Giovanni Scalese, 23 agosto 2018
È apparso ieri sul Foglio un interessante articolo del Prof. Pier Paolo Tamburelli sul crollo del viadotto Polcévera, dal titolo “Quel ponte era bello”.
Si potrebbe dissentire su varie affermazioni fatte da Tamburelli, a cominciare dal titolo: che il Ponte Morandi fosse bello è tutto da dimostrare. Ma evidentemente i canoni della bellezza variano da persona a persona. Ciò su cui non si può in alcun modo essere d’accordo è la tesi di fondo dell’articolo, espressa in questo passaggio:
Si potrebbe dissentire su varie affermazioni fatte da Tamburelli, a cominciare dal titolo: che il Ponte Morandi fosse bello è tutto da dimostrare. Ma evidentemente i canoni della bellezza variano da persona a persona. Ciò su cui non si può in alcun modo essere d’accordo è la tesi di fondo dell’articolo, espressa in questo passaggio:
Se i ponti crollano, la colpa non è dell’ambizione dei tecnici di cinquant’anni fa, ma della mancanza di coraggio e di responsabilità dei tecnici di oggi. Non era il progetto di Morandi a essere sbagliato, è che nessuno si è preso la responsabilità di dire che dopo cinquant’anni era il caso di demolirlo.
Eh no, caro Professore, non è vero che il progetto di Morandi non era sbagliato: a prescindere dalle responsabilità che possono avere i tecnici d’oggi, se un ingegnere cinquant’anni fa progettò un ponte che è durato solo cinquant’anni, significa che il suo progetto era sbagliato. Se i ponti crollano, la colpa è innanzi tutto dell’ambizione dei tecnici di cinquant’anni fa che, ignorando la perizia di chi li aveva preceduti, si avventurarono in sentieri sconosciuti. Non bastano i “sogni di bellezza” per fare un ingegnere.
Qualcuno in questi giorni ha cercato di giustificare l’Ing. Morandi affermando che quel progetto fu fatto in base alle conoscenze che si avevano allora e che non è giusto giudicarlo a partire dalle nostre conoscenze attuali. Sembrerebbe che solo negli ultimi cinquant’anni abbiamo imparato a costruire ponti che stiano in piedi; in realtà è da secoli che si hanno le conoscenze per costruire ponti che durino piú di cinquant’anni.
Il problema è che in quegli anni (siamo negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento) si era convinti di poter reinventare il mondo; l’esperienza che l’umanità aveva accumulato nel corso dei secoli e dei millenni veniva guardata con sufficienza, se non considerata un’anticaglia del passato; si pensava che non ci fossero limiti alle possibilità dell’uomo; sembrava che la scienza e la tecnica gli permettessero di fare qualsiasi cosa; si era convinti che il cemento armato sarebbe durato in eterno. Non è fuori luogo parlare di vero e proprio delirio di onnipotenza (gli antichi greci avrebbero detto hybris).
A parte il disaccordo di fondo, trovo interessante l’articolo di Tamburelli perché vede nel viadotto Polcévera un simbolo:
Di questo complesso, e per niente scontato, progetto di modernità italiano il ponte di Morandi… era un simbolo.
Ovviamente, anche il crollo di quel viadotto non può che assumere un valore simbolico:
Se crolla un ponte di Morandi, a essere chiamata in causa è tutta la cultura architettonica e ingegneristica italiana dell’ultimo secolo.
Se crolla un ponte di Morandi, a essere chiamata in causa è tutta la cultura architettonica e ingegneristica italiana dell’ultimo secolo.
Esattamente di questo si tratta: il crollo di quel ponte segna la fine della modernità, con la sua presunzione di inventare qualcosa di nuovo, senza tener conto dell’esperienza del passato. Il crollo di quel ponte dimostra che il progetto della modernità — della modernità che si presentava in opposizione e come alternativa al passato — era sbagliato. Il cemento armato che si sbriciola, lasciando scoperto il ferro arrugginito che lo sosteneva, è una metafora della modernità che, sbriciolandosi, lascia intravvedere le ideologie, ormai arrugginite, che l’hanno ispirata.
L’infatuazione degli anni Cinquanta-Sessanta era diffusa ovunque, non solo nella società civile, ma anche nella Chiesa. I sintomi erano gli stessi: l’esperienza del passato considerata come superata; la convinzione che si potesse (e si dovesse) “reinventare” il cristianesimo; l’illusione che non ci fossero limiti alla fantasia... La Chiesa, dopo una prima reazione di totale chiusura, si decise a fare un discernimento (attraverso il Concilio Vaticano II e i successivi pontificati), per valorizzare ciò che di positivo poteva esserci nella modernità e per respingere i suoi pericoli; tenne duro a lungo su questa posizione equilibrata (di puro buon senso, se giudicata con distacco, ma considerata retrograda dai paladini della modernità) fino a quando non ha pensato bene, negli anni recenti, di deporre le armi e rincorrere quella modernità che stava ormai venendo giú a pezzi. Speriamo che il crollo del ponte di Morandi faccia capire agli ultimi mohicani della modernità che non tutto ciò che è nuovo, per il semplice fatto che è nuovo, è anche buono.
Q
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