martedì 9 gennaio 2018

Frutti della grazia del motu proprio Summorum Pontificum per la vita monastica e la vita sacerdotale / terza parte






da romualdica.blogspot.it/2018/01/08

I gesti


Mentre abbiamo sottolineato l’aspetto contemplativo della forma extraordinaria, può sembrare paradossale soffermarci ora al posto del corpo, sollecitato da un gran numero di gesti: genuflessioni, riverenze, segni di croce. La liturgia è un’azione!

Osserviamo che la giornata monastica associa anch’essa ampiamente il corpo alla preghiera, in una liturgia che si estende dal mattino alla sera.

Il mondo, peraltro così attivo, si è accomodato a uno svilimento del gesto, accentuato dai mezzi moderni di comunicazione. In maniera paradossale, l’uomo moderno si muove, è più attivo, ma svolge meno gesti. La riforma liturgica aveva in un certo senso anticipato questo fenomeno della società. Al contrario, come non notare l’importanza che il Signore dà ai gesti, sia nei suoi miracoli sia nei suoi rapporti con il prossimo (“Chi mi ha toccato?”, dice a riguardo della donna che aveva perdite di sangue, Lc 8,45). La fede del sacerdote, quella dei fedeli, guadagnano alla presenza dei segni sensibili, compiuti in verità, al fine di essere stimolati, attenti, presenti (cfr. san Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, IIIa Q.85, a.3).

A partire dalla consacrazione, i gesti, compiuti attorno alle specie del pane e del vino, imprimono fino nel corpo il richiamo costante della realtà del Calvario rappresentato e reso realmente presente. A condizione di dare a ciascuno di essi, senza affettazione, il peso del significato spirituale che gli conviene, il corpo si associa in maniera intensa allo spirito e all’anima, incarnando la parola, manifestando l’umiltà di colui che è di fronte al mistero di Dio presente. Il timore reverenziale s’installa allora nel cuore, dando all’uomo il suo giusto posto. La messa non è solo una cena, è anche un sacrificio.

Compiuti in maniera negligente, questi stessi gesti accuseranno senza pietà il ministro.
Attraverso la celebrazione della forma extraordinaria, i sacerdoti riscopriranno l’importanza dell’ars celebrandi e sapranno trarne beneficio per una migliore celebrazione nell’una o nell’altra forma. “L’apparente minuzia richiesta dal rito… non spinge il celebrante in una rigida camicia di forza, ben al contrario, il sacerdote si trova in un quadro stabilito che non lascia spazio alle iniziative personali e gli dà quindi una grande libertà di spirito per essere attento al grande mistero che si compie sull’altare e di cui è il ministro e il servitore” (Dom Antoine Forgeot, premessa all’opuscolo di don Pierre-Emmanuel Desaint, Apprendre la célébration de la Messe basse selon le Missel de 1962, Editions Petrus a Stella, Abbaye Notre-Dame de Fontgombault 2009). Di fatto, la forma extraordinaria è più lunga, più esigente da apprendere. In seguito, essa libera il celebrante. Paradossalmente, la forma ordinaria – lasciando spazio a una maggiore libertà – può condurre a una certa esagerazione liturgica dannosa per l’incontro del Mistero nel suo spogliarsi.

Così scriveva san Giovanni Paolo II: “la Sacra Liturgia esprime e celebra l'unica fede professata da tutti ed essendo eredità di tutta la Chiesa non può essere determinata dalle Chiese locali isolate dalla Chiesa universale” (Ecclesia de Eucharistia, 51). A fortiori, essa non è la proprietà del sacedote o di un’équipe liturgica. Il rito liturgico va sempre recepito umilmente. Comprenderlo necessita la conversione evocata in esordio, che in prima battuta può respingere. Vi è là come un passo da fare nella fede, nella fiducia inoltre nella pedagogia della Chiesa, che sa come condurre l’uomo verso il mistero.

Per il monaco sacerdote, la ricchezza dei riti del messale tridentino è senza fine. È già difficile esprimere brevemente ciò che si sperimenta giorno dopo giorno lungo la vita nell’intimità che procura al monaco sacerdote la messa, quale che sia il rito; ma non meno difficile provare a mettere in luce ciò che apporta in quest’ambito un rito sapientemente codificato a partire da una tradizione di oltre dieci secoli e che ha forgiato così tanti santi.

Dal primo momento, le preghiere ai piedi dell’altare invitano a lasciare la parte anteriore del tempio – il profano – per raggiungere il luogo santo, l’altare di Dio: Introibo ad altare Dei. Il sacerdote è chiamato a fare propria l’angoscia del giardino degli ulivi: Judica me, Deus, et discerne causam meam de gente non sancta... tristis est anima mea... Egli è al contempo nell’anima del Salvatore e in quelle di tutti i peccatori, compassionevole per la loro miseria e presentandola al sangue redentore. Bisognerebbe seguire i riti passo dopo passo: numerosi commentatori lo hanno fatto, in particolare nel Medioevo; poi sono stati screditati da sapienti liturgisti, che sezionando le cause storiche dei riti, hanno dimenticato che lo Spirito Santo opera per mezzo delle cause seconde e può fare adottare certi gesti o talune formule per ragioni certamente umanamente spiegabili, ma dando loro un significato e delle conseguenze spirituali molto più profonde di quanto la ragione immediata non può lasciare intendere.

Da questo punto di vista, la riscoperta del messale del 1962 è stata vissuta dai monaci di Fontgombault come un arricchimento. Che invito, per il monaco che non ha null’altro da fare che lasciarsi prendere dal mistero e trascorrervi del tempo…

Consentitemi una riflessione in vista di un esame di coscienza. L’argomento che consente di stabilire che il messale del 1962 non può essere abrogato è la natura della riforma, che rimodella profondamente quel messale e in cambio gli dà il diritto di sussistere come tale. Nella lettera ai vescovi di Benedetto XVI in occasione della pubblicazione del motu proprio, è scritto: “Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. Perché tante ricchezze lasciate da parte, si dice oggi? La vera domanda non sarà piuttosto: perché tanti sacerdoti che all’epoca celebravano secondo il messale del 1962 non hanno avuto coscienza di svendere l’eredità liturgica della Chiesa? Celebrare un rito quindi non basta? Hanno incontrato abbastanza il mistero?

Con il motu proprio Summorum Pontificum Benedetto XVI invita a correggere due errori liturgici: il razionalismo che disseziona e il formalismo rubricista.

Ricordiamo inoltre il primo articolo del motu proprio, in cui è detto: “Queste due espressioni della ‘lex orandi’ della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella ‘lex credendi’ (‘legge della fede’) della Chiesa”. Di fatto, la Chiesa cresce come prega. L’unità del rito che si esprime sotto due forme partecipa dell’unità della fede. Al contempo, ogni forma ha il dovere di esprimere al meglio l’unità del rito, e così di partecipare dell’unica fede. Se il Concilio Vaticano II ha promosso un’apertura della Chiesa al mondo, gli ultimi Papi hanno altresì ricordato che quest’apertura non poteva andare a scapito della confessione integrale del mistero di Dio e di Gesù Cristo, senza correre il rischio per la Chiesa di diventare una semplice ONG (cfr. la prima omelia di Papa Francesco, 14 marzo 2013).


La Messa letta


Un ultimo punto merita di essere affrontato, riguardante l’uso della concelebrazione. Dopo avere ricordato che la concelebrazione “manifesta in modo appropriato l’unità del sacerdozio”, la costituzione Sacrosanctum Concilium (nn. 57-58) ne ha esteso la facoltà, sebbene entro limiti precisi e relativamente ristretti (n. 57). In ambito monastico, il testo è stato inteso come un invito alla concelebrazione quotidiana.

Questa facoltà ormai quasi generalizzata ha semplificato e concentrato il lavoro dei sacristi. Ha altresì decongestionato l’impiego del tempo mattutino dei monaci.
Forse sarebbe necessario chiedersi se questi non soffrono in cambio di un detrimento alla loro pietà liturgica?

Tenere ogni giorno nelle proprie mani l’ostia santa e immacolata, il calice prezioso del sangue del Signore, sostenere l’azione della messa, il dialogo con il Padre eterno, o partecipare a una concelebrazione con i propri fratelli, non sono affatto la medesima cosa. Nel caso di una comunità numerosa, il monaco sacerdote può sperare di presiedere tuttalpiù una decina di volte l’anno la messa conventuale.

Al contrario, al termine dei lunghi uffici di Mattutino e delle Lodi, la celebrazione quotidiana di messe lette da ciascuno dei sacerdoti, compie come la conclusione naturale la preghiera diurna e apre alla comunione sacramentale e ai santi misteri che nutrono la Chiesa. È a questa comunione, spirituale questa volta, che l’assistenza alla messa conventuale diurna convoca i monaci.
In questo senso il motu proprio favorisce la pietà liturgica mediante un ritorno delle messe lette. Sembra tuttavia che ciò sia stato poco recepito in ambiente monastico.

In conclusione di questa prima indagine, la forma extraordinaria appare come rivolta a Dio, sollecitando l’uomo al contempo nella grandezza e nella debolezza della sua umanità.




[Dom Jean Pateau O.S.B., Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, “Fruits de la grâce du motu proprio Summorum Pontificum pour la vie monastique et la vie sacerdotale”, conferenza in occasione del V Convegno sul motu proprio Summorum Pontificum, dal titolo Il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI: Una rinnovata giovinezza per la Chiesa, svoltosi a Roma, presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino, il 14 settembre 2017. Trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - continua (la prima parte qui; la seconda parte qui)]

















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