mercoledì 31 marzo 2021

Controllo delle nascite, una guerra contro i poveri







Contraccezione, aborto, eutanasia non sono conquiste della civiltà ma armi nella guerra contro i poveri. È quanto emerge da un libro inglese di recente pubblicazione: Exterminating Poverty, scritto da Mark Sutherland, nipote del medico scozzese Halliday Sutherland che giusto cento anni fa ingaggiò una battaglia legale per bloccare il programma eugenetico di Marie Stopes, fondatrice della prima clinica di pianificazione familiare. La Bussola ha intervistato l'autore.




INTERVISTA / MARK SUTHERLAND
VITA E BIOETICA
31-03-2021

Contraccezione, aborto, eutanasia non sono conquiste della civiltà ma armi nella guerra per eliminare i poveri. È quanto emerge con chiarezza da un libro di recente pubblicazione (in inglese), Exterminating Poverty, di Mark Sutherland. Esso mostra che quella battaglia In Gran Bretagna era già iniziata un secolo fa, racconta infatti “la vera storia del piano eugenetico per sbarazzarsi dei poveri e del dottore scozzese che lo ha combattuto” (come recita il sottotitolo).


Nel 1923 Marie Stopes, la famigerata pioniera del controllo delle nascite e fondatrice nel 1921 della prima clinica per la pianificazione familiare, portò in tribunale il medico cattolico Halliday Sutherland per diffamazione, dopo che questi l’aveva accusata di "condurre sperimentazioni sui poveri". In realtà, quell'aspra battaglia legale che raggiunse perfino la Camera dei Lord, fu anche un pretesto per minare la credibilità della Chiesa cattolica, che Marie Stopes vedeva come la più grande minaccia al suo progetto.

Abbiamo raggiunto al telefono Mark Sutherland, che è nipote del dottor Sutherland e che vive in Australia, per farci raccontare le ragioni per cui ha scritto la storia – finora non raccontata – della causa che ha opposto suo nonno a Marie Stopes. Il libro, che riporta un’ampia documentazione storica del processo, conclusosi con la vittoria del dottor Sutherland, non solo colma le lacune di un controverso capitolo della storia britannica, ma consente al lettore di giudicare se sia vera la narrazione prevalente sul tema del controllo delle nascite e quanta influenza abbia avuto l'eugenetica sulle pratiche di controllo della popolazione diffuse oggi.

Signor Sutherland, dopo cento anni di propaganda femminista, pensa che il suo libro possa correggere la narrazione ufficiale, che rappresenta Marie Stopes come una paladina della liberazione delle donne, e affermare le radici eugenetiche delle cliniche di pianificazione familiare?
È il motivo per cui ho scritto il libro. Il fatto che ad ogni anniversario dell'apertura della prima Mother’s Clinic di Marie Stopes si curi molto la riaffermazione della narrazione ufficiale dimostra che si è preoccupati delle informazioni che possono circolare. I recenti tentativi di separare il passato razzista ed eugenetico di Marie Stopes dallo scopo delle prime cliniche per il controllo delle nascite è un tentativo di salvare il suo contributo al controllo della popolazione. In realtà la regolazione delle nascite era già possibile per le donne in quel momento, ma Marie Stopes intendeva usarla per eliminare i poveri. Controllo delle nascite ed eugenetica sono due facce inseparabili della stessa medaglia. Nella attuale cancel culture, le persone sono preoccupate che se dicono la verità storica mettono a rischio le proprie cosiddette libertà. Tanto tempo e risorse sono impiegate per indottrinare le donne. Il mio libro fa appello a coloro che vogliono sapere cosa è realmente accaduto allora per fare scelte consapevoli oggi.


Nel suo libro lei afferma che la clinica di Marie Stopes è stata un successo. Molti potrebbero capire che lei sia d’accordo con la necessità di quella clinica. Cosa ne pensa?
Un bisogno c’era. Tante donne morivano prematuramente a causa di gravidanze multiple e malnutrizione. Il mio libro descrive come entrambe le parti abbiano tentato di affrontare il problema. Il dottor Halliday Sutherland da un punto di vista medico voleva fornire alle donne metodi di regolamentazione naturali che rispettassero la salute delle donne. Marie Stopes, che non aveva una formazione medica, pensava che la soluzione migliore fosse impedire ai poveri di avere figli. La Mother’s Clinic di Marie Stopes forniva contraccettivi artificiali e dispositivi abortivi che oltretutto erano pericolosi e allo stesso tempo conduceva la campagna per sterilizzare con la forza le donne povere.
Marie Stopes aveva prima assunto delle donne per andare porta a porta nell'East End di Londra e più tardi, quando il metodo non ha funzionato, ha aperto la sua clinica nelle vicinanze, perché questa era la classe meno propensa a usare la contraccezione. Ovviamente le donne non sapevano di essere usate per un esperimento eugenetico. L'intenzione non era assisterle ma eliminarle con lo sterminio. Il dottor Sutherland (a lato in una foto del 1920, per gentile concessione dell'autore del libro) si è battuto contro questa soluzione e chi l'ha proposta.

Marie Stopes è passata alla storia come la persona che ha portato la libertà sessuale e l'uguaglianza alle donne, ma recentemente è stata etichettata come razzista. Crede che questo faccia chiarezza o è una messa in scena per mantenere lo status quo?
È facile guardare al passato e dire che le donne sono state liberate grazie a persone come Marie Stopes. Ma se guardiamo ai risultati della rivoluzione sessuale, non necessariamente le persone oggi vivono in una realtà più libera e felice. È anche difficile criticare il concetto di liberazione perché sembra che tu non voglia che le persone siano libere. Del resto il modo in cui veniva vissuto il razzismo cento anni fa viene spesso troppo semplificato. Si trattava di identificare ed eliminare l'«altro», qualcosa che va oltre il colore della pelle o il credo. Oggi le persone che gridano contro il razzismo e l'eugenetica accettano l'eliminazione sistematica dei bambini con sindrome di Down o dei bambini disabili senza pensarci due volte: io credo che abbiano subito il lavaggio del cervello dalla propaganda per il controllo della popolazione. Non direi che ora il giudizio [su Marie Stopes] è stato corretto. Fino a quando la verità completa non sarà svelata, la farsa continuerà.

Cosa intende quando scrive che la battaglia per il controllo della popolazione continua ancora oggi?
Una volta pensavo che contraccezione, aborto, eugenetica, eutanasia fossero tutti pianeti diversi, ma mi sono invece reso conto che sono tutti collegati come metodi di controllo della popolazione. I media mainstream ignorano in gran parte l'argomento perché si inchinano all'ideologia del politicamente corretto. Ma coloro che sanno cosa sta succedendo hanno la responsabilità di alzarsi in piedi. Altrimenti siamo come quelli che hanno detto di non sapere nulla dei campi di concentramento nazisti mentre milioni di persone venivano uccise. Succede ancora oggi con l'aborto.

Nonostante la crisi demografica di molti paesi, l'aborto è considerato come il più grande successo delle donne e ora si sta passando all'infanticidio legale. Come giudica questa schizofrenia?
L’attuale calo della popolazione apparentemente è stata una sorpresa per tutti, nonostante la previsione che il dottor Halliday Sutherland fece già nel 1929: «Il cataclisma che potrebbe porre fine all'ottava epoca conosciuta nella civiltà potrebbe essere la mancanza di bambini europei». Considerando la gravità del problema, si potrebbe pensare che ci sarebbe una spinta all’aumento delle nascite, invece vediamo che l'aborto è sempre più diffuso e talvolta usato come forma di contraccezione. Il mondo è schizofrenico. Ci sono così tante situazioni contraddittorie. Se una persona anziana è depressa e ha pensieri suicidi, si vuole portarla alla locale clinica di eutanasia. Dall’altra parte, se una persona transgender ha gli stessi pensieri, allora ha bisogno di aiuto e tutti dicono che dobbiamo fare qualcosa per salvarla. La discriminazione contro le donne è un tabù, ma a quanto pare non lo è più se parliamo di aborto selettivo in base al sesso. Sicuramente, dovrebbe essere la santità della vita umana il principio da applicare in tutti i casi.

Come hanno fatto gli storici ad accreditare così tante mezze verità quando tanti documenti storici contraddicono la narrazione ufficiale?
Gli storici hanno deformato la narrazione storica per omissione. Ci sono biografie famose su Marie Stopes che presentano enormi vuoti nella ricostruzione. Nel mio libro Io ho riempito quelle lacune con i fatti. Sapevo che se non avessi scritto questo episodio della storia dell'eugenetica e del controllo delle nascite sarebbe stato dimenticato per sempre. Di solito sono le femministe che scrivono sul controllo delle nascite o quelle che sono intenzionate a mantenere la linea del partito. Che Marie Stopes diffondesse la contraccezione per impedire a una classe di persone di riprodursi viene omesso, così come i suoi riferimenti a queste persone come "la progenie degli ubriaconi" e "parassiti".

Perché Marie Stopes temeva così tanto la Chiesa cattolica?
La Chiesa cattolica ai tempi di mio nonno era un baluardo impressionante contro l'eugenetica. Quando mio nonno accettò il guanto di sfida, poteva fare affidamento sulla gerarchia della Chiesa, sul sostegno dei fedeli cattolici e sugli insegnamenti della Chiesa. Oggi la Chiesa ha molte correnti diverse. Non è raro sentire persone dire che la battaglia per la contraccezione e il controllo delle nascite è stata persa. Le persone potrebbero anche non essere d'accordo con gli insegnamenti della Chiesa sulla contraccezione, ma non è un motivo per accettare la propaganda dell'altra parte. Io stesso ero un cattolico non praticante fin quando non ho scritto questo libro, l’itinerario che ho fatto per ricostruire questa storia mi ha riportato alla fede. Mi sono chiesto cosa avesse indotto i miei nonni a prendere così sul serio la loro fede. Ho deciso di andare a una messa in latino perché era la cosa più vicina all'esperienza che avevano vissuto. È stato come tornare a casa! L'esperienza della messa cattolica ti coinvolge e Marie Stopes lo temeva. La Chiesa cattolica è sempre stata dalla parte giusta della storia. Dobbiamo aiutare le persone a capire questo.

Come vede la situazione attuale?
A volte sembra che siamo tutti tacchini in un allevamento: uno si gira verso l'altro e chiede perché ci viene data da mangiare tutta questa roba, un altro dice “zitto e mangia”. Io vorrei che il mio libro portasse la gente a chiedersi cosa c’è dietro tutta questa propaganda per il controllo della popolazione e perché veniamo nutriti con questa roba.










martedì 30 marzo 2021

Il Cardinale Zen sul divieto delle messe private in San Pietro. Lettera al Cardinale Sarah








Lettera aperta al Cardinale Sarah
30 marzo 2021

A Sua Eminenza
Card. Robert Sarah

Cara Eminenza,
Dolore ed indignazione invadono il mio cuore a sentire certe incredibili notizie: hanno proibito le messe private in S. Pietro!?

Se non fosse per le restrizioni imposte dalla Coronavirus io prenderei il primo volo per venire a Roma e mettermi in ginocchio davanti alla porta di Santa Marta finchè il Santo Padre faccia ritirare quell’editto.

Era la cosa che più fortificava la mia fede ogni volta che venivo a Roma: alle sette precise si entra in sagrestia (incontravo quasi sempre il sant’uomo, l’Arcivescovo e poi Cardinale Paolo Sardi), un giovane prete si fa avanti e mi aiuta a vestire i paramenti, poi mi portano ad un altare (in Basilica o nelle grotte non fa differenza per me, siamo nella Basilica di San Pietro!). Penso che sono state le messe che, in vita mia, ho celebrato con più fervore e commozione, qualche volta con le lacrime pregando per i nostri martiri viventi in Cina (ora abbandonati e spinti nel seno della chiesa scismatica dalla “Santa Sede” [cosi si presentava quel documento del giugno 2020 senza firme e senza la revisione della Congregazione per la Dottrina]).


È momento di ridimensionare lo strapotere della Segreteria di Stato. Via le mani sacrileghe dalla casa comune di tutti i fedeli del mondo! Si accontentino di giuocare la diplomazia mondana con il padre della menzogna. Facciano pure della Segreteria di Stato “un covo di ladri”, Ma lascino in pace il devoto popolo di Dio!

“Era notte!” (Giovanni 13:30)

suo fratello
Giuseppe Zen, SDB



fonte 



    lunedì 29 marzo 2021

    Maria Corredentrice? Lo dicono tradizione e Concilio







    Che cosa spinga un papa a dedicare in continuazione omelie e catechesi per “riabilitare” Giuda e screditare la Sempre Vergine Maria non è dato sapere. Di certo non si può impedire che un tale diverso trattamento risulti, ad orecchie cattoliche, almeno un po’ dissonante; per non dire inquietante. Fatto sta che Papa Francesco, mercoledì scorso, vigilia della Solennità dell’Annunciazione, è tornato ancora una volta a gettar fango sul titolo di Corredentrice; lo aveva già fatto il 3 aprile 2020, giorno in cui si commemoravano i Sette Dolori di Maria e il 12 dicembre 2019, memoria liturgica della Vergine di Guadalupe (vedi qui): sempre puntualmente alla vigilia o nel giorno di feste mariane.





    Luisella Scrosati, 29-03-2021
    EDITORIALI


    Nell'udienza di mercoledì scorso, per la terza volta, papa Francesco ha negato esplicitamente che Maria sia corredentrice. Ma ancora una volta interpreta Scritture e Tradizione in modo distorto, compreso il significato delle icone bizantine. Ecco perché...
    La nota dominante di questi interventi è, purtroppo, sempre la stessa superficialità e unilateralità nella selezione e interpretazione di passi delle Scritture e dati della Tradizione. Prendiamo, per esempio, la scelta dell’icona Odigitria. Il Papa ne fa cenno per affermare qualcosa che contraddice il senso stesso dell’iconografia mariana. Egli afferma che il senso di queste icone sarebbe il seguente: «Maria è totalmente rivolta a Lui, a tal punto che possiamo dire che è più discepola di madre [...]. Questo è il ruolo che Maria ha occupato per tutta la sua vita terrena e che conserva per sempre: essere l’umile ancella del Signore, niente di più».


    In realtà, quando si va a vedere questa tipologia di icone, vi si ritrova praticamente sempre, il duplice digramma MP ΘY (abbreviazione di Meter Theou), rispettivamente alla sinistra e alla destra del capo della Madonna (rispetto a chi guarda l’icona). L’Odigitria non è affatto una semplice discepola ed umile ancella che indica Gesù, ma la Theotókos, nel senso proprio di questo termine, come è stato definito ad Efeso e precisato nella diatriba tra San Cirillo e Nestorio, e come è stato in seguito nuovamente ripreso dal Concilio di Calcedonia, in funzione anti-monofisita. L’intento di entrambi i Concili ecumenici non era affatto quello di fare qualche complimento alla Madre di Gesù, esagerando un po’, spinti dall’affetto, come Bergoglio ha dichiarato in riferimento ai titoli mariani. Se così fosse, i due Concili si sarebbero risparmiati i vari anatemi e i Padri conciliari si sarebbero salutati con una pacca sulle spalle, sogghignando magari di quanto Cirillo l’avesse sparata grossa...

    E invece no. Per quei concili, i titoli mariani avevano un contenuto teologico ben preciso. San Giovanni Damasceno, interprete e padre della tradizione bizantina, mette bene in chiaro che «il solo nome Theotókos contiene tutto il mistero dell'economia della salvezza». A sua volta, il Tommaso d’Aquino dell’Oriente, San Gregorio Palamas, non sembra affatto concordare con l’idea che i titoli mariani altro non siano che una serie di affettuose esagerazioni riversate su una graziosa discepola:

    «Volendo creare un'immagine della bellezza assoluta e manifestare chiaramente agli angeli e agli uomini la potenza della sua arte, Dio ha fatto Maria tutta bella. Egli ha riunito in lei le particolari bellezze distribuite alle altre creature e l'ha costituita comune ornamento di tutti gli esseri visibili e invisibili: o piuttosto, ha fatto di lei come la sintesi di tutte le perfezioni divine, angeliche e umane, una bellezza sublime che nobilita i due mondi, che si eleva dalla terra fino al cielo e che supera anche quest'ultimo».

    Espressioni che fanno comprendere come Maria Santissima superi tutto l’ordine della creazione e si collochi, per grazia, nella sfera di Dio, pur non essendo Dio. Gregorio accenna con una immagine a quell’ordine ipostatico, nella quale la Tutta Santa è stata posta da Dio. Infatti, «Maria è come la linea di demarcazione tra il creato e l'increato. Ella sola ha ricevuto i doni divini senza misura e Dio ha posto tutto nelle sue mani: ella è il luogo di tutte le grazie, la pienezza della bontà, l'immagine viva di ogni virtù; ella sola è stata ricolmata dei carismi dello Spirito Santo, ed è eccelsa su ogni creatura per la sua unione con Dio». Testi come questi testimoniano la consapevolezza dell’eccesso non delle nostre parole, ma della grandezza del mistero di Maria. Per questo, si afferma De Maria numquam satis.

    L’interpretazione di papa Francesco dell’icona Odigitria è dunque palesemente in contrasto con l’icona stessa e con il contesto teologico nel quale l’iconografia bizantina vive. E infatti, a fianco di questo tipo iconografico, ve ne sono altri che testimoniano l’eccezionale e inarrivabile mistero dell’umile Ancella di Nazareth; si pensi alla Panagia Platytera o Platytera ton ouranon (“più ampia dei cieli”), alla Pantanassa (“Regina dell’universo”) o ancora alla Ypsilotera ton ouranon (“più alta dei cieli”).

    A lasciare di stucco, anche in questa “terza edizione” degli interventi contro la Corredenzione mariana, è il modo in cui papa Bergoglio ignora o decide di non prendere in considerazione la presenza del termine Corredentrice e del nocciolo della dottrina che la riguarda nella storia della mariologia. Egli ne parla come se la singolare partecipazione di Maria all’opera della Redenzione, soggettiva ed oggettiva, fosse una recente invenzione di qualche isolato fanatico.

    Autori medievali come San Bernardo di Clairvaux, che la chiama “riparatrice”, e Arnaldo di Chartres, che non esita ad affermare che «Cristo e Maria compirono l’opera dell’umana Redenzione», riprendono, sviluppano e rilanciano la riflessione patristica su Maria, Nuova Eva; il Seicento è poi il secolo della sistematizzazione della dottrina sulla corredenzione mariana, fino ad arrivare, nel Novecento, alla presenza del titolo di Corredentrice nei documenti delle Congregazioni Romane e nei discorsi dei Papi. Benedetto XV, nella Lettera Apostolica Inter Sodalicia (1918) spiega con estrema chiarezza che per la sofferenza vissuta da Maria insieme al Figlio, che Ella stessa offre in immolazione, «si può affermare a buon diritto che ella, insieme con Cristo, ha redento il genere umano». Per questo Pio XI, il 30 novembre 1933, non esita ad essere il primo Papa ad utilizzare il titolo di Corredentrice: «Il Redentore non poteva, per necessità di cose, non associare la Madre sua alla sua opera, e per questo noi la invochiamo col titolo di Corredentrice».

    Il capitolo VIII di Lumen Gentium contiene nella sua essenza la dottrina della corredenzione mariana, sebbene i Padri conciliari abbiano preferito non utilizzarne il termine. Tuttavia, la nota esplicativa della sottocommissione teologica, come riportato ne Lo schema mariano al Concilio Vaticano II del padre Giuseppe M. Besutti, testo imprescindibile per comprendere la mariologia del Concilio, precisava che il titolo di Corredentrice fosse «assolutamente vero in se stesso».

    Il mariologo belga Jean Galot, intervenendo ad una conferenza internazionale organizzata dalla Congregazione per il Clero, il 28 maggio 2003, chiariva ancora una volta, sulla base del testo di LG, che «la Corredenzione significa una cooperazione alla Redenzione. Non significa un’uguaglianza di Maria con Cristo, perché Cristo non è Corredentore, ma Redentore e il solo Redentore. Maria non è Redentrice ma Corredentrice, in quanto si è unita a Cristo nell’offerta della sua Passione. Così viene pienamente salvaguardato il principio dell’unicità del Mediatore [...]. Il Concilio nega che questa unicità sia posta in pericolo dalla presenza mediatrice di Maria. Attribuendo alla Beata Vergine i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice, afferma che “l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata da un unico fonte” (LG 62). Il titolo di Corredentrice non può dunque apparire come una minaccia per il potere sovrano di Cristo, perché emana da questo potere e trova in esso la sua energia».












    Esclusivo. Il cardinale Sarah chiede al papa di ritirare il divieto delle messe “individuali” in San Pietro






    di Sandro Magister, 29 mar 2021

    Da una settimana, a Roma, la basilica di San Pietro è un silenzioso deserto. Non è più animata, ogni mattina, dalle tante messe celebrate sui suoi numerosi altari. E tutto ciò per un’ordinanza emanata il 12 marzo dalla prima sezione della segreteria di Stato – quella che tramite il sostituto ha un filo diretto col papa – che vieta tutte le messe “individuali” e consente solo le collettive, non più di quattro al giorno e in orari e luoghi prestabiliti.

    L’ordinanza è su carta intestata, ma manca di firma e di numero di protocollo. E neppure è indirizzata a colui che dovrebbe essere il suo naturale destinatario, il cardinale arciprete della basilica papale edificata sul luogo del martirio e della sepoltura dell’apostolo Pietro. È uno sgorbio giuridico.

    Eppure ha avuto effetto. Ma ha anche suscitato autorevoli proteste.

    Questa che segue, affidata per la pubblicazione a Settimo Cielo, è del cardinale Robert Sarah, fino allo scorso 20 febbraio prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, quindi il più titolato a esprimersi in materia.

    La sua protesta si conclude con questo appello a papa Francesco:

    “Supplico umilmente il Santo Padre di disporre il ritiro delle recenti norme emanate dalla segreteria di Stato, le quali mancano tanto di giustizia quanto di amore, non corrispondono alla verità né al diritto, non facilitano ma piuttosto mettono in pericolo il decoro della celebrazione, la partecipazione devota alla messa e la libertà dei figli di Dio”.

    Sarà da vedere se Francesco risponderà, e come.


    *



    OSSERVAZIONI SULLE NUOVE NORME PER LE MESSE IN SAN PIETRO

    di Robert Card. Sarah

    Vorrei spontaneamente aggiungere la mia voce a quella dei cardinali Raymond L. Burke, Gerhard L. Müller e Walter Brandmüller, i quali hanno già espresso il proprio pensiero riguardo alla disposizione emanata il 12 marzo scorso dalla segreteria di Stato vaticana, che proibisce la celebrazione individuale dell’Eucaristia sugli altari laterali della basilica di San Pietro.

    I menzionati confratelli cardinali hanno già rilevato parecchie problematiche legate al testo della segreteria di Stato.

    Il cardinale Burke ha messo in evidenza, da eccellente canonista qual è, i notevoli problemi giuridici, oltre a fornire altre utili considerazioni.

    Il cardinale Müller ha ugualmente rimarcato un certo difetto di competenza, ossia di autorità, da parte della segreteria di Stato nell’emanare la decisione in parola. Sua Eminenza, che è un celebre teologo, ha fatto anche qualche rapido ma sostanzioso cenno ad alcune questioni teologiche rilevanti.

    Il cardinale Brandmüller si è concentrato sulla questione della legittimità di un tale uso dell’autorità ed ha anche ipotizzato – in base alla sua sensibilità di grande storico della Chiesa – che la decisione sulle Messe in basilica potrebbe rappresentare un “ballon d’essai” in vista di future decisioni che potrebbero interessare la Chiesa universale.

    Se questo fosse vero, risulta ancora più necessario che sia noi vescovi, sia i sacerdoti, sia il santo popolo di Dio facciamo sentire rispettosamente la nostra voce. Propongo quindi di seguito alcune brevi riflessioni.

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    1. Il Concilio Vaticano II ha certamente manifestato la preferenza della Chiesa per la celebrazione comunitaria della liturgia. La costituzione “Sacrosanctum concilium” insegna al n. 27: “Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata”.

    Immediatamente dopo, nello stesso paragrafo, i padri conciliari – forse prevedendo l’uso che delle loro parole si sarebbe potuto fare dopo il Concilio – aggiungono: “Ciò vale soprattutto per la celebrazione della Messa, benché qualsiasi Messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale, e per l’amministrazione dei sacramenti”. La Messa, quindi, anche se celebrata dal solo sacerdote, non è mai un atto privato e tantomeno rappresenta per ciò stesso una celebrazione poco dignitosa.

    Va aggiunto, per inciso, che possono esserci concelebrazioni poco dignitose e poco partecipate e celebrazioni individuali molto decorose e ben partecipate, dipendendo ciò sia dall’apparato esterno sia dalla devozione personale tanto del celebrante quanto dei fedeli, quando presenti. Il decoro della liturgia non si ottiene quindi in modo automatico semplicemente vietando la celebrazione individuale della Messa e imponendo la concelebrazione.

    Nel decreto “Presbyterorum ordinis”, poi, il Vaticano II insegna: “Nel mistero del sacrificio eucaristico, in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa, anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli” (n. 13).

    Non solo qui si conferma che, anche quando il sacerdote celebra senza il popolo, la Messa resta un atto di Cristo e della Chiesa, ma se ne raccomanda pure la celebrazione quotidiana. San Paolo VI, nell’enciclica “Mysterium fidei”, riprese entrambi questi aspetti e li confermò con parole ancora più incisive: “Se è sommamente conveniente che alla celebrazione della Messa partecipi attivamente gran numero di fedeli, tuttavia non è da riprovarsi, anzi da approvarsi, la Messa celebrata privatamente, secondo le prescrizioni e le tradizioni della santa Chiesa, da un sacerdote col solo ministro inserviente; perché da tale Messa deriva grande abbondanza di particolari grazie, a vantaggio sia dello stesso sacerdote, sia del popolo fedele e di tutta la Chiesa, anzi di tutto il mondo, grazie che non si possono ottenere in uguale misura mediante la sola comunione” (n. 33). Tutto ciò è riconfermato dal can. 904 del Codice di Diritto Canonico.

    In sintesi: quando possibile, si preferisce la celebrazione comunitaria, ma la celebrazione individuale da parte di un sacerdote rimane opera di Cristo e della Chiesa. Il magistero non solo non la proibisce, ma la approva, e raccomanda ai sacerdoti di celebrare la Santa Messa ogni giorno, perché da ogni Messa sgorga una grande quantità di grazie per il mondo intero.

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    2. A livello teologico, esistono almeno due posizioni attualmente mantenute dagli esperti, riguardo alla moltiplicazione del frutto di grazia dovuto alla celebrazione della Messa.

    Secondo un’opinione che si è sviluppata nella seconda metà del Novecento, che dieci sacerdoti concelebrino la stessa Messa, oppure che celebrino individualmente dieci Messe, non fa alcuna differenza quanto al dono di grazia che viene da Dio offerto alla Chiesa ed al mondo.

    L’altra opinione, che si basa tra gli altri sulla teologia di san Tommaso d’Aquino e sul magistero particolarmente di Pio XII, sostiene al contrario che concelebrando una sola Messa si riduce il dono di grazia, perché “in più Messe si moltiplica l’oblazione del sacrificio e quindi si moltiplica l’effetto del sacrificio e del sacramento” (Summa Theologiae, III, q. 79, a. 7 ad 3; cf. q. 82, a. 2; cf. anche Pio XII, “Mediator Dei”, parte II; Allocuzione del 2.11.1954; Allocuzione del 22.9.1956).

    Non intendo dirimere qui la questione di quale delle due tesi sia più credibile. La seconda tesi ha comunque dalla sua parte parecchie ragioni favorevoli e non dovrebbe essere ignorata. Va tenuto presente che vi è come minimo la seria possibilità che, costringendo i sacerdoti a concelebrare e quindi riducendo il numero di Messe celebrate, si verifichi una diminuzione del dono di grazia fatto alla Chiesa e al mondo. Se così fosse, il danno spirituale sarebbe incalcolabile.

    E bisogna aggiungere che, oltre agli aspetti oggettivi, dal punto di vista spirituale ferisce anche il tono perentorio con cui il testo della segreteria di Stato stabilisce che “siano soppresse le celebrazioni individuali”. In un’affermazione posta in tal modo si avverte, particolarmente nella scelta del verbo, una sorta di inusitata violenza.

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    3. A causa delle disposizioni che sono state pubblicate, i sacerdoti che volessero celebrare la Messa secondo la forma ordinaria del rito romano saranno ora costretti a concelebrare.

    Anche il forzare i sacerdoti a concelebrare è un fatto singolare. I sacerdoti sono i benvenuti a concelebrare se lo desiderano, ma si può imporre loro la concelebrazione? Si dirà: se non vogliono concelebrare, vadano altrove! Ma è questo lo spirito accogliente della Chiesa che noi vogliamo incarnare? È questo il simbolismo espresso dal colonnato del Bernini antistante la basilica, che idealmente rappresenta le braccia spalancate della Madre Chiesa che accoglie i suoi figli?

    Quanti sacerdoti vengono a Roma in pellegrinaggio! È del tutto normale che costoro, anche se non hanno un gruppo di fedeli al seguito, nutrano il sano e bel desiderio di poter celebrare Messa in San Pietro, magari sull’altare dedicato a un santo per il quale nutrono speciale devozione. Da quanti secoli la basilica accoglie tali sacerdoti? E perché ora non vuole più accoglierli, a meno che non accettino l’imposizione della concelebrazione?

    D’altro canto, di sua natura la concelebrazione – per come fu pensata e approvata dalla riforma liturgica di Paolo VI – è piuttosto una concelebrazione dei presbiteri con il vescovo, che non (almeno ordinariamente, quotidianamente) una concelebrazione di soli presbiteri. A margine annoterei che simile imposizione avviene mentre l’umanità sta combattendo contro il Covid-19, il che rende meno prudente concelebrare.

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    4. Cosa faranno quei sacerdoti che vengono a Roma e non conoscono l’italiano? Come faranno a concelebrare in San Pietro, dove le concelebrazioni si tengono solo in lingua italiana? D’altro canto, anche se si decidesse una correzione su questo, ammettendo l’uso di tre o quattro lingue, ciò non potrebbe mai coprire il vastissimo numero di lingue in cui resta possibile celebrare la Santa Messa.

    I tre confratelli cardinali di cui sopra hanno già citato il can. 902 del Codice di Diritto Canonico, che si rifà a “Sacrosanctum concilium” n. 57, il quale garantisce ai sacerdoti la possibilità di celebrare personalmente l’Eucaristia. E anche a questo proposito sarebbe triste se si dicesse: vogliono avvalersi di tale diritto? vadano altrove!

    Vorrei aggiungere ancora il richiamo al can. 928: “La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati”.

    Questo canone prevede, innanzitutto, che si celebri Messa anche in latino. Ma questo ora non può essere fatto nella basilica, se si eccettua la celebrazione in forma straordinaria, su cui tornerò più avanti.

    In secondo luogo, il canone prevede che si possa celebrare in altra lingua, se i relativi libri liturgici sono stati approvati. Ma neanche questo ora può essere fatto in San Pietro, a meno che il celebrante non abbia un gruppo di fedeli con sé, nel qual caso, seguendo le nuove norme, egli sarà comunque dirottato nelle Grotte vaticane, rimanendo così l’italiano l’unica lingua ammessa in basilica.

    La basilica di San Pietro dovrebbe essere d’esempio per la liturgia di tutta la Chiesa. Ma con queste nuove regole si impongono dei criteri che in nessun altro luogo sarebbero tollerati, in quanto violano tanto il buon senso quanto le leggi della Chiesa.

    Ad ogni modo, non si tratta solo di leggi, non trattandosi qui di mero formalismo. Oltre al rispetto, pur doveroso, dei canoni, qui sono in gioco il bene della Chiesa e anche il rispetto che la Chiesa ha sempre avuto per le legittime varietà. La scelta da parte di un sacerdote di non concelebrare è legittima e andrebbe rispettata. E la possibilità di poter celebrare individualmente la Messa dovrebbe essere garantita in San Pietro, dato il diritto comune ma anche l’altissimo valore simbolico della basilica per tutta la Chiesa.

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    5. Le decisioni assunte dalla segreteria di Stato danno luogo anche a un’eterogenesi dei fini. Ad esempio, non sembra che il testo miri a un ampliamento dell’uso della forma straordinaria del rito romano, la cui celebrazione viene relegata, dalle recenti disposizioni, nelle Grotte sottostanti la basilica.

    Ma in base alle nuove regole, cosa dovrebbe fare un sacerdote che desiderasse legittimamente continuare a celebrare la Messa individualmente? Egli non avrebbe altra scelta che celebrarla nella forma straordinaria, dato che gli viene impedito di celebrare individualmente nella forma ordinaria.

    Perché viene vietato di celebrare la Messa di Paolo VI in forma individuale nella basilica di San Pietro, quando – come sopra riportato – lo stesso papa Montini nella “Mysterium fidei” ha approvato questo modo di celebrare?

    *

    6. Quella dei sacerdoti che ogni mattina si alternano agli altari della basilica per offrire il santo sacrificio della Messa è una consuetudine antica e veneranda. Era davvero necessario infrangerla? Simile decisione produce davvero un più grande bene per la Chiesa e un maggiore decoro nella liturgia?

    Quanti santi hanno, nell’arco dei secoli, perpetuato questa bella tradizione! Pensiamo ai santi che lavoravano a Roma, o che venivano per un periodo nella Città Eterna. Essi normalmente si recavano in San Pietro per celebrare. Perché negare ai santi di oggi – che grazie a Dio esistono, sono in mezzo a noi e visitano Roma almeno ogni tanto – nonché a tutti gli altri sacerdoti una simile esperienza, così profondamente spirituale? In base a quale criterio e per quale ipotetico progresso si spezza una tradizione plurisecolare e si nega a tanti di celebrare Messa in San Pietro?

    Se lo scopo è – come recita il documento – che le celebrazioni “siano animate liturgicamente, con l’ausilio di lettori e di cantori”, tale risultato poteva facilmente ottenersi con un minimo di organizzazione, in modo meno drammatico e soprattutto meno ingiusto. Il Santo Padre tante volte si è rammaricato dell’ingiustizia presente nel mondo odierno. Per enfatizzare questo insegnamento, Sua Santità ha creato addirittura un neologismo, quello della “inequità”. La recente decisione della segreteria di Stato è espressione di equità? È espressione di magnanimità, di accoglienza, di sensibilità pastorale, liturgica e spirituale?

    Siccome ho parlato dei santi che hanno celebrato in San Pietro, non dimentichiamoci che la basilica custodisce le reliquie di molti di loro e parecchi altari sono dedicati al santo di cui custodiscono i resti mortali. Le nuove disposizioni stabiliscono che non si possa più celebrare su tali altari. Il massimo consentito è una sola Messa all’anno, nel giorno in cui ricorre la memoria liturgica di quel santo. In questo modo, tali altari sono quasi condannati a morte.

    Il ruolo principale, per non dire unico, di un altare, è infatti che su di esso si offra il sacrificio eucaristico. La presenza delle reliquie dei santi sotto gli altari ha un valore biblico, teologico, liturgico e spirituale di tale portata, che non c’è bisogno neanche di farvi cenno. Con la nuova normativa, gli altari di San Pietro sono destinati a fungere, eccetto un giorno all’anno, soltanto da tombe di santi, se non da mere opere d’arte. Quegli altari, invece, devono vivere e la loro vita è la celebrazione quotidiana dalla Santa Messa.

    *

    7. Singolare è anche la decisione che riguarda la forma straordinaria del rito romano. Da oggi in poi, essa – nel numero massimo di quattro celebrazioni quotidiane – è consentita esclusivamente nella Cappella Clementina delle Grotte vaticane ed è del tutto vietata su qualunque altro altare della basilica e delle Grotte.

    Si precisa persino che simili celebrazioni saranno svolte solo da sacerdoti “autorizzati”. Questa indicazione, oltre a non rispettare le norme contenute nel Motu Proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI, è anche ambigua: chi dovrebbe autorizzare quei sacerdoti? Per quale ragione non si dovrebbe mai più poter celebrare la forma straordinaria in basilica? Quale pericolo essa rappresenta per la dignità della liturgia?

    Immaginiamo che un giorno si presenti in sacrestia a San Pietro un sacerdote cattolico di rito diverso dal rito romano. Di certo non gli si potrebbe imporre di concelebrare nel rito romano, dunque c’è da chiedersi: potrebbe quel sacerdote celebrare nel suo rito? La basilica di San Pietro rappresenta il centro della cattolicità, quindi viene spontaneo pensare che una tale celebrazione sarebbe permessa. Ma se una celebrazione effettuata secondo uno degli altri riti cattolici può essere svolta, per l’uguaglianza dei diritti bisognerebbe a maggior ragione riconoscere ai sacerdoti di rito romano la libertà di celebrare nella forma straordinaria di esso.

    Per tutti i motivi qui esposti e per altri ancora, assieme a uno sconfinato numero di battezzati (molti dei quali non vogliono o non possono manifestare il proprio pensiero) supplico umilmente il Santo Padre di disporre il ritiro delle recenti norme emanate dalla segreteria di Stato, le quali mancano tanto di giustizia quanto di amore, non corrispondono alla verità né al diritto, non facilitano ma piuttosto mettono in pericolo il decoro della celebrazione, la partecipazione devota alla Messa e la libertà dei figli di Dio.

    Roma, 29 marzo 2021











    domenica 28 marzo 2021

    Secolarizzazione e laicismo, ma anche riscoperta della fede e ritorno alla Messa antica. Tutte le sorprese (istruttive) del caso Svezia







    28MAR
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    by Aldo Maria Valli

    di Solène Tadié

    Nell’immaginario collettivo la Svezia è spesso associata alla massima espressione del progressismo culturale e del processo di secolarizzazione che si è diffuso in tutto l’Occidente nel secolo scorso.

    I dati ufficiali servono a consolidare tale percezione. In effetti, la Svezia, che nel corso degli ultimi cinque secoli è stata prevalentemente luterana, è uno dei paesi meno religiosi del mondo, insieme a Cina, Giappone, Estonia, Norvegia e Repubblica Ceca. Meno di uno svedese su cinque dichiara di essere religioso (rispetto a più della metà degli americani) e, sebbene il 58% degli svedesi si dichiari membro della Chiesa luterana di Svezia, solo il 19% del 58% dichiara di essere religioso.


    Le principali notizie relative alla religione sulla Svezia diffuse dai media internazionali negli ultimi anni (come segnalazioni di incendi dolosi e atti vandalici nelle chiese, declino della libertà religiosa e della libertà di istruzione) sembrano confermare ulteriormente questa tendenza preoccupante, ma un esame più rigoroso delle dinamiche attuali osservabili nel Paese mostra una realtà più complessa.

    Una comunità cattolica internazionale in crescita

    Contrariamente alle aspettative, la rapida evoluzione del panorama culturale e religioso della Svezia, generata dall’immigrazione, sta effettivamente giocando a favore della Chiesa cattolica. Infatti, il cattolicesimo (secondo una stima fornita dai sacerdoti locali al National Catholic Register) è, con l’Islam, l’unica religione in crescita nel Paese, con una media di tremila nuovi fedeli ogni anno: l’equivalente di un’intera parrocchia.


    Gli ultimi dati ufficiali pubblicati dal Vaticano nell’ottobre 2016, in occasione della visita di papa Francesco in Svezia, hanno documentato la presenza sul territorio nazionale di 113 mila cattolici, pari all’1,15% della popolazione. Il Paese conta quarantacinque parrocchie, una diocesi, due vescovi, 141 sacerdoti, 253 religiosi e 419 catechisti.

    In questo contesto, l’aumento del numero di fedeli, la maggioranza dei quali sono immigrati (principalmente da Europa dell’Est, Africa, Medio Oriente e Asia meridionale) porta anche una serie di sfide, come sottolinea Anders Arborelius, il primo cardinale svedese nella storia.


    “In questo clima molto secolarizzato – spiega il cardinale – la sfida costante è occuparsi dei cattolici che vengono dall’estero e cercare di aiutarli a integrarsi nelle nostre parrocchie, aiutando anche i loro figli a rimanere attivi nella Chiesa È una sfida continua sostenerli nella crescita in unità con la nostra Chiesa locale”.

    Questa nuova realtà spinge anche i pochi cattolici autoctoni a adattarsi e integrarsi con la maggioranza dei cattolici provenienti dall’estero. E il clero – composto principalmente da sacerdoti stranieri – non fa eccezione.


    “La maggior parte di loro – dice il cardinale – proviene dalla Polonia, circa sessantacinque sacerdoti, ma abbiamo anche più di una dozzina di sacerdoti delle Chiese orientali, mentre più del 10% delle nostre parrocchie ha un parroco africano. Siamo molto grati ai sacerdoti che sono venuti da altri paesi per ingrossare le nostre fila, ed è sorprendente vedere che è possibile per una comunità di fedeli essere unita attraverso la fede, così da diventare una famiglia in Cristo”.


    Secondo il cardinale Arborelius, questa dinamica di crescita sembra aver beneficiato anche della pandemia di coronavirus, che fin dall’inizio della crisi sanitaria ha coinciso con un crescente interesse per le questioni religiose tra la popolazione. “Alcune persone hanno iniziato a pregare e a chiedere una guida, e le autorità sono anche più desiderose di collaborare con noi”.

    Affrontare una triplice ostilità

    Sebbene il cardinale svedese abbia sottolineato i suoi buoni rapporti con le autorità pubbliche, non tutti i cattolici locali condividono la sua visione positiva. Alcuni, infatti, denunciano una crescente ostilità nei confronti dei cristiani in tutto il Paese. Tale ostilità si manifesta in modi diversi, secondo il leader giovanile cattolico Max Martin Skalenius, ventitré anni, che ha potuto valutare di persona la situazione, spiega, quando ha organizzato una marcia pro-vita nel 2019 nella diocesi di Göteborg: “Ero molto preoccupato perché abbiamo ricevuto diverse minacce anonime da estremisti di sinistra che dicevano che avrebbero pugnalato e ucciso tutti”.

    A suo avviso, queste minacce estremiste più o meno isolate sono alimentate da una mentalità più generale radicata nella maggior parte delle istituzioni ufficiali, a cominciare dalla scuola, che esercita un’influenza sui bambini sin dalla più tenera età.


    “Quando avevo undici anni ho ricevuto un’educazione sessuale, mi è stato detto come eseguire un aborto, come mettere i preservativi, cos’è la transessualità e così via”, dice Skalenius. “Allo stesso tempo, sempre più voci da sinistra si alzano contro le poche scuole cattoliche che abbiamo: vogliono chiuderle, spesso prendendo a pretesto le deviazioni delle scuole musulmane e sostenendo che, per uguaglianza, anche le scuole cattoliche dovrebbe essere soppresse”.

    L’home schooling nel paese è severamente vietato e una legge del 2017 ha reso obbligatorio anche l’asilo nido statale.

    Pur riconoscendo queste realtà, don Tobias Unnerstål, parroco svedese della chiesa di Cristo Re a Göteborg, recentemente profanata dai vandali, ritiene che il fenomeno non sia cresciuto solo negli ultimi mesi, ma si sia gradualmente sviluppato a partire dagli anni Ottanta in seguito allo sconvolgimento sociale degli anni Settanta. Il parroco, cinquantasei anni, non ricorda di aver mai assistito a nessun tipo di cristianofobia nella sua giovinezza. Dice: “All’epoca, quando la polizia doveva comunicare la morte di qualcuno portava con sé un pastore locale. A differenza di oggi, il cristianesimo era ancora pienamente parte della società”.


    A suo avviso, ora c’è una chiara volontà, da parte di alcuni attivisti e di istituzioni pubbliche, di rendere invisibili le religioni. “Militanti atei e altri attivisti delle cosiddette società umanistiche hanno lavorato molto duramente per assicurarsi che le religioni non avessero più alcun ruolo, in particolare nelle scuole”.

    Allo stesso tempo, un’altra sfida per i cristiani è l’ascesa dell’Islam radicale (la Svezia è il secondo Paese in Europa, dopo la Francia, con la quota più alta di musulmani nella popolazione).

    Il giovane leader cattolico Skalenius dice che sempre più giovani musulmani, nella loro ricerca di punti di riferimento e identità, stanno diventando più arrabbiati contro la cultura svedese e contro il cristianesimo nel suo insieme: “Abbiamo anche avuto diversi episodi di cristiani evangelici che sono stati picchiati da musulmani per aver predicato in aree prevalentemente musulmane”.

    I cattolici stanno anche sperimentando la sfiducia di alcuni nazionalisti svedesi, che tendono a vedere il cattolicesimo come una religione importata. Poiché, come sottolinea Clemens Cavallin, professore associato di religione, filosofia ed etica alla Nord University e professore associato di studi religiosi all’Università di Göteborg, la Chiesa cattolica svedese del Paese è composta quasi al 90% di immigrati, alcuni nazionalisti svedesi, nel tentativo di ricreare un forte legame tra il cristianesimo e lo Stato svedese, stanno cercando di ripristinare una posizione privilegiata per la Chiesa luterana di Svezia. La libertà religiosa, osserva il docente, è stata introdotta nel paese non prima degli anni Cinquanta e in precedenza, quando il Paese era superpotenza regionale, nel XVII secolo, il cattolicesimo era considerato nemico dello Stato confessionale luterano svedese.

    Impeto di tradizionalismo

    Queste condizioni avverse sembrano aver dato luogo tra i cattolici a un fenomeno ancora più sconosciuto e inaspettato: il desiderio della liturgia tradizionale. In effetti, la loro posizione di minoranza in Svezia, un Paese che vive un dilagante relativismo e secolarismo, sembra spronarli a tornare alle radici della loro fede.


    Sebbene non ci siano dati ufficiali sulla portata di questa tendenza, l’interesse per la liturgia tradizionale si sta notando in diverse parrocchie, in particolare quella di don Unnerstål a Göteborg (la seconda città del Paese), dove si celebra la santa Messa vetus ordo.

    Don Unnerstål, che ha scoperto la liturgia tradizionale durante gli studi a Cambridge negli anni Ottanta, nella sua parrocchia ha assistito a una crescente partecipazione a queste celebrazioni negli ultimi sette anni, anche con l’arrivo di fedeli da molti paesi diversi. “Espatriati dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Repubblica Ceca – racconta – si sono effettivamente trasferiti qui per questo motivo preciso”.


    Un altro fattore importante che spiega il successo della liturgia tradizionale, aggiunge il sacerdote, è la profonda sete di bellezza che anima innumerevoli persone, in un mondo occidentale in cui la bellezza è stata sempre più scartata a favore di varie ideologie.

    E come in molti altri Paesi europei, anche in Svezia il desiderio della liturgia tradizionale proviene principalmente dai giovani, che cercano di riscoprire il passato della Chiesa cattolica. Un passato rispetto al quale la Svezia non è certamente da meno nel confronto con altre nazioni, come attestano i suoi numerosi grandi santi cattolici (in particolare Brigida di Svezia, patrona d’Europa) e i suoi siti religiosi.

    È in linea con questa volontà di far rivivere la secolare cultura svedese che Max Martin Skalenius ha fondato nel 2016 la Helige Eriks Legion, organizzazione tradizionalista, ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa cattolica svedese, che conta circa duecento membri, si rivolge principalmente a giovani cattolici e propone una vita comunitaria organizzata attorno a pellegrinaggi, attività culturali, santa Messa tradizionale e gruppi di preghiera. Un’organizzazione equivalente per le donne, la Filiae Reginae Scandinaviae, è stata lanciata un anno fa.


    Spiega Skalenius: “Vogliamo rendere le persone consapevoli del fatto che abbiamo una meravigliosa storia cattolica, che la Svezia è stata cattolica più a lungo di quanto lo sia stata qualsiasi altra realtà. Queste due organizzazioni sono in costante crescita e vediamo tanto entusiasmo da parte dei nostri membri, perché possono dare una dimensione più alta alla loro vita”.

    Mentre alcune autorità religiose locali inizialmente erano sospettose nei confronti di questi gruppi di giovani cattolici che promuovono la liturgia cattolica tradizionale, in seguito hanno riconsiderato la loro posizione.

    “Il cardinale Arborelius – dice Skalenius – ha mostrato il suo apprezzamento per noi. Ora molti ecclesiastici vedono i frutti della nostra organizzazione e quindi abbiamo con loro un’ottima collaborazione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il clero nato in Svezia non sta sprofondando nelle attuali tendenze progressiste che spesso vediamo in paesi come la Germania, probabilmente a causa della vera e propria follia di cui siamo stati testimoni nel resto del Paese in passato. I sacerdoti stanno diventando più fedeli, più severi, più tradizionali, e questo ci dà speranza”.

    Fonte: National Catholic Register









    sabato 27 marzo 2021

    LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA HA BISOGNO DI UN MAGISTERO PETRINO CERTO







    Di Stefano Fontana, 25 marzo 2021
    By adminNOTIZIE DSC


    È noto che gli interventi del magistero sono di diverso livello e altrettanto diversamente obbligano i fedeli all’assenso. La scelta del mezzo, in questo caso, è di grande importanza, perché esso già indica il valore del contenuto. Dal fatto che si tratti di una Enciclica oppure di una Lettera Apostolica, il fedele che si pone in ascolto capisce già che livello di magistero gli viene proposto. Ricordo, per esempio, che nel 1971 Paolo VI commemorò la Rerum novarum nel suo ottantesimo anniversario non con una Enciclica, come era stato fatto fino ad allora da Pio XI nel 1931 e da Giovanni XXIII nel 1961, ma con una Lettera Apostolica, la Octogesima adveniens. Bastò questa scelta del mezzo – non una Enciclica ma una Lettera – per indurre molti a dire che Paolo VI intendeva con ciò sminuire il valore della Dottrina sociale della Chiesa a seguito della svolta conciliare. L’uso del mezzo fu subito tradotto in un contenuto, giusto o falso che fosse qui non interessa.

    La stessa cosa va detta per i documenti dei Dicasteri pontifici. Una formula molto adoperata è per esempio la seguente: “Il Sommo Pontefice, nel corso dell’udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Istruzione e ne ha ordinato la pubblicazione”. In questo caso il documento riveste una notevole importanza in quando espressamente approvato dal papa. Le Istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede di solito si concludono con questa espressione, in qualche caso però l’espressione viene rafforzata: per esempio nell’istruzione Dominus Jesus si dice che il papa “con certa scienza e con la sua autorità apostolica ha ratificato e confermato questa Dichiarazione”. Come si vede, in questo caso, viene ulteriormente dichiarata la volontà del papa di definire dottrine di fede in modo certo, il che conferisce alla dottrine precisate una autorevolezza ancora maggiore.

    La scelta dello strumento – una Enciclica o una Lettera Apostolica per il papa, oppure una Istruzione, un Vademecum o un Decreto per un Dicastero pontificio – e la scelta delle formule che definiscono la modalità della sua approvazione sono quindi molto importanti perché avvertono oggettivamente il popolo cristiano dell’importanza degli insegnamenti impartiti. Se la Sala Stampa della Santa Sede emette un comunicato strampalato, se fa una dichiarazione imprecisa, se rettifica in modo sconveniente o se non smentisce quanto andrebbe invece smentito… certamente provoca danni. Ma mai così significativi come quando l’incertezza riguarda lo strumento scelto per veicolare l’insegnamento magisteriale o la formula che precisa il suo grado di autorevolezza: qui, infatti, è in gioco la fede.

    A proposito del Responsum della Congregazione della Dottrina della Fede sul divieto di benedire le coppie omosessuali, è nata una vera e propria guerra senza esclusione di colpi proprio sul grado di autorevolezza del documento e, in particolare, se esso fosse stato fatto proprio dal papa. La formula conclusiva questa volta è stata questa: “Il Sommo Pontefice Francesco, nel corso di un’Udienza concessa al sottoscritto Segretario di questa Congregazione, è stato informato e ha dato il suo assenso alla pubblicazione del suddetto Responsum ad dubium, con annessa Nota esplicativa”. Ne era egli stato semplicemente informato oppure lo aveva formalmente approvato con tutto il peso della sua autorità apostolica? Qui si sono scatenati i partiti esistenti sia dentro la Curia romana che nella Chiesa intera.

    La questione vera mi sembra la seguente. Un tempo la scelta dello strumento e le formule che esprimevano il suo rapporto con l’autorità dei Pontefici di pascere gli agnelli e di legare e sciogliere sulla terra avevano un chiaro fondamento dottrinale oggettivo. Il criterio da seguire era il contenuto dottrinale e morale da esprimere, dato che il magistero autentico e ordinario hanno livelli diversificati di espressione, di esternazione e di potere vincolante le coscienze dei fedeli. Ma proprio su questo è avvenuto, e soprattutto sta avvenendo, il cambiamento. Il criterio per scegliere strumento e formula di approvazione sta diventando politico, un modo per dire e non dire, per accontentare questi senza scontentare quelli. Le note a piè pagina della Amoris laetitia stanno facendo storia.

    Stefano Fontana










    venerdì 26 marzo 2021

    IL MEDIOEVO ESALTAVA OVUNQUE LA BELLEZZA

     








    BastaBugie n.709 del 24 marzo 2021

    I medievali non avrebbero mai concepito l'idea del museo perché la bellezza è necessaria e non può essere separata dalla vita reale e quotidiana (DOPPIO VIDEO: Il duomo di Siena e l'importanza della donna)





    di Corrado Gnerre

    I medievali non solo amavano la bellezza, ma la ritenevano in un certo qual modo necessaria. Pensiamo alle cattedrali gotiche. Le guglie venivano fatte benissimo fino alla cima, adornate di disegni e di decorazioni che nessun uomo avrebbe mai potuto ammirare, ma solo viste da Dio e... dai piccioni.
    Un particolare, questo, che solitamente non viene messo in risalto, ma che è di grande importanza per capire come i medievali intendessero la bellezza. Per loro, infatti, la bellezza non era qualcosa che necessitava di esser vista, ma qualcosa che necessitava e basta. Ci spieghiamo meglio. I medievali non pensavano che a dover decidere se la bellezza fosse tale o meno dovesse essere il giudizio dell'uomo, ma che la bellezza fosse tale in quanto bellezza, indipendentemente dall'osservazione e dal giudizio dell'uomo.

    Questa mentalità si coglie anche in un altro elemento: i medievali non avrebbero mai concepito l'idea del "museo", che invece, non a caso, nacque con il razionalismo del XVIII secolo. La bellezza - pensava l'uomo medievale - è talmente necessaria che deve essere nella realtà, nella vita, non può essere separata dalla quotidianità, bensì in un certo qual modo deve "informare" (nel senso letterale di "dare forma") l'esistere di ognuno.

    Alla base dell'idea moderna di "museo" vi è invece la convinzione che la bellezza sia un prodotto di una particolare elaborazione intellettuale del soggetto, un'elaborazione pensata partendo da un distacco dalla vita, come se il vero artista dovesse necessariamente alienarsi, staccarsi, emanciparsi dal vivere per immergersi in una sorta di delirio dell'immaginazione in cui la costruzione puramente intellettuale svolgerebbe un ruolo non solo protagonistico ma anche esclusivo. Insomma, l'arte staccata dal vivere quotidiano, relegata in una sorta di "riserva" per farsi vedere e sottoporsi ad un giudizio di un'élite.

    Insomma, nella cristianità medioevale vi era l'obbligo di fare cose belle; anche le cose utili dovevano essere belle; e la stessa bellezza aveva una sua utilità.

    E a proposito di quanto si pretendesse che le cose venissero fatte bene non tanto per gli altri, né tantomeno per se stessi, ma per la bellezza in sé, il poeta Charles Peguy, nel suo Il denaro, ci ha lasciato queste belle parole: "Abbiamo conosciuto un onore del lavoro identico a quello che nel Medio Evo governava le braccia e i cuori. Proprio lo stesso, conservato intatto nell'intimo. Abbiamo conosciuto l'accuratezza spinta sino alla perfezione, compatta nell'insieme, compatta nel più minuto dettaglio... Ho veduto, durante la mia infanzia, impagliare seggiole con lo stesso identico spirito, e col medesimo cuore, con i quali quel popolo aveva scolpito le proprie cattedrali... La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso... Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé in sé nella sua stessa natura." E Van Loon, celebre storico delle idee, scrive nel suo famoso Le arti: "(...) un francese o un italiano del Duecento o del Trecento avrebbe scosso il capo perplesso, se qualcuno avesse espresso seri dubbi circa l'utilità di esser circondati da cose belle." San Tommaso d'Aquino -colui che è il vertice del pensiero medioevale- scrive: "(...) belle sono le cose , anche fatte bene dall'uomo, che, anche soltanto viste e sentite, comunque cognite, danno gioia." E già sant'Agostino aveva sentenziato nel De musica: "Che altro si può amare se non le cose belle?"

    Nota di BastaBugie: nel seguente video (durata: 6 minuti) dal titolo "La donna è il fondamento della famiglia" viene spiegato, con l'importante riferimento alla costruzione delle cattedrali medievali, il ruolo "invisibile" e allo stesso tempo fondamentale di una madre di famiglia.


    https://www.youtube.com/watch?v=q8BtthB2sx4

    VIDEO: IL DUOMO DI SIENA
    Nel seguente video (durata: 9 minuti) dal titolo "Il Duomo di Siena" si può vedere un capolavoro assoluto di bellezza che rappresenta uno dei modelli più famosi al mondo di cattedrale romanico-gotica italiana.


    https://www.youtube.com/watch?v=w5EvKwWgfw8

    Titolo originale: Lo sai che l'uomo medievale non poteva fare a meno della Bellezza?
    Fonte: I Tre Sentieri, 6 novembre 2020
    Pubblicato su BastaBugie n. 709







    giovedì 25 marzo 2021

    La Spagna, trasformata in un «campo di sterminio». Di Mons. Juan Antonio Reig Pla





    21 marzo 2021By adminNOTIZIE DSC


    Mons. Juan Antonio Reig Pla, 19 marzo 2021

    Con tutto il rispetto e l’apprezzamento nel Signore per il popolo, devo fare alcune considerazioni su determinate leggi e fatti.

    L’hanno voluto loro. La Spagna tradizionalmente cattolica, che diffondeva la fede attraverso i mari, era un nemico da battere per se stessa e per le sue ripercussioni sui popoli fratelli dell’America spagnola, le Filippine, lo stesso contesto europeo e l’influenza in tutto il mondo dei nostri missionari, attivi collaboratori nella trasmissione della fede.

    Con la cosiddetta transizione politica molto avanti, e con una Costituzione spagnola piena di ambiguità, le forze laiciste unite alle forze politiche favorevoli alla relativizzazione culturale, morale e religiosa del nostro popolo sono riuscite – con l’approvazione di leggi che permettono la distruzione della vita non nata, sia nell’utero che nei laboratori, ed ora con l’approvazione della legge sull’eutanasia – a trasformare la Spagna in un “campo di sterminio”.

    Lo tsunami di leggi che deregolamentano il patrimonio culturale e spirituale della Spagna, sempre battendo la bandiera della “libertà”, è iniziato con la legge sul divorzio (1981), seguita dalla depenalizzazione dell’aborto (1985), la legge sulle tecniche di riproduzione assistita (1988), la legge che permette il cosiddetto matrimonio civile tra persone dello stesso sesso (2005), la legge sul divorzio “espresso” e il ripudio (2005), l’introduzione della materia Educazione alla Cittadinanza che ha portato l’ideologia di genere nelle scuole (2006), la legge sulle tecniche di riproduzione assistita (2006), la legge Aido sull’interruzione della gravidanza e la salute sessuale e riproduttiva (2010), la legge sulla ricerca biomedica (2011), fino alle leggi regionali su “Identità ed espressione di genere e uguaglianza sociale e non discriminazione” presenti in diverse comunità autonome della nazione spagnola.

    Oltre ad altre proposte di legge permissive, annunciate da vari ministeri, il colpo di grazia alla la libertà di coscienza e la dignità di ogni vita umana lo hanno dato la nuova legge sull’educazione (2020) e quella sull’eutanasia (2021). Con questo, le forze globaliste, le lobby finanziarie, i loro terminal eutanasici e il laicismo militante possono considerarsi vittoriosi di fronte ad un popolo anestetizzato dai media, dalla forte ingegneria sociale sviluppata con la perversione del linguaggio, da una Corte costituzionale intrappolata dal positivismo giuridico e che lascia senza protezione ciò che è naturalmente “specificamente umano”: la dignità e la sacralità della vita, la differenziazione maschio/femmina come ricchezza del patrimonio dell’umanità, il bene del matrimonio aperto alla vita e la funzione sociale della famiglia come pilastri che sostengono una società stabile con un orizzonte di fraternità.

    Con questa legge si consuma il processo di trasformazione del “diritto naturale” e dei cosiddetti “diritti umani” in diritti soggettivi, secondo i propri desideri. Non esiste più nulla di cui non possiamo disporre. Il passo successivo sono le leggi che propiziano il “transumanesimo”.

    È necessario ripeterlo una volta ancora. Non esiste il diritto alla morte. L’eutanasia mette fine a tutti i diritti. La vita umana è sempre un dono che ci precede e che merita di essere curato personalmente, familiarmente e socialmente nella prospettiva del bene comune fino alla morte naturale. È il dono più alto della creazione. Spetta in particolare allo Stato garantire questa cura e questa protezione. Se non lo fa, è uno Stato che non compie la sua missione e diviene illegittimo nell’esercizio di questo potere. I medici e gli operatori sanitari hanno ora una nuova responsabilità: quella di resistere al male. Cliniche, ospedali e case non possono diventare luoghi dove la vita umana non viene rispettata con attenzioni e sicurezza. Prego per loro.

    Non soddisfatti con queste leggi, i nuovi padroni hanno provocato, dall’alto dalle istituzioni al potere, un indebolimento morale del nostro popolo, soprattutto tra i bambini, gli adolescenti e i giovani, con un’educazione sessuale ai margini dell’amore e della capacità di autodominio per il bene personale e la relazione con le altre persone. Molti di loro sono intrappolati nella pornografia, in dipendenze di ogni tipo ed è stato inculcato loro un concetto negativo di libertà, proposta soltanto come l’autonomia radicale dell’individuo senza nessun altro fine che non sia il piacere e l’utilità, senza riferimento ai beni indisponibili della persona che si coltivano con la virtù. È la distruzione della libertà in nome di una libertà che non ha altro contenuto che se stessa. Una libertà perversa che è la fonte di numerose sofferenze umane: la distruzione della vita umana, la disgregazione della famiglia, l’abbandono dei bambini, il disorientamento nel senso della vita e persino l’aumento della solitudine, della malattia mentale e del suicidio.

    Il percorso è noto: manipolare il linguaggio, indebolire la famiglia come educatrice dei figli, cambiare i costumi con l’ingegneria sociale e creare una nuova opinione di massa propiziata dall’invasione massiccia dei mass media. che sono riusciti a penetrare nell’anima e nella mente di molti spagnoli.

    Per tutto questo era necessario un punto di partenza perseguito fin dall’inizio: favorire la secolarizzazione della società spagnola per fare a meno di Dio e della tradizione cattolica che sostiene un’adeguata antropologia che risponde ai beni e ai fini della persona umana, della famiglia, della religione e della società. Senza Dio, senza l’umanità di Gesù Cristo, l’uomo è alla deriva e perde il suo fondamento stabile e un orizzonte di eternità. Ecco perché prescindere della tradizione cattolica ed indebolire la cultura e le leggi che la possono sostenere favorisce un multiculturalismo nichilista che finisce per essere un’assurdità e lascia la nostra società spagnola senza difese.

    L’ho detto in diverse occasioni. Questa è l’ora in cui ritornano i “barbari” che, inebriati di potere, non sanno come sostenere la casa comune, la casa familiare che é stata ed é la Spagna.

    Questi sono tempi in cui la Chiesa cattolica non può guardare altrove. Questi sono tempi di una “nuova evangelizzazione”, come ci hanno chiesto i recenti Papi. Ciò che è in gioco è il bene del popolo e il bene della nostra gente. È necessario mobilitare le coscienze dei cattolici e delle persone di buona volontà per realizzare una grande strategia a favore della vita umana. Ciò che abbiamo dinanzi a noi, come ha detto San Giovanni Paolo II, è una vera e propria «struttura di peccato… una specie di “congiura contro la vita”…una guerra dei potenti contro i deboli» (Evangelium vitae, 12). È un’amara ironia che, in questo tempo di “pandemia”, invece di occuparsi squisitamente dei bisogni di salute e lavoro, proprio da parte del governo della nazione ci sia questo assalto alla dignità della vita umana e questa indifferenza alla sofferenza di tante persone che reclamano cure e protezione.

    Anche se i non credenti non ne sono consapevoli, la Spagna ha bisogno di Cristo, nel quale risplende lo splendore della verità della persona. In questo momento non possiamo rinunciare né al libro della Creazione, a Dio Creatore che ordina tutte le cose e all’uomo stesso con la sua sapienza, né all’opera della Redenzione espressa nella Croce di Cristo, ove tutti siamo stati amati fino alla fine. Senza questo amore e senza perdono non possiamo vivere. Questo è stato testimoniato da tutti i santi che, con la Vergine Maria, popolano tutta la nostra geografia spagnola.

    Poiché non può essere altrimenti, la nostra parola come Chiesa passa sempre attraverso la riconciliazione ed il perdono. Questo è possibile perché siamo stati perdonati da Dio ed, in Cristo, il peccato e la morte sono stati vinti. Siamo in Quaresima, in cammino verso la Pasqua che é il trionfo della resurrezione e della Vita. Ecco perché siamo chiamati a sperare. Tutte le forze del male sono insignificanti davanti alla potenza e alla misericordia di Dio: “Deus est semper maior”.

    Concludo invocando San Giuseppe, custode della Sacra Famiglia, protettore della Chiesa e difensore della buona morte. Che la Spagna percorra, sotto la sua protezione, sentieri di giustizia e di pace verso il cielo, la nostra patria definitiva.



    + Juan Antonio Reig Pla

    Vescovo di Alcalá de Henares



    Alcalá de Henares, 19 marzo 2021

    Solennità di San Giuseppe, Sposo della Santissima Vergine Maria

    Anno di San Giuseppe e di

    Nostra Signora la Vergine della Vittoria di Lepanto

    Anno della Famiglia







    L’Annunciazione secondo i Padri della Chiesa

     







    25 Marzo 2021 | Mariologia

    Dal canale di attualità della Fraternità Sacerdotale San Pio riprendiamo un saggio di citazioni patristiche sul mistero sovrano dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo tratte dalla Catena Aurea, ossia il commento continuo ai Vangeli, di san Tommaso d’Aquino

    “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazaret, da una vergine che era fidanzata con un uomo nella casa di David, di nome Giuseppe, e il nome della vergine era Maria” Vangelo secondo San Luca 1, 26-27.



    Andrea di Bartolo, Annunciazione tra i Ss. Antonio Abate e Maria Maddalena, XV sec., Museo d’Arte Sacra della Val d’Arbia, Buonconvento / wikimedia.org
    La missione dell’Arcangelo Gabriele

    San Basilio: “Gli spiriti celesti non vengono da noi di propria iniziativa, è Dio che li manda quando la nostra utilità lo richiede; poiché la loro occupazione è contemplare lo splendore della saggezza divina”.


    San Gregorio Magno: “Non è un angelo normale, ma l’Arcangelo Gabriele che viene inviato alla Vergine Maria. In effetti, solo il più grande degli angeli poteva venire ad annunciare il più grande degli eventi. La Scrittura gli dà un nome speciale e significativo, si chiama Gabriele, che significa forza di Dio. Fu quindi alla forza di Dio che fu riservato di annunciare la nascita del Dio degli eserciti, del forte in battaglia che è venuto a trionfare sulle potenze dell’aria”.

    Beda il Venerabile: “Dio inizia mirabilmente l’opera della nostra redenzione, inviando un angelo a una vergine, che la nascita divina avrebbe consacrato, perché anche il demonio aveva iniziato l’opera della nostra caduta mandando il serpente alla donna per sedurla con lo spirito d’orgoglio”.

    San Giovanni Crisostomo: “L’angelo non aspetta che la nascita abbia luogo per far conoscere il mistero alla Vergine, questo evento l’avrebbe gettata nel più grande turbamento. È prima del concepimento che realizza il suo messaggio, e non è in sogno, ma con un’apparizione visibile e solenne, come lo richiedeva, prima della realizzazione, l’importanza dell’evento che stava per annunciare”.


    Annunciazione (Book of hours Simon de Varie – KB 74 G37 – 025r) / wikimedia.org
    Viene inviato a una vergine sposata

    Sant’Agostino: “Solo la verginità era degna di dare alla luce Colui che, alla sua nascita, non avrebbe avuto eguali. Il nostro Capo, per miracolo abbagliante, doveva nascere da una vergine secondo la carne, e quindi preannunciare che la Chiesa vergine avrebbe dato ai suoi membri una nascita completamente spirituale”.

    San Girolamo: “C’è un motivo ragionevole per cui un angelo viene inviato a una vergine; poiché la verginità è sempre stata unita da stretti legami con gli angeli. In effetti, vivere nella carne, senza obbedire alle ispirazioni della carne, non è la vita della terra, ma è la vita del cielo”.

    Sant’Ambrogio: “La Scrittura stabilisce chiaramente queste due cose, che era sposa e vergine. Vergine, e quindi separata da ogni commercio con un uomo; sposa, così che la sua verginità sarebbe stata al sicuro da ogni disonore, mentre la sua gravidanza sarebbe stata un’indicazione di corruzione per tutti. Il Signore preferiva permettere alcuni dubbi sulla sua nascita immacolata, piuttosto che sulla purezza di sua madre. Sapeva quanto sia delicato l’onore di una vergine, quanto sia fragile la sua reputazione, e non voleva che la fiducia nella sua nascita miracolosa sorgesse dal disonore di sua madre. La verginità di Maria era quindi inviolabile, secondo l’opinione degli uomini, come lo era lei stessa”.




    Annunciazione, Arazzo della Collezione Barberini, 1644-1656 – Jordan Schnitzer Museum of Art, University of Oregon – Eugene, Oregon / wikimedia.org
    Il matrimonio della Beata Vergine protegge il segreto di Dio

    Sant’Ambrogio: “Nulla, inoltre, dà più credibilità alle parole di Maria di questo matrimonio, e fuga ogni sospetto di menzogna. Se fosse diventata madre senza essere sposata, sarebbe sembrata voler nascondere la propria colpa sotto il velo delle bugie; essendo sposata, al contrario, non aveva motivo di mentire, poiché la fertilità delle mogli è sia la ricompensa che il privilegio del matrimonio. Non meno importante motivo è che la verginità di Maria mise in scacco il principe del mondo; vedendola impegnata nei vincoli del matrimonio, non poteva sospettare della sua nascita verginale”.

    Origene: “Supponendo che non fosse sposata, questo pensiero segreto sarebbe sorto immediatamente nel demonio: in che modo chi non aveva marito è diventata madre? Questa concezione deve essere divina, in quest’affare c’è qualcosa di superiore alla natura umana”.

    Sant’Ambrogio: “Ma questo matrimonio eluse ancora di più tutti i pensieri dei principi della terra; poiché la malizia dei demoni penetra facilmente nel segreto delle cose nascoste; ma quelli che sono immersi nelle preoccupazioni del mondo sono incapaci di comprendere le cose divine. Diciamo anche che abbiamo così un testimone più credibile e sicuro della verginità di Maria nella persona di suo marito, che avrebbe potuto, sia protestare per il disonore che gli era stato portato, sia procedere con il giusto castigo, se non avesse conosciuto il mistero di questa nascita”.

    Beda il Venerabile: “E questa vergine si chiamava Maria. Maria, in ebraico, significa stella del mare, e in siriaco, padrona, nomi che si adattano perfettamente a Maria che ha dato alla luce il Padrone del mondo e la Luce eterna dei secoli”.

    Fonte : fsspx.news

    Immagine in evidenza: Francisco de Zurbarán, Annunciazione, 1638-1639, Museo di Grenoble / wikimedia.org












    mercoledì 24 marzo 2021

    «Non esistono vite indegne!». Il Leone che ruggiva in faccia a Hitler





    24MAR
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    by Aldo Maria Valli

    di Giuliano Guzzo

    A pochi giorni dalla legalizzazione dell’eutanasia da parte della Spagna, che così è diventato il settimo Paese al mondo a varare una legge sulla «dolce morte», il 22 marzo si è celebrata la memoria del beato Clemens August von Galen (1878–1946). Probabilmente trattasi solo di una coincidenza, tuttavia è senza dubbio una buona occasione per ricordare questo cardinale tedesco che proprio sull’eutanasia spese parole di straordinaria chiarezza e ancora assai attuali.

    A questo, però, arriviamo tra poco. Intanto è bene sapere chi fosse von Galen, ossia il figlio di una nobile famiglia tedesca che terminati gli studi, nel 1904, fu ordinato sacerdote nel 1904. Seguì una lunga carriera ecclesiastica che, se da un lato lo porterà fino alla porpora cardinalizia, dall’altro consentirà a questo pastore di imporsi come una figura di immenso carisma, totalmente fuori dal comune e soprattutto coraggiosa; al punto da passare alla storia come il «Leone di Münster».


    In effetti, tutto si può dire di von Galen tranne che non avesse fegato per il modo diretto con cui, attraverso le sue omelie, si scagliava contro il regime nazista. Ma non, attenzione, a nazismo finito – come i simpaticoni odierni, coccolati antifascisti in assenza di fascismo -, bensì quando Hitler era ancora saldamente al potere. Tanto che nel giugno del 1943 sarà nientemeno che il New York Times a definire il vescovo di Münster «l’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista».


    Da parte sua, sia chiaro, il regime non è che stesse a guardare. Tutt’altro: pur senza nominarlo in modo esplicito, a pronunciare minacciosi ammonimenti contro von Galen fu nientemeno che Goebbels in persona, e vi furono centinaia di arresti tra chi diffondeva i suoi sermoni. Ciò nonostante, il «Leone» non smise mai di ruggire, prendendosela in generale con l’ideologia nazista e, in particolare, con l’eutanasia che i seguaci di Hitler attuavano sui portatori di handicap. Memorabile, al riguardo, un’omelia di von Galen dell’agosto 1941.


    «Se anche per un’unica volta accettiamo il principio del diritto a uccidere i nostri fratelli», tuonò, «allora in linea di principio l’omicidio diventa ammissibile per tutti gli esseri improduttivi, i malati incurabili, coloro che sono stati resi invalidi, e noi stessi, quando diventiamo vecchi. Chi potrà ancora avere fiducia nel suo medico? Potrà condannarlo a morte». Parole durissime, che di questi tempi genererebbero un certo imbarazzo financo in casa cattolica dove, specie sui temi etici, pare prevalere un approccio accomodante.


    La sensazione, infatti, è che pur di non apparire «divisivi» – come se Gesù fosse un simpaticone che metteva tutti d’accordo – sulle questioni bioetiche abbia ultimamente la meglio una linea soft, ma così soft che sfiora l’irrilevanza. Ecco perché merita di essere riscoperta la figura del beato von Galen, uno che fuori dalla porta aveva Hitler in persona, non i radicali o qualche giornalista di Repubblica pronto a tendere un trappolone; eppure non si risparmiava nel proclamare, sull’uomo, la verità tutta intera. Avercene ancora, di «Leoni» così.

    Fonte: giuliano guzzo.com






    lunedì 22 marzo 2021

    San Longino, il soldato che squarciò il Sacro Cuore








    di Giuliano Zoroddu

    15 Marzo 2021 | AgiografiaLiturgiaStoria del Cristianesimo

    L’Apostolo san Giovanni nel descrivere nel suo Vangelo la morte di Gesù riferisce: “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua” (XIX, 34).Versetto di fondamentale importanza per la valenza mistica dello squarciamento del Sacro Cuore e della effusione di sangue ed acqua che ne seguì.

    Come si legge il testimone oculare però non riporta il nome di questo efferato miles della legio X Fretensis: a nominarlo ci penserà la Tradizione dei Padri. Secondo questi, san Gregorio Nisseno (335-395) primo fra tutti, seguiti poi dai martirologi, dai menologi e sfruttati da quei testi fantasiosi che sono i vangeli apocrifi, il soldato si chiamava Longino ed era cappadoce.

    Tra i soldati di Ponzio Pilato fu lui ad accertare la morte del Nazareno col colpo di lancia; lui a compiere la profezie di Zaccaria “Volgeranno lo sguardo a colui che han trafitto”; lui a far sgorgare dal costato del Redentore il sangue e l’acqua simboleggianti rispettivamente il Sacramento dell’Eucaristia e quello del Battesimo.

    E ne ebbe in contraccambio da un lato la guarigione della cecità di un occhio e dall’altro, ben più importante, il dono della fede. Illuminato nel corpo e nello spirito, abbandonò la milizia e, istruito dagli Apostoli nella dottrina della fede, se ne tornò nella natia Cesarea di Cappadocia.
    Qui introdusse la religione di quel Gesù che aveva visto spirare e che poi era risorto al terzo giorno, coronando poi l’apostolato con un glorioso martirio.

    Le varie tradizioni concordano nel dirlo decapitato, ma discordano su chi lo fece decapitare. Secondo alcuni fu fatto uccidere dal governatore di quella provincia; secondo altri fu il suo antico superiore, Ponzio Pilato, che sobillato dagli Ebrei lo fece raggiungere da due sicari perché gli portassero la testa, la quale gettata fra le immondizie fu miracolosamente recuperata da una vedova.

    Mantova lo venera come suo primo predicatore della fede e gli attribuisce il titolo di “protomartire d’Italia”, avendole lasciato in eredità anche alcune reliquie del Preziosissimo Sangue di Gesù.
    Roma è però quella che si attribuisce il possesso delle sue reliquie: gran parte del corpo si dice essere conservata nella chiesa di Sant’Agostino; altre reliquie sono possedute dalle chiese di san Marcello, dei santi Sergio e Bacco e di san Giovanni dei Fiorentini.

    La reliquia di un braccio è tradizione che faccia parte del tesoro della Basilica Vaticana. E proprio in questo tempio massimo, Urbano VIII per mezzo dell’opera superba del Bernini eresse al santo miles un insigne monumento: la statua di marmo posta in uno dei pilastri che reggono la cupola. Longino con la lancia in mano, la stessa lancia conservata nella cappella soprastante, è sconvolto quasi da un turbine di vento.

    Il vento del virtuosismo barocco che traduce da un lato lo sconvolgimento che interessò la balza del Golgota al momento della morte dell’Uomo-Dio; lo sconvolgimento interno di un uomo che, investito dall’onda del sangue divino, da carnefice barbaro e cieco diventa l’illuminato discepolo del Crocifisso, che sigillerà col suo proprio sangue la sacra missione di svelare la verità della fede e della salvezza ai pagani giacenti nel buio della morte.

    La festa di san Longino, soldato e martire, è celebrata in diversi giorni dell’anno a seconda dei riti; la Chiesa Latina e il Martirologio Romano lo ricordano il 15 marzo

    “Signore Gesù Cristo, tu che hai detto “Se sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”: concedici, per l’intercessione di San Longino Martire, di sperimentare sempre la tua misericordiosa pietà verso di noi. Tu che sei Dio, e vivi e regni con Dio Padre, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen”
    (Preghiera dal Proprium Missarum del Patriarcato Latino di Gerusalemme)


    Immagine : Gian Lorenzo Bernini, San Longino, 1628-1638, Basilica di san Pietro in Vaticano, Roma / wikimedia.org










    domenica 21 marzo 2021

    Tempo di Passione: dalla velatura delle immagini alla svelata pasquale. Teologia e tradizione di un rito antico





     



    23 marzo 2012

    Pubblichiamo un accurato studio sulle origini e sul significato teologico e spirituale di un rito antichissimo, che caratterizza le ultime due settimane di Quaresima, dette “Tempo di Passione”.




    di Alessandro Scaccianoce

    Con la quinta domenica di Quaresima si entra nel “Tempo di Passione“, caratterizzato da una marcata attenzione al mistero della Passione e Morte del Signore Gesù.

    In origine limitata alla settimana santa, che si apriva con la Domenica delle Palme, detta appunto “De Passione Domini”, nel tempo la contemplazione della Passione del Signore, culmine della Redenzione e fonte di vitalità spirituale, venne anticipata e celebrata anche nella settimana precedente.

    Questo tempo speciale, che si inserisce nel già propizio tempo di Quaresima, viene sottolineato con alcune specifiche regole cultuali. Tra queste la più caratteristica è la “Velatio”, ovvero la velatura delle croci e delle immagini della chiesa esposte alla venerazione dei fedeli. A norma del Messale tridentino, nel sabato che precede la I domenica di Passione, (quindi il sabato della IV settimana di Quaresima), «finita la Messa e prima dei Vespri si coprono le croci e le immagini della chiesa con veli violacei; le croci restano coperte fino al termine dell’adorazione della croce da parte del celebrante il Venerdì Santo, le immagini fino all’intonazione del Gloria nella Messa della Vigilia Pasquale». In tale periodo solo le immagini della Via Crucis restano senza velo. Il giovedì santo la croce dell’altare maggiore, per il tempo della Messa, si copre con un velo bianco.


    Si tratta di un rito molto antico risalente addirittura al sec. IX, forse un retaggio della separazione dei penitenti pubblici nella chiesa. I penitenti pubblici erano i fedeli che si erano resi colpevoli di gravi peccati dopo il Battesimo. Questi, dopo un periodo di penitenza, nel periodo precedente la Pasqua, venivano riammessi alla comunione la mattina del Giovedì Santo, con un apposito rito. Nel tempo, poi, tutti i cristiani furono assimilati ai penitenti pubblici, nella consapevolezza della necessità per tutti di un tempo di penitenza in preparazione alla Pasqua del Signore. Così cominciò a diffondersi l’abitudine di nascondere ai fedeli l’altare maggiore, per mostrare visivamente gli effetti del peccato, che rompe la comunione con il Signore e ne oscura la visione.

    Da sempre, infatti, la liturgia si esprime in una ricchezza di segni che rendono manifesta la realtà dei Misteri celebrati sull’altare. Salvo qualche tentazione iconoclasta, che periodicamente riemerge nella storia della Chiesa.

    Il Concilio di Trento, riferendosi in particolare alla S. Messa, motiva questa consuetudine ricordando che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti […] per introdurre i fedeli con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo Sacrificio» (DS 1746).

    E così, come per la liturgia è importante la presenza dell’immagine, altrettanto rilevante è la sua assenza. Il nascondimento dei Santi e di Cristo stesso aiuta ad alimentare l’attesa del giorno di Pasqua, giorno in cui quei volti si offrono nuovamente al nostro sguardo.



    Al di là della sua origine, il rito della “Velatio” conserva ancora oggi un profondo significato e una intensa capacità catechetica ed emotiva: nascondere alla vista le immagini dei Santi aiuta a concentrarsi su Colui che è l’origine di ogni santità. Egli è colui che rende accessibile il cielo agli uomini. Senza di lui la nostra vita non avrebbe più una dimensione trascendente, sarebbe un vagare nelle tenebre del peccato e “nell’ombra della morte”. La velatura delle croci sottolinea anche fisicamente la privazione di Cristo, il “venir meno dello sposo”: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi” dice il profeta Isaia (53,8).


    Quei veli che nascondono il Cristo alla nostra vista stanno a ricordare che quell’evento riaccade ancora oggi. Che anche noi siamo “tra gli uccisori di Cristo”, tra quelli che lo volevano gettare dal precipizio della città di Nazaret, o lapidarlo nel tempio di Gerusalemme. Si tratta, dunque, di un segno efficace che aiuta a meditare, riflettere e pregare sulla tragicità della condizione umana senza la presenza del Dio redentore.


    Si capisce, allora, che nella I Domenica di Passione – secondo il calendario tridentino – venga proclamato il Vangelo di Giovanni che fa esplicito riferimento al nascondimento di Gesù di fronte ai suoi nemici: “Iesus autem abscondit se et exivit de templo” (Gesù si nascose e uscì dal tempio, Gv 8,59). Sembrerebbe che, in passato, la velatura del Crocifisso avvenisse proprio mentre il Diacono cantava questo versetto.

    Nella sua ricchezza di significati il segno della “Velatio” rimanda anche alla velatura della Divinità di Nostro Signore, che possiamo illustrare con queste splendide parole di Sant’Agostino sulla passione del Signore: “Dio era nascosto; si vedeva la debolezza, la maestà era nascosta; si vedeva la carne, il Verbo era nascosto. Pativa la carne; dov’era il Verbo, quando la carne pativa? Eppure neanche il Verbo taceva, perché c’insegnava la pazienza”. La gloria di Cristo, dunque, è eclissata sotto le ignominie della Passione.

    Lo scenario delle nostre chiese, con immagini, dipinti e simulacri velati, ci ripropone l’esperienza del “Deus absconditus” (Dio nascosto), su cui molta teologia ha scritto. In tale contesto, Dio va cercato nel proprio cuore, è lì che deve risorgere. Risulta particolarmente efficace al riguardo questa citazione di B. Pascal: “Gli uomini sono nelle tenebre e nella lontananza da Dio, che è nascosto alla loro coscienza. Egli non sarà colto che da quelli che lo cercano anzitutto nel cuore”. Questi sentimenti sono particolarmente accentuati alla sera del Giovedì Santo, in cui si fa memoria del “rapimento di Gesù” da parte delle guardie del tempio. Da quel momento egli è in balìa della loro ferocia. “E’ l’impero delle tenebre” (Lc 22,4), come afferma Gesù stesso.


    Questa atmosfera in antico culminava nel caratteristico “Ufficio delle tenebre”, ovvero nella celebrazione del mattutino e delle lodi del Giovedì, del Venerdì e del Sabato Santo.
    Ad ogni salmo veniva spento uno dei 15 ceri posti su un apposito candeliere (la “Saetta o Tenebrarium”) a forma di triangolo. Tutta la chiesa veniva così gradualmente immersa nel buio. Rimaneva accesa la candela più alta (simbolo della fede di Maria, che è rimasta viva anche nel silenzio della morte di Cristo).

    Dopo la riforma liturgica la pratica della “Velatio”, è stata pressoché universalmente abbandonata, sulla scorta di un malinteso “spirito conciliare”. In realtà, questo rito, di cui abbiamo cercato di spiegare la profondità e la ricchezza, conserva tutta la sua attualità. Si rese necessario, pertanto, un intervento chiarificatore della Congregazione per il Culto Divino circa l’opportunità di conservare o recuperare questa usanza, come indicato nella lettera circolare Paschalis sollemnitatis del 16 gennaio 1988:
     

    «L’uso di coprire le croci e le immagini nella chiesa dalla domenica V di Quaresima può essere utilmente conservato secondo il giudizio della conferenza episcopale. Le croci rimangono coperte fino al termine della celebrazione della passione del Signore il Venerdì Santo; le immagini fino all’inizio della Veglia Pasquale» ( n. 26). La Conferenza Episcopale Italiana, dal canto suo, ha sempre fatto rinvio agli usi locali.

    La stessa circolare specifica nel capitolo IV a proposito della Messa Vespertina del Giovedì Santo nella Cena del Signore: “Terminata la Messa [in Cena Domini] viene spogliato l’Altare della Celebrazione. E’ bene coprire le Croci della Chiesa con un velo di colore rosso o violaceo, a meno che non siano state già coperte il sabato prima della Domenica V di Quaresima. Non possono accendersi le luci davanti alle Immagini dei Santi”.

    Nel rito ambrosiano tale pratica è estesa addirittura a tutta la Quaresima, in cui la forte meditazione sulla passione del Signore è sottolineata dai venerdì a-liturgici, in cui cioè non si celebra l’Eucaristia, e dall’uso del colore nero per tutte le ferie del tempo. A norma del Sinodo XLI n° 513 “nel pomeriggio del sabato precedente la prima Domenica di Quaresima nelle Chiese ed Oratori si devono coprire tutte le immagini sacre, siano dipinte o siano scolpite, che sono poste in venerazione, non quelle di ornamento”.

    Significativa, poi, è la svelatura delle immagini, che – come abbiamo visto – avviene in due momenti diversi: il Venerdì Santo viene scoperto il crocifisso, mentre tutte le altre immagini al gloria del Sabato Santo. Dopo il tempo in cui Cristo è stato sottratto ai nostri sguardi, ci viene restituito innanzitutto nell’immagine del “trafitto”. E’ questa la prima immagine che ci consegna la passione del Signore: un cuore aperto, donato fino all’ultima goccia di sangue e acqua. “Velum templi scissum est”, dicono i Vangeli. Quel velo che separava il Sancta Sanctorum (ovvero la parte più sacra del tempio di Gerusalemme) dal resto del Tempio, in cui poteva accedere (una volta all’anno) il Sommo

    Sacerdote, viene lacerato alla morte di Cristo. In quel momento si “ri-vela” universalmente l’intima natura di Dio stesso nel cuore trafitto di Cristo. Il significato di questo velo è, come è stato ben scritto da autorevoli commentatori ed esegeti, che gli uomini sono separati da Dio a causa del peccato. La lacerazione del velo del Tempio, pertanto, sta a significare l’unione della terra con il cielo, rendendone l’accesso aperto ad ogni uomo. Ed ecco che la sapienza della Chiesa offre tutto questo alla nostra contemplazione attraverso il rito dell’adorazione della Croce che – secondo la forma più antica – viene svelata solennemente di fronte ai fedeli. In questo giorno si rendono evidenti le parole di Gesù: “Questa generazione cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona” (Lc 11,29).

    A questa prima “ri-velazione” del Venerdì Santo, fa seguito, nella Veglia Pasquale, la definitiva liberazione delle immagini di tutti i Santi. Il Cristo risorto, infatti, associa alla sua gloria quanti lo hanno seguito da vicino, testimoni della Sua redenzione. Penso all’efficace iconografia bizantina che raffigura la risurrezione di Cristo nell’atto di trarre dagli inferi Adamo ed Eva. Si capisce, allora, che le immagini dei Santi vengano svelate dopo che è stato dato l’annuncio della risurrezione di Cristo, al canto del “Gloria in esxcelsis”: “In lui risorto, tutta la vita risorge”, canta il Prefazio di Pasqua.

    In Sicilia, tale prassi è molto ben documentata. Alla velatura delle immagini, infatti, la I Domenica di Passione, corrisponde lo svelamento dell’altare maggiore che ha luogo alla vigilia di Pasqua. Al canto del gloria, mentre si sciolgono le campane, il lungo telone scuro (vi sono esemplari alti anche più di dieci metri) che ha nascosto il presbiterio nelle due settimane precedenti, viene lasciato precipitare giù, restituendo ai fedeli l’altare maggiore con il simulacro del Cristo risorto in bella vista: “a calata ’a tila” (calata della tela). Tale rito si è conservato anche quando il rito liturgico è stato spostato dal mezzogiorno alla notte del Sabato Santo. A questo momento, detto anche “a risuscita”, si legavano poi varie tradizioni popolari e contadine: come quella di trarre auspici dal numero di candele che rimanevano accese nonostante il forte spostamento d’aria generato dal repentino precipitare giù del telo. Questa tradizione si conserva tutt’oggi in molti centri della Sicilia (da Adrano e Belpasso a Nicolosi, da San Giovanni la Punta a Catenanuova, da Comiso a Petralia Sottana, fino alla chiesa di San Domenico a Palermo).

    Anche a Biancavilla la “Velatio” è attestata, come dimostrano, se non altro, molti teli violacei conservati nei più remoti angoli delle sacrestie delle chiese più antiche. Nella Chiesa Madre, inoltre, vi era un grandissimo telone, di circa 10 metri di altezza per 6 metri di larghezza, riproducente la scena della deposizione del Signore dalla croce, che ricopriva tutta l’area presbiterale durante il tempo di Passsione. Questa “tela”, probabilmente settecentesca (come le tele superstiti di alcuni paesi vicini), nel tempo andò deteriorandosi, fino ad essere ripartita intorno agli anni 60 in piccole parti e divisa tra alcuni fedeli che ne fecero gli usi più vari (qualcuno anche per raccogliere le olive!). Circa dieci anni fa, per iniziativa di alcuni giovani, tale usanza è stata ripristinata, con una nuova tela realizzata ex novo dal M° Giuseppe Santangelo, che ne ha fatto anche un bellissimo esemplare per la chiesa dell’Annunziata. Tuttavia, la tela non viene utilizzata tutti gli anni e l’incontro degli occhi con il Signore Risorto è affidato ad altre soluzioni.

    Il telo che nella notte del Sabato Santo precipita rovinosamente ha un definitivo significato escatologico: esso sta ad indicare che al nostro orizzonte è restituita la visione dell’al di là. Possiamo guardare con fiducia oltre la morte, poiché il Vivente sta lì, “primogenito di molti fratelli”, ad assicurarci che il nostro destino è il cielo, ovvero la profondità delle cose. Con la sua risurrezione Cristo ha guarito la nostra “cataratta” spirituale. E il segno della tela lo esprime in modo eloquente.

    Alla fine della Veglia Pasquale, quei teli raccattati alla svelta, accantonati in un angolo, ci ricordano la realtà “fisica” della risurrezione. Anche per noi si rende possibile l’esperienza dell’Apostolo Giovanni che “vide i teli per terra” ed entrato, “vide e credette” (Gv 20,13).