martedì 28 febbraio 2017

“Non ti prometto di farti felice in questo mondo, ma nell’altro”.





"Per quest’anima che mi avete data, per il deserto della aridità interiore, per la vostra notte e per i vostri baleni".

C’è una donna di 35 anni morente: Marie Bernarde Soubirous,“conversa” delle Suore di Nevers, al secolo Bernadette, colei che aveva visto e parlato con la Madonna a Lourdes. La gamba le stava andando in putrefazione. Rivede il suo passato di miserie e di fame prima, di derisione e di ingiustizie poi, di incomprensione sempre.


«Per la miseria di mamma e papà, per la rovina del mulino, per quel tavolone della sventura, per il vino versato, per le pecore rognose, grazie, mio Dio. 

Per la bocca di troppo che ero da sfamare, per i bambini che ho accudito, per le pecore che ho pascolato, Grazie. 

Grazie, mio Dio, per il procuratore, per i gendarmi, per le parole rudi di Padre Peyramale. 

Per i giorni in cui siete venuta, per quelli in cui non siete venuta, non potrò mai ringraziarvi abbastanza che in Paradiso…

Grazie perché se ci fosse stata una giovane più insignificante di me, non avreste scelto me…

Grazie per aver colmato di amarezze il cuore troppo tenero che mi avete dato. 

Per Madre Josephine, che mi ha definito buona a nulla, grazie… 

Per i sarcasmi della Madre Superiora, la sua voce dura, le sue ingiustizie, le sue ironie e per le umiliazioni, grazie. 

Grazie di essere stato l’oggetto privilegiato dei rimproveri, per cui le Sorelle dicevano: “Che fortuna non essere Bernardetta”. 

Grazie di essere stata Bernardetta, minacciata di prigione perché vi aveva vista, Vergine Santa, di essere stata guardata dalla gente come una bestia rara: questa Bernardetta talmente insignificante, che quando la si vedeva, si diceva: “Non è che questa?”. 

Per questo corpo mingherlino che mi avete dato, per questa malattia di inferno, per le mie carni incancrenite, per le mie ossa cariate, per i miei sudori, per la mia febbre, per i miei dolori sordi e acuti, grazie, mio Dio. 

E per questa anima che mi avete dato, per il deserto dell’aridità interiore, per la vostra oscurità e le vostre rivelazioni, per i vostri silenzi e i vostri lampi, per tutto, per Voi, assente o presente, grazie Gesù».











lunedì 27 febbraio 2017

Mercoledì delle ceneri in rito antico a Prato








Mercoledì 1 marzo 
alle ore 21:00 

presso la chiesa parrocchiale
 del Sacro Cuore di Gesù in Prato 

(Via Ofanto 9, tel. 0574 466777, sacrocuoreprato@gmail.com


sarà celebrata la 


S. Messa in rito romano antico in Latino 
in occasione del Mercoledì delle Ceneri

inizio della Quaresima. 


A tutti i fedeli saranno poste sul capo le ceneri in segno di penitenza e si sentiranno risuonare le parole solenni ed austere del sacerdote (ispirate a Genesi 3, 19) che invita per primo sé stesso e poi tutti i fedeli presenti: "Memento homo, quia pulvis es et in pulvere reverteris" (Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai. La S. Messa sarà celebrata dal Parroco Mons. Vittorio Aiazzi.


Si ricorda anche che il successivo sabato 4 marzo alle ore 16:00 presso la chiesa parrocchiale di San Salvatore a Vaiano il parroco don Marco Locati celebrerà la S. Messa mensile in rito romano antico. Alle ore 15:30 è prevista la recita del S. Rosario in preparazione alla S. Messa che è una prefestiva ed è dunque valida per il precetto festivo.




















Sulle traduzioni si gioca il futuro della liturgia




di Riccardo Barile
27-02-2017

«Se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere
ciò che andate di-cendo?» (1Cor 14,8). Le “parole chiare”, che san Paolo raccomandava alla comunità di Corinto - alla lettera “di un buon segno”, cioè “ben decifrabili” -, riguardano non solo la pronuncia, ma anche la comprensibilità linguistica. È a partire da qui che la Chiesa ha curato le traduzioni della Bibbia e della liturgia, perché «la parola di Dio vuole interpellare l’uomo, vuole essere da lui compresa e avere una risposta comprensibile, ragionevole» (J. Ratzinger, Il Dio vicino. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 71).

Per quanto riguarda la liturgia, tale movimento si è andato intensificando
sino a un livello critico e polemico, come la notizia dei giorni scorsi di una nuova commissione per rivedere l’Istruzione Liturgiam authenticam (del 28 marzo 2001), che regola i principi e i modi di tradurre i testi liturgici, mettendo da parte addirittura il prefetto del dicastero competente, cioè il cardinal Robert Sarah: un colpo di mano dell’ala progressista! Cerchiamo di capire.

Anzitutto il fedele italiano ignora che cosa sia Liturgiam authenticam,
non avendone speri-mentato né i benefici né i (presunti) disastri. Infatti il Messale italiano in uso (del 1983 con alcune integrazioni) è stato tradotto dall’edizione tipica latina del 1975 e i criteri della traduzione erano regolati dalla precedente Istruzione Comme le prévoit (25.1.1969).

Dopo il Messale italiano del 1983
, il Messale tipico latino ha avuto una terza edizione del 2000 con una ristampa emendata del 2008. Bisognava dunque rivedere il Messale italiano alla luce di questa terza edizione, che comportava testi aggiunti e altre modifiche. Ma la revisione era postulata anche dal fatto che nel frattempo Liturgiam authenticam, tenuto conto di certi difetti delle traduzioni, aveva riformulato i criteri per la traduzione dei testi liturgici.

Da parte della Chiesa italiana tale lavoro di revisione iniziò quasi subito
, ma, trascorsi quasi 15 anni - e sono tanti -, il nuovo Messale non è ancora uscito, per cui viene da pensare che non sia uscito perché qualcuno ha manovrato perché non uscisse. E a questo punto è ipotizzabile che a tempi brevi non uscirà, in quanto la nuova traduzione dovrebbe vedere la luce più o meno in contemporanea all’uscita di un documento che riformula i criteri per le traduzioni, per cui il povero Messale, appena uscito, sarebbe da rivedere...

A questo punto il fedele cattolico si trova confuso ed estraniato. In realtà la questione tocca proprio lui senza che l’interessato se ne accorga. Perché? Perché ad oggi quando va a Messa è destinatario di una traduzione uscita nel 1983 ed elaborata fine anni ’70 e inizio anni ’80, sostanzialmente fedele ma abbastanza “liberale”; se poi, invece di una traduzione più fedele, è in arrivo una revisione con criteri più innovativi, immaginarsi il risultato. A questo punto la posta in gioco non è di letteratura, ma di sostanza, in quanto attraverso le parole viene comunicata l’immagine di Dio e viene plasmato l’atteggiamento dell’uomo che si rivolge a Lui (come stare davanti a Dio, come lodarlo, che cosa chiedergli ecc.).

Oggi si vuole rivedere Liturgiam authenticam perché i suoi criteri sarebbero troppo stretti,
perché c’è bisogno di un linguaggio nuovo e - sostiene qualcuno - anche di gesti nuovi e poi perché... è espressione “anche” di un clima restaurazionista di san Giovanni Paolo II, aiutato in questo “anche” dall’allora card. Joseph Ratzinger e dal card. Jorge Medina Estévez, firmatario di Liturgiam authenticam. Quanti allora non digerirono l’Istruzione, oggi o sono nella stanza dei bottoni o ricevono benevola udienza da chi dimora in quella stanza. Ovvio il tentativo della rivincita, credendo onestamente di aver subìto un sopruso, di aver ragione e di far avanzare la Chiesa nella fedeltà all’uomo e a Gesù Cristo. È capitato tante volte nella storia, sia da destra che da sinistra. Però, senza negare questo fattore, bisognerebbe sforzarsi di guardare la realtà.

Ora un sano atteggiamento verso la realtà è di lasciar parlare Liturgiam authenticam,
troppo spesso taciuta nel dibattito. Che cosa dice? Tante cose che non interessano l’Italia, ma anche tante altre sulla traduzione e dunque sul linguaggio liturgico che interessano tutti i cattolici e che qui condenso in 5 punti.

1. Esattezza formale della traduzione.
La traduzione è un aspetto della «opera di inculturazione» (n. 5), però «non sia un’opera di innovazione creativa, quanto piuttosto la trasposizione fedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola» (n. 20). E qui Liturgiam authenticam chiede una traduzione che rispetti il più possibile le parole e le frasi così come sono: questo è il metodo delle “equivalenze formali”, contrapposto al metodo delle “equivalenze dinamiche”, che invece tende a tradurre con parole e frasi di oggi ciò che con parole antiche recepì il destinatario di ieri. Tanto per fare un esempio, la traduzione biblica a equivalenze dinamiche rende il termine paolino “carne” con “egoismo”, certo facilitando, ma perdendo un mucchio di sfumature. Liturgiam authenticam, rispettando lo Spirito, la tradizione della Chiesa e il destinatario, mette in guardia dal seguire una strada così disinvolta.

2. Legittimità di una lingua liturgica e di uno stile liturgico.
A quanto sopra si potrebbe obiettare che, pur usando termini comprensibili, il risultato sarebbe un linguaggio che si discosta dal modo abituale di comunicare. Ebbene, Liturgiam authenticam prende il toro per le corna e ricorda che espressioni poco consuete (ma comprensibili), possono essere ritenute più facilmente a memoria e anzi possono sviluppare nella lingua odierna uno «stile sacro» (n. 27), «dove i vocaboli, la sintassi, la grammatica siano propri del culto divino» (n. 47). Ecco un’altra presa di posizione: è normale ed è positivo per chi ascolta che esista un linguaggio del culto e uno stile sacro, che, pur comprensibili, non vanno ridotti al modo abituale di comunicare.

3. Traduzioni né ideologiche né soggettive.
I libri liturgici devono essere «immuni da qualsiasi pregiudizio ideologico» (n. 3) e non sempre le attuali traduzioni lo sono. Ad esempio la Liturgia delle Ore rende “instaurare omnia in Christo” con “fare di Cristo il cuore del mondo”, espressione che trasuda di Teilhard de Chardin († 1955): con quale autorità si impone il pensiero di Teilhard a migliaia di oranti? Di più: i testi tradotti non sono funzionali ad essere «in primo luogo quasi lo specchio della disposizione interiore dei fedeli» (n. 129). Il che significa che non bisogna addolcire o aumentare i testi solo per venire incontro a ciò che si desidera oggi - ad esempio aggiungendo un “giustizia e pace” dove non c’è -, poiché il testo della preghiera della Chiesa è una proposta che va oltre le nostre attese e i nostri gusti e così facendo ci costringe a rettificarci e ad arricchirci. Di nuovo, i paletti di Liturgiam authenticam, prima di essere severi, sono promozionali per il popolo di Dio e lo preservano dalle dittature ideologiche e sentimentali.

4. Le parole giuste e varie.
Alla varietà di vocaboli del testo originale «corrisponda, per quanto è possibile, una varietà nelle traduzioni» (n. 51). Qui si citano due casi: il primo è l’antropologia: “anima, animo, cuore, mente, spirito” andrebbero tradotti come sono, compresa “anima” che i traduttori aggiornati vorrebbero abolire o comunque limitare. L’altro esempio sono i modi di rivolgersi a Dio: Signore, Dio, Onnipotente ed eterno Dio, Padre ecc. La fedeltà della traduzione ci veicola un giusto concetto di Dio e aumenta il senso di rispetto e adorazione nel rivolgersi a Lui. Ciò che non sempre è capitato nelle traduzioni: ad esempio gli anni ’70 hanno prodotto in un ordine religioso delle orazioni che iniziavano con un “Tu o Dio”. Mi domando se ci si rivolgerebbe così a un impiegato al di là dello sportello.

5. Rispettare la sintassi originale.
Questo è il punto più contestato e - si capisce - più decisivo: siano conservati, per quanto è possibile, la relazione delle frasi in «proposizioni subordinate e relative», la «disposizione delle parole», i «vari tipi di parallelismo» (n. 57a). Oggi tendiamo a parlare sparando delle frasi accostate: è il linguaggio della pubblicità e della comunicazione virtuale. La liturgia tende invece a collegare le frasi mettendole in ordine armonico tra di loro; soprattutto una richiesta non è generalmente formulata per prima, ma dipende da una precedente memoria delle meraviglie operate da Dio, che plasmano la richiesta stessa. Questo ordine e questa bellezza del linguaggio è ciò che il mondo classico ha prodotto e che la liturgia trasmette a tutti.

Ecco, è un poco tutto questo che si vuole rivedere e ripensare (accantonare? scartare?),
creando un nuovo linguaggio più secondo l’uomo di oggi.
Quanto sopra richiederebbe ulteriori approfondimenti, ma il lettore che ha avuto il coraggio di arrivare fin qui, sarà stanco, per cui rimando a un prossimo intervento.





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Un sacerdote aiuta i fedeli a fare l'esame di coscienza con un questionario


Don Cristoforo Dabrowski



Dal sesso fino al voto ai partiti. Sacerdote "confessa" intero paese col questionario
15 domande esplicite per invitare ad un esame di coscienza





di GIACOMO BINI

Montale (Pistoia), 26 febbraio 2017

Il parroco di Tobbiana e Fognano, don Cristoforo Dabrowski, ha distribuito a tutte le famiglie (per ora di Tobbiana, poi forse toccherà a Fognano), insieme al calendario della benedizione delle famiglie, un foglio intitolato "Esame di coscienza prima della confessione di Pasqua" contenente quindici domande che oltre a ricordare i doveri di precetto, come partecipare alla messa la domenica e le feste comandate o confessarsi e comunicarsi almeno a Pasqua, indicano anche, in modo dettagliato ed esplicito, i comportamenti contrari alla morale cattolica in materia di aborto, contraccezione, rapporti prematrimoniali e superstizione. Con accenni anche alla politica.

Ecco ad esempio alcune delle domande sulla procreazione e i comportamenti sessuali a cui i parrocchiani sono invitati a rispondere nel loro esame di coscienza: "Ho abortito oppure cooperato all’aborto, acconsentendovi o anche solo consigliandolo? Ho accompagnato qualcuno ad abortire? Se sono ancora fidanzato, ho peccato contro la purezza e la castità (rapporti sessuali prematrimoniali)? Ho commesso adulterio (anche solo con il pensiero e lo sguardo)? Ho adoperato mezzi contraccettivi contrari alla morale cattolica (pillola, profilattico, spirale, coito interrotto)? Ho commesso atti impuri in modo solitario?".

Nell’elenco compare anche una domanda sulle scelte in materia politica ed elettorale: "Sono favorevole a dottrine contrarie al cristianesimo e condannate dalla Chiesa (aborto, divorzio, contraccezione, eutanasia, fecondazione artificiale, ecc.)? Ho dato il voto a partiti o persone che appoggiano queste aberrazioni? In passato ho votato a favore dell’aborto e del divorzio?".

L’esame di coscienza proposto da don Cristoforo non si limita ad enunciare principi etici in generale, ma scende nel particolare della vita di ciascuno dicendo semplicemente e chiaramente quello che non si deve fare, come "portare addosso o in casa amuleti, portafortuna, corni, ferri di cavallo" oppure essere "in lite con qualcuno (non ci parlo), specialmente con qualche parente", bestemmiare, coltivare odi e rancori".

L’elenco continua con le citazioni di "spettacoli immorali, stampa immorale" o l’aver "navigato su siti internet immorali".

"E’ un aiuto all’esame di coscienza – spiega Don Cristoforo – che è utile perché è molto concreto. Non si scappa: o sì o no, o di qua o di là. Il compito della Chiesa è ricordare le regole fondamentali. La Chiesa accoglie tutti, ma bisogna innanzitutto capire la situazione di ognuno e per il perdono è necessario sapere che cosa si perdona".

Sulle scelte elettorali don Cristoforo spiega che un cattolico "prima di votare dovrebbe informasi sui programmi dei partiti e delle persone. Purtroppo spesso i programmi non sono chiari e facili da leggere – aggiunge il parroco di Tobbiana – e può accadere che le scelte legislative non siano in linea con i programmi, ma se voto un partito che non espone queste posizioni chiaramente è un voto in bianco. E’ arrivato il tempo che i cattolici si sveglino. La Chiesa non indicherà mai un partito ma i principi sì".

Don Cristoforo riferisce che il suo aiuto all’esame di coscienza è stato ben accolto dai fedeli, come già è avvenuto nella sua precedente parrocchia di San Pantaleo: "A un certo punto bisogna pure sapere chi siamo, altrimenti si perde l’identità".




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sabato 25 febbraio 2017

Don Elia. Dittatura protestante




don Elia, 25 febbraio 2017


Terzo peccato contro lo Spirito Santo: impugnare la verità conosciuta (dal catechismo).

Vien da pensare che tutte le diocesi cattoliche e le facoltà teologiche abbiano ricevuto da Roma un ordine tassativo e ineludibile, secondo il più tradizionale stile centralistico della Curia, ma in senso esattamente opposto: quest’anno sembra obbligatorio celebrare il cinquecentesimo anniversario della “riforma” luterana. Ovunque un pullulare di convegni, settimane intensive, incontri ecumenici con pastori e pastore… tutto, ovviamente, con un unico intento celebrativo e apologetico (al contrario), quasi si trattasse di una sorta di nemesi storica che dovesse riparare le esecrabili condanne del Concilio di Trento (le quali – sia detto per inciso – sono dogmi di fede e non si possono contestare, sotto pena di scomunica). Si direbbe che, senza i cosiddetti “riformatori” protestanti, la Chiesa non avrebbe mai ritrovato la verità del Vangelo, smarrita per strada, né la sua vera identità, deformata fin dall’epoca costantiniana.

In ogni regime totalitario che si rispetti, bisogna riscrivere la storia in funzione della giustificazione e del mantenimento del potere impostosi con la rivoluzione. Fino a quattro anni fa non avremmo mai immaginato che qualcosa del genere potesse accadere nella Chiesa Cattolica; eppure è proprio ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Approfittando del calo generale del livello culturale, nonché della spaventosa ignoranza crassa che regna in seminari e conventi, tutto uno stuolo di docenti e pubblicisti si è lanciato in una gara indecorosa di elogi a Lutero e compagni, con una concomitante demolizione della coeva storia cattolica. La falsificazione od omissione dei dati storici è talmente grossolana da lasciare sbalorditi, specie se operata in ambienti accademici. È pur vero che già da decenni, anche a casa nostra, si distorce la realtà storica a favore dei protestanti e a detrimento della Chiesa, ma quest’opera di volgare mistificazione non aveva ancora raggiunto un tale grado di aggressività e spudoratezza.

In realtà abbiamo tutte le ragioni per credere che l’anima di Lutero (e, con ogni probabilità, quelle di altri “riformatori” come lui) si trovi all’Inferno. A conferma di ciò, c’è la visione della beata Serafina Micheli; ma per convincersene – pur riconoscendo che in questo campo non possiamo avere certezze assolute, prima del giudizio universale – è sufficiente considerare i tratti salienti della vita dell’eresiarca. Entrato nel convento agostiniano di Erfurt per sfuggire alla giustizia dopo aver ucciso in duello un compagno d’università, il giovane Martino perseverò in una vocazione che non aveva, fino ad accedere al sacerdozio. Questa situazione provocò in lui un terribile conflitto interiore, alimentato dall’incapacità di osservare la continenza perfetta cui lo obbligava il suo stato. Dopo ben dodici anni di tormento apparentemente senza soluzione, il professore di Sacra Scrittura credette un giorno di aver trovato la via d’uscita.

Un versetto della Lettera ai Romani, da lui sempre inteso in senso negativo, si schiuse d’un tratto alla sua mente angustiata. Nel Vangelo si rivela, certo, la giustizia di Dio, ma non una giustizia che condannerebbe il peccatore senza appello, bensì quella che rende giusto colui che crede (cf. Rm 1, 17). Come racconterà egli stesso, in quel momento sentì riaprirsi per sé la porta del Paradiso. Le conclusioni che trasse da questa inattesa illuminazione, tuttavia, non potevano venire dallo Spirito Santo, ma da un altro spirito. Ad un’intuizione fondamentalmente vera (se inserita in un quadro cattolico del rapporto tra natura e grazia) egli associò infatti una serie di false convinzioni che minano alla base tutto l’edificio della fede: la negazione del libero arbitrio, la visione della totale peccaminosità dell’uomo, una concezione estrinseca della grazia e della giustificazione, il misconoscimento degli effetti del Battesimo e degli altri Sacramenti… L’uomo giusto rimarrebbe peccatore, ma agli occhi del Padre sarebbe coperto dai meriti di Cristo. Poiché bisogna appoggiarsi esclusivamente sulla fede nella grazia divina, le opere buone risultano non soltanto non necessarie, ma dannose: più l’uomo pecca, anzi, più sarebbe sommerso dalla misericordia divina. Nulla di più empio… [omissis]

Ma com’è possibile che da un punto di partenza giusto Lutero sia sprofondato nell’errore in modo così vistoso? La risposta è semplice: il demonio è abilissimo nel fuorviare le menti mescolando qualcosa di vero a un insieme di menzogne, oppure spingendo a trarre conclusioni errate da premesse inizialmente valide. Che cosa gli diede tanto agio con il frate agostiniano di Erfurt? Come egli stesso confesserà, il suo conflitto esistenziale lo aveva portato fino ad odiare la giustizia di Dio; il terreno per l’azione diabolica era pertanto ben preparato, visto che a nessuno è lecito odiare un attributo divino (cosa che equivale a odiare Dio stesso nel Suo modo di essere). Lutero, prima di farsi ingannare, avrebbe certo avuto la possibilità di convertirsi rinnovando l’adesione al suo stato di vita, come una vocazione non liberamente abbracciata, ma sempre suscettibile di essere scelta in modo nuovo, come una forma di espiazione dei propri peccati. Per fare questo ci sarebbe voluta una buona dose di umiltà; invece l’orgoglio lo lanciò in un’insensata ribellione contro la Chiesa, ritenuta responsabile dei suoi problemi. Una parte dei principi tedeschi prese la palla al balzo per opporsi al papa e all’imperatore… e il caso personale si trasformò in arma politica ed economica.

Sotto la spinta della superbia, il ribelle finì col rimettere tutto in discussione pur di non ammettere i propri errori, di cui lo aveva pur convinto, nel 1518, il cardinal Caietano nei colloqui di Augusta. Trascinato di male in peggio, Lutero si abbandonò all’odio, alla volgarità e alla lussuria cercando di soffocare il lucignolo fumigante della sua coscienza nelle intemperanze e nei bagordi, finché una notte, vinto dal disgusto di se stesso, decise di farla finita con un pezzo di corda. Intanto la cristianità occidentale andava in pezzi, con tutto il corteo di atrocità, distruzioni e violenze che segnarono il successivo secolo e mezzo. Milioni di fedeli degli Stati protestanti, obbligati per legge ad accettare l’eresia, furono privati dei mezzi ordinari della grazia, sebbene si credesse inizialmente di essere in continuità con la Chiesa delle origini. Intanto le sedicenti “chiese” riformate si frantumavano sempre di più, perseguitandosi a vicenda in modo efferato… e il diavolo mieteva soddisfatto la sua messe di dannati.

Si fermarono qui gli effetti deleteri della rivoluzione protestante? Purtroppo no, ma per parlare delle sue ulteriori conseguenze bisognerà attendere la prossima settimana. Per ora ci basti tenere a mente dove conduce la disobbedienza alla Chiesa e l’ostinato attaccamento al proprio giudizio privato. Ma se oggi sono proprio le autorità ecclesiastiche ad essersi in buona parte protestantizzate…? Non facciamoci scrupolo a gridarlo sui tetti, ma rimaniamo dentro la comunione gerarchica. Se un Pastore non ha più la fede cattolica, è lui a porsi fuori del Corpo mistico, ma questo non può dichiararlo se non un’istanza superiore. Perciò rimaniamo liberi, in coscienza, di non ascoltarlo e persino di resistergli, qualora insegni o comandi cose chiaramente contrarie alla legge divina; ma non provochiamo deliberate rotture. Il diavolo sa giocare anche sulle motivazioni più nobili per separare le anime da Cristo opponendole all’unica Chiesa e soffiando sul fuoco del giusto sdegno per farlo degenerare in aperta rivolta. Il Cuore immacolato di Maria sia la nostra scuola di umiltà e di perseveranza, e non correremo questo rischio.



Pubblicato da Elia 







venerdì 24 febbraio 2017

Pontificia Accademia della Morte






di Riccardo Cascioli
24-02-2017

Sapere che un uomo che nella sua vita e fino alla fine ha fatto tanto male
, come Marco Pannella, abbia però goduto dell’amicizia di un sacerdote, è in qualche modo consolante. Si può sperare che quel filo con Dio che non si è mai spezzato possa aver provocato almeno alla fine un ravvedimento, un pentimento, per salvare la sua anima. Ma la speranza si fa amarezza sapendo che quel sacerdote è monsignor Vincenzo Paglia, ex vescovo di Terni (diocesi da lui ridotta sull’orlo della bancarotta), disastroso ex presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, da pochi mesi presidente della Pontificia Accademia per la Vita nonché cancelliere dell’Istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, istituti dove ha iniziato una sistematica opera di demolizione di quanto voluto da san Giovanni Paolo II.

Ma non è da queste “medaglie” che nasce l’amarezza:
per capirne il motivo invece basta ascoltare il video che da due giorni rimbalza da un sito all’altro scandalizzando migliaia e migliaia di semplici cattolici. Si tratta dell’intervento che il presidente della Pontificia Accademia per la Vita ha fatto lo scorso 17 febbraio in un evento organizzato dal Partito Radicale per presentare l’autobiografia (postuma) di Marco Pannella (clicca qui per il video).

Ovvio che chi ha condiviso un’amicizia vera con una persona
, anche se proveniente da esperienze diverse e perfino opposte, cerca di valorizzarne l’umano, ma nelle parole di monsignor Paglia non c’è l’affetto dell’amico che ha condiviso un dialogo sincero sulla verità della vita; c’è invece l’entusiastica adesione all’ideologia che ha mosso Pannella e che oggi continua a muovere i suoi seguaci. Un’ideologia figlia e amplificatrice di quella che san Giovanni Paolo II definiva "cultura della morte": Pannella è direttamente responsabile degli oltre sei milioni di bambini uccisi con l’aborto volontario, è stato uno dei più tenaci distruttori della famiglia, è all’origine delle campagne per l’eutanasia che stanno dando il colpo di grazia al nostro popolo. E poi la droga, la prostituzione, le coppie gay, il controllo delle nascite: tutto ciò che è il rovesciamento del piano creatore di Dio ha trovato in quest’uomo e nei suoi seguaci dei fanatici missionari dediti al proselitismo.

Un uomo con un fardello così pesante sulla sua coscienza avrebbe avuto bisogno
di un uomo di Dio capace di richiamarlo alla sua verità; è stato invece “punito” con un sacerdote che l’ha giustificato ed esaltato nella sua perversione e ora sente anche il bisogno di annunciarlo al mondo: «Marco era un uomo di grande spiritualità», «la sua è una grande perdita per questo nostro paese», «un uomo spirituale che ha combattuto e sperato contro ogni speranza, come dice San Paolo», «una storia per la difesa della dignità di tutti», «ha speso la vita per gli ultimi», «un tesoro prezioso da conservare», «un uomo che sa scendere nella profondità e sa aiutarci a sperare», «ispiratore di una vita più bella per il mondo che ha bisogno di uomini che sappiano parlare come lui». Non bastasse, ci arriva anche la lezioncina, perché Pannella – dice ammiccante Paglia - «rimproverava noi cattolici perché lasciamo da parte il Vangelo». Ah, sarà per questo allora che si è dato tanto da fare per cancellare ogni traccia di cattolicesimo.

Nessuno più di Pannella in Italia ha lavorato contro la vita e contro la famiglia
, e a tesserne le lodi è colui che è presidente della Pontificia Accademia per la Vita ed è stato a capo del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Non ci sono parole sufficienti per esprimere lo sdegno e il disgusto per questa esibizione.

Ma, se possibile, non è questa la cosa più grave.
Perché l’elogio di Pannella fatto da monsignor Paglia svela anche la prospettiva culturale che muove – con Paglia - una parte influente della Chiesa. Ha detto il monsignore: «Oggi è indispensabile trovare una prossimità che unisce i diversi per edificare una unità di disegno o una unità che abbracci tutti»; e ancora: «Contro i muri, Marco è figura che parla di universalità, libertà per la costruzione», «speranza in un mondo che si ricomponga».

La prosa non è fluida ma il concetto è chiaro:
la prospettiva è l’unità del genere umano guardando a ciò che unisce; popoli, culture e religioni che devono fondersi, rinunciando alle proprie identità, per poter diventare una cosa sola. E la Chiesa al servizio di questa utopìa che, peraltro, ha all’Onu i suoi teorici. Non si annuncia più Cristo ma i valori umani comuni; si parla di Gesù ma in funzione di un non meglio chiarito servizio all’umanità; non si lavora per portare tutte le genti a Cristo, ma Cristo è il pretesto per perdersi nel pensiero unico dominante. Insomma, quello che si persegue è la fine della Chiesa.
















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giovedì 23 febbraio 2017

IL GENERALE DEI GESUITI GUIDA L'ESERCITO DEGLI STORICISTI



Il venezuelano Arturo Sosa Abascal,
nuovo superiore generale della Compagnia di Gesù.




Ecco qua il vero "gesuita moderno". Al cui discernimento non scampa neppure Gesù

Sandro Magister 

Ricevo e pubblico questo commento al post precedente, nel quale il generale dei gesuiti teorizzava – in un'intervista registrata e da lui autenticata – che anche le parole di Gesù vanno sottoposte a costante "discernimento".

* L’autore è diplomato all’Istituto di Scienze Religiose di Trieste e si è dedicato in particolare allo studio della teologia di san Bonaventura da Bagnoregio. Scrive sul settimanale diocesano “Vita Nuova”. 

[dal blog Settimo Cielo, 23/02/2017]





di Silvio Brachetta*

Con Arturo Sosa Abascal, nuovo superiore generale della Compagnia di Gesù, si ha la dimostrazione compiuta che la teologia cattolica è travolta dallo storicismo.

Ne ha data notizia indiretta Sandro Magister, riportando tra le altre queste parole di Sosa in un’intervista: "Intanto bisognerebbe incominciare una bella riflessione su che cosa ha detto veramente Gesù. A quel tempo nessuno aveva un registratore per inciderne le parole. Quello che si sa è che le parole di Gesù vanno contestualizzate, sono espresse con un linguaggio, in un ambiente preciso, sono indirizzate a qualcuno di definito".

Questo di Sosa è solo l’ultimo di una serie sterminata di ragionamenti analoghi, da parte di altrettanti autori.

La tesi è vecchia, riproposta in modo assillante: le Scritture dovrebbero essere sottoposte a un’esegesi continua, per via del fatto che su di esse non si potrà mai dare un’interpretazione definitiva.

In altre parole, secondo una certa teologia eterodossa, la Scrittura sarebbe una sorta di cantiere papirologico aperto, in cui il testo è costantemente da vivisezionare, nella ricerca incessante della "vera" Parola di Dio. Si tratta di un perpetuo, frenetico glossare le fonti, alla scoperta di una verità più genuina, che possa sostituire quella corrente, evidentemente scomoda all’esegeta insoddisfatto.

Questa "vera" Parola, ricercata dalla critica testuale di ampi filoni del protestantesimo e del cattolicesimo modernista, sarebbe ancora nascosta tra le pieghe del testo sacro e tuttavia difettoso, poiché composto da parole umane. E le parole umane sono imperfette per definizione, soggette ai mutamenti dei costumi e della storia.

È superfluo, però, segnalare che più volte il magistero ha ribadito l’inconsistenza di questa lettura storicistica: nessuno dei pronunciamenti della Chiesa ha mai risolto granché. Chi, infatti, considera vaghe le parole dell’Antico e del Nuovo Testamento, che procedono da Dio, tanto meno darà peso al magistero, che procede maggiormente dall’espressione umana. Né darà importanza, per la stessa ragione, alle parole ispirate dei santi, dei Dottori e dei Padri della Chiesa, che smentiscono l’interpretazione progressiva della Scrittura. Stesso discorso per la tradizione apostolica, spesso valutata dal contestatore meno che niente. È così che l’errore dello storicismo, lungi dall’essere stato demolito, ce lo ritroviamo intatto e più forte che mai anche oggi.

Lo storicista moderno, più che argomentare le proprie ragioni, ripeterà a cantilena che ogni parola della Bibbia va sempre contestualizzata, ambientata, relativizzata a un certo ambiente, a un certo tempo, a un certo linguaggio. E impedisce, in tal modo, la validità stessa del dogma, proprio per la sua qualità di fissare la verità una volta per tutte. Solo in malafede, poi, si può affermare che "bisognerebbe incominciare una bella riflessione su che cosa ha detto veramente Gesù", come ha fatto Sosa. Egli non può non sapere che una tale riflessione affianca l’intera vicenda del cristianesimo, specialmente da san Girolamo in poi.

La verità è che non è mai stato un problema, per i santi, così come per la maggior parte dei fedeli, scoprire ciò che "ha detto veramente Gesù", o Mosè o Abramo. Per il fedele tutto è scritto e, dove non lo sia, è ascoltato da un confessore, da un fratello, da un predicatore. Certamente la Chiesa non ha mai scartato la ricerca filologica o scientifica sul testo sacro, ma altrettanto certamente ha scartato il primato della scienza sulla fede. La scienza, cioè, dà ragione della fede e della speranza del cristiano, solo laddove la fede sia presupposta.

C’è poi un’altra questione. Glossare il Vangelo e il testo sacro, in genere, è cosa santa e benemerita, nel caso della preparazione alla predicazione o durante lo studio sistematico della teologia. In altri casi, però, la Scrittura va ritenuta alla lettera, "sine glossa". Abbiamo l’esempio forse più noto in san Francesco d’Assisi, che trovò la propria vocazione obbedendo al testo evangelico di Mc 10, 21: "Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi". Così lesse e così fece.

Ma le affermazioni di Sosa sono stupefacenti anche per un altro motivo. Egli è gesuita, come anche papa Francesco. Ebbene, proprio il pontefice, durante la conversazione con i superiori generali degli ordini religiosi del 25 novembre 2016, disse: "Essere radicali nella profezia è il famoso 'sine glossa', la regola 'sine glossa', il Vangelo 'sine glossa'". E aggiunse: "Il Vangelo va preso senza calmanti. Così hanno fatto i nostri fondatori".

Ora, non è immediato capire cosa il Papa intendesse con l’espressione "senza calmanti", ma è chiaro invece il riferimento alla ricezione "sine glossa" fatta già dai fondatori della Compagnia di Gesù. Se dunque lo stesso papa gesuita consiglia di seguire il Vangelo senza commenti, perché Sosa lo vorrebbe glossare di nuovo?

In ogni caso l’approccio "sine glossa" alla Parola di Dio esclude che il testo debba venire scarnificato senza limite, a meno che non lo richieda l’approfondimento dello studio. È il caso, ad esempio, dei "Moralia in Job" di san Gregorio Magno, dove il libro di Giobbe è stato scrutato parola per parola, verso dopo verso, riferendone il significato letterale, morale, analogico e anagogico. Sempre però il discrimine, la cartina di tornasole, è stato il senso letterale, al quale tutti gli altri sensi, benché più profondi, si sarebbero dovuti riferire.


Il senso letterale è quindi l’ago della bilancia della verità di un testo, compreso quello sacro. E se già la "littera" è debole, come potrebbe essere a fondamento dei significati profondi e, addirittura, della Parola di Dio nella Scrittura?











La Chiesa, la confusione e la crisi dell’autorità. Linee per orientarsi nella bufera





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Che confusione! Oggi, chiunque ne sia l’autore, analisi e discussioni sulla Chiesa si concludono spesso con questa esclamazione, seguita da un sospiro un po’ sconsolato. E in effetti i fatti sembrano confermare.

Manifesti anonimi che se la prendono con il romano pontefice, lotte di potere (e per il denaro) in una nobile e antica istituzione come l’Ordine di Malta, cardinali che scrivono al papa chiedendogli una risposta su questioni di dottrina. E poi due papi che vivono l’uno a pochi metri dall’altro in Vaticano, senza che siano mai stati chiariti del tutto i motivi della rinuncia di colui che ora, con una definizione che a sua volta fa discutere, è chiamato «papa emerito». E poi polemiche e contrasti tra cardinali, vescovi e fedeli su aspetti nodali per la fede e in particolare su un documento papale che, a dispetto del titolo gentile («Amoris laetitia») è diventato un campo di battaglia e, per molti, un motivo non di letizia ma di sconcerto e di mestizia. E poi un papa spiazzante, sostenitore, specialmente nelle interviste e nei discorsi improvvisati, di posizioni che per alcuni non quadrano con l’insegnamento della Chiesa su questioni certamente non secondarie. E poi riforme che dovrebbero migliorare il funzionamento del governo centrale della Chiesa, ma all’interno della Santa Sede provocano malumori. E poi ancora schiere di cattolici che osservano il tutto con crescente disorientamento, rattristati, perplessi, quasi annichiliti dalle polemiche oppure coinvolti con passione nei contrasti e impegnati a sostenere l’una o l’altra parte.

Se il quadro appena delineato fosse il frutto della fantasia di uno scrittore bisognerebbe riconoscergli un’inventiva notevole. Il libro potrebbe intitolarsi «La Chiesa divisa» o «La Chiesa nella bufera», oppure  «Le due Chiese». Il fatto è che, di fronte a quanto stiamo vedendo, anche il più fantasioso degli scrittori potrebbe solo ammettere che la realtà sta superando l’immaginazione.

Ciò che una volta si diceva dei liberali (quando due di loro discutono, aspettatevi almeno tre opinioni diverse) ora si può dire dei cattolici. Non c’è argomento che sia risparmiato dai contrasti. E che contrasti!

Sappiamo bene che nella Chiesa, fin dalle origini, il dibattito, spesso condito da insulti e ripicche, è stato pane quotidiano. Paolo (Lettera ai Galati) resistette «in faccia» a Pietro (lo affrontò a muso duro) su questioni all’epoca nodali, come il comportamento da tenere nei confronti degli ebrei. E che dire delle battaglie fra i cristiani dei primi secoli circa la Trinità e il rapporto tra il Padre e il Figlio? Come dimenticare le accese controversie al Concilio Vaticano I sul dogma dell’infallibilità papale e, per venire a tempi molto più vicini a noi, gli infuocati dibattiti vissuti nel Concilio Vaticano II e negli anni successivi?

Siamo portati a pensare al cristianesimo, e specialmente al cattolicesimo, come a una fede dogmatica e quindi stabile nella sua fissità. In realtà ciò che caratterizza l’esperienza cristiana è la libertà, a sua volta conseguenza della dignità attribuita all’uomo in quanto immagine di Dio. E la libertà comporta la differenza, anche sotto forma di tensione.

Dunque, niente di nuovo sotto il sole? In parte sì e in parte no.

Un elemento nuovo è costituito certamente dal modo in cui si comunica. La diffusione dei nuovi media  ha eliminato la classica distinzione tra fonte e destinatario dell’informazione. Oggi tutti sono allo stesso tempo fonti e destinatari, tutti interagiscono e lo fanno in tempi sempre più rapidi. La conseguenza è una comunicazione spesso meno pensata di un tempo, più istintiva e immediata e dunque anche più conflittuale. C’è inoltre un continuo mescolamento di idee e valutazioni, una sovrapposizione che avviene dentro un villaggio globale somigliante non di rado a un mercato pieno di voci indistinte, dov’è difficile capire chi ha maggiore o minor titolo per argomentare e dove facilmente si impone chi grida più dell’altro.

Da tempo adottato dalla politica, il nuovo modo di comunicare, meno formale e meno strutturato rispetto al passato, ora in un certo senso ha coinvolto anche il papa. Il quale, accanto agli strumenti classici (encicliche, lettere, omelie, documenti vari), vi ricorre sempre di più, come nel caso dell’intervista, del discorso pronunciato a braccio e di tutte le forme di contatto diretto, non mediato dall’istituzione, con gli interlocutori. Di qui una comunicazione che anche nel caso del papa sta diventando sempre meno paludata nella forma ma spesso anche meno organica nei contenuti, meno legata a criteri di prudenza e più simile a quella tipica della stampa, estemporanea, legata all’emozione, all’impulso del momento, al clamore suscitato da un caso specifico.

Un altro elemento nuovo (almeno per i tempi moderni) è dato dalla presenza di due papi viventi, oltretutto molto diversi fra loro. Sebbene il papa non più regnante si mostri pochissimo e parli ancora meno, ci sono cattolici che non esitano a vedere nell’emerito il punto di riferimento che secondo loro permane come più autentico sotto il profilo sia dottrinale sia pastorale, innescando così un motivo che se non è sempre di conflitto aperto è comunque di divisione reale o potenziale.

Si potrebbe poi ragionare a lungo sulla situazione dei movimenti ecclesiali e sui loro problemi di leadership, con la conseguenza che anche in questi mondi, un tempo compatti, aumentano coloro che si sentono in libera uscita o comunque meno vincolati a una disciplina di appartenenza.

Altri elementi di novità si potrebbero rintracciare nel rapporto inversamente proporzionale tra livello dei contenuti e aggressività, ma in questo caso il problema non riguarda soltanto la Chiesa, bensì il generale decadimento intellettuale.

Sta di fatto che, si parli di dottrina, magistero, pastorale, politica ecclesiale, predicazione o di qualunque altro aspetto della vita della Chiesa, la parola che per prima viene alle labbra per descrivere il quadro è proprio confusione.

E qui veniamo forse al vero tratto distintivo della realtà attuale. Nella quale la situazione di conflittualità cronica e di incertezza all’interno della Chiesa sembra essere la conseguenza di una crisi dell’autorità.

Anche questa crisi, come il decadimento intellettuale, certamente non riguarda soltanto la Chiesa (pensiamo alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni politiche),  tuttavia nel momento in cui tocca la Chiesa, comunità in cui l’autorità gioca un ruolo decisivo, risalta in modo netto.

La crisi investe tutti coloro che hanno ruoli di responsabilità istituzionale e pastorale: cardinali, vescovi, parroci. Ma certamente colpisce l’evoluzione, o involuzione, della figura papale. In che senso? Nel senso che se, da un lato, il papa non è mai stato popolare come oggi, dall’altro non è mai apparso così privo di autorità riconosciuta e sostanziale. La voce del papa, per quanto apprezzata e da molti considerata ormai l’unica in possesso di una certa autorevolezza, nella pratica ha un impatto sempre più debole, anche fra gli stessi credenti. I motivi sono numerosi e riguardano sia il modo in cui il papa è andato modificando il suo ruolo, la sua stessa figura e il suo rapportarsi con il mondo, sia i cambiamenti intervenuti nella società, nella cultura e nei costumi. Circa il primo fronte, da molto tempo è in atto una desacralizzazione della figura papale, un processo che ha permesso al papa di entrare meglio in relazione con le persone e i popoli, ben al di là della sola platea cattolica, ma parallelamente ha determinato una riduzione del riconoscimento della sua funzione di insegnamento.

Quanto al secondo fronte, il processo di secolarizzazione è andato talmente avanti da assorbire e assimilare anche il papa, ormai diventato un personaggio come gli altri, uno dei tanti che calcano le scene della ribalta mediatica. Certamente sono aumentate le persone che lo vedono e ne ascoltano le parole, ma sono diminuite quelle che lo considerano una guida da seguire. Così abbiamo il paradosso di un papa popolarissimo ma la cui proposta, nei fatti, si perde rapidamente nel grande mare di tutte le altre proposte. Se ai tempi di Giovanni Paolo II si diceva che la gente applaudiva il cantante ma non la canzone (piaceva l’uomo Wojtyla, non ciò che insegnava), adesso si può dire che moltissime persone, al di là della fede e dell’appartenenza religiosa, applaudono sia il cantante sia la canzone, ma se ne dimenticano presto, non ne traggono le conseguenze e non mettono in atto una vera e propria adesione.

Incominciata, almeno in modo evidente, con Giovanni XXIII, la crisi dell’autorità papale è andata avanti attraverso tutti i pontificati successivi, ma forse non si è mai manifestata con l’attuale intensità.

È un fenomeno che ogni papa ha cercato di limitare. Giovanni XXIII, che pure, convocando il Concilio Vaticano II, diede un formidabile contributo alla crisi mettendo in discussione anche se stesso e il papato, limitò il decadimento dell’autorità con il suo carisma. Lo stesso fece Giovanni Paolo II, anche se si trattò di un carisma dai contenuti diversi. Più difficile fu il compito per Paolo VI, che non potendo contare sul carisma (almeno secondo i canoni della società mediatica fondata sull’immagine) puntò sulla riforma interna, cercando di dare maggiore credibilità agli organi di governo. Quanto a Benedetto XVI, certamente la sua arma contro la crisi dell’autorità fu la sapienza teologica e filosofica, che gli consentì di porre alla cultura contemporanea domande decisive su grandi questioni come la verità e la libertà, ma non gli permise di salvarsi da attacchi sempre più violenti e in gran parte pregiudiziali.

Ora, con Francesco, non è facile dire quale sia lo strumento da lui impiegato per fronteggiare la crisi dell’autorità. In apparenza sembra che non utilizzi alcuno strumento e che da parte sua ci sia anzi lo sforzo di ridurre ulteriormente l’«auctoritas» papale attraverso una spinta ancora più decisa verso la desacralizzazione. A ben guardare, però, tutte le scelte simboliche, e di agevole percezione, adottate in questa direzione (come non indossare vesti appariscenti, calzare le solite scarpe, andare in giro a bordo di un’utilitaria, abitare a Santa Marta e non nel palazzo apostolico, uscire dal Vaticano per recarsi nei negozi di Roma, mostrarsi avvicinabile e disponibile) possono essere anche lette come tentativi di ricuperare l’«auctoritas» mediante l’«humilitas». Una strategia che, in un mondo dominato non tanto dalla parola quanto dall’immagine, può avere una sua logica.

In ogni caso, nella comunità cattolica resta lo stato di confusione. Che, a tratti, rischia di diventare stato confusionale. Chi comanda? A chi credere? A chi appoggiarsi? A chi affidarsi? A chi prestare fiducia?

Se il cattolico non avesse una visione provvidenziale della vita, e non sapesse che lo Spirito soffia dove vuole, ci sarebbe da provare il brivido dell’abbandono nel vuoto e lo sgomento di fronte a un caos che sembra preannunciare il trionfo del principe delle tenebre, colui che persegue il male attraverso la divisione, gettando in mezzo agli uomini sempre nuovi motivi di incomprensione e di conflitto. L’entropia crescente, ovvero tutto ciò che è di impedimento alla chiarezza e all’univocità del messaggio, potrebbe portare con sé lo scoramento. Invece il credente vede in questa situazione una prova per il sano esercizio della libertà personale, del senso di responsabilità, del coraggio, della fedeltà. La prova in certi momenti è dura, ma il credente ha dalla sua la certezza che se il Signore dà un peso dà anche la forza per portarlo. Il credente sa di non essere solo e ha la consapevolezza che l’«auctoritas» più importante, l’unica che conti, è esercitata da Chi non delude. Mai.

Aldo Maria Valli













Mons. Athanasius Schneider: «La Messa tradizionale si può paragonare ad un leone: lasciala libera, e si difenderà».



Intervistato da Rorate Caeli, Sua Eccellenza monsignor Athanasius Schneider spazia su numerosi argomenti.



Sulla Messa tradizionale afferma:

«Celebrando con la forma tradizionale ho imparato che sono solo un povero strumento di azione sacra soprannaturale e massima, il cui celebrante principale è Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote. 

Sento che durante la celebrazione della Messa ho perso, in un certo senso, la mia libertà individuale, le parole e il gesto sono prescritti nei loro dettagli più piccoli, e io non sono in grado di disporre di loro.

Sento nel mio cuore che sono solo un servo e un ministro che, ancora con il libero arbitrio, con fede e amore, compie non la sua volontà, ma la volontà di un Altro. 

Il rito tradizionale della Messa è un’azione solenne e, al tempo stesso, un potente annuncio del Vangelo, realizzando l’opera della nostra salvezza. 

Secondo l’intenzione di Papa Benedetto XVI, e le chiare norme dell’Universae Ecclesiae, tutti i seminaristi cattolici dovrebbero conoscere la forma tradizionale della Messa ed essere in grado di celebrarla. Lo stesso documento dice che questa forma di Messa è un tesoro per tutta la Chiesa, così è per tutti i fedeli. 

Papa Giovanni Paolo II ha lanciato un appello urgente a tutti i vescovi per accogliere generosamente la volontà dei fedeli per quanto riguarda la celebrazione della forma tradizionale della Messa. 

Quando chierici e vescovi ostacolano o limitano la celebrazione della Messa tradizionale, non obbediscono a cosa lo Spirito Santo dice alla Chiesa, e agiscono in un modo molto anti-pastorale. Si comportano come i possessori del tesoro della liturgia, che non appartiene a loro, perché sono solo gli amministratori. 

Nel negare la celebrazione della Messa tradizionale o nell’ostacolarla e discriminarla, si comportano come un amministratore infedele e capriccioso che – contrariamente alle istruzioni del padre di casa – mantiene la dispensa sotto chiave o, come una matrigna cattiva, dà ai bambini una magra paghetta. 

Forse questi chierici hanno paura del grande potere della verità che irradia dalla celebrazione della Messa tradizionale. 

La Messa tradizionale si può paragonare ad un leone: lasciala libera, e si difenderà».







mercoledì 22 febbraio 2017

Le Dat, il fine vita e il documento vaticano per gli operatori sanitari: "Nascondono l'eutanasia"





di Benedetta Frigerio
22-02-2017

Il gioco è fatto: dopo anni di dibattito le Dat (Dichiarazioni anticipate di trattamento) cominciano in questi giorni il loro iter alla Camera, con un testo apparentemente soft, ma molto più pericoloso di quello delle legislazioni che acconsentono esplicitamente il suicidio assistito o l’eutanasia “solo in certi casi”. Con questo ddl, infatti, “rischiano di essere uccisi e di morire di fame e di sete anche gli anziani, i disabili, i dementi”. A parlare di uno scenario che non ha nulla da invidiare al mondo della medicina nazista, dove almeno le persone fragili venivano uccise con iniezioni letali e non tramite lente agonie per mancanza di acqua e cibo, è il medico Giovanni Battista Guizzetti, direttore di una Rsa della bassa bergamasca. Guizzetti è anche medico in un centro in cui vengono curate le persone in “stato di veglia responsiva” ed erroneamente definite in “stato vegetativo: perché un vegetale non si commuove, non ti guarda, non reagisce, come invece fanno i miei pazienti”.


Guizzetti, cominciamo dal ddl sulle Dat: cosa ne pensa?
 

L’articolo 3 è pericolosissimo. Si definiscono trattamenti l’“alimentazione e idratazione”, quando non è così. La logica dice che è trattamento ciò che mira a farti guarire da un malanno o a controllare un sintomo. Il cibo e l’acqua sono invece sostentamenti vitali di cui nessun essere umano può fare a meno per vivere. Quindi toglierli a un malato significa provocarne la morte. La radicalità di questa proposta di legge sta anche nel fatto che viene estesa a tutti, mentre nei paesi in cui l’eutanasia o il suicidio assistito sono permessi all’inizio si faceva riferimento ai soli “malati terminali”. Le Dat invece possano essere redatte da chiunque, anche dai fiduciari di persone handicappate o incapaci di intendere e volere, che possono decidere di privarli di cibo ed acqua uccidendoli.


Il ddl non vi dà nemmeno la possibilità di obiettare: dovrete seguire le disposizioni delle Dat?
 

Se il testo approvato dirà questo, allora saremo al totalitarismo sanitario.


Come siamo arrivati fino a questo punto?

Ammettendo che si poteva legiferare in materia. Per chi ricorda il “caso Englaro”, assistiamo al riproponimento dello stesso. Con il rischio, appunto, di coinvolgere non solo le persone in “stato di veglia responsiva” come Eluna, ma anche i vecchietti o i malati di alzheimer. Ma il punto è che già ora si sente dire che se queste persone o gli anziani hanno la polmonite non vanno curati. Il clima è terribile: proprio in questi giorni mi ha chiamato un amico con il papà ancora reattivo e cosciente, ma in hospice a causa di tumore: era angosciato perché gli hanno sospeso l’alimentazione e l’idratazione, perciò deve nutrirlo lui di nascosto. E’ un andazzo mortifero generale, basti pensare che un tempo si dosava la morfina a gocce solo per togliere il dolore, mentre oggi si usano i cerotti, che sono pensantissimi, oppure si somministrano 4 o 5 fiale azzerando la coscienza del paziente e sospendendo alimentazione idratazione.


Mi scusi, ma dove sono i medici e le associazioni, in maggioranza cattoliche, che nel 2009/2010 alzarono la voce contro la legiferazione in questo campo?

Allora molti di noi spiegarono che una norma in questo caso era sbagliata. Che non esisteva compromesso possibile: ammettere di mettere la vita ai voti era relativizzarla. Qualsiasi cosa avrebbe prodotto un danno: il caso di ogni paziente è singolo, diverso e non normabile senza fare danni. Già allora però fu dura, perché i vesvovi italiani appoggiavano un ddl, che, sebbene vietasse la sospensione di alimentazione e idratazione, doveva ammettere che “in certi casi” era lecito sospenderli (perché, ad esempio, a tre ore dalla morte non si dà da mangiare a un agonizzante). Di fatto si sarebbe aperto a interpretazioni pericolose e quindi ad altri casi “Englaro”. Non c’era altra via, in coscienza, se non quella di opporsi a qualsiasi legge, anche a costo di una sconfitta politica.


Non a caso il magistero della Chiesa in merito è chiarissimo: nell'ultima nota della congregazione per la dottrina della fede sul comportamento dei cattolici in politica (2002), l’allora prefetto, il cardinal Ratzinger, disse che “quando l’azione politica viene a confrontarsi con princìpi morali che non ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno (…) i credenti devono sapere che è in gioco l’essenza dell’ordine morale (…) E’ questo il caso delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia”, nessun fedele può favorire “soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali”. E chi ne sente più parlare? 

Eppure i “princìpi non negoziabili” del Magistero ripetuti dalla Chiesa ci aiutavano a tenere dritta la barra di fronte a un mondo che cerca di farti vacillare facendoti sentire “l’ultimo rimasto” a pensarla così. Oggi, invece, la Chiesa e le associazioni cattoliche non si rifanno più al Magistero: si parla solo di misericordia, ma come se questa prescindesse dalla verità. Così ognuno fa quel che gli pare. Non nascondo che è sconcertante assistere ogni giorno alla barbarie e non avere più un punto a cui ancorarsi.


Eppure per anni la Chiesa ha cercato di arginare le derive radicali facendo politica. Forse il tarlo era già lì?

Una volta avevamo una sponda: la dottrina che veniva ripetuta e calata dentro le questioni concrete. Il mondo spingeva contro la verità ma noi ci opponevamo perché sostenuti dalla Chiesa. Oggi, invece, leggo su Avvenire che Eluana Englaro sarebbe morta perché le hanno staccata la spina, il tutto corredato da una foto di suo padre responsabile dell’omicidio per fame e sete della figlia. Insomma, la menzogna che per anni ci hanno venduto i Radicali ora diventa il giudizio di un articolo scritto sul giornale dei vescovi. Per non palare di un fatto ancora più grave. Il Vaticano ha pubblicato la Carta degli Operatori sanitari pochi giorni fa e all’articolo 152 si legge: “La nutrizione e l’idratazione, anche artificialmente somministrate, rientrano tra le cure di base dovute al morente, quando non risultino troppo gravose o di alcun beneficio”. Cure gravose? Sono sotentamenti vitali.


Se l'ambiguità della Carta non fosse una svista, sarebbe il sintomo di una crisi di fede nell’aldilà e nel fatto che nel momento finale della vita si possa davvero decidere tutto, persino ravvedersi ed evitare l’inferno…

Io spero davvero che non sia così, che non sia un pensiero apostata ad averci condotto fino a qui. Ma ricordo Giovani Paolo II e il cardinal Scola, che si espressero tassativamente anche contro la sedazione terminale (altra cosa è la sedazione profonda che, però, non mira a provocare la morte ma a controllare un sintomo incontrollabile altrimenti) proprio per ragioni di fede oltre che umane.


Dopodiché ecclesiastici, magari formalmente ortodossi, anziché preoccuparsi di difendere la fede cercarono di salvare il salvabile facendo politica e di fatto distinguendo fra dottrina e prassi.

Questa mancanza mi fa venire in mente quando ancora era vivo don Giussani che negli anni Novanta lesse agli esercizi della Fraternità di Cl una lettera invita ai cristiani d’Occidente dal teologo cecoslovacco Josef Zverìna: "Fratelli, voi avete la presunzione di portare utilità al Regno di Dio assumendo quanto più possibile il saeculum, la sua vita, le sue parole, i suoi slogans, il suo modo di pensare. Ma riflettete, vi prego, cosa significa accettare questa parola. Forse significa che vi siete lentamente perduti in essa? Purtroppo sembra che facciate proprio così. È ormai difficile che vi ritroviamo e vi distinguiamo in questo vostro strano mondo. Probabilmente vi riconosciamo ancora perché in questo processo andate per le lunghe, per il fatto che vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo”. Ecco, oggi siamo al punto che non siamo più riconoscibili. Non c’è più nemmeno un moto di protesta, se non flebile e di pochi, ma comunque non sostenuto.


Infatti don Giussani proseguì profeticamente spiegando che per non conformarsi “occorre che la fedeltà a Cristo e alla Tradizione siano sostenute e confortate da un ambito ecclesiale veramente e fortemente consapevole di questa necessaria fedeltà”.


E così finiremo per permettere che persone che soffrono, ma gioiscono anche, e che misteriosamente interagiscono con i loro cari siano senza più difese. Permetteremo che siano uccise persone che se ci sono è perché sono volute anche senza il senno di un sano, che non è tutto perché esiste un’anima. E, a lungo andare, senza un giudizio diverso, arriveremo anche a pensare che sia normale.










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martedì 21 febbraio 2017

L’immigrazione, la Chiesa e l’Occidente. Parla Ettore Gotti Tedeschi



Ettore Gotti Tedeschi, economista e ex presidente dello Ior spiega a Giovanni Bucchi per Formiche.net come le vere cause del fenomeno migratorio non siano affatto quelle economiche



Le motivazioni economiche non bastano a spiegare l’immigrazione di massa. E’ un fenomeno “previsto e voluto per modificare la struttura sociale e religiosa della nostra civiltà, in pratica, per ridimensionare il cattolicesimo”. Sono parole messe nero su bianco da Ettore Gotti Tedeschi nell’Ottavo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo curato dall’Osservatorio internazionale card. van Thuân sul tema immigrazione. L’economista e banchiere cattolico, già presidente Ior, ha affidato a un breve saggio le sue valutazioni, che dopo la presentazione del Rapporto a Roma hanno suscitato alcune critiche (qui e qui) insieme a commenti positivi.

Gotti Tedeschi, nel suo intervento lei parla di una “correzione fraterna” ad alcune istituzioni ecclesiali che non avrebbero compreso il problema dell’immigrazione. In cosa consiste questa correzione?

Sono rimasto preoccupato della solerzia umanitaria piena di toni emotivi che tende a ignorare i numeri del fenomeno e non affronta le cause del problema. Si direbbe infatti che ci siano tre “tabù” che oggi non si devono o possono affrontare razionalmente e in modo completo: il problema della natalità, dell’ambiente e delle migrazioni. Si direbbe che ci sia una volontà superiore, diffusa ed imposta, che non vuole che si discutano questi tre tabù. Così come si direbbe che ci siano “controllori” pronti ad usare ogni mezzo, inclusa l’intimidazione, affinché su questi tabù si accetti un pensiero unico: basta nascite perché l’uomo distrugge l’ambiente, facilitiamo perciò l’immigrazione perché è la miglior soluzione. Ci sono molti punti non chiari su tutti e tre i tabù, ma per rimanere in tema è bene sapere che i dati e le informazioni sulle immigrazioni regolari sono influenzati da accordi o “ricatti economici” con nazioni di partenza migrazioni. I dati e le informazioni sulle immigrazioni irregolari sono ancor meno chiari; si pensi che gli sbarchi irregolari in Italia nel 2016 (181.436) sono stati quaranta volte quelli del 2010 (4.406). E ci si renda conto che il fenomeno della clandestinità è in aumento e fuori controllo. Nel 2015 lo status di rifugiato è stato riconosciuto solo per il 5% dei casi, il 36% ha ricevuto assistenza umanitaria ed il 59% è stato rifiutato, ma non si sa dove sia. E si tratta di più di 100mila persone (su 153.842 sbarcati). Nel 2016 il dato è cresciuto, sono arrivate via mare 181.436 persone (18% in più del 2015) e gli irregolari espulsi con riaccompagnamento nel Paese di origine sono stati solo il 5%. In pratica, la cosiddetta clandestinità cresce ad un ritmo di 100mila unità all’anno, e i Paesi confinanti con il nostro ostacolano gli espatri. Si tratta di dati forniti dall’Alto Commissariato dell’Onu sui rifugiati.

Perché non bastano le ragioni economiche per spiegare il fenomeno migratorio?

Il fenomeno migratorio viene spiegato, o meglio lasciato intuire, con tre principali cause: i conflitti, la povertà, il bisogno di manodopera. E’ evidente che queste tre cause esistono, ma da cosa sono spiegate, e se possano esser risolte, non viene quasi mai discusso. Prendiamo il primo, i conflitti. Fino ad una decina di anni fa venivano “spenti” praticamente sul nascere, poi si direbbe che siano stati tollerati (o persino provocati, si pensi alla Libia), mentre la vendita di armi verso vari Paesi cresceva e si ritiene che queste armi possano esser servite all’Isis. I conflitti che hanno generato migrazioni potevano esser soffocati o no? Prendiamo la seconda causa, la crescita della povertà. Non appare così vero il problema, se guardiamo i flussi migratori. Quelli provenienti da Paesi in vere difficoltà economiche sono tra il 5 e il 10%. Ma è importante notare come questa povertà sia anche dovuta a nostre mancanze negli ultimi dieci anni. Si vada a vedere le conclusioni del famoso G8 per l’Africa dove ci impegnavamo a sostenere investimenti e esportazioni dai Paesi poveri; che abbiamo fatto? Praticamente nulla. Infine, il bisogno di manodopera; il gap di popolazione per il crollo demografico rende necessarie le migrazioni? Ma chi o cosa ha provocato questo gap che oggi pretende di gestire? Chi ha imposto il crollo della natalità in Occidente e ora pensa di compensarlo con immigrazioni? In un momento di crisi economica, con un tasso di disoccupazione nel nostro Paese come l’attuale? Con un costo di accoglimento così gravoso per il nostro bilancio?
Io ho parlato dell’esigenza di chiarire le vere cause del problema, che altrimenti non si risolve, anzi si aggrava. I dubbi sul fatto che si vogliano disconoscere queste vere cause stanno anche nella confusione che regna in Europa. Si è mai pensato come mai i migranti siano prevalentemente giovani e sani? I meno giovani non temono i conflitti e la fame?

Veniamo al punto. Lei ha scritto che c’è un disegno per “ridimensionare il cattolicesimo”, ha parlato di un progetto di re-ingegnerizzazione gnostica del mondo che ha un nemico dichiarato: la Chiesa cattolica, e lo ha fatto citando il segretario dell’Onu Ban Ki-moon e il Rapporto Kissinger del 1974. Perché la Chiesa cattolica è il bersaglio?

Io credo proprio che il fenomeno migrazioni sia una delle (peggiori) conseguenze dei fallimenti del cosiddetto Nuovo Ordine economico Mondiale instaurato negli anni Settanta per regolare il necessario processo di globalizzazione. Invito a riflettere sul fatto che tutti gli obiettivi del Nuovo Ordine non solo non si son realizzati, ma si è prodotto esattamente il contrario: si volevano estinguere tutte la cause di conflitti, diseguaglianze, povertà, intolleranza religiosa, totalitarismi, e si è prodotto il risultato opposto, incluso un processo di migrazione forzato. Il vero grande “successo” del Nuovo Ordine è stato aver creato una crisi economica globale, a sua volta origine di altre conseguenze dannose. Dobbiamo poi riconoscere che c’è stato un altro “vero successo”: quello legato al processo dichiarato di relativizzazione delle fedi religiose, mirante alla laicizzazione delle stesse, con conseguente crollo dei valori morali e cambiamenti all’interno della Chiesa cattolica. Se osserviamo le conseguenze di questi fatti osservati, non possiamo non riflettere sul rischio (per alcuni) o opportunità (per altri) di una processo di reingegneria socio-religiosa ispirata certamente, e direi anche gestita. Se poi avessimo anche la pazienza di andarci a rileggere le dichiarazioni fatte dai leader internazionali negli ultimi quaranta anni, troveremmo materia di analisi sul fatto che “nulla succede per caso”. Non parliamo di teorie di complotto, parliamo di fatti.

Leggendo il suo saggio, viene da pensare che la stessa Chiesa cattolica finita sotto attacco non abbia capito quanto sta accadendo. E’ così?

Il cattolicesimo è una fede assoluta e dogmatica che pretende doveri verso il Creatore. Il mondo laicista non tollera questi “doveri”. Vede, il progetto di Nuovo Ordine Mondiale prevedeva più obiettivi strategici che andavano dal controllo delle nascite ai nuovi paradigmi etici verso le fedi religiose più dogmatiche, al fine di avere una sola grande religione universale. Negli ultimi quarant’anni non si è fatto altro che discutere sui nuovi obiettivi per l’umanità, poi abbiamo avuto l’11 settembre e tutto è cambiato, si è gestita opportunisticamente l’emergenza… Si è lasciato ben intendere che i diritti civili che il mondo meritava non avevano nulla a che fare con quelli insegnati dalla morale cattolica tanto che il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivò a spiegare che l’etica cristiana non avrebbe più dovuto esser applicata in futuro. E Obama nel 2009 dichiarò che la salute è benessere psico-bio-sociale, e via ad aborto senza restrizioni, eutanasia grazie a limitazione cure, negazione al diritto di coscienza. Era evidente che il cattolicesimo era sotto attacco, no? Poi il segretario dell’Onu Kofi Annan nel suo storico discorso ai leader religiosi a New York nel 2000 arrivò a parlare di una esigenza di sincretismo religioso per creare una nuova religione universale, spiegando che i processi di immigrazione avrebbero aiutato questo progetto…

La Chiesa è rimasta a guardare?

Io non mi permetto di criticare le istituzioni ecclesiastiche, tantomeno il Papa; che mai potrebbe dire di diverso il Papa, se non esortare alla carità? Semmai resto perplesso di fronte ad affermazioni fatte da illustri membri di istituzioni che sembrano voler ignorare le cause e fanno proposte genericamente umanitarie, prescindendone. Ha mai visto risolvere un problema agendo sugli effetti anziché sulle cause? Come si può pensare di risolvere problemi di miseria materiale e sociale senza risolvere prima i problemi morali? Ma questi illustri ecclesiastici hanno letto e meditato su Caritas in Veritate e Lumen Fidei? E poi trovo sbagliato usare considerazioni morali-umanitarie facendo riferimenti sacri.

Qualcuno l’ha attaccata dicendo che con le sue teorie va contro il messaggio di Papa Francesco e si avvicina alle tesi di Trump e Salvini. Come risponde?

Avrà notato che da qualche tempo nel nostro Paese si son sviluppati due sport: gli “interpretatori del Santo Padre” e i “cacciatori dei dissidenti” (veri o inventati) del pensiero del Papa. Mancando argomenti inventano similitudini suggestive ed offendenti.










Pensieri di Santa Faustina Kowalska che aiutano ad avere fiducia in Dio





Santa Faustina Kowalska è stata suora polacca votata all’ordine della Beata Vergine Maria della Misericordia, mistica e veggente, viene venerata in tutto il mondo come l’Apostola della Divina Misericordia e nel suo Diario Gesù le usa l’appellativo di “Segretaria della Divina Misericordia”. Di seguito una serie di pensieri e citazioni della santa polacca.


Pensieri di Santa Faustina Kowalska

– Dio non ci mette alla prova più di quanto non la possiamo sostenere.

– Non temo nulla. Egli manda all’anima che soffre una grazia ancor più grande della sua stessa sofferenza, anche se l’anima non se ne rende conto. In simili momenti, un atto di fiducia dà a Dio più gloria che ore intere trascorse in orazione.

– Nulla di nuovo accade sotto il sole, o Signore, senza la tua volontà. Sii benedetto per tutto quello che mi mandi. Non posso penetrare i tuoi segreti a mio riguardo, ma, fidandomi unicamente della tua bontà, avvicino le labbra al calice che tu mi porgi. Gesù, io confido in te!

– Non capisco come si possa mancare di fiducia nell’Onnipotente. Con Lui tutto è possibile, senza di Lui nulla. Egli mi dice molto spesso: Non mi piace che ti abbandoni a inutili paure. Chi potrà nuocerti, dal momento che tu sei con me? Io amo l’anima che crede nella mia bontà senza incertezze. Posso fidarmi di lei a mia propria volta e le concedo tutto ciò che chiede.

– Gesù mi disse: In ogni anima compio l’opera della mia misericordia. Chi confida in essa non perirà, perché tutti i suoi interessi sono miei. Ad un tratto, Gesù prese a lamentarsi con me per la sfiducia da lui incontrata nelle anime più care: ciò che mi ferisce è la loro diffidenza nei miei confronti, dopo che hanno sbagliato. Se esse non avessero sperimentato già la bontà illimitata del mio cuore, ciò mi addolorerebbe meno.

– Il mio nulla affonda nel mare della tua misericordia, o Padre di misericordia. Con la fiducia d’un bambino, mi getto tra le tue braccia per ricompensarti della diffidenza di tante anime.

– Quanto sono pochi quelli che ti conoscono realmente! Hanno paura a confidare in te! Anch’io desidero, con estremo ardore, che la festa della tua misericordia sia da tutti conosciuta, perché essa corona tutte le tue opere e di ciascuna ti prendi cura con l’amore di una madre.

– Vi sono momenti nella vita, in cui direi che l’anima non è più in grado d’affrontare il linguaggio degli uomini. Tutto l’affatica, nulla le dà pace; ha solo bisogno di pregare. Sta unicamente in questo il suo sollievo. Se si rivolgerà alle creature, non ne ricaverà che un’inquietudine maggiore.

– Per perseverare nella preghiera l’anima deve armarsi di pazienza e coraggiosamente superare difficoltà interiori ed esteriori. Difficoltà interiori sono la stanchezza, lo scoraggiamento, l’aridità, le tentazioni; quelle esteriori provengono, invece, da ragioni di rapporti umani.

– Con la preghiera si può affrontare qualsiasi genere di lotta. L’anima dovrà pregare in qualunque stato essa si trovi.

– Deve pregare l’anima pura e bella perché, in caso contrario, perderà la sua bellezza.

– Deve pregare l’anima che aspira alla santità, perché altrimenti non le sarà data.

– Deve pregare l’anima appena convertita, se non vuole fatalmente ricadere.

– Deve pregare l’anima immersa nei peccati per ottenere di venirne fuori.- Non c’è anima esonerata dal pregare, perché è attraverso la preghiera che discendono le grazie.

– Quando preghiamo, dobbiamo adoperare l’intelligenza, la volontà e il sentimento.

– Gesù mi fece capire che l’anima deve mantenersi fedele alla preghiera malgrado i patimenti, le aridità e le tentazioni, perché da una simile preghiera dipende quasi sempre l’attuazione dei più grandi progetti di Dio. Se da parte nostra tale perseveranza fosse assente, creeremmo difficoltà a quanto Dio intende operare in noi e attorno a noi per mezzo nostro.

– Gesù mia guida, insegnami ad aprire fino in fondo la mia misericordia ed il mio amore a chiunque abbia bisogno della mia preghiera, affinché questa, al modo stesso delle opere, porti impresso il sigillo della tua misericordia.

– Una volta in cui chiesi a Gesù come potesse tollerare, senza punirli, lo sterminato numero di peccati e i crimini che vengono commessi sulla terra, mi rispose: per punirli ho l’eternità; adesso prolungo il tempo della mia misericordia.

– Desidero colmare di grazie tutte le anime; sono esse, semmai, che non le vogliono ricevere. Trovano tempo per tutto, solamente non ne trovano per me. Infelici quelle che non vorranno riconoscere che questo è il tempo in cui vengo loro incontro.

– Quanto più conosco la grandezza di Dio, tanto più gioisco che egli sia tale.
– Infinitamente mi rallegro della grandezza di lui e mi fa piacere essere tanto piccola perché, così, egli mi prende in braccio e mi stringe al suo cuore.

– Riflettendo però sul culto che rivolgo a Dio, trovo che esso è ben poca cosa, una goccia appena in confronto dell’immensa gloria che riceve in cielo. Mio Dio, ti mostri già infinitamente buono accettando la mia adorazione e la mia supplica e volgendo con favore il tuo volto su di me.

– Quanta pena mi fa la gente che non crede nel mondo soprannaturale! Ti prego, o Dio, con tutta l’anima, affinché anch’essi siano penetrati da un raggio della tua misericordia e tu li stringa a te paternamente.

– Nei momenti in cui mi sento interiormente abbandonata, non mi turbo perché so che Dio non abbandona mai un’anima se non quando l’anima stessa spezza il nodo dell’amore con la propria infedeltà. Ma che sforzi enormi occorrono per compiere bene dei doveri, quando si ha una salute cagionevole! Cristo lo sa.

– È bene invocare l’aiuto del Signore mentre si sta conversando con una persona. Ho molta paura di conversazioni, le quali sembrano confidenziali: occorre da parte di Dio che ci dia luce affinché tali discorsi riescano utili alle anime. Dio viene in aiuto ma bisogna chiederlo, e non fidarsi totalmente della propria abilità.

– O mio Gesù, so che per essere utili alle anime bisogna unirsi strettamente a te. O amore eterno, una parola sola di un’anima unita strettamente a te procura alle altre un bene assai maggiore di quanto non lo facciano i grandi discorsi ed i sermoni di un’anima imperfetta.

– La virtù senza prudenza non è virtù. Dobbiamo pregare spesso lo Spirito Santo, chiedendo la grazia della prudenza.

– La prudenza è fatta di riflessione, di saggezza e di ferma risoluzione. La decisione ultima ci appartiene e ne siamo responsabili. Spetta a noi la scelta, ma possiamo e anche dobbiamo domandare luce e consiglio.

– Ho fatto dei propositi anche in altro campo: godere dei successi altrui come se io stessa li avessi ottenuti.

– Oggi ho compreso in che cosa stia la santità. Non sono né le rivelazioni, né le estasi, né alcun altro dono a rendere la mia anima perfetta, ma l’unione intima con Dio.

– I doni sono un ornamento, non l’essenza della perfezione. La santità e la perfezione stanno nella mia stretta unione con la volontà di Dio. Egli non fa mai violenza al nostro arbitrio. Dipende da noi accettare la grazia di Dio o rifiutarla, collaborare con essa o farne spreco.

– Sappi, mi disse Gesù, che sforzandoti alla tua perfezione, santificherai molte altre anime. Se non cerchi la santità, invece, anche altre anime rimarranno nella loro imperfezione. Sappi che la loro santità dipende dalla tua e che gran parte della responsabilità in questo campo ricadrà sopra di te. Non impaurirti: basta che tu sia fedele alla mia grazia.

– Gesù mi rivolse la parola: “Mia discepola, devi nutrire un grande amore per coloro che ti affliggono; fa’ del bene a quelli che ti vogliono del male”. Risposi: “Mio Maestro, vedi bene che non sento per essi alcun amore, e ciò mi addolora”. Gesù rispose: “Il sentimento non è sempre in tuo potere. Riconoscerai d’avere amore quando, dopo aver ricevuto ostilità e dispiaceri, non perderai la pace, ma pregherai per quelli che ti fanno soffrire e desidererai per essi il loro bene”.

– Nelle persone ammalate o sofferenti, dobbiamo scorgere Gesù inchiodato in croce e non un parassita o un membro improduttivo.

– L’anima che soffre e accetta la volontà di Dio attira più benedizioni che non le persone che lavorano. Povera casa, dove tutti stanno bene! Dio concede molto spesso grazie grandi e numerose in considerazione delle persone sofferenti e allontana molti castighi unicamente per riguardo a loro.

– O umiltà, fiore stupendo sono poche le anime che ti possiedono! Forse perché sei così bella e, al tempo stesso, tanto difficile da conquistare? Dell’umiltà Dio si rallegra. Sopra un’anima umile, egli apre i cieli e fa scendere un mare di grazia. A un’anima così Dio non rifiuta nulla. In tal modo essa diventa onnipotente e influisce sulla sorte del mondo intero. Più essa si umilia, più Dio si china su di lei, la copre della sua grazia, l’accompagna in tutti i momenti della vita. O umiltà, getta le tue radici nel mio essere.

– Non è piccola cosa ciò che si compie per amore. So che non è la grandezza dell’opera, ma la grandezza dello sforzo che verrà premiata da Dio. Quando uno è debole e malato, compie sforzi continui per arrivare a fare quello che tutti gli altri compiono normalmente. Tuttavia non riesce sempre a venirne a capo. La mia giornata incomincia con la lotta e con la lotta anche finisce. Quando la sera mi vado a coricare, mi par d’essere un soldato che torna dal campo di battaglia.

– Dove c’è vera virtù, lì non può mancare il sacrificio. Tutta la vita è un grande sacrificio. Solo attraverso il sacrificio le anime posseggono la capacità d’essere utili.

– Sacrificando me stessa per il prossimo, io reco gloria a Dio. Tuttavia, il mio sacrificio deve derivare dall’amore che ho per lui. È in questo amore verso Dio che tutto si concentra ed ha valore.

– Una volta, per istruirmi sulla vita interiore, Maria mi disse: “La vera grandezza dell’anima sta nell’amare Dio e nell’essere umili davanti a lui, dimenticando completamente se stessi, perché Dio solo è grande”.

– Incomparabile è la gloria che aspetta l’anima la quale, sulla terra, assomiglia a Gesù nel suo soffrire: gli assomiglierà per sempre anche nella gloria. Il Padre celeste glorificherà le nostre anime nella misura in cui scorgerà dentro di noi una rassomiglianza con suo Figlio.







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lunedì 20 febbraio 2017

Il lavorìo carsico per una messa "ecumenica"





di Luisella Scrosati
20-02-2017


Nell'opera in corso di riforma della Curia romana prende sempre più corpo l'idea che i dicasteri continuano ad esistere nominalmente, ma in pratica la loro autorità viene sempre più sminuita. Se la Congregazione per la Dottrina della Fede è stata di fatto esautorata, non essendo stata autorizzata a pronunciar parola sulle divisioni in atto a motivo dell’interpretazione di Amoris Laetitia (il Cardinale Gerhard L. Müller non fu nemmeno invitato alla presentazione del documento, vista la preferenza accordata ai cardinali C. Schönborn e Lorenzo Baldisseri), la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti non gode di miglior prestigio.

Rivedere il centro e le periferie

Si è già data notizia dei movimenti sovversivi (vedi qui) per rovesciare la quinta istruzione per la retta applicazione della Costituzione sulla liturgia del Vaticano II, Liturgiam Autenticham (LA). Questo testo fondamentale è poco gradito non solo per i criteri di traduzione indicati, ma anche perché ribadisce e rafforza la necessità della recognitio dei testi liturgici approvati dalle conferenze episcopali: «Questa recognitio non è tanto una formalità quanto un atto della potestà di governo, assolutamente necessario (in caso d'omissione, infatti, gli atti delle conferenze dei vescovi non hanno forza di legge), che può comportare delle modifiche, anche sostanziali. Così, non è permesso pubblicare testi liturgici […] se manca la recognitio». La ragione è chiara: «Siccome è necessario che la lex orandi concordi sempre con la lex credendi […] le traduzioni liturgiche non possono essere degne di Dio se non rendono fedelmente nella lingua vernacola la ricchezza della dottrina cattolica presente nel testo originale, cosicché la lingua sacra si adatti al contenuto dogmatico che reca con sé». E arriva poi la mannaia ad ogni tentativo centrifugo: «Bisogna osservare il principio secondo cui ciascuna Chiesa particolare deve essere concorde con la Chiesa universale non solo in ciò che riguarda la dottrina della fede e i segni sacramentali, ma anche in ciò che riguarda gli usi universalmente ricevuti dalla tradizione apostolica ininterrotta» (LA, § 80).

Per dissolvere definitivamente la liturgia cattolica è perciò necessario dare più libertà alle conferenze episcopali e togliere di mezzo – in gergo curiale “sfumare” - la sgradita recognitio, in gaudente accettazione della linea di devolution.

Amoris Laetitia docet. Si pensava che la battaglia si giocasse su due modi di intendere la dottrina sul matrimonio e l’Eucaristia, mentre invece il messaggio è stato piuttosto chiaro: la dottrina resta immutata (leggi: della dottrina non interessa), ma cambia la prassi. E per questo c’è stato bisogno di dare libertà alle conferenze episcopali, tra le quali non mancano certo quelle che non vedono l’ora di avventurarsi verso nuovi sentieri, ovviamente per il bene delle anime. Perché, in fondo, «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (Evangelii Gaudium, 16). La rivoluzione parte dalle periferie.

Verso una preghiera eucaristica ecumenica

Indiscrezioni confermano che nella liturgia si sta tentando di fare la stessa cosa: decentralizzare e dare una “certa” libertà agli episcopati nello sperimentare nuove traduzioni, più comprensibili al popolo di Dio, nuovi testi più adatti alla mentalità dell’uomo moderno e - perché no? - una nuova preghiera eucaristica, per poter andare incontro ai fratelli separati, soprattutto nelle aree germanofone, che con i fratelli separati ci devono convivere, senza però poter dare testimonianza di unione intorno all’altare del Signore... Si dovrebbe perciò pensare ad una preghiera eucaristica che possa essere pronunciata insieme, senza creare difficoltà a nessuno.

Farneticazioni? No. E’ già pronta anche la pezza d’appoggio con cui giustificare il tutto. Si tratta del documento del 2001 del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, allora presieduto dal Cardinale Kasper, con il quale si riconosceva la validità dell’Anafora di Addai e Mari (preghiera eucaristica della Chiesa assira d’Oriente, più conosciuta come Chiesa nestoriana), documento che può vantare il placet della Congregazione per la Dottrina della Fede, che aveva come prefetto il cardinale Ratzinger, e quello di Giovanni Paolo II. Niente di meglio per poter rivoluzionare tutto, coprendosi dietro una continuità con i Papi precedenti. Questa anafora, cui dedicheremo più avanti un articolo di approfondimento, ha la particolarità di non contenere le parole della consacrazione, se non, come afferma il documento del 2001, «in modo eucologico e disseminato», cioè non in modo esplicito (“Questo è il mio corpo… Questo è il calice del mio sangue”), bensì “sparse” nelle preghiere che compongono l’anafora. Sarebbe perciò utilissima come principio giustificativo di una nuova preghiera eucaristica senza parole consacratorie, che potrebbero urtare i fratelli protestanti.

Non verrà dato molto peso al fatto che, proprio al termine di quel documento, si specificava che «le suddette considerazioni sull'uso dell'Anafora di Addai e Mari[…], si intendono esclusivamente per la celebrazione eucaristica […] della Chiesa caldea e della Chiesa assira dell'Oriente, a motivo della necessità pastorale e del contesto ecumenico sopra menzionati». Detto in altre parole: questa anafora può essere usata solo nel contesto indicato e non può diventare principio ispiratore per nuove presunte riforme, come di fatto stanno strombazzando da anni molti liturgisti. Asinus asinum fricat. Ma si sa che nell’epoca in cui si devono edificare non muri ma ponti, questa clausola è destinata ad esser spazzata via in un istante.

Anche la Messa antica nel mirino

Ma l’attacco a LA ha anche un altro scopo, che è proprio l’insospettabile Andrea Grillo a rivelarci (vedi qui). Riassunto: se spazziamo via LA colpiamo anche il motu proprio Summorum Pontificum (SP), perché sono entrambi legati da una stessa logica. «Il Motu Proprio di 6 anni successivo, che avrebbe dato inizio al rischioso parallelismo tra rito ordinario e rito straordinario è, di fatto, contenuto, non solo nello spirito, ma addirittura nella lettera di LA, ossia all’interno di questa indiretta negazione non certo del Concilio, ma proprio della sua giustificazione pastorale». LA e SP non hanno capito un’acca della pastoralità del Vaticano II, anzi l’hanno soffocata: «Una delle ambizioni di LA veniva così affermata: “La presente istruzione prelude – cercando di prepararla – una nuova stagione di rinnovamento…”. Questa asserzione assomiglia molto a quelle – ad essa contemporanee e anche successive – intorno alla esigenza di un “nuovo movimento liturgico”, ossia l’auspicio di un movimento liturgico che possa garantire alla navicella della Chiesa di rispondere ad un “solo ordine”: “macchine indietro tutta”!». Ed infine, appello a tutte le forze di rinnovamento da Grillo, in versione Marco Porcio Catone: «Oggi, a distanza di 15 anni […] è del tutto evidente che “una nuova stagione di rinnovamento” sarà possibile soltanto superando le contraddizioni e le ingenuità nostalgiche di questo atto di interruzione della “svolta pastorale” iniziata con il Concilio Vaticano II». Delenda Carthago: più chiaro di così…













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