Aldo Maria Valli 11-12-18
Torniamo a occuparci del Padre nostro e della nuova traduzione della preghiera insegnata da Gesù.
Dopo l’analisi di monsignor Nicola Bux, pubblicata qualche giorno fa, ospito oggi un intervento del teologo
dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’Abbazia della Madonna della Scala a Noci, docente alla Facoltà teologica della Puglia e al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma. Un intervento che, commentando l’operazione gestita dalla Conferenza episcopale italiana, spiega: «Chiedendo “non ci abbandonare alla tentazione”, Dio appare ora non più come colui che potrebbe “indurre in tentazione”, ma colui che potrebbe tuttavia abbandonarci ad essa. Dunque, l’oscurità o la difficoltà teologica non è sciolta, ma solo spostata».
Più in generale, il «bel risultato» a cui si è approdati, scrive dom Meiattini, è fallimentare sotto tutti i punti di vista: «a) si è scelta una traduzione chiaramente sbagliata sul piano filologico; b) non si è risolto il problema interpretativo e teologico, che rimane tale e quale; c) si è ripiegato sulla semplificazione divulgativa, considerando quest’ultima come l’unico livello di cui tenere conto; d) questa opera di semplificazione non raggiunge però il suo scopo».
«Il dettaglio della nuova traduzione del Pater – spiega l’autore – è rivelativo di un problema molto più largo e profondo. È il problema della “pastorale” eretta a unico ed esclusivo criterio, che non fa più conto, non dico della teologia, ma neppure del testo biblico e, in nome dell’adattamento e della semplificazione, è disposta non a spiegare, bensì a piegare anche la Scrittura, dopo aver già spiegazzato la liturgia».
A.M.V.
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Le tentazioni del Pater e i peccati della pastoraleE così non reciteremo più, o non canteremo più, il Padre nostro – l’oratio dominica, la preghiera del Signore – come prima, almeno in Italia. La Conferenza episcopale italiana “è addivenuta alla conclusione” di cambiare la formulazione della penultima invocazione del Pater nel suo uso liturgico: non si dirà più “non ci indurre in tentazione”, come eravamo abituati, bensì “non ci abbandonare alla tentazione”.
A dire il vero non si tratta di una novità vera e propria. Come si sa, questa soluzione era stata adottata già nella nuova versione ufficiale della Bibbia approvata dalla Cei e pubblicata nel 2008 e così, da diversi anni, quando nella Santa Messa veniva letto il brano evangelico contenente il Padre nostro, ascoltavamo questa traduzione. Dunque, era assai probabile che anche nella nuova edizione italiana del Messale Romano, in gestazione da molti anni, si accettasse questa correzione del Pater.
Viene da domandarsi: perché mai proprio ora le obiezioni e le reazioni di vario tipo a questa traduzione si sono fatte più insistenti, e non quando è uscito il nuovo lezionario? Il motivo penso sia facilmente comprensibile: ora non si tratterà più di ascoltare dalla voce del sacerdote o del diacono, poche volte in un anno, quelle parole della preghiera del Signore: “non ci abbandonare alla tentazione”. D’ora in poi, ad ogni Santa Messa feriale e domenicale e, per estensione e uniformità, alle Lodi e ai Vespri di ogni giorno (almeno per coloro che li celebrano), come in ogni circostanza nella quale dei fedeli riuniti insieme reciteranno il Padre nostro, saranno queste le parole che pronunzieremo abitualmente e memorizzeremo. Prima era cambiata la traduzione, ora cambia il nostro modo di pregare. E’ evidente che la questione tocca tutti più da vicino.
Anche se tanto è stato detto, vogliamo provare anche noi a fare qualche considerazione in proposito, perché pur trattandosi di un dettaglio, per quanto non proprio marginale, esso è rivelativo di questioni molto più ampie e profonde, che ormai saltano fuori da ogni parte, persino nella traduzione di un mezzo versetto evangelico come questo.
Niente di nuovo sotto il sole
Innanzitutto è importante rendersi conto che la frase in questione ha costituito da sempre un punto difficile da spiegare, perché è collegata ad alcuni aspetti non semplici circa il rapporto fra bontà divina, tentazione diabolica e permissione del male. La traduzione consueta a cui siamo abituati, infatti, sembra suggerire che Dio sia quasi il responsabile delle nostre tentazioni. Se dobbiamo pregare che Dio non ci induca in tentazione, c’è il pericolo di pensare che egli non sia davvero buono! Il verbo italiano “indurre” contiene in effetti diverse sfumature. Quella forse più comune, nella parlata corrente, suggerisce l’atto del sollecitare, dello spingere, quasi dell’incitare: come quando si dice che qualcuno è stato indotto a un certo comportamento o a una qualche azione. Ed è soprattutto questa sfumatura che, nel contesto del Padre Nostro, è avvertita come problematica. Come si può pensare che Dio induca (spinga, solleciti) in tentazione? La stessa traduzione latina della Vulgata, ne nos inducas in tentationem, conservatasi nei secoli, anche se in modo meno diretto, presenta in fondo lo stesso problema: quello di un Dio che potrebbe anche “condurre” o “portare” l’uomo in una situazione di prova/tentazione (peira/peirasmos). Ma si deve pur riconoscere (dizionari alla mano) che il verbo italiano include ancora il significato di “condurre in un luogo” o “recare”, derivante dall’inducere latino, il quale, usato nel Pater dalla Vulgata, è perfettamente aderente e corrispondente all’originale greco eisenenkes, da eis-ferein, che significa letteralmente “portare/condurre dentro” o anche “intro-durre”. Non sarebbe stato più semplice ricordare questa etimologia del verbo?
Dunque, la difficoltà di questa frase del Padre nostro, non sta nelle traduzioni, latina, italiana o inglese che siano, ma è insita proprio nel testo originale riportato dai vangeli. Lo si può constatare facilmente, aprendo un qualunque buon commentario al vangelo di Matteo o di Luca, che ci riportano il testo del Paterin due forme un po’ diverse: al versetto corrispondente, che è identico sia nel vangelo di Luca sia in quello di Matteo, ci si imbatte immancabilmente in analisi più o meno lunghe e complicate, dedicate alla spiegazione e interpretazione del vero senso, o presunto tale, della difficile espressione: “non ci portare/condurre nella tentazione”. Se, evidentemente, non è Dio a tentare al male, poiché egli vuole solo il bene, allora perché rivolgersi a lui con una simile richiesta?
In questi commentari, però, si troverà anche scritto che la parola greca che noi traduciamo senza problema con “tentazione” (peirasmos) può anche significare semplicemente “prova”. E in effetti, non si capisce perché tutta l’attenzione si sia recentemente concentrata sul verbo “indurre” e non sul sostantivo “tentazione”. La traduzione “non ci condurre nella prova”, sarebbe altrettanto accettabile. Infatti, il latino tentatio/tentare, indica indifferentemente (come il greco peirasmos/peirazein) sia la prova (sofferenza) in generale sia quella prova specifica che è l’essere tentati al male dal diavolo. Per secoli nella Bibbia latina si è letto, senza scandalizzarsi: “Deus tentavit Abraham” (“Dio mise alla prova Abramo”: Gen 22,1) oppure “Hoc autem (Iesus) dicebat tentans eum” (Gesù diceva questo – a Filippo – per metterlo alla prova”: Gv 6,6).
A riprova di quanto detto, basti considerare che di Gesù si dice che “fu condotto (anechthe) dallo Spirito nel deserto per essere tentato/provato da Satana” (Mt 4,1). Frase sconcertante, a prima vista, ma che nessuno si sognerebbe di tradurre diversamente, solo perché lascia intendere che il Padre, per mezzo dello Spirito, ha consegnato Gesù alla prova e alla tentazione, esponendolo a Satana. Se poi ci addentriamo nella tradizione spirituale cristiana, ci possiamo imbattere in affermazioni non semplicissime da comprendere, come questa, risalente a Sant’Antonio abate: “Togli le tentazioni, e nessuno si salverebbe”. La tentazione (o la prova) viene presentata come una fase necessaria sulla via della salvezza, dunque come qualcosa di cui dovremmo persino ringraziare Dio, come in effetti i santi hanno fatto e fanno. E infatti la Bibbia ci presenta le prove come parte della pedagogia divina.
Quello che insomma dobbiamo capire, è che le difficoltà di questo versetto del Padre nostro non sono per nulla nuove e che già gli antichi commentatori si erano cimentati nello spiegarle. Ma di oscurità la Bibbia è piena. E i più grandi Padri non solo non l’hanno negato, ma hanno considerato le oscurità delle pagine bibliche non qualcosa da evitare o ridurre attraverso semplificazioni, ma come un segno della trascendenza di Dio e del suo mistero. Esse fanno parte delle “prove” che accompagnano il cammino verso Dio.
La vera novità
Ma se le difficoltà intrinseche a questa frase del Padre nostro nell’originale greco non sono una novità, qual è allora la novità nell’attuale discussione intorno alla nuova versione? Cosa c’è di veramente nuovo nella scelta di tradurre: “non ci abbandonare alla tentazione”? La novità, se ci è permesso dire quello che pensiamo, è l’atteggiamento disinvolto e superficiale con cui la questione è stata trattata, confondendo in modo grossolano il livello della traduzione, quello dell’interpretazione e, infine, l’altro, ancora distinto, della spiegazione destinata ai fedeli (la catechesi). Si tratta di livelli collegati, ma da mantenere distinti, se non vogliamo rischiare di far dire alla Sacra Scrittura quello che vogliamo farle dire noi, invece di metterci in “religioso ascolto della Parola di Dio” (Dei verbum, 1). La traduzione ha il compito di discostarsi il meno possibile dal testo originale, sforzandosi di trasferire i significati della lingua di partenza nelle parole e nella grammatica di quella di destinazione. Uno scarto è inevitabile, in questa operazione, ma esso dev’essere il più contenuto e controllato possibile. Altro il compito dell’esegesi e dell’interpretazione, che devono cercare di illustrare il vero senso del testo a livello filologico o la sua portata per l’oggi, sciogliendo (anche qui nel limite del possibile) le varie difficoltà, sviscerare gli eventuali temi o problemi teologici connessi e via dicendo. Se il testo fosse, per vari motivi, ostico alla comprensione, l’interpretazione degli esperti potrebbe prolungarsi in un’opera di spiegazione divulgativa per i non addetti ai lavori, cosa che spetterebbe soprattutto ai catechisti e ai predicatori. In quest’ultimo passaggio si dovrà spesso accettare un certo livello di semplificazione.
Sotto questa luce, la nuova traduzione del versetto del Padre nostro – “e non ci abbandonare alla tentazione” – ignorando che questi livelli restano e devono restare distinti, anche se in certa misura intrecciati, si è appiattita al livello della divulgazione (detto altrimenti, della “pastorale”), facendo finta che i problemi della traduzione e le diverse difficoltà interpretative che testo e traduzioni contengono, siano soddisfatte e risolte con questa semplice formuletta di facile consumo. Ma c’è almeno davvero riuscita?
Purtroppo no! Non solo il testo in tal modo è tradotto in modo sbagliato, usando il verbo “abbandonare” per tradurre eisenenkai, che come si è detto significa “condurre/portare dentro”; non solo si è usato un verbo statico (abbandonare) al posto di un verbo che indica moto in luogo (portare dentro), ma si è data direttamente un’interpretazione semplificatoria in luogo di una traduzione fedele, semplificazione che in realtà suscita altrettanti problemi.
Il semplicismo pastorale non semplifica
Chiedendo “non ci abbandonare alla tentazione”, Dio appare ora non più come colui che potrebbe “indurre in tentazione”, ma colui che potrebbe tuttavia abbandonarci ad essa. Dunque, l’oscurità o la difficoltà teologica non è sciolta, ma solo spostata. Anzi, forse acutizzata, se pensiamo che il mistero più abissale della nostra fede è quella croce dalla quale Gesù ha pregato dicendo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. C’è uno skandalon più grande? Un Dio che abbandona il Figlio e può abbandonare noi alla tentazione diabolica o alla prova non è meno misterioso di un Dio che “conduce nella tentazione” o che “conduce” il Figlio nel deserto per esservi tentato dal diavolo. Anche il tema dell’abbandono ha dunque bisogno di essere spiegato e provoca altrettante domande e perplessità.
Ecco allora il bel risultato a cui si è approdati: a) si è scelta una traduzione chiaramente sbagliata sul piano filologico; b) non si è risolto il problema interpretativo e teologico, che rimane tale e quale; c) si è ripiegato sulla semplificazione divulgativa, considerando quest’ultima come l’unico livello di cui tenere conto; d) questa opera di semplificazione non raggiunge però il suo scopo.
E’ qui che affiora e viene in piena luce quello che dicevamo all’inizio. Il dettaglio della nuova traduzione del Pater è rivelativo di un problema molto più largo e profondo. E’ il problema della “pastorale” eretta a unico ed esclusivo criterio, che non fa più conto, non dico della teologia, ma neppure del testo biblico e, in nome dell’adattamento e della semplificazione, è disposta non a spiegare, bensì a piegare anche la Scrittura, dopo aver già spiegazzato la liturgia. Insomma, “la pastorale colpisce ancora” e sacrifica sull’altare della fruizione immediata la verità della filologia, glissa sul livello teologico, e presume, con non poca ignoranza, di ritenersi come la soluzione, il rischiaramento (Aufklärung) di ogni oscurità o antropomorfismo mitico. Senza neppure accorgersi che così facendo non ottiene neppure il risultato che aveva sperato. Ironia della sorte! Come in nome del pastoralismo (ben diverso dalla pastorale vera) si è immiserita o banalizzata la liturgia, così adesso si è proceduto nei confronti della Sacra Scrittura. L’esclusione dei cosiddetti salmi imprecatori, o delle sezioni imprecatorie dei salmi, dalla nuova Liturgia Romana delle Ore, è stato uno dei primi capitoli di questa forzata riduzione della Scrittura alle limitate capacità della illuministica o post-illuministica ragione occidentale, in piena crisi. Ora, la nuova traduzione del Padre nostro non fa che continuare su questa linea, cioè la linea di una profonda incomprensione del rapporto fra verità e metodi pastorali, che resta il nodo irrisolto lasciatoci in eredità dall’ultimo Concilio.
L’episodio, apparentemente marginale, della traduzione di una frase del Pater, in realtà è una prova in più del semplicismo con cui sempre più spesso siamo soliti trattare il mistero di Dio, che resta sempre o dovrebbe restare – nelle parole delle Scritture come nella Liturgia – colui che, pur nella somiglianza con l’uomo, mantiene una più grande dissomiglianza (maior dissimilitudo), secondo quel principio dell’analogia che è uno dei caratteri distintivi di ogni approccio al mistero ri-velato, nonché del cattolicesimo. Potrebbe apparire esagerata tutta questa discussione sulla traduzione di un mezzo versetto, se la scelta fatta non mostrasse, ancora una volta, che il piano inclinato della pastorale del ribasso o del ribasso della pastorale continua ad avere la meglio. Si continua ad umanizzare Dio, ma si dimentica che la maior dissimilitudo attende la trasformazione dell’uomo in Dio.
In realtà la Bibbia è costellata di innumerevoli passi oscuri. Qualcuno mi può spiegare cosa può pensare un qualunque fedele, ascoltando la finale della parabola dei talenti? “A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Che razza di giustizia è questa, si potrebbe domandare chi va a Messa, ascoltando queste parole? Di questi passi se ne potrebbero enumerare molti. Dovremmo forse, invece di tradurre, trasformare Bibbia e Lezionario in una parafrasi della Parola divina ad usum delphini?
A sottolineare ancora di più la paradossalità dell’operazione, va ricordato che l’oratio dominica contiene altri punti enigmatici. Un esempio per tutti: cosa significa “sia santificato il tuo nome”? Forse il nome di Dio non è abbastanza santo o ha bisogno di un incremento di santità? Che idea si fa la gente sentendo risuonare questa espressione? Dovremmo per caso usare altre “traduzioni divulgative” per questa invocazione? Ma dovrebbero essere gli omileti, non i traduttori, a illuminare i fedeli in proposito, spiegando il senso di queste parole, perché il Padre nostro dice proprio così: “sia santificato il tuo nome”, anche se il Nome di Dio, cioè Dio stesso, è già perfettamente santo. Peccato, dunque, che non si sappia più apprezzare e rispettare quella dimensione di eccedenza, di mistero, di incomprensibilità con la quale Dio ci si presenta nella Bibbia e nel mistero di Gesù. Perché questo alla fine si riflette sul nostro modo di comportarci con Lui: con faciloneria, invece che con fiducia, con cameratismo, invece che con amicizia, manipolando, invece che adorandolo.
Una piccola nota erudita, per finire: non è proprio questo abbassamento di toni, questa semplificazione pastoralista, una versione di bassa lega di quella onto-teo-logia che dopo Heidegger tanti teologi hanno criticato a iosa, pensando alla neo-scolastica, senza accorgersi che loro stessi, col loro “paradigma pastorale”, cadevano proprio in quella Vorhandenheit (lo stare a portata di mano, la manipolabilità, insomma) del mistero dell’Essere da cui proprio Heidegger metteva in guardia?
Forse non ha tutti i torti chi suggerisce di riprendere a cantare il Pater in latino: et ne nos inducas in tentationem! In effetti la tentazione c’è, e non è detto che in questo caso sia da respingere.
Dom Giulio Meiattini, osb