sabato 30 dicembre 2017

Al Credo non ci credo: il prete ora è libero di non avere fede

Torino - don Fredo Olivero




DERIVE DELLA NEO CHIESA


Andrea Zambrano  (30-12-2017)

Cronache dalla neo Chiesa: «Io al Credo non ci credo». I fedeli della chiesa di San Rocco di Torino, radunati per la messa di mezzanotte si sono lasciati sfuggire una risatina di complicità. E così il parroco, don Fredo Olivero, ha annunciato in sostituzione il canto Dolce sentire. Insomma: un canto ispirato al Cantico delle creature come sostitutivo del Credo, che rappresenta l’ossatura fondante della fede di ogni battezzato.

Ora, si potrebbe anche alzare le mani e dire: bè, con queste premesse, ha vinto lui. Anni e anni a tentare di camuffare articoli scomodi o parti della messa troppo farraginose e poi arriva lui con la soluzione gordiana: perché non toglierlo del tutto? Chapeau, effettivamente… La cattiva teologia che si mangia la dottrina ha toccato vette sublimi l’altra sera durante una messa che definire show è eufemistico: liturgia eucaristica modificata alla bisogna, comunione distribuita solo da ministri straordinari, anzi, fatta prendere in mano dai fedeli che l’hanno intinta personalmente nel calice, un Padre nostro condiviso con il più profano canto spagnoleggiante ricalcato da Sound of silence di Simon & Garfunkel. Liturgia anni ’70 allo stato puro, mancavano solo i cantori con zampa d’elefante.

Invece è l’anno del Signore 2017 che ci consegna l’ultima frontiera della messa fai da te, presentata con il viso pacioso e rassicurante di un parroco con 50 anni di messa alle spalle che si dice molto attivo nel sociale e che a quelle latitudini viene chiamato con terminologia ecclesialmente corretta “un prete di strada”, perché si occupa di migranti e perché anche recentemente ha detto di voler modificare il concetto di transustanziazione.

Ovviamente criticarlo non si può, un po’ perché non si possono criticare i preti che si spendono nel sociale, anche se nel toccare le cose divine utilizzano zappa e vanga, e poi perché oggi, nella neo Chiesa, non si può prendere di mira chi attenta alla dottrina. Semmai, bisogna punire chi sommessamente fa notare che qualche cosa non va, come testimoniano i provvedimenti presi nei confronti di don Minutella o che c’è una verità di Dio sull’uomo che non cambia, come don Pusceddu.

La sorpresa arriva al minuto 26,50 dopo un’omelia giocata ad invitare i genitori a trasmettere la fede ai figli, ma «smettendo di parlare loro dell’inferno che non serve a nessuno e fa male».

Il cantore annuncia il canto del Credo: «Dolce sentire, pagina 39». Don Fredo attacca per primo: «Sapete perché non dico il Credo? Perché non ci credo». Risate dei fedeli. Poi riprende: Se qualcuno lo capisce…, ma io dopo tanti anni ho capito che era una cosa che non capivo e che non potevo accettare. Cantiamo qualche cos’altro che dica le cose essenziali della fede».

A Torino non è andata poi così male. A Genova ad esempio un altro prete di frontiera, ma con rubrica fissa su Repubblica, don Paolo Farinella, ha annunciato dalle colonne del giornale di aver cancellato per quest’anno la celebrazione del Natale, del 1 gennaio (Maria Madre di Dio) e del 6 gennaio, l’Epifania. In pratica ha detto no alle feste comandate. Perché? Perché il Natale è diventata «una favoletta da presepe con ninne-nanne e zampogne, esclusivo supporto di un'economia capitalista e consumista, trasformando l'intero Cristianesimo in “religione civile”».

Curioso. Anche solo dieci anni fa, non un passato lontanissimo, un prete che si opponeva di affermare le verità principali della fede cattolica o ad abolire a piacere le feste comandate sarebbe stato sospeso a divinis, oggi invece quasi quasi lo fanno monsignore. O comunque non gli succederà nulla. Magari il suo vescovo allargherà le braccia e sospirerà: «Vabbè, lo conosciamo, l'ho richiamato venti volte, ma lui fa così. In fondo è un mio figlio anche lui». Umanamente comprensibile, ma sicuri che non ci sia dell'altro? Invece il problema è tremendamente serio e non solo per questo povero sacerdote che ammettendo di non accettare le verità della fede cattolica semplicemente ammette di non avere fede.

Ma anche per le pecorelle che gli sono affidate: che cosa insegnare ai bambini del catechismo se lui per primo questa fede ammette di non averla? E quale fede poi? Di che cosa stiamo parlando? Di un sentimento vago e mellifluo all’insegna del vogliamoci bene?

La questione del Credo è invece strettamente connessa con la fede. E non è un caso che il Catechismo della Chiesa Cattolica dedichi la sua primissima parte proprio a questo. Perché il Credo è “la risposta dell’uomo a Dio”. Una risposta che è la fede e con la quale l’uomo si sottomette pienamente a Dio. E’ quella che il primo articolo del Catechismo chiama l’obbedienza della fede sull’esempio di Abramo e Maria. Credere in un solo Dio, in Gesù Cristo figlio di Dio, nello Spirito Santo. E poi credere in tutte le altre verità sotto forma di professione di fede, dall’Incarnazione alla Resurrezione fino alla comunione dei santi e la vita eterna.

Don Fredo e don Farinella vogliono rinunciare a tutta questa raccolta organica di verità che va sotto il nome di simbolo? Facciano, ma perché utilizzare il loro ruolo che gli consente di essere pastori per le anime che sono loro affidate? Una volta si sarebbe detto ciechi che guidano altri ciechi. Che cosa resta a un sacerdote che pubblicamente disconosce tutto questo? Resta probabilmente soltanto la sua narcisistica volontà di potenza di imporre una religione in forma ideologica, che è però tremendamente umana, ma con il candore e la pacifica verve del buon parroco tanto engagé. E’ da lupi di questo tenore travestiti da candidi agnelli che il fedele dovrebbe guardarsi. Perché stanno lentamente segando il ramo sul quale si sono seduti con loro.











Perché occorre tornare a Messe dove i preti parlino meno e celebrino di più




Lo smarrimento dei linguaggi del corpo, dei segni e dei simboli ha reso il rito più rassicurante e quindi noioso. Intervista a Luigi Martinelli sul suo libro “Missa in scena”
Tempi.it, 26 Agosto 2017


di Valerio Pece

«I sentimenti del timore e del sacro sono i sentimenti che palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se avessimo la visione della Maestà di Dio. Nella misura in cui ci rendiamo conto della presenza di Dio, dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo, è perché non percepiamo che egli è presente»
. Così il beato cardinale John Henry Newman mette il cattolico medio di fronte ad una difficoltà inconfessabile: la (malcelata) distrazione che lo avvolge durante il rito della Messa.

Con il suo secondo saggio sulla performance del rito romano, Luigi Martinelli rimanda il lettore a ciò che il rito liturgico per sua essenza dovrebbe essere («mysterium tremendum, shock, vertigine, pericolo») se solo coloro che concordano sulla diagnosi di una liturgia cattolica impoverita da una pesante logomachia non dissentissero sulle terapie da approntare. Il merito di Martinelli è anche questo, aver squadernato, padroneggiando la più qualificata letteratura scientifica, un fatto notorio ma silenziato: l’attuazione della riforma non ha dato gli effetti sperati. Non è riuscita a far passare lo “spirito della liturgia”, o lo ha fatto solo in minima parte. Non ha educato al senso religioso. Dopo Le forme del sacro (con entusiastica prefazione di monsignor Nicola Bux) lo studioso di teatro Luigi Martinelli torna dunque ad affrontare il tema dell’efficacia del rito liturgico. Lo fa con un saggio in uscita in questi giorni, Missa in scena (Cavinato Editore, 2017, 359 pagine) titolo che, giocando con le parole, accosta rito e teatro per raccogliere suggestioni e possibili sviluppi pastorali dall’osmosi dei due mondi. Tempi.it lo ha incontrato.

Martinelli, ai mali della liturgia riformata lei non propone il rimedio di un ritorno all’antico, ma insiste sulla presa di coscienza della vera essenza dell’atto di culto, che concepito non adeguatamente rischia di perdere la sua efficacia. È così?

Certo. Non sarà la sostituzione del Vetus Ordo al Novus Ordo la soluzione che riporterà la performatività rituale, la centralità del sacrificio e la “pericolosità” del rito nella liturgia cattolica postconciliare. Credo però che il Novus Ordo debba riformarsi ulteriormente se vuole tornare ad essere un evento incisivo e determinante nella vita spirituale dei fedeli cattolici, attingendo maggiormente agli elementi rituali tradizionali della liturgia cattolica. Deve riscoprire la centralità del corpo, la forza dei simboli, l’efficacia della lingua sacra, l’importanza di una musica e di un canto adatti, ma soprattutto deve ritrovare il primato della forma sul contenuto, riscoprendo l’importanza della ri-presentazione performativa sacrificale. Urge attivare seri procedimenti di riflessione sull’efficacia dell’ars celebrandi.


Anche se non auspica un semplice ritorno al passato, è però vero che lei rileva alcune criticità performative nella Messa celebrata secondo la forma ordinaria del rito romano. Quali esattamente?
La riforma liturgica degli anni Sessanta ha riformato il rito riferendosi quasi esclusivamente al legòmenon, cioè alle parole, ai testi, alle traduzioni, alle semplificazioni linguistiche e comunicative. Tuttavia il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, ma solo più povere. L’attuale rito è caratterizzato da un certo razionalismo, che si traduce nell’eccessivo verbalismo, nella sovraesposizione fonetica. In esso hanno sempre più importanza le parole, i discorsi, le esortazioni, i ragionamenti mentre le azioni i gesti e i movimenti sono ridimensionati. Penso alle genuflessioni, agli inchini, alle prostrazioni, all’innalzamento degli occhi e delle braccia, ai segni di croce, ai baci; a tutto ciò che il Servo di Dio don Eugenio Bernardi definiva come attività che «agiscono sulle facoltà interiori aumentandone le potenzialità». Il rito liturgico postconciliare non è più vissuto come esperienza ma come conoscenza, è divenuto un fatto cognitivo più che un fatto performativo.


E la famosa “actuosa participatio” alla liturgia, quella “partecipazione attiva” che deve coinvolgere i fedeli e con cui nel postconcilio sono cresciuti i sacerdoti di tutto il mondo?
È, appunto, soltanto un mito. La cosiddetta “partecipazione attiva” coinvolge i fedeli solo a livello razionale, e ciò fa sì che sia la preghiera a soffrirne, perché richiede più sforzo mentale (da qui la distrazione e quindi la noia). Su questo dato, che è empiricamente sperimentabile, sono d’accordo praticamente tutti. Potrei citare gli studi dei più stimati liturgisti contemporanei, da Roberto Tagliaferri ad Aldo Natale Terrin, da Loris dalla Pietra a Jakob Baumgartner, come quelli di illustri esponenti del clero cosiddetto progressista. Valutando gli esiti della riforma, per esempio, perfino il primate belga Godfried Danneels ha lamentato una liturgia «esclusivamente orientata verso l’intelletto», in cui «bisogna ammettere che la lingua e gli orecchi sono i soli organi utilizzati nella liturgia».


In effetti nella prospettiva del suo saggio appaiono molto interessanti le parole del cardinal Dannels, soprattutto se si pensa che sono pronunciate da chi che ha parlato pubblicamente e con una certa soddisfazione della “mafia di San Gallo”.
Decisamente. Sbaglierebbe chi pensasse che solo Benedetto XVI indicasse e si addolorasse per i gravi problemi liturgici attuali. D’altronde è ancora il cardinale Dannels a riconoscere che – sono ancora parole sue – «la liturgia non è né il luogo e né il momento adatto per la catechesi». Ripeto: il rito è stato usato come un contenitore di dottrine e di verità ortodosse a dispetto della sua specifica vocazione di produrre esperienza religiosa. La riforma liturgica sembra aver promosso una liquefazione dei riti per elargire i contenuti. Per comunicare utilizza quasi esclusivamente la parola. È un rito verbale in cui vi è strutturalmente una mortificazione e un impoverimento del rituale, la sproporzione tra la durata della liturgia della parola e quella della liturgia eucaristica, del resto, è lì a dimostrarlo. Non viene lasciato tempo sufficiente all’immaginazione, all’elemento affettivo, all’emozione, alla bellezza, al mistero.


Nel suo saggio lei riporta riflessioni sul postconcilio del cardinal Martini che potrebbero interrogare molti. Ad esempio questa: «Tutto doveva essere chiaro, intellegibile, le preghiere dovevano essere intese dalla gente, tutto doveva essere regolato dalle leggi della comunicazione sociale, ma l’uomo ha una dimensione misteriosa, ci sono delle esplosioni interne della fede che nella liturgia precedente, attraverso il mistero, erano tutte meglio presenti». Se sono tutti d’accordo sulla diagnosi, se cioè tutte le diverse sensibilità ecclesiali indicano gli stessi problemi di fondo, come mai il rito cattolico oggi conosce la sorte da lei descritta?

Perché il postconcilio, nel suo mood anarchico di fondo, non è stato all’altezza del Concilio. In altre parole perché i sostenitori della riforma liturgica se da una parte ne riconoscono i limiti dall’altra continuano a sbagliare la terapia. Per risolvere i problemi vorrebbero andare ulteriormente oltre la riforma del Vatinano II, con esiti e proposte incerte, multiformi, differenziate, sincretiste, iper-creative, postmoderne. Non è un caso che si vociferi sull’esistenza di una commissione mista di cattolici, luterani e anglicani intenta a mettere a punto una messa a cui far partecipare i fedeli di tutte e tre le confessioni. Come scrive Roberto Tagliaferri, docente di antropologia e liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di S.Giustina a Padova, a oltre 50 anni dal Concilio Vaticano II «la questione della forma rituale in quanto performance rimane un problema ecclesiale assolutamente disatteso». Occorrerebbe una decisa presa di posizione, ma nella giusta direzione.


Si è chiesto da dove venga quell’eccesso di verbalismo che la sua analisi descrive come “soffocante” il rito cattolico?
Viene – lo dico con dolore – da una sfiducia nel rito. È questo il motivo per cui si tende a spiegare, legittimare e persino “scusare” il rito con l’ausilio delle parole: non si crede più nell’efficacia dell’azione rituale in quanto tale. Perfino nella splendida liturgia della veglia pasquale il sacerdote spiega a profusione l’autoevidente significato dell’accensione e spegnimento delle candele. Il cardinal Kasper, che non è esattamente un lefebvriano, scriveva che «abbiamo preti che parlano troppo ma celebrano poco». L’ossessione di dare significato ai riti distrugge l’azione liturgica nella sua essenza pragmatica, e soprattutto ne limita il potenziale mistagogico di introdurre i fedeli in una nuova esperienza religiosa. Per Francois Cassingena-Trevedy, monaco benedettino e liturgista, i sacramenti, e di conseguenza la liturgia, non dipendono dalla sfera dell’intellettuale ma coinvolgono l’ambito fisico. Operano cioè un’assunzione integrale del sensibile, perché – molto semplicemente – si inseriscono nell’“economia dell’incarnazione”.


Lei sostiene che col sostegno epistemologico del razionalismo, una certa teologia abbia spezzato il legame tra rito ed evento così come ce l’ha insegnato la Bibbia e la tradizione mistagogica. Quale sarebbe allora la vera funzione del rito?

Rispondo con una domanda: come fare a trasmettere quel senso di gravità, di pericolosità, di vertigine tipiche di un rito sacrificale (come dovrebbe essere la messa) solo attraverso le parole? Il rito è e deve tornare ad essere “pericoloso”, perché è trasformativo della realtà e delle persone, perché ribalta la vita normale trasportandola in un’altra dimensione. Lo smarrimento dei linguaggi del corpo, dei segni e dei simboli all’interno della liturgia ha reso il rito più rassicurante, tranquillizzante, lo ha ammorbidito. Ma un rito che non sia, appunto, pericoloso, abitato da vertigine e mistero, non solo diventa noioso, ma rinuncia totalmente alla sua prerogativa di innovazione del mondo. È dalla natura “traumatica” che deriva il fascino del rito, un gioco d’azzardo in cui scommettere tutto per ritrovare un mondo diverso, un “io” diverso.


In Missa in scena cita spesso antropologi come Victor Turner, massmediologi come McLuhan. Un ruolo di riguardo però lo riserva al grande commediografo Antonin Artaud. Qual è il ruolo specifico del teatro nel suo studio sulla liturgia?
Anche il teatro occidentale per un certo periodo della sua storia, prevalentemente dall’umanesimo fino al teatro borghese ottocentesco, aveva ripiegato sul razionalismo, ma nel Novecento, grazie a maestri come Artaud, Copeau, Mejerchol’d, Grotowski, Barba e molti altri, ha riscoperto le sue origini rituali valorizzando il ruolo del corpo, dei simboli, degli attori. Si è riscoperto come evento tridimensionale, in cui parola, corpo e azione si amalgamano tra loro per permettere agli spettatori di vivere un’esperienza irripetibile nell’hic et nunc. La liturgia, proprio come ha fatto il teatro, dovrebbe dunque tornare a mettere in primo piano la dimensione scenica rituale. L’operazione è possibile solo se si restituisce al rito il suo linguaggio proprio, che è “pragmatico”. Ha ragione Tagliaferri a proporre alla liturgia il Teatro della Crudeltà di Artaud come esempio per rinnovarsi, per emanciparsi da una deriva che ha reso il rito sempre più predica, parenesi, didascalia, lettura biblica. Un ripetuto invito all’edificazione e niente più.


Nel precedente saggio aveva analizzato la ritualità cattolica comparando sinotticamente la celebrazione della Messa secondo le due forme del rito romano (ordinaria e straordinaria). Il punto di vista era quella di un regista teatrale, il quale, dal banco di una chiesa invece che dal più usuale golfo mistico, assistendo alle due forme del rito, esamina criticamente ciò che vede e che vive. Il risultato vedeva il rito antico vittorioso. È ancora di questo parere?
Ne sono sempre più convinto, pur restando uno strenuo sostenitore del biformalismo liturgico. Un grande esempio di come la liturgia può essere in grado di generare trascendenza attraverso i linguaggi del simbolo e della gestualità rituale ci viene dato dalla Messa celebrata secondo la forma straordinaria del rito romano. Forma riportata in auge dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. In essa, grazie all’utilizzo della lingua sacra, la parola viene liberata dall’urgenza di significare; i corpi del celebrante e dei fedeli mettono in atto una gamma notevole di gesti; il simbolo ha un grande spazio; il canto gregoriano, che la Costituzione liturgica del Vaticano II raccomandava, favorisce la contemplazione e l’apertura al trascendente; il silenzio – indispensabile per l’ascolto del linguaggio divino come non smette di ricordarci il prefetto della congregazione per il Culto divino cardinal Sarah – è “attivo”, svolgendosi infatti nei momenti del rito in cui l’azione liturgica si dispiega in tutta la sua pregnanza di significante e di significato. Tutto questo genera l’esperienza del sacro, un’esperienza che l’uomo contemporaneo ricerca disperatamente, e che se non trova nel rito cattolico cercherà altrove, anche in un altrove antitetico al cristianesimo.





















giovedì 28 dicembre 2017

L'Ohio vieta l'aborto dei Down, i cittadini più felici






Benedetta Frigerio (28/12/2017)

Mentre in Europa la battaglia non si comincia nemmeno più, l’anima religiosa e pro life degli Stati Uniti non si dà per vinta, ottenendo delle vittorie importanti sebbene la guerra sia lontana da una fine gloriosa. Così dopo il North Dakota, che ha vietato l’aborto dei bambini affetti da sindrome di Down nel 2013, è stata la volta dell’Ohio.

Nonostante nel 2016 anche l’Indiana avesse adottato la misura, poi resa invalida da un giudice convinto che non si possa limitare la libertà di una donna (e chi se ne importa se decide di uccidere il figlio in grembo), il governatore dello Stato, il repubblicano John Kasich, venerdì scorso ha permesso a molti di celebrare il Natale con speranza firmando la legge molto discussa e controversa che prevede il carcere fino a 18 mesi e multe di migliaia di dollari per i medici che pratichino l'aborto eugenetico.

Ma Kasich non si è limitato a rendere effettiva la norma passata alla Camera il mese scorso con 63 voti favorevoli contro 30 all’apposizione, ma ha dichiarato: “Ora che il ddl “Anti Discriminazione della Sindrome di Down” (come definito volgarmente”) è legge, ai bambini non ancora nati e affetti dalla sindrome di Down viene data una possibilità di vita. E l’Ohio continuerà ad essere uno Stato che guarda alla vita delle persone affette dalla sindrome di Down come degna di essere vissuta”.

Ad introdurre la legge alla Camera era stata il mese scorso la repubblicana Sarah LaTourette, che aveva chiarito alla Cnn che questo è un passo importante per limitare un delitto ma che non bisogna accontentarsi, perché “la vita comincia dal concepimento e l’aborto non dovrebbe mai, in nessun caso, essere considerato un’opzione”. Aggiungendo però che qui non c’è in ballo solo l’omicidio, ma la discriminazione e la selezione eugenetica: “Perciò, indipendentemente dal fatto che tu sia d'accordo con me sull’aborto”, aveva precisato, qui si tratta di “discriminare una persona, privando questa gente del diritto alla vita elargito loro da Dio, semplicemente perché potrebbero avere la sindrome di Down”.

Infatti, come ha ricordato di fronte al Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu l’American Center for Law and Justice, in Danimarca il 98 per cento di tutti i nascituri sospettati di avere la sindrome di Down vengono uccisi (in Francia il 77 e in Usa il 67). Eppure l’American Civil Liberties Union dell’Ohio si è scagliata contro la norma, definendola incostituzionale, perché “restringe ulteriormente la capacità di una donna di porre fine alla gravidanza”, dimenticando come sempre di parlare della libertà e del diritto dei più deboli. A parlarne è stato uno di loro che ha avuto la fortuna di nascere e vivere una vita, non priva di dolori o difficoltà, come quella di ogni essere umano, ma di cui è grato e felice, a differenza della maggioranza degli Occidentali.

Frank Stephens, lo scorso ottobre ha parlato così: “Purtroppo mi è arrivata la voce che il mondo della ricerca pensa che non ci sia più bisogno di fondi per la sindrome di Down perché dicono che adesso la malattia si può riconoscere dalla placenta e alle nostre gravidanze si può semplicemente porre fine. Giusto per non creare confusione fatemi dire che non sono esattamente un “ricercatore scientifico”, ma nessun ricercatore sa, come me, cosa vuol dire vivere con la sindrome di Down. Conosco precisamente il motivo per cui tali persone spingono per questa “soluzione finale”. Ma davvero non c’è più spazio nel mondo per noi? A quelli che se lo stanno chiedendo vorrei rispondere che siamo una potente ed inesauribile fonte di felicità. Una ricerca di Harvard ha rilevato che le persone affette dalla sindrome di Down, insieme ai loro genitori e fratelli, sono molto più felici del resto della società. La felicità dovrà pur valere qualcosa in questo mondo”. Lo stesso ha testimoniato di fronte alla commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite Charlotte Fiene, inglese con la trisomia 21: “Io ho la Sindrome di Down…Nessuno dei miei amici che ha la Sindrome di Down sta soffrendo…Abbiamo tutti vite felici”. Dunque, “se lo permettete, non siete meglio dei Nazisti che hanno ucciso 200mila persone disabili”.

Forse, invece che uccidere chi ha un cromosoma in più, l’Occidente depresso e disperato farebbe meglio a domandare loro il segreto di questa felicità: che sia nella dipendenza, che invece l’uomo moderno rifiuta come un affronto alla sua prepotenza?; che sia nel lasciarsi amare accettando i propri limiti, piuttosto che eliminarli orgogliosamente e privandosi quindi dell'esperienza dell'amore incondizionato? Forse sì, il segreto sta nel fatto che queste persone, più coscienti del proprio bisogno, sanno amare di più.













IL VESCOVO TARDELLI “A PROPOSITO DI BIOTESTAMENTO”





Comunicato del Vescovo di Pistoia Mons. Fausto Tardelli

PISTOIA – «Non è mia intenzione entrare nel merito della discutibilissima recente legge sul biotestamento, nei confronti della quale mi auguro che almeno sia consentita l’obiezione di coscienza. Una legge pressoché inutile e quindi, anche solo per questo, dannosa. Sarebbe stato molto meglio se i legislatori fossero rimasti rispettosamente un passo indietro riguardo a circostanze così complesse e personali della vita che toccano il rapporto di fiducia tra medico e paziente, tra libera volontà del malato e obbligo di cura da parte del medico. Circostanze che non richiedono certo carte bollate e avvocati, perché così poi va a finire, ma un accompagnamento premuroso e riservato, carico di attenzione e di amore, in “scienza e coscienza”, come si dice.

In questo momento mi preme piuttosto parlare dal punto di vista morale, per favorire il discernimento della coscienza che, lo ricordo, non consiste nell’“inventare” il comportamento ma nell’ascolto attento della voce interiore di Dio che chiama la persona al bene, qui e ora, cioè nelle circostanze concrete della vita. Una voce che risuona ugualmente nel cuore e nella ragione di ogni uomo come nella rivelazione che si è compiuta in Cristo.

Dunque, dal punto di vista morale, darsi la morte non è mai una cosa buona. Seppure a volte si verifichino condizionamenti soggettivi tali da togliere in parte o del tutto la responsabilità e la libertà. Ovviamente non è una cosa buona nemmeno aiutare uno a togliersi la vita, altrimenti arriveremmo all’assurdo che se incontro chi si vuol buttare giù da un ponte per suicidarsi, sarebbe bene che gli dessi una spinta.

Non è però buono nemmeno l’accanimento terapeutico. Quando si è ormai in un processo ineluttabile di morte e non c’è più alcuna possibilità di uscire da questa situazione, è disumano accanirsi con medicine inutili, con terapie assolutamente inefficaci, con interventi terapeutici invasivi e sproporzionati. Occorre lasciarsi morire e far morire in pace, anche perché la morte non è la fine della vita e noi non siamo i padroni della vita e della morte. Si può sempre invece, anzi si deve, combattere il dolore e alleviare le sofferenze, a meno che uno non intenda liberamente rinunciare a tali cure palliative.

Non è cosa buona inoltre smettere di mangiare e bere per darsi la morte, anche se si ritenesse senza qualità la propria esistenza; ancor più non è bene smettere di nutrire e idratare una persona, pur se si fosse costretti a farlo in modo artificiale. Anche se lo chiedesse la persona stessa o, ancor peggio, se fossimo noi a sospendere nutrimento e idratazione perché si giudica senza valore la sua vita. Conseguentemente, non sono da darsi disposizioni anticipate di trattamento che prevedano una tale ipotesi.

C’è un solo caso in cui questa scelta è lecita nei confronti degli altri ed è evidente: quando la persona sia ormai morta oppure non sia più in grado di assimilare il cibo e i liquidi. E c’è un solo caso in cui tale scelta è lecito compierla in rapporto a se stessi: quando per nutrirsi e idratarsi fosse necessario un intervento pesantemente invasivo e debilitante in una situazione ormai definitivamente compromessa e prossima alla morte. A fronte di questi limiti, ci sono invece dei precisi doveri. Alcuni riguardano la medicina: adoperarsi perché siano sconfitte le malattie debilitanti, superate le menomazioni dovute ai traumi, alleviati i dolori. Altri riguardano tutti noi, sia che siamo coinvolti in prima oppure in terza persona, sia che si tratti di fine vita terrena oppure di debilitazione permanente grave: lasciarsi accompagnare o accompagnare con l’affetto sincero dell’amicizia, in un rapporto pieno di fiducia tra medico e paziente, fino al momento che solo Dio conosce».

+ Mons. Fausto Tardelli













lunedì 18 dicembre 2017

Intervista a padre Samir: moschea sul terreno della Chiesa? Una follia





Andrea Zambrano (18-12-2017)

Un cavallo di Troia. E’ la costruzione della moschea di Sesto fiorentino su terreni ceduti dalla diocesi di Firenze all’Ucoii. Ne è convinto padre Samir Kahlil Samir, gesuita e islamologo di fama internazionale che non ha mai taciuto sul rischio di islamizzazione dell’Occidente. Secondo Samir, in questa intervista alla Nuova BQ, la decisione del vescovo di Firenze, mons. Giuseppe Betori, è provocata da un irenismo in buona fede, ma miope. La prima conseguenza infatti sarà che le associazioni islamiche andranno alla ricerca di altri terreni in altre diocesi per quella che diventerà un’operazione di conquista su larga scala. Una conquista islamica di cui non ci si vuole accorgere e che lui si incarica di denunciare nella scomoda parte di Cassandra.


Padre Samir, è così? Un cavallo di Troia?
Ma certamente. Un intento apparentemente buono, ma un esito pericoloso.


E’ già successo?
Ho visto vescovi concedere chiese non più utilizzate al culto diventare moschee. Ma con questa sistematicità, programmata e concordata no. Effettivamente è la prima volta.


Perché è pericoloso secondo lei?
Anzitutto perché è vero che dobbiamo andare d’accordo, ma non sappiamo e non sapremo mai chi finanzia queste costruzioni. E’ risaputo che centinaia di moschee tra le più grandi d’Europa sono finanziate dall’Arabia Saudita o da qualche altro stato. Non è che una comunità animata da fede sincera improvvisamente trova a suon di offerte i 240mila euro necessari per l’acquisto del terreno. Anche perché poi bisognerà trovarne molti di più per la costruzione del tempio. Ora, sappiamo tutti che l’Arabia Saudita difende la visione più fanatica e retrograda del mondo musulmano, che incita altri ad atti terroristici oppure atti contro i non-musulmani considerati come kuffār, empi, e dunque degni di essere eliminati, secondo il Corano.


E’ stato giustificato dal vescovo come un esempio di libertà religiosa…
I musulmani sono assorbiti tutto il giorno dall’appello alla preghiera. Ho letto che di fronte verrà eretta una chiesa. Ma come sarà possibile andare d’accordo con il muezzin che dal minareto proclamerà ogni giorno frasi che spesso sono anticristiane?


Si dirà: ma noi abbiamo le campane…
Sì ma le campane fanno parte dell’esistenza stessa italiana e poi sono soltanto un richiamo, non contengono il messaggio. L’imam dal minareto invece emette un messaggio, un messaggio in arabo spesso anticristiano che risuonerà nella zona: sarà l’unica voce del credente in Dio, come se gli altri non ci fossero.


Crede che sia un elemento del processo di islamizzazione dell’Occidente?
Assolutamente sì. Vede, l’islam è così, ha deciso di diffondersi lentamente, ma su una cosa è risoluto: non può mai fare passi indietro. Non è mai successo. L’Europa in questo momento sta pensando: sì dobbiamo aiutare, aiutare ad integrarsi nella cultura nella loro tradizione, ma non a diventare cristiani, cosa che non succede mai.


Quali saranno le conseguenze immediate di una cessione di un terreno in mano islamica.
Anzitutto che per loro questo resterà definitivamente territorio dell’islam e apparirà ai loro occhi simbolicamente coma la vittoria dell’islam sul cristianesimo perché la concezione materiale e concreta è quella. E’ un atto di una valenza simbolica e una portata enormi.


Sì, ma i musulmani non sono animati tutti da desiderio di conquista.
Questo è vero, la maggior parte degli islamici è pacifica e tranquilla, vuole vivere correttamente, ma tra di loro ci sono organizzazioni che seguono l’islam fanatico e hanno scopi politico-religiosi che, come è noto, sono due facce inscindibili, non conoscendo l’islam il concetto di laicità. Utilizzeranno il caso di Sesto Fiorentino per dire: ecco adesso facciamo un passo in più.


Cioè?
Farlo con altre diocesi e altre parrocchie. Il copione è questo, si rivolgeranno al prossimo vescovo e diranno: voi avete una chiesa che non usate più, che nessuno frequenta più oppure un terreno che dovete mettere a reddito e il gioco è fatto. Tutto questo rischia di allargarsi in tutto il Paese, sempre lentamente, senza accorgersene. Questa è una logica di conquista politica immersa nell’elemento religioso.


Come dovrebbero essere allora i rapporti?
Creare legami fraterni tra musulmani e cristiani, ma senza coinvolgere chiese e moschee, senza invitare loro a messa o viceversa. Una partita a calcetto può essere molto più proficua per stabilire rapporti di buon vicinato. Ma è chiaro che il problema è un altro.


Quale?
Il fatto che questo venga spacciato per libertà religiosa. La libertà religiosa in Italia e in Europa c’è già, è garantita, nessuno impedisce all’Ucoii di comprare un terreno. Ma non è libertà religiosa che un vescovo non sappia che cosa sia l’islam.


Ma le intenzioni…
I buoni sentimenti non hanno esperienza del mondo islamico. Questa è una lacuna terribile del clero occidentale, che non si informa seriamente. Questa cosa andava decisa e discussa insieme a tutti gli altri vescovi.


Ma così forse qualcuno si sarebbe messo di mezzo.
Appunto. Una situazione nuova per la comunità cristiana, cioè fare business con un terreno ceduto ai musulmani, doveva essere analizzata da un organismo più allargato, non da un solo vescovo che potrà aver deciso pensando soltanto a casa sua, invece…E’ ovvio che il vescovo l’ha fatto come un gesto fraterno, ma una decisione così importante avrebbe dovuto, secondo me, essere presa insieme a tutto il vescovado italiano e con l’aiuto di alcuni ex-musulmani, cioè di persone che conoscono bene la mentalità musulmana, molto diversa sul piano religioso della mentalità italiana.


Perché dice che "fa business"?
Perché vendere un terreno senza sapere chi finanzierà la moschea vuol dire fare business. Negli anni scorsi i committenti erano noti, spesso c’erano Paesi come la Tunisia e il Marocco che finanziavano i luoghi di culto per i loro concittadini in Europa. Oggi è tutto coperto, grazie alla finanza. L’Arabia ha costruito centinaia di moschee in Indonesia che è il Paese a più alta concentrazione islamica con 220 milioni di musulmani. Era un Paese tranquillo e politicamente moderato, ma dopo la grande stagione delle moschee arabe è diventato un Paese in cui l’anticristianesimo è sempre più una minaccia, fino al martirio.


Che cosa pensa della decisione del comune di Cordoba in Spagna di utilizzare la cattedrale anche per il culto islamico?
Ero il mese scorso là, ho seguito la vicenda. Tutto è nato parecchi anni fa da uno spagnolo convertito all’islam. Faccio notare che prima, nel Medioevo c’era una chiesa cristiana, poi è arrivato l’islam, che l’ha distrutta e vi ha costruito il suo tempio. Successivamente con la Reconquista sono tornati i cristiani, ma non hanno distrutto niente; abbiamo celebrato la messa con tre vescovi dal 24 al 26 novembre scorso dentro la moschea rimasta tale quale. Riassumendo: i musulmani arrivano, distruggono e ricostruiscono, mentre i cristiani tornano ma non distruggono, bensì costruiscono dentro: questo è il vero dialogo.


E’ una concreta minaccia quella del doppio culto?
Al momento sembra che si sia fermato, ma gli islamici sono spalleggiati da un governo di sinistra e anticattolico che amministra la città.


Anche questa è la mentalità di conquista che aveva visto San Giovanni Paolo II con la visione dell’invasione islamica?
Certo, questo esiste, non posso dire che ogni musulmano abbia questa mentalità, ma l’islam non manca occasione per dire che deve conquistare il mondo cominciando dall’Europa: non è il pensiero di tutti i musulmani, ma è il pensiero della tendenza attuale più attiva. Non fanno altro che guerre, anche interne, il loro ragionamento è: più ci sono immigrati profughi, più conquistiamo pezzo per pezzo, ci vorrà un secolo, ma ce la faremo. E’ un’invasione programmata, non illudiamoci.


Crede che i vescovi debbano fare di più per opporsi?
Questa fretta nell’accoglienza è bella, ma dove può portare? Quanti dei vescovi sono consapevoli che, come negli affari, se tratto con una persona non onesta sono rovinato? Quello che manca è una conoscenza profonda del progetto islamico. Bisogna formarsi per poter parlare con competenza e analizzare tutti gli aspetti prima di prendere decisioni come quella di Firenze. Non si può continuare a dire di essere informati perché si ascoltano le menzogne degli Imam che continuano a dire che islam vuol dire pace. No, salam vuol dire pace, islam vuol dire sottomissione. La sottomissione ad Allah che dà pace.


Lei ha dei consigli?
Dobbiamo appoggiarci ai musulmani diventati cristiani, perché loro parlano per esperienza. Se si sono convertiti non è perché li abbiamo pagati, ma perché hanno capito che il vero messaggio di Dio è questo. Non si prende abbastanza sul serio il pensiero di questi nuovi cristiani. Ho visto che avete pubblicato Suad Sbai, avete fatto bene. E’ una persona splendida che si sta battendo. Oggi le loro storie sono drammi veri che vanno accolti e ascoltati.


Che cosa devono subire?
Rischiano la pelle con le famiglie di origine, con i mariti, con le comunità. Sono abbandonati a loro stessi perché nessun vescovo ha pensato di ideare programmi pastorali che prevedano anche loro testimonianze. Farebbe bene a loro a sentirsi accettati, ma farebbe bene a tutte le comunità cristiane, vescovi in primis per capire l’islam.


Sta dicendo che non sono ascoltati?
Peggio, vengono ostracizzati. In Francia è nata, tre anni fa, un’associazione chiamata “Gesù è il Messia”, composta da vecchi cristiani e di convertiti dall’islam al cristianesimo. Ebbene: abbiamo chiesto in varie diocesi di poterci riunire con loro in convegno per riflettere su “come annunciare il Vangelo ai musulmani”. Più vescovi hanno chiuso a noi le porte, con l’argomento “Noi cristiani non facciamo proselitismo”. Abbiamo ribadito : “Il Vangelo di Matteo si conclude con queste parole di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).


Dove porterà questa mentalità così arrendevole?
Sarà l’inizio della fine se non si invertirà la rotta.


















CI CHIEDEVANO PAROLE DI CANTO. LA CRISI DELLA MUSICA SACRA. UN LIBRO, UNA LETTERA A FRANCESCO.






MARCO TOSATTI  (18/12/2017)

Se c’è una persona che ha le carte in regola per scrivere un libro sulla situazione – e possiamo dire crisi – della musica liturgica attuale questi è Aurelio Porfiri. Porfiri è un compositore, direttore di coro, educatore e autore. Ha al suo attivo circa 30 volumi e 600 articoli. La sua musica è pubblicata in Italia, Cina, Stati Uniti, Francia e Germania. Ha collaborato con numerosi blogs, riviste e quotidiani come Zenit, La nuova bussola quotidiana, O Clarim, La croce quotidiano, la fede quotidiano, Liturgia, La vita in Cristo e nella Chiesa, Rogate ergo, Camparidemaistre, Il messaggio del cuore di Gesù, Patheos, e altri siti e pubblicazioni ancora.

In questa sua opera, appena uscita e disponibile su Amazon e altre opportunità di acquisto on line, Porfiri raccoglie una serie di saggi a articoli scritti nel corso degli anni. Tutti questi articoli sono uniti da un filo rosso. E cioè l’analisi della situazione attuale della musica liturgica. Aurelio Porfiri intende proporre una riflessione che si basi su dati di fatto non positivi, né piacevoli: uno dei più grandi patrimoni della nostra civilizzazione versa in profonda crisi. La Chiesa, che fu madre e patrona insigne dell’arte più eccelsa, ora sembra rincorrere stanche mode nate e cresciute al di fuori dei suoi sacri recinti, e spesso di una qualità oggettivamente scadente, e non solo da un punto di vista liturgico.
Autore dell’introduzione è un nome di grande prestigio: il maestro Valentino Miserachs Grau, preside emerito del Pontificio Istituto di Musica Sacra e Maestro Direttore della Cappella Musicale Liberiana nella Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma. Questa la sua opinione: “La crisi della musica nella liturgia oramai ha toccato delle vette (o degli abissi, dovremmo meglio dire) drammatici. Siamo in una situazione che non fa intravedere una via di uscita facile o immediata. Ci sono molte iniziative buone e di persone che hanno a cuore l’importanza di questa grande arte a servizio della liturgia, ma purtroppo poco si muove ai vertici, poco si muove da parte di coloro che dovrebbero prendere decisioni importanti in questo campo”. E questo il suo giudizio sul libro: “Aurelio Porfiri in questo suo testo ha voluto richiamare tutti ad un severo esame di coscienza, un salutare richiamo all’ordine per poter ripartire, quando tutto sembra perduto. Non è assente una certa vis polemica, ma in fondo è ruolo dei laici anche quello di avere il coraggio di denunciare con rispettosa libertà situazioni che mettono a rischio la salus animarum. Lui lo fa con coraggio e chiarezza, come del resto lo ha fatto sempre anche nei suoi scritti precedenti. Nei vari capitoli si affrontano in modo sintetico ma pregno alcuni degli snodi importanti, come quello della preparazione del clero (di cui già abbiamo parlato), degli strumenti musicali e molti altri. Verso la fine offre anche degli esempi di musica liturgica contemporanea che sa mantenere però la dignità della grande tradizione. Sarà utile ripetere che non mancano i compositori ma manca la volontà di cambiare le cose perché si è smarrito il senso e la dignità della musica nella liturgia; questo è conseguenza del fatto che si è smarrito anche e soprattutto il senso e la dignità della liturgia stessa, del senso del sacro. Un testo utile per riflettere e per continuare la buona battaglia, un testo rispettoso delle persone ma fermo nei suoi principi che sono poi i principi della grande tradizione”.
Molti gli argomenti trattati nello scorrere dei capitoli: il disprezzo per la forma, gli strumenti musicali, l’abbandono delle antifone del messale, le resistenze nel clero e molto altro. Un testo utile, importante, scomodo. Certamente da leggere con attenzione, nella speranza che qualcuno voglia, prima o poi rendersene conto, e avviare un processo di riparazione.

Dal sommario e possibile farsi un’idea dei temi, e dei contenuti.
Sommario

Dopo la prefazione di Miserachs Grau e l’introduzione abbiamo questo menù :
Musica e liturgia alla deriva
Forma mentis
La bellezza nella musica liturgica
Musica liturgica e musica leggera
L’anticlericalismo del musicista liturgico
Musica liturgica profumata
Musica liturgica e clero
Il mito del Concilio Vaticano II
L’eresia populista nella musica di Chiesa
La civiltà occidentale
Non ti pago!
God save the Queen!
Le battaglie perse di Papa Benedetto XVI
L’equivoco del canto popolare nella liturgia
Il razionalismo liturgico
Un improbabile incontro
Capito l’antifona?
Se non avete ancora capito l’antifona…
Tre motivi per amare il buon canto liturgico (e uno per odiarlo)
Gli strumenti musicali nella liturgia
La musica al mio funerale
Delle italiche crisi vo narrando…
Osteria del Vaticano
Musicisti di tutto il mondo, unitevi!
Cantantibus organis
Un Concilio non conciliante
Guerra
Laicizziamo
La perdita del centro
Musica liturgica tra percezione ed uso
Ma che vergogna è questa?
In difesa della musica per la liturgia (e contro la musica nella liturgia)
Il Verbo si è fatto carne
L’organista celebrante
Antifone d’ingresso
Missa de Angelis
La Messa di Sant’Albano
O Cristo splendore del Padre
Le antifone del Messale
Il bosco
Lettera a Papa Francesco.










domenica 17 dicembre 2017

Perché il cristiano non sa più sacrificarsi e soffrire?






Autore: C3S

“Tra i fenomeni veramente assurdi del nostro tempo io annovero il fatto che la croce venga collocata su un lato dell’altare per lasciare libero lo sguardo dei fedeli sul sacerdote. Ma la croce, durante l’Eucaristia, rappresenta un disturbo? Il sacerdote è più importante del Signore? (…) Il Signore è il punto di riferimento. E’ lui il sole nascente della storia. Può trattarsi tanto della croce della passione, che rappresenta Gesù sofferente che lascia trafiggere il suo fianco per noi, da cui scaturiscono sangue e acqua –l’Eucaristia e il Battesimo-, come pure di una croce trionfale, che esprime l’idea del ritorno di Gesù e attira l’attenzione su di esso. Perché è Lui, comunque, l’unico Signore: Cristo ieri, oggi e in eterno.”[1]

Queste parole sono state scritte dall’allora cardinale Ratzinger: la croce sembra aver rappresentato un disturbo e il sacerdote è diventato più importante del Signore. Il futuro Benedetto XVI con queste riflessioni esprime un invito a rimettere la Croce sugli altari.

Ma il problema è a monte. Quando davvero è stata rimossa la Croce? Di fatto con la riforma liturgica allorquando il punto di gravitazione si è spostato da Dio all’assemblea, cioè all’uomo. E infatti, sempre l’allora cardinale Ratzinger, denunciava, nella Messa, un’enfatizzazione della dimensione comunionale a discapito di quella sacrificale: 

“La liturgia cristiana –Eucaristia- è per sua natura festa della resurrezione, ‘Mysterium Paschae’. In quanto tale essa porta in sé il mistero della croce che è poi l’intima premessa della risurrezione. Ci troviamo semplicemente di fronte ad un eccessivo deprezzamento quando l’Eucaristia viene spiegata come il pasto della comunità: essa è costata la morte di Cristo e la gioia che essa promette presuppone l’entrata in questo mistero di morte. L’Eucaristia è orientata escatologicamente ed è quindi centrata sulla teologia della croce.”[2]

Ora –chiediamoci- tutto questo che conseguenze ha prodotto nella vita dei fedeli?

Tolta la Croce dalla Messa, tolta la Croce dalla vita.

Molti dicono che oggi la fede è in crisi. Ovviamente si tratta di un’affermazione giusta e anche corretta, perché quando si parla di fede, s’intende la sua realtà complessiva, ciò a cui essa riconduce e ciò di cui essa ha bisogno per essere davvero tale. Ma se volessimo essere precisi, dovremmo dire che non basta parlare di crisi della fede, piuttosto dovremmo parlare di crisi dello “spirito della fede”. Nel senso che c’è ancora chi crede nelle verità della fede, ma sono divenuti pochi, se non pochissimi, coloro che configurano la loro vita alla fede e la modellano su di essa.

Togliere la centralità della Croce dalla liturgia ha significato (relativamente al rapporto indissolubile lex orandi-lex credendi) un togliere la centralità della Croce dalla vita.

Il rifiuto della Croce non cambia di poco la vita cristiana, bensì di molto: anzi la distrugge. Negare la Croce, vuol dire convincersi di una capacità di auto-salvazione. Ciò conduce a respingere la sofferenza e lo spirito di sacrificio; a pensare che tutto sommato ciò che conta siano i propri diritti e basta. Guai a farsi mettere i piedi in faccia. Guai a vivere con santa pazienza. E così si sfascia tutto. E anche i cristiani si adoperano in questo. Si sfascia la famiglia, perché non si sopportano più i coniugi. Non si fanno più figli, perché non ci si vuole sacrificare e non si vuole rinunciare. E -di conseguenza- è sparita la convinzione che il peccato è il problema più grave.

Concludiamo con queste precise parole di un sacerdote contemporaneo che da un certo momento in poi ha deciso di celebrare nel Rito Tradizionale. Si tratta di don Alberto Secci e queste parole sono tratte da una sua omelia: 

“Se la Messa non è la Passione di Gesù piano piano diventa una presenza morale quella del Signore! Poi tu sei li che cerchi di stare con Gesù facendo del sentimento e della preghiera per destare delle buone intenzioni e cosi hai compiuto la fine della presenza del Signore e la distruzione della vita cristiana. Ora voglio spezzare una lancia a favore dei preti. Voi dovete avere una grande carità nei confronti dei sacerdoti perché non sono stati loro a cambiare la Messa. Un sacerdote da' la vita per la Messa e se gli cambiano la Messa gli han distrutto la vita. Io ho una grande stima verso i sacerdoti perché è un miracolo se vivono ancora cosi. Gli hanno tolto tutto! Qui vi chiedo di comprendere fino in fondo il dramma. L’hanno fatto il presidente di un’azione di preghiera che dice: Gesù è presente, ci vuol bene, ora dobbiamo voler bene agli altri etc. ma vi immaginate? E’ un training autogeno, un auto convincimento… questa non è la Messa! (…) Voi immaginate i poveri preti: ci hanno tolto questo. Di cosa viviamo? Di cosa vivremo? Ma hanno tolto anche alle anime questo: come fa uno a rimanere fedele tutta la vita al suo matrimonio? Come fa ad accettare le gioie e le sofferenze di una vita? Come fa ad accettare la malattia e la morte se non dentro questa azione di Cristo?”

[1] J.Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Milano) 2001, p.80.

[2] J.Ratzinger, La festa della fede, Milano 1990, p.63.

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri













sabato 16 dicembre 2017

Legge sul biotestamento, è giusto fare resistenza




Mons Luigi Negri*

Di fronte all’approvazione definitiva della legge sul testamento biologico, la prima osservazione, amara, è che la Chiesa italiana ha perso una battaglia che peraltro non ha neanche combattuto.
Più in generale non si può evitare un confronto con quanto accadde solo pochi anni fa quando Eluana Englaro è stata uccisa dallo Stato con una operazione infame: allora la realtà popolare cattolica aveva accompagnato questo martirio con una presenza viva e attiva, cercando di impedirlo. Oggi prevale una sostanziale indifferenza non solo da parte dell’istituzione ecclesiastica, c’è stato un silenzio anche per gran parte della realtà popolare cattolica. Non solo: nella frammentazione pubblica, politica, abbiamo cattolici che esultano per quel che considerano un importante passo verso la democrazia occidentale, e altri giustamente preoccupati.

Io che sono intervenuto più volte sulla vicenda aggiungerei queste preoccupate osservazioni:

La prima osservazione è che con questa legge si consente che lo Stato
, istituzione capitale di una società, si occupi di problemi e di dimensioni che sono esclusivamente personali, cioè che coinvolgono la persona e quantomeno il contesto parentale nella quale la persona è nata e svolge passi fondamentali della sua esperienza umana. Nel momento decisivo, laddove si devono prendere decisioni gravi di fronte a dolori permanenti, di fronte alla eventualità reale che siano gli ultimi tempi prima del passaggio definitivo, lì il nostro Stato ritiene di essere - insieme a un gruppo di esperti - il soggetto abilitato su queste decisioni che attengono alla sacralità della persona e al contesto parentale in cui la persona è cresciuta e vissuta.
È una singolare riduzione della persona a soggetto di una comunità statale che si rapporta a lui come un suddito. E la realtà parentale scompare del tutto e viene sostituito da una trama di rapporti istituzionali che decidono circa l’esito della vita di una persona. Persona che, si badi bene, non è nata dallo stato e non è suddito dello stato, ma è nata in un contesto parentale, essenziale per la sua nascita ed essenziale per il suo sviluppo.
Siamo di fronte a uno statalismo contro il quale la sana Dottrina sociale della Chiesa
- che evoco a quei pochi che ancora ne conoscono i contenuti - ha sempre lottato. Lo Stato non ha ogni diritto, lo Stato deve porre e incrementare le condizioni per la libertà della persona e dei gruppi nella realtà sociale. Se fa altro invece di questo, compie dei gesti che sono totalitari.

Seconda osservazione, legata alla prima: una volta che lo Stato inizia ad allargare le sue competenze sugli spazi della vita personale e sociale, l’appetito vien mangiando. Noi abbiamo già conosciuto nella storia recente la pretesa dello Stato di intervenire nelle sfere significativamente private o personali. Basti pensare a come – non in Italia ma altrove – lo Stato è intervenuto sui matrimoni, magari scoraggiando o impedendo il matrimonio fra etnie diverse, tentando di normare la vita delle cosiddette minoranze in modo arbitrariamente riduttivo. Anche Stati che si gloriavano di essere democratici hanno trattato minoranze etniche e linguistiche come cittadini di seconda categoria. Quando lo Stato investe un punto che non gli compete invadendo la sfera della libertà personale e privata, tutta la società è sottoposta alla reale possibilità che lo Stato non si fermi e che in poco o tanto tempo (mi auguro che sia tantissimo) molte altre dimensioni della vita personale e sociale vengano attribuite meccanicamente alla responsabilità dello Stato.

Da ultimo mi sembra giusto rilevare che la minoranza cattolica che, in questa frammentazione sociale e politica dei cattolici, ha ancora il senso della propria identità ecclesiale, della propria dignità di figli di Dio e della propria responsabilità missionaria, capisce che quello del fine vita è un tema su cui investire energie culturali e pastorali. Tutta la comunità ecclesiale, e non solo quella ecclesiale, si deve rendere conto di ciò che è accaduto e deve attrezzarsi a una resistenza legittima in modo che questa legge, dato che c’è, sia attuata il meno possibile.
Una comunità ecclesiale come quella italiana che ha già dimostrato una maturità enorme nell’ambito della cura e della preoccupazione per la realtà e nell’educazione della sua libertà, deve semplicemente aggiungere alla sua agenda altri ambiti in cui esercitare la stessa vigilanza e capacità di resistenza.

* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio














Approvata la legge che apre all’eutanasia. Dichiarazione dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi



sabato 16 dicembre 2017


Giovedì scorso 14 dicembre il Parlamento italiano ha approvato la legge cosiddetta sulle DAT che apre all’eutanasia, persino in forme più accentuate che in altri Paesi. Durante la fase della discussione in Parlamento e nel Paese anche io, come vescovo e come presidente dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, ero intervenuto, insieme ad altri, come per esempio il Centro Studi Rosario Livatino, per mettere in evidenza la gravità del contenuto di questo testo di legge. Purtroppo ha prevalso un’ideologia libertaria e, in definitiva, nichilista, espressa in coscienza da tanti parlamentari. Così l’Italia va incontro ad un futuro buio fondato su una libertà estenuata e priva di speranza. Questa legge si aggiunge ad altre approvate in questa triste legislatura che hanno allontanato la nostra legislazione sulla vita e sulla famiglia dalla norma oggettiva della legge morale naturale che è inscritta nei nostri cuori, ma che spesso i piccoli o grandi interessi di parte e le deformazioni dell’intelligenza nascondono agli uomini. Coloro che con grande impegno stanno smantellando per via legislativa i principi della legge morale naturale, che per il credente è il linguaggio del Creatore, non sono però in grado di dirci con cosa intendano sostituirne gli effetti di coesione sociale in vista di fini comuni. La libertà intesa come autodeterminazione, che questa legge afferma ed assolutizza, non è in grado di tenere insieme niente e nessuno, nemmeno l’individuo con se stesso.

Preoccupa molto che in questa legislatura leggi così negative siano state approvate in un contesto di notevole indifferenza. Esprimo il mio compiacimento e sostegno per tutti coloro che si sono mobilitati, con la parola, gli scritti ed anche con le manifestazioni esterne, per condurre questa lotta per il bene dell’uomo. Devo però anche constatare che molti altri avrebbero dovuto e potuto farlo. Questa mia osservazione vale anche per il mondo cattolico. Ampie sue componenti si sono sottratte all’impegno a difesa di valori così fondamentali per la dignità della persona, timorose, forse, di creare in questo modo muri piuttosto che ponti. Ma i ponti non fondati sulla verità non reggono.


In momenti come questo può prevalere un sentimento di scoraggiamento. Ѐ comprensibile. Tutto si paga in questa vita e le pessime leggi approvate produrranno sofferenza e ingiustizia sulla carne delle persone. Si ha l’impressione di doversi ormai impegnare per ricostruire dalle basi un alfabeto che è stato disarticolato. Nel contempo, occorre anche ricordare che la storia rimane sempre aperta a nuovi percorsi e soluzioni e che nella storia ci si offrono sempre nuove possibilità di recupero e di riscatto. Recupero e riscatto che non ripagheranno, umanamente parlando, le ingiustizie provocate e subite, ma che permetteranno di non consentirne di nuove. Non dimentichiamo che c’è la storia, ma anche il Signore della storia. In Lui confidiamo per essere pronti alle nuove occasioni che Egli ci metterà davanti.


+ Giampaolo Crepaldi 







giovedì 14 dicembre 2017

14-12-2017: l'Italia sancisce il diritto di farsi uccidere





Tommaso Scandroglio (14/12/2017)

Da oggi il catalogo delle leggi intrinsecamente ingiuste
varate dal nostro Parlamento si è arricchita di una nuova norma, quella sull’eutanasia, impudicamente definita “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.

Ricordiamo in sintesi quali sono gli aspetti più letali di questa legge
(per un’analisi più dettagliata ci permettiamo di rinviare al libro "Appuntamento con la morte". Quali sono i trattamenti che si possono rifiutare? Tutti, sia le terapie, anche salvavita, che idratazione e nutrizione, le quali non sono terapie e ad oggi, di per se stesse, non potrebbero essere fatte oggetto di rifiuto. La ventilazione non viene nominata, ma implicitamente farà parte del novero di trattamenti che si potranno rifiutare. Il paziente potrà rifiutare non solo l’attivazione di terapie anche salvavita (oggi già consentito) e presidi vitali quali idratazione e alimentazione, ma anche l’interruzione di terapie e presidi vitali già in essere (ad oggi vietati).

Ergo non solo si legittima l’eutanasia omissiva
– io medico voglio lasciarti morire non dandoti le terapie utili a vivere (legittimazione già consentita oggi) – ma anche l’eutanasia commissiva, ossia attiva: io medico, ad esempio, ti stacco la Peg che ti alimentava ed idratava e così tu potrai morire. Non solo quindi il paziente potrà sottrarsi alle cure non sottoponendosi ad esse e così chiudere gli occhi per sempre, ma potrà chiedere al medico che lo aiuti a morire. Nel testo di legge è esclusa solo una doppia modalità per dare la morte: la cosiddetta iniezione letale e la preparazione di un preparato altrettanto letale da consegnare al paziente il quale poi lo assumerà da sé (aiuto al suicidio). Se si fossero inserite queste due metodiche anche il più stupido degli stupidi avrebbe capito che questa non è una legge contro l’accanimento terapeutico – così come vogliono vendercela – bensì una legge a favore dell’eutanasia. Passiamo ad altre domande.

Quali sono le circostanze e quali i motivi che possono legittimare la richiesta eutanasica?


Il Testo unico non indica nessuna condizione particolare né nessuna motivazione specifica
, perciò tutte le circostanze e tutte le motivazioni addotte sono valide per chiedere di morire. In merito alle condizioni, non solo i pazienti terminali, ma anche quelli che possono guarire, i disabili, i sani - compresi le persone anziane - possono accedere all’eutanasia di Stato. Chiunque in qualsiasi condizione. L’eutanasia incondizionata esige anche che il consenso valido per morire non sia solo quello attuale, ma anche quello contenuto nelle Dat. Efficace perciò anche il consenso datato, inattuale che potrebbe contrastare con la volontà del paziente incapace di esprimersi. Relativamente alle motivazioni, ogni ragione è buona per morire e non c’è nemmeno l’obbligo di esporla al medico, né di verificarla, né tanto meno di indicarla nella cartella clinica. Perciò si può chiedere di morire non solo perché si soffre terribilmente, ma anche perché si è depressi, infelici per una delusione amorosa o perché un affare è andato male, stanchi semplicemente di vivere perché anziani, etc. Basterà, all’atto pratico, sedare la persona e farla morire di sete e di fame.

La legge italiana sull’eutanasia diventa così la norma più permissiva che esista
a livello mondiale perché almeno in Belgio, Olanda e Canada, i paesi forse più liberal su questo tema, qualche paletto lo avevano pur messo in merito all’accesso alla “dolce morte”.

Altra domanda: il medico può eccepire obiezione di coscienza? No.
Quindi se il paziente chiede di morire il medico dovrà obbedire, ossia sarà costretto a compiere un assassinio. Va da sé che l’art. 579 cp che punisce l’omicidio del consenziente non potrà più essere applicato nelle corsie di ospedale. Dunque la richiesta di morte dovrà essere sempre soddisfatta dalle strutture ospedaliere, comprese quelle cattoliche.

Ancora un quesito: chi decide per minori e incapaci?
Ad oggi il minore e l’incapace devono essere sempre curati dato che il rifiuto ad iniziare un trattamento può essere prestato solo da persona maggiorenne e capace di intendere e volere. La legge approvata oggi cambia completamente il quadro: genitori e rappresentati legali avranno potere di vita e di morte su figli e incapaci. E così avremo un lungo elenco di possibili condannati a morte: pazienti in coma e affetti da sindrome locked-in o dal disturbi di coscienza, disabili mentali, persone affette da patologie neurodegenerative (malati di Alzheimer ad esempio), anziani con demenza senile, neonati prematuri o non prematuri con sopravvivenza incerta o certa ma affetti da patologie più o meno gravi, bambini e ragazzi sia malati fisicamente che solo depressi, etc. e persino adulti capaci di intendere e volere che però, in base alla facoltà concessa da questa legge, hanno preferito delegare il proprio consenso a terzi. Vero è che la legge prevede che il consenso da parte dei rappresentati legali deve essere prestato “avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”. Ma se, ad esempio, continuare a vivere un’esistenza da disabile è considerato dal rappresentante legale e dal medico contrario alla dignità dell’incapace sarà legittimo staccare la spina. I casi Eluana e Charlie da eccezionali e illegali diventeranno (forse) normale prassi assolutamente legale.

Infine un’ultima domanda: le Disposizioni anticipate di trattamento, che scattano quando il paziente non è più cosciente, sono uno strumento a tutela della sua libertà? No
, perché sono inaffidabili. In primo luogo perché le Dat congelano la volontà nel passato e non riescono ad attualizzarla: ergo si potrà uccidere un paziente che, per ipotesi, se fosse vigile potrebbe aver cambiato idea e deciso, in difformità con quanto scritto nelle Dat, di continuare a vivere. Il problema delle Dat sta nel fatto che si decide ora per allora non potendo prevedere quali saranno le patologie a cui si andrà incontro e quindi anche quali i trattamenti terapeutici adatti. Quindi si esprime un consenso disinformato e non informato. In secondo luogo una cosa è decidere della propria salute da sano e un’altra quando si è sofferenti: sono i sani che chiedono l’eutanasia, non i moribondi che spesso si aggrappano alla vita con tutte le loro forze. In terzo luogo alcuni studi (cfr. R. PUCCETTI - M.C. DEL POGGETTO - V. COSTIGLIOLA - M.L. DI PIETRO, Dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT): revisione della letteratura, in Medicina e Morale, a. LXI, n. 3) ci dicono che molti cambiano idea sulle volontà espresse nelle Dat, ma pochi si accorgono di aver cambiato idea e quindi non si sente l’esigenza di rivedere le proprie volontà scritte.

In quarto luogo c’è il problema dell’interpretazione del contenuto delle Dat
spesso impreciso e vago, soprattutto perché il dichiarante non di rado padroneggia male i termini medici. La presenza del fiduciario, dati alla mano che ci provengono dall’esperienza di altri Paesi, non migliora il quadro ed anzi lo peggiora. Tra l’altro la legge oggi varata non prevede l’obbligo della presenza del medico allorchè si redigano le Dat. In quinto luogo la nuova normativa non prevede dei criteri per accertare che il dichiarante, al momento della redazione, fosse lucido, consapevole, non sotto minaccia, non sotto l’effetto di droghe, etc. In sesto luogo le Dat acquisiscono efficacia allorchè il paziente versi in una situazione di “incapacità di autodeterminarsi”, espressione assai generica - non equiparabile di certo all’espressione giuridica “incapacità di intendere e volere” - che potrebbe andare dal momentaneo annebbiamento delle facoltà mentali, allo stato confusionario, al coma, alla mancanza di lucidità e consapevolezza proprie ad esempio dei malati di Alzheimer. Chi poi dovrà certificare questa incapacità? Non è dato di saperlo. Infine il medico deve dare applicazione alle volontà indicate nelle Dat e non può obiettare. Però in accordo con il fiduciario, può disattenderle solo in due occasioni. In primo luogo se il quadro clinico è mutato rispetto a quanto preventivato nelle stesse Dat. Se il quadro clinico non è mutato il medico ha l’obbligo, se così previsto, di dare la morte al paziente. Inoltre il medico può disattenderle, ma non c’è il dovere di disattenderle. Ergo anche nel caso in cui il quadro clinico fosse mutato e il medico si attenesse alle Dat non incorrerebbe in nessun guaio giudiziario. Altra ipotesi in cui è lecita, ma non doverosa, la non applicazione delle Dat: l’esistenza di terapie, non prevedibili nel momento in cui furono redatte le Dat, che possono migliorare le condizioni di vita. Facciamo il caso di Tizio, che aveva redatto le Dat, finito in coma a seguito di incidente stradale. Tizio con le dovute e innovative terapie può salvarsi, addirittura svegliarsi dal coma, ma certamente riporterebbe danni cerebrali che ad esempio lo costringerebbero sulla carrozzina. Le terapie quindi sarebbero salvavita, ma restituirebbero Tizio a suoi cari non certo in condizioni migliori rispetto a prima dell’incidente. Di conseguenza il medico è obbligato ad applicare le Dat, dunque è obbligato a commettere un omicidio.

In buona sostanza la ratio della nuova disciplina normativa
è composta dai seguenti punti. Primo: si introduce un vero e proprio diritto a morire, declinato come diritto di togliersi la vita lasciandosi morire e diritto di farsi uccidere. Secondo: si introduce un diritto ad uccidere sia in capo a genitori e altri rappresentati legali sia in capo al medico, dato che tale potere di uccidere viene legittimato da una norma giuridica. Terzo: si introduce il dovere di uccidere in capo al medico dietro richiesta del diretto interessato anche quando non è più vigile, ma che ha redatto le Dat al fine di voler morire, e dei genitori, tutori etc.































lanuovabq.it 14-12-2017

Orari S. Messa in Rito Romano antico a Pistoia. Tempo di Natale 2017-18


Chiesa di San Vitale a Pistoia 




ORARIO

SANTA MESSA 
IN RITO ROMANO ANTICO 


nella Chiesa di San Vitale 
via della Madonna 58 - PISTOIA 



ogni DOMENICA 
e festività di precetto 

ore 18:00




Disponibilità del sacerdote per le confessioni dalle ore 17:30.


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Calendario delle celebrazioni del TEMPO DI NATALE 2017/18:  

S. MESSA  ore 18:00 il:

domenica 24 dicembre - IV  Adventus 
lunedì 25 dicembre - In Nativitate Domini nostri Jesus Christi
domenica 31 dicembre - S. Silvestri I
                                             
lunedì 1 gennaio - In circumcisione Domini et octava Nativitatis
sabato 6 gennaio - In Epiphania Domini
domenica 7 gennaio - Sanctae Familiae 








mercoledì 13 dicembre 2017

LA RELIGIONE DELL'INCARNAZIONE: UN FATTO, UN LUOGO, DEI VOLTI






Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno X n° 12 - Dicembre 2017



Il grande Cardinale Newman ha scritto che se gli avessero domandato di scegliere una dottrina come base della nostra fede cattolica, avrebbe senz'altro scelto la dottrina dell'Incarnazione:
“Io direi, per quanto mi riguarda, che l'Incarnazione è al cuore del Cristianesimo; è di là che procedono i tre aspetti essenziali del suo insegnamento: il sacramentale, il gerarchico e l'ascetico.”


Il Figlio di Dio ha unito la sua natura divina alla nostra natura umana affinché, come dice la preghiera dell'offertorio della messa, “possiamo divenire partecipi della sua divinità”.


In questo “divenire partecipi della sua divinità” c'è tutta la vita cristiana. Siamo stati chiamati alla vita, siamo stati afferrati dalla Grazia Santificante dal giorno del nostro Battesimo, ci impegniamo in una vita ascetica per seguire la volontà di Dio, proprio per “divenire partecipi della sua divinità”: è la vita soprannaturale; è questo il dono di Dio per noi, è questo il nostro destino.


Dobbiamo proprio comprendere che il Cristianesimo è fondato sulla realtà dell'Incarnazione, per poi comprendere la nostra vita con lo scopo che ha dentro: divenire partecipi della sua divinità. Se si toglie questa realtà non resta più niente del Cristianesimo.


L'Incarnazione poi è un fatto storico, non è innanzitutto un concetto, un'idea.


L'Incarnazione è il fatto storico che, a un certo momento del tempo, il Verbo di Dio ha preso su di sè la nostra umanità, la nostra povertà, il nostro nulla, per donarci il potere di diventare figli di Dio. Questo è il fatto più sconvolgente della storia e per questo contiamo gli anni dalla notte di Betlemme.


Tutte le eresie sono nemiche di questo fatto, lo negano nella sua pienezza, lo reinterpretano fino ad annullarlo nella sua sconvolgente verità.


Tutte le eresie sorte dentro il Cristianesimo vanno contro quest'unico fondamento della religione cristiana, e così fa il Modernismo che è la somma di tutte le eresie. Il Modernismo ha come nemico principale la realtà dell'Incarnazione, e trasforma il cristianesimo in una religione che nasce dal di dentro dell'uomo, dalla sua psicologia profonda. Invece tutto nasce da un fatto, un fatto fuori dell'uomo che trasforma dentro l'uomo: Dio si è fatto uomo.


Trasforma l'uomo – diventiamo partecipi della sua divinità – ma è un fatto fuori dell'uomo.


E ci trasforma proprio perché non è dentro l'uomo, ma entra nell'uomo con il potere della Grazia di Cristo.


Da qui discende tutto.
Dal fatto che è un fatto - che come ogni fatto è fuori di noi, è difronte a noi - discende tutto il potere salvifico del Cattolicesimo:


“L'Incarnazione è l'antecedente della dottrina della mediazione; essa è l'archetipo del principio sacramentale e dei meriti dei santi. Dalla dottrina della mediazione derivano la salvezza, la Messa, i meriti dei martiri e dei santi, le invocazioni e il culto loro indirizzato. Dal principio sacramentale provengono i sacramenti propriamente detti, l'unità della Chiesa e la Santa Sede (…), l'autorità dei concili; la santità dei riti; la venerazione con cui si circondano i luoghi sacri, le tombe dei santi, le immagini, i mobili, gli ornamenti e i vasi sacri... Bisogna o prendere tutto o rigettare tutto; attenuare non è che indebolire; amputare è mutilare”.


Grande Newman! Bisogna accettare tutto del Cattolicesimo! E tutto, come il fatto dell'Incarnazione, è qualcosa di esterno che entra dentro, per trasformarti dentro.


Il male è proprio qui. Il terribile male che sta sfigurando la Chiesa Cattolica e la vita di una moltitudine di cristiani consiste nell'attenuare questo fatto esterno che, abbracciato, ci salva.
È il male orribile di trasformare il Cristianesimo nella religione delle idee e dei valori; di trasformarlo in un culto tutto interno all'uomo, in una religione psicologica e introspettiva: è la vittoria del Peccato Originale, è la vittoria del Demonio, che vuole chiudere l'uomo in se stesso per poi abbandonarlo alla propria disperazione.


Ma il Cristianesimo è un fatto esterno che nasce dal fatto dell'Incarnazione di Dio.


Il pericolo è di non ricordarlo sempre: bisogna prendere tutto o rigettare tutto... attenuare è indebolire... amputare è mutilare.


Dobbiamo ricordarlo sempre: Cristo ci raggiunge con un fatto esterno a noi.


Per questo non si può salvare nemmeno la Tradizione della Chiesa con le parole, ma aderendo a un fatto.


È aderendo a un luogo esterno, che ti ha riconsegnato la fede di sempre, che si salva la Tradizione.
È stando a quel fatto, stando a un luogo, stando a persone visibili con cui il Signore ti ha riconsegnato ad una fede integralmente cattolica, che tu potrai essere trasformato dentro.
La tentazione è sempre quella di volgersi alle idee, ai valori, alle parole, per rigettare o attenuare il fatto; e attenuarlo è rigettarlo!


Siamo a Natale. Quale domanda faremmo bene a porci? C'è ne una più urgente di tutte:
“Ma io, dove riconosco il fatto di Dio? Dov'è la mia grotta di Betlemme, dove andare ad adorare il Signore; dov'è la grotta dove Dio nasce?”.
La risposta non può essere vaga, dovrà indicare un luogo concreto, un centro di messa tradizionale concreto, dei volti precisi a cui riferirsi, dei tempi e occasioni stabiliti in cui esserci.


Sì, lo sappiamo, la Chiesa è in crisi; ma tutta la crisi della Chiesa non impedirà ai sinceri di cuore il trovare questi fatti precisi, luogo di salvezza per l'anima stanca. Dio è fedele, e non fa mancare mai il suo soccorso, che è sempre un fatto.


Se ci ostineremo a cercare la salvezza dentro di noi, vorrà dire che siamo già parte dei peggiori modernisti, magari “tradizionali”.


Ma preghiamo che così non sia.
Buon Natale


















martedì 12 dicembre 2017

La cattiva teologia che ha desacralizzato le chiese








Stefano Fontana (12/12/2017)

La campagna della Nuova BQ #salviamolechiese circa le nuove forme di okkupazione delle chiese con sfilate di moda, rassegne dell’artigianato locale, mostre di quadri di dubbio gusto e così via … mette il dito in una piaga che ha origini lontane. Se si trattasse solo di sprovvedutezza e noncuranza la cosa non sarebbe poi così grave. Sprovvedutezza e noncuranza riguardano casi particolari, pur se di numero crescente, e possono pretendere le attenuanti che si danno di solito agli sprovveduti e ai noncuranti. Il fatto è, purtroppo, che questa nuova okkupazione delle chiese è stata ampiamente teorizzata e addirittura fondata teologicamente. E’ per questo che la cosa è piuttosto grave: l’okkupazione delle chiese con i corsi di aerobica rappresenta l’ingresso del profano nel sacro o, meglio, l’annullamento della distinzione tra sacro e profano. E questo concetto la teologia lo sta insegnando ormai da decenni, almeno fin dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Nel 1969 Ladislaus Boros scriveva che da quando Cristo si è incarnato, Dio lo si incontra nell’uomo e il mondo è diventato grazia. Due anni dopo, Gustavo Gutiérrez, padre della teologia della liberazione, insisteva sul medesimo concetto: «Da che Dio si fece uomo, l’umanità, ogni uomo, la storia, sono il tempio vivo di Dio. Il pro-fano, ciò che sta fuori del tempio, non esiste più», e concludeva così il suo ragionamento: «Se l’umanità, se ogni uomo, è tempio vivo di Dio, allora incontriamo Dio nell’incontro con gli uomini, nell’impegno col divenire storico dell’umanità».

Clodovis Boff, fratello del più noto Leonardo, nel suo libro “La grazia liberatrice nel mondo” sosteneva che non bisogna più parlare della grazia, come fa la Chiesa, ma lasciare la grazia parlare, intendendo che la grazia opera nel mondo e parla attraverso i fatti del mondo. In precedenza, eravamo nel 1964, Jürgen Moltmann aveva spiegato che c’era stata una evoluzione della presenza di Dio tra gli uomini: dapprima nella tenda, poi nell’Arca, poi nel tempio … fino a quando Dio avrebbe preso dimora nell’umanità stessa. Pannenberg aveva parlato di rivelazione come storia, Schlette di epifania come storia, Cullmann di salvezza come storia. Tutte queste teologie hanno sostenuto che Dio si sarebbe rivelato non tramite una teofania diretta, ma in modo indiretto tramite gli avvenimenti della storia. Il sacro, inteso come il luogo e la dimensione diretta della rivelazione e della teofania, doveva quindi essere sostituito col profano, inteso come il modo indiretto con cui Dio si rivela e guida la storia della salvezza. Edward Schillebeecks aveva scritto nel 1965 che «Tutta la vita profana costituisce una specie di esplicitazione di ciò che vuol dirci l’intima offerta della grazia di fede». Nello stesso anno Harvey Cox aveva dichiarato che «Dio ama il mondo e non la Chiesa».

Se si vuole però andare alle origini di questa identificazione del sacro col profano occorre parlare di Karl Rahner. Per lui il mondo come esistenza è il luogo della auto-rivelazione di Dio all’uomo. Noi non incontriamo mai gli insegnamenti di Dio e Dio non ci ha dato degli insegnamenti diretti, noi vediamo il mondo e gli uomini e lì Dio comunica se stesso in via anonima e priva di contenuti, una via che accetta e fonda la nostra libertà. Ecco allora «L’odierna tendenza a parlare non di Dio, bensì del prossimo, a predicare non l’amore di Dio, bensì l’amore del prossimo, a non dire Dio, bensì mondo e responsabilità verso il mondo».

La storia della salvezza coincide quindi con la rivelazione e con la storia dell’umanità e non c’è distinzione tra storia sacra e storia profana: «Il mondo media a Dio come a colui che si comunica nella grazia, e in questo senso il cristianesimo non conosce alcun settore sacrale delimitato, nel quale soltanto potremmo trovare Dio». Il mediatore tra gli uomini e Dio è ormai diventato il mondo.

Questi scarni esempi possono adeguatamente testimoniare che l’ingresso della “pizza solidale” in duomo o dei pranzi con i poveri in cattedrale non sono solo dovuti a superficialità o sprovvedutezza, ma sono alimentati da una visione della relazione tra il mondo e la Chiesa che data ormai da alcuni decenni. Non ha importanza la notevole differenza tra le dotte asserzioni dei teologi e lo squallore di molte di queste okkupazioni, le idee filtrano dalla aule universitarie alle piccole parrocchie di periferia dove qualcuno organizza l’ingresso del mondo in chiesa senza aver mai letto Cox o Rahner ma seguendone ugualmente e di fatto gli insegnamenti.

Se Dio si manifesta prima di tutto nel mondo tramite eventi storici, allora lo si incontra nella prassi di fare entrare gli eventi storici nelle chiese. Viene quindi trascurato che la Chiesa è il luogo in cui il fedele può entrare in contatto con quanto storico non è. Lo spazio sacro è il luogo dell’eterno. La Chiesa, per la presenza del Santissimo Sacramento dell’altare, è un luogo “metafisico” e non più solo storico: lì è presente l’Alfa e l’Omega della storia, che proprio perciò non è storia. Ed infatti, quando entra la “pizza solidale” in duomo, il Santissimo – almeno per ora - viene trasportato altrove.














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