sua espressione. Intese così le pecore rimarrebbero comunque sempre oggetti e non anche soggetti di pastorale. Piuttosto l’espressione vuol dire che l’odore delle pecore è il contesto dentro il quale deve trovare senso l’annuncio in quanto quella è la via scelta da Gesù per farsi conoscere e incontrare. Lo stesso dicasi – per fare un altro semplice esempio – quando Francesco dice che il vescovo talvolta deve stare davanti, ma talaltra deve stare dietro o anche in mezzo al popolo.
La teologia del popolo comporta che anche gli apostoli, le donne, i discepoli e i primi cristiani appartenessero prima di tutto ad un popolo. Così è per le generazioni cristiane successive fino ai nostri giorni. Ne consegue una visione del “Deposito della fede” come qualcosa che dipende dai tempi e quindi dal tempo e che è in continuo cambiamento o evoluzione che dir si voglia. La verità della fede nasce dall’incontro storicamente esperibile tra la vita del popolo e Cristo, ma dato che la vita del popolo cambia, anche questo incontro cambia. L’essere del cristiano dipende dallo stare nel popolo. L’essere vuol dire qualcosa che è immutabilmente, lo stare indica invece qualcosa che c’è ma che cambierà col tempo. Si può anche intendere lo stare nel senso di essere non soggetto al cambiamento, come molti teologi fanno, ma nel contesto della teologia del popolo questo diventa impossibile.
Il principale pericolo è di trasformare il popolo da realtà naturale a realtà immediatamente teologica. Non c’è dubbio che i popoli portano con sé delle saggezze popolari che vanno legittimamente rispettate, il piano naturale però è sottoposto a quello sopra-naturale, che lo valuta e lo purifica. Se, invece, il popolo è caricato già di per sé di significati salvifici, esso non è più qualcosa che va valutato e purificato, ma è esso che valuta e purifica la vita della Chiesa.
Se si parte dal popolo anziché da Dio, si corre il pericolo di scadere in considerazioni di ideologia politica, come avviene per la teologia del popolo soprattutto quando essa parla dei poveri e della povertà. Scopo del Mistero della Salvezza sarebbe allora solo la emancipazione dei poveri e lo sviluppo delle potenzialità sapienziali del popolo. Un altro rischio è l’idea di una appartenenza universale nell’unica Chiesa fatta però da un patchwork di popoli con diverse sapienze popolari ed espressivi di simboli diversi e perfino opposti tra loro ma tutti espressivi della storia della salvezza nella sua dimensione storica e sempre in sviluppo.
Questi pochi accenni forse bastano a mostrare che la teologia del popolo pone seri problemi alla Dottrina sociale della Chiesa.
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