di Aldo Maria Valli (31/05/2017)
È sempre interessante e istruttivo vedere come i paladini della misericordia e del dialogo applicano questa linea di condotta quando si esce dalla sfera dei princìpi e si entra in quella dei casi concreti.
Caso numero uno. Un cardinale di Santa Romana Chiesa, noto per il suo appoggio alla linea misericordiosa e grande sostenitore dell’«Amoris laetitia», intervistato in un libro intitolato «Solo il Vangelo è rivoluzionario», a proposito del confratello cardinale Raymond Burke, che invece sull’esortazione apostolica, come si sa, ha qualche «dubia» e l’ha pure manifestato, dichiara, tutt’altro che misericordiosamente: «Lui non è il magistero: il Santo Padre è il magistero, ed è lui che insegna a tutta la Chiesa. L’altro dice solo il suo pensiero, non merita ulteriori commenti. Sono le parole di un povero uomo».
Caso numero due. Un professore di teologia di un pontificio ateneo di Roma, anch’egli filo-misericordioso, intervistato a proposito della prefazione scritta dal papa emerito Benedetto XVI per il libro del cardinale Robert Sarah «La forza del silenzio» (nella quale Ratzinger esprime gratitudine e stima per il porporato responsabile della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti), sostiene, anche qui mica tanto misericordiosamente, che per il papa emerito bisognerebbe arrivare alla «morte istituzionale», che fra i due papi «non può esserci coabitazione» e che «la veste bianca e la loquacità, oltre alla residenza [del papa emerito], debbono essere dettagliatamente normate».
Ohibò! Sono affermazioni forti. Stroncature belle e buone. Non succede tutti i giorni che un cardinale attacchi un altro cardinale arrivando a dargli del «povero uomo». E non è neanche tanto normale che un docente di un ateneo pontificio sostenga che per il papa emerito si debba arrivare alla «morte istituzionale», ovvero che per lui non ci sia più alcuna libertà di parola.
Queste prese di posizione, da parte di coloro che normalmente grondano misericordia da tutti gli artigli e si presentano come i portabandiera della Chiesa dialogante e antidogmatica, non risultano, forse, un tantino contraddittorie?
E allora il confronto, il rispetto? E la parresìa? E la libertà di parola? E la collegialità? E la sinodalità? Queste qui non sono forse cose che stanno tanto a cuore ai paladini di cui sopra? E allora com’è che se un cardinale Burke si permette di dire che nel magistero del papa c’è qualcosa che non torna c’è subito un altro cardinale che salta su e gli ricorda che «quello è solo il suo pensiero» (cosa palesemente non vera) e lo insulta sul piano personale? E com’è che se il papa emerito ha parole di stima e ammirazione per un cardinale di Santa Romana Chiesa non allineato al modernismo e sollecito nel chiedere che il sacro sia riconosciuto e rispettato, può succedere che un teologo di una pontificia università salti su e dica che al papa emerito va messa la museruola e, anzi, di più, occorre esiliarlo in qualche luogo remoto, così da renderlo inoffensivo?
Come dite? Che sono un ingenuo? Che quelle cose lì, tipo il dialogo, la sinodalità e tutto l’armamentario politically correct, lo sanno anche i bambini, vanno bene finché si parla in generale e in via teorica, ma quando invece si scende nel concreto bisogna picchiare duro? Come dite? Che i paladini della misericordia e del dialogo, per instaurare la Nuova Chiesa, non possono mica stare ad aspettare, o fare sconti? Che non è possibile (come sosteneva un certo Stalin) fare la rivoluzione in guanti di seta?
Ho capito: devo essere davvero ingenuo. Pensate un po’: ero convinto che, almeno nella Chiesa, fosse valida la regola del rispetto nella libertà delle idee.
Noto che i paladini della misericordia e del dialogo, quando diventano nervosi e perdono le staffe, spostano la discussione: dal piano delle idee si passa all’attacco personale. Non si entra nel merito. C’è solo un avversario da squalificare. La distinzione non è più tra vero e falso, tra giusto e sbagliato. No, l’unica distinzione che conta è tra utile e dannoso. Così non si sta a guardare se, per caso, il cardinale Burke, nel fare le pulci ad «Amoris laetitia», sostiene tesi assurde o plausibili. No, gli si dà del «povero uomo». Allo stesso modo, se il papa emerito elogia un cardinale come Sarah, che dimostra di avere a cuore le sorti della liturgia e quindi della fede, non ci si prende la briga di analizzare ciò che Sarah dice nel merito. No: si chiede semplicemente che il papa emerito sia neutralizzato perché non possa più interferire.
Stavo proprio pensando al papa emerito e all’idea, sostenuta dai paladini della misericordia, secondo cui dovrebbe starsene zitto e buono, quand’ecco che martedì 30 maggio, durante la messa del mattino a Santa Marta, il papa regnante se ne esce con questa riflessione: «Preghiamo per i pastori, per i nostri pastori: per i parroci, per i vescovi, per il Papa; perché la loro sia una vita senza compromessi, una vita in cammino, e una vita dove loro non si credano al centro della storia e così imparino a congedarsi».
Imparino a congedarsi? Perché questa annotazione? Chi, nello specifico, avrebbe bisogno di imparare a congedarsi?
Papa Francesco sta pensando alla rinuncia al pontificato, ha detto qualche commentatore. Il sottoscritto ha invece l’impressione che il messaggio partito da Santa Marta fosse diretto al vicino ex monastero Mater Ecclesiae, casa del papa emerito.
Impressione che si fa ancora più netta quando il papa regnante, di punto in bianco, dopo aver detto che «tutti [noi] i pastori dobbiamo congedarci», spiega: «Arriva un momento dove il Signore ci dice: vai da un’altra parte, vai di là, va di qua, vieni da me. E uno dei passi che deve fare un pastore è anche prepararsi per congedarsi bene, non congedarsi a metà».
Non congedarsi a metà? Chi dovrebbe imparare a farlo?
Non so perché, ma di fronte alle allusioni del papa regnante, così come alle esternazioni del cardinale che dà dal «povero uomo» al suo confratello Burke e alle tesi del teologo secondo cui il papa emerito dovrebbe essere ridotto a una condizione di «morte istituzionale», mi è venuto alla mente Peppone quando se la prende con i polli di don Camillo: «Eliminazione, ho detto! Eliminazione fisica!».
Al che don Camillo, ne sono convinto, replicherebbe: «Gesù, tenetevi forte, che qui sono legnate!».
Aldo Maria Valli
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