giovedì 31 marzo 2011
LA SECOLARIZZAZIONE LITURGICA COME NEGAZIONE DEL CULTO
di don Matteo De Meo
(Contributo letto nell'ambito del convegno organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bari il 25 marzo scorso in occasione della visita di S.E. il Cardinal Raymond Burke.)
Sicuramente la genesi di gran parte del crollo della Liturgia, a cui da decenni stiamo assistendo nella Chiesa, è da rintracciarsi in ciò che Sua Eminenza il Cardinal Raymond Leo Burke ha acutamente evidenziato all’inizio della sua Lectio magistralis: “...un’esasperata attenzione rivolta all’aspetto umano della liturgia...” ovvero la sua secolarizzazione.
Essa si dettaglia in tutti quegli infiniti e variegati tentativi di “adeguamento” tra la fede e il suo linguaggio da una parte e il mondo dall'altra, tra liturgia e mondo. Un mondo, però, che viene sempre più concepito etsi Deus non daretur. E proprio Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”.
Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione. La secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto. Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di ogni sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo. È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso.
Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di una precisazione. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adeguamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici. Quello che cercano è un culto le cui forme e contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Un aspetto che ha la sua ricaduta in un vasto raggio dalla ritualità, all’arte e alla architettura sacra.
Basti pensare che la “stessa incapacità dell’uomo di oggi di rapportarsi con il mistero” diventa un criterio per realizzare nuovi spazi liturgici; o si traduce nel tentativo di entrare in dialogo con una certa cultura definita oggi proteiforme: “...l’architettura contemporanea è fluida, cangiante, proteiforme; così come un liquido si adatta al suo contenitore, essa si conforma alla sensibilità dell’artefice. Tutte le modalità di espressione artistica sono strettamente connesse alla soggettività...”- in questi termini si esprime D. Bagliani, docente al politecnico di Torino (opinione riportata in un articolo “Nuove Chiese, progetti da premio” di L. Servadio, in merito ai tre progetti pilota di nuove chiese vincenti alla quinta edizione del concorso Cei, 2009).
Un edificio può mettere in evidenza il silenzio, un altro un certo connubio fra natura e architettura (bioarchitettura), un altro un certo collegamento tra passato e futuro; oppure può adottare semplicemente forme stravaganti: una gemma di roccia poggiata al suolo, con un ingresso che invita ad un senso di protezione, simbologie ricercate e analogie, ecc.
Allo stesso modo questa "incapacità di rapportarsi col mistero" può tradursi nell'adozione nell’ambito dell’arte sacra di un astrattismo proprio dell’arte contemporanea: l’arte nella sua astrattezza e fluidità tenderebbe pertanto ad esprimere “l’inesprimibilità” del sacro e del mistero: “...anche le parole più astratte del Signore quale, via verità e vita, potrebbero essere rivestite di forma e colore...” (vedi T. Verdon in un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008).
Sono solo alcuni esempi che ci rivelano un assoggettamento della liturgia, e quindi della stessa arte sacra e religiosa in genere, alla capacità di comprensione attuale. Il risultato è un vago spiritualismo, un simbolismo figurativo confuso e astratto, una liturgia intellettualizzata. A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come un semplice surrogato. Egli sa che il culto secolarista è semplicemente incompatibile con il vero culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dirlo, la sua essenza del tutto anti-cristiana.
La società è ormai pervasa da questa mentalità secolarizzata che sembra non risparmiare nemmeno la Chiesa, aggredendo particolarmente l’integrità della Liturgia. Quelli che dovrebbero essere chiaramente definiti e condannati come abusi liturgici diventano sempre più la norma. Si celebra in ogni luogo, in ogni modo, e in ogni forma. É difficile ormai trovare una celebrazione “cattolica”, nel vero senso della parola, “unica e universale”. Non entriamo poi in merito degli edifici e degli spazi liturgici, dove convivono tranquillamente, banalità sciatteria e bruttezza. É difficile definirli “casa” ancor meno “casa di Dio”. Luoghi che consacrati per il culto a Dio possono tranquillamente essere usati per qualsiasi “celebrazione”, o spettacolo, o teatro, o conferenza col risultato di far perdere definitivamente la loro identità di luogo sacro.
Ma non vorrei scadere nella mera polemica fine a se stessa!
Per cui, ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”. Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca di “adeguamento” perviene ad uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “liturgie secolarizzate” – vuol mettere in evidenza, a mio avviso, innanzitutto una contraddizione interna, in termini; una contraddizione che esprime l’impossibilità stessa di una “liturgia secolarizzata”.
Rendere culto è, per definizione una azione, una realtà di dimensione cosmica, storica ed escatologica; è espressione, in tal modo, non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, (J. Ries, M. Eliade, per citare solo i più rappresentativi, che furono fra i primi nell’immediato post concilio a suonare il campanello d’allarme di una pericolosa ideologia di desacralizzazione all’interno della Chiesa stessa, e non vennero ascoltati) sarebbero certamente d’accordo che su un livello storico e fenomenologico questa nozione di culto è oggettivamente verificabile.
Il secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione dell'uomo e del mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?
Fonte: Fides et Forma
L'attualità di Sant'Alfonso Maria de' Liguori
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 30 marzo 2011
Sant'Alfonso Maria de' Liguori
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei presentarvi la figura di un santo Dottore della Chiesa a cui siamo molto debitori, perché è stato un insigne teologo moralista e un maestro di vita spirituale per tutti, soprattutto per la gente semplice. E’ l’autore delle parole e della musica di uno dei canti natalizi più popolari in Italia e non solo: Tu scendi dalle stelle.
Appartenente a una nobile e ricca famiglia napoletana, Alfonso Maria de’ Liguori nacque nel 1696. Dotato di spiccate qualità intellettuali, a soli 16 anni conseguì la laurea in diritto civile e canonico. Era l’avvocato più brillante del foro di Napoli: per otto anni vinse tutte le cause che difese. Tuttavia, nella sua anima assetata di Dio e desiderosa di perfezione, il Signore lo conduceva a comprendere che un’altra era la vocazione a cui lo chiamava. Infatti, nel 1723, indignato per la corruzione e l’ingiustizia che viziavano l’ambiente forense, abbandonò la sua professione - e con essa la ricchezza e il successo - e decise di diventare sacerdote, nonostante l’opposizione del padre. Ebbe degli ottimi maestri, che lo introdussero allo studio della Sacra Scrittura, della Storia della Chiesa e della mistica. Acquisì una vasta cultura teologica, che mise a frutto quando, dopo qualche anno, intraprese la sua opera di scrittore. Fu ordinato sacerdote nel 1726 e si legò, per l’esercizio del ministero, alla Congregazione diocesana delle Missioni Apostoliche. Alfonso iniziò un’azione di evangelizzazione e di catechesi tra gli strati più umili della società napoletana, a cui amava predicare, e che istruiva sulle verità basilari della fede. Non poche di queste persone, povere e modeste, a cui egli si rivolgeva, molto spesso erano dedite ai vizi e compivano azioni criminali. Con pazienza insegnava loro a pregare, incoraggiandole a migliorare il loro modo di vivere. Alfonso ottenne ottimi risultati: nei quartieri più miseri della città si moltiplicavano gruppi di persone che, alla sera, si riunivano nelle case private e nelle botteghe, per pregare e per meditare la Parola di Dio, sotto la guida di alcuni catechisti formati da Alfonso e da altri sacerdoti, che visitavano regolarmente questi gruppi di fedeli. Quando, per desiderio dell’arcivescovo di Napoli, queste riunioni vennero tenute nelle cappelle della città, presero il nome di “cappelle serotine”. Esse furono una vera e propria fonte di educazione morale, di risanamento sociale, di aiuto reciproco tra i poveri: furti, duelli, prostituzione finirono quasi per scomparire.
Anche se il contesto sociale e religioso dell’epoca di sant’Alfonso era ben diverso dal nostro, le “cappelle serotine” appaiono un modello di azione missionaria a cui possiamo ispirarci anche oggi per una “nuova evangelizzazione”, particolarmente dei più poveri, e per costruire una convivenza umana più giusta, fraterna e solidale. Ai sacerdoti è affidato un compito di ministero spirituale, mentre laici ben formati possono essere efficaci animatori cristiani, autentico lievito evangelico in seno alla società.
Dopo aver pensato di partire per evangelizzare i popoli pagani, Alfonso, all’età di 35 anni, entrò in contatto con i contadini e i pastori delle regioni interne del Regno di Napoli e, colpito dalla loro ignoranza religiosa e dallo stato di abbandono in cui versavano, decise di lasciare la capitale e di dedicarsi a queste persone, che erano povere spiritualmente e materialmente. Nel 1732 fondò la Congregazione religiosa del Santissimo Redentore, che pose sotto la tutela del vescovo Tommaso Falcoia, e di cui successivamente egli stesso divenne il superiore. Questi religiosi, guidati da Alfonso, furono degli autentici missionari itineranti, che raggiungevano anche i villaggi più remoti esortando alla conversione e alla perseveranza nella vita cristiana soprattutto per mezzo della preghiera. Ancor oggi i Redentoristi, sparsi in tanti Paesi del mondo, con nuove forme di apostolato, continuano questa missione di evangelizzazione. A loro penso con riconoscenza, esortandoli ad essere sempre fedeli all’esempio del loro santo Fondatore.
Stimato per la sua bontà e per il suo zelo pastorale, nel 1762 Alfonso fu nominato Vescovo di Sant’Agata dei Goti, ministero che, in seguito alle malattie da cui era afflitto, lasciò nel 1775, per concessione del Papa Pio VI. Lo stesso Pontefice, nel 1787, apprendendo la notizia della sua morte, avvenuta dopo molte sofferenze, esclamò: “Era un santo!”. E non si sbagliava: Alfonso fu canonizzato nel 1839, e nel 1871 venne dichiarato Dottore della Chiesa. Questo titolo gli si addice per molteplici ragioni. Anzitutto, perché ha proposto un ricco insegnamento di teologia morale, che esprime adeguatamente la dottrina cattolica, al punto che fu proclamato dal Papa Pio XII “Patrono di tutti i confessori e i moralisti”. Ai suoi tempi, si era diffusa un’interpretazione molto rigorista della vita morale anche a motivo della mentalità giansenista che, anziché alimentare la fiducia e la speranza nella misericordia di Dio, fomentava la paura e presentava un volto di Dio arcigno e severo, ben lontano da quello rivelatoci da Gesù. Sant’Alfonso, soprattutto nella sua opera principale intitolata Teologia Morale, propone una sintesi equilibrata e convincente tra le esigenze della legge di Dio, scolpita nei nostri cuori, rivelata pienamente da Cristo e interpretata autorevolmente dalla Chiesa, e i dinamismi della coscienza e della libertà dell’uomo, che proprio nell’adesione alla verità e al bene permettono la maturazione e la realizzazione della persona. Ai pastori d’anime e ai confessori Alfonso raccomandava di essere fedeli alla dottrina morale cattolica, assumendo, nel contempo, un atteggiamento caritatevole, comprensivo, dolce perché i penitenti potessero sentirsi accompagnati, sostenuti, incoraggiati nel loro cammino di fede e di vita cristiana. Sant’Alfonso non si stancava mai di ripetere che i sacerdoti sono un segno visibile dell’infinita misericordia di Dio, che perdona e illumina la mente e il cuore del peccatore affinché si converta e cambi vita. Nella nostra epoca, in cui vi sono chiari segni di smarrimento della coscienza morale e – occorre riconoscerlo – di una certa mancanza di stima verso il Sacramento della Confessione, l’insegnamento di sant’Alfonso è ancora di grande attualità.
Insieme alle opere di teologia, sant’Alfonso compose moltissimi altri scritti, destinati alla formazione religiosa del popolo. Lo stile è semplice e piacevole. Lette e tradotte in numerose lingue, le opere di sant’Alfonso hanno contribuito a plasmare la spiritualità popolare degli ultimi due secoli. Alcune di esse sono testi da leggere con grande profitto ancor oggi, come Le Massime eterne, Le glorie di Maria, La pratica d’amare Gesù Cristo, opera – quest’ultima – che rappresenta la sintesi del suo pensiero e il suo capolavoro. Egli insiste molto sulla necessità della preghiera, che consente di aprirsi alla Grazia divina per compiere quotidianamente la volontà di Dio e conseguire la propria santificazione. Riguardo alla preghiera egli scrive: “Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con la quale si ottiene l’aiuto a vincere ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre, sino a che avrò vita, che tutta la nostra salvezza sta nel pregare”. Di qui il suo famoso assioma: “Chi prega si salva” (Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini. Opere ascetiche II, Roma 1962, p. 171). Mi torna in mente, a questo proposito, l’esortazione del mio predecessore, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II: “Le nostre comunità cristiane devono diventare «scuole di preghiera»... Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi un punto qualificante di ogni programmazione pastorale” (Lett. ap. Novo Millennio ineunte, 33,34).
Tra le forme di preghiera consigliate fervidamente da sant’Alfonso spicca la visita al Santissimo Sacramento o, come diremmo oggi, l’adorazione, breve o prolungata, personale o comunitaria, dinanzi all’Eucaristia. “Certamente – scrive Alfonso – fra tutte le devozioni questa di adorare Gesù sacramentato è la prima dopo i sacramenti, la più cara a Dio e la più utile a noi... Oh, che bella delizia starsene avanti ad un altare con fede... e presentargli i propri bisogni, come fa un amico a un altro amico con cui si abbia tutta la confidenza!” (Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese. Introduzione). La spiritualità alfonsiana è infatti eminentemente cristologica, centrata su Cristo e il Suo Vangelo. La meditazione del mistero dell’Incarnazione e della Passione del Signore sono frequentemente oggetto della sua predicazione. In questi eventi, infatti, la Redenzione viene offerta a tutti gli uomini “copiosamente”. E proprio perché cristologica, la pietà alfonsiana è anche squisitamente mariana. Devotissimo di Maria, egli ne illustra il ruolo nella storia della salvezza: socia della Redenzione e Mediatrice di grazia, Madre, Avvocata e Regina. Inoltre, sant’Alfonso afferma che la devozione a Maria ci sarà di grande conforto nel momento della nostra morte. Egli era convinto che la meditazione sul nostro destino eterno, sulla nostra chiamata a partecipare per sempre alla beatitudine di Dio, come pure sulla tragica possibilità della dannazione, contribuisce a vivere con serenità ed impegno, e ad affrontare la realtà della morte conservando sempre piena fiducia nella bontà di Dio.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori è un esempio di pastore zelante, che ha conquistato le anime predicando il Vangelo e amministrando i Sacramenti, unito ad un modo di agire improntato a una soave e mite bontà, che nasceva dall’intenso rapporto con Dio, che è la Bontà infinita. Ha avuto una visione realisticamente ottimista delle risorse di bene che il Signore dona ad ogni uomo e ha dato importanza agli affetti e ai sentimenti del cuore, oltre che alla mente, per poter amare Dio e il prossimo.
In conclusione, vorrei ricordare che il nostro Santo, analogamente a san Francesco di Sales – di cui ho parlato qualche settimana fa – insiste nel dire che la santità è accessibile ad ogni cristiano: “Il religioso da religioso, il secolare da secolare, il sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercante da mercante, il soldato da soldato, e così parlando d’ogni altro stato” (Pratica di amare Gesù Cristo. Opere ascetiche I, Roma 1933, p. 79). Ringraziamo il Signore che, con la sua Provvidenza, suscita santi e dottori in luoghi e tempi diversi, che parlano lo stesso linguaggio per invitarci a crescere nella fede e a vivere con amore e con gioia il nostro essere cristiani nelle semplici azioni di ogni giorno, per camminare sulla strada della santità, sulla strada strada verso Dio e verso la vera gioia. Grazie.
martedì 29 marzo 2011
LA VERA PACE DEL CUORE
Ogni qual volta si desidera una cosa contro il volere di Dio, subito si diventa interiormente inquieti. Il superbo e l’ avaro non hanno mai requie; invece il povero e l’umile di cuore godono della pienezza della pace.
Colui che non è perfettamente morto a se stesso cade facilmente in tentazione ed è vinto in cose da nulla e disprezzabili.
Colui che è debole nello spirito ed è, in qualche modo, ancora volto alla carne e ai sensi, difficilmente si può, distogliere del tutto dalle brame terrene; e, quando pur riesce a sottrarsi a queste brame, ne riceve tristezza. Che se poi qualcuno gli pone ostacolo, facilmente si sdegna; se, infine, raggiunge quel che bramava, immediatamente sente in coscienza il peso della colpa, perché ha assecondato la sua passione, la quale non giova alla pace che cercava.
Giacché la vera pace del cuore la si trova resistendo alle passioni, non soggiacendo ad esse. Non già nel cuore di colui che è attaccato alla carne, non già nell' uomo volto alle cose esteriori sta la pace; ma nel cuore di colui che è pieno di fervore spirituale.
Imitazione di Cristo
lunedì 28 marzo 2011
Dell’astinenza e castità
di Tommaso da Kempis
Per custodire la perla preziosa della castità è necessario circondare l'orto chiuso della propria anima con le alte mura delle virtù, praticando particolarmente una profonda umiltà, una continua preghiera ed una vigilante mortificazione. Solo chi si affida a Dio con umile fiducia e custodisce con fortezza i propri sensi, otterrà vittoria sulla carne e si eleverà nello spirito. Cibo e bevanda sobri sono la salute dell'anima e del corpo. La scarsità insegna ad amare la povertà. La continenza in mezzo ai piaceri è una virtù molto rara: l'abbondanza di beni temporali è un’occasione di discordie e la madre di tutti i vizi.
La carità è più sicura nella povertà che in mezzo alle ricchezze. L'indigenza corporale è una medicina per l'anima fedele. Il dolore del cuore impedisce la dissipazione, e il timore di Dio chiude gli occhi orgogliosi.
Come è dannosa la vita impudica, così è dannoso ascoltare cose disoneste. L'anima santa eviti sempre la soverchia vicinanza dei corpi, poiché la carne impressiona presto la carne. Amare il bello e cercare la soavità non favorisce la virtù della castità. Al contrario, colui che abbraccia le cose modeste e amare per amore della castità, può vincere più facilmente la carne, poiché, quanto più viene mortificata la carne, tanto più si eleva lo spirito.
Chi si tiene lontano da ogni contatto del corpo, riceverà nell'anima la soavità della castità. Chi ama la solitudine, si conserverà più puro dalle macchie delle cose mondane. Chi crederà che il suo corpo è il carcere dell'anima, non si darà pensiero d'adornarlo e di metterlo in mostra, sapendo che si trasformerà presto in fango e fetore. Apprezzare l'esteriore dell'uomo e gloriarsi della bellezza e della forza è cosa vana e viziosa.
I santi vissero in molta astinenza e disciplina del corpo, e, in ricompensa della presente afflizione, ricevettero la consolazione dello Spirito Santo. Non è degno di venir consolato da Dio chi si diletta dei beni transitori e si rattrista per la loro scarsità.
Chi sopporta con pazienza la fatica e il dolore nel servizio di Cristo riceverà una grande ricompensa, per quanto sia piccolo quello che ha fatto.
La castità ha molti nemici; ma quelli che si umiliano sinceramente, chiedono prontamente l'aiuto di Dio e custodiscono diligentemente i loro sensi, otterranno la vittoria seguendo Cristo come loro condottiero.
domenica 27 marzo 2011
Bagnasco e l'incognita dei cattolici adulti
di Stefano Fontana
26-03-2011
Dall'ultimo libro di Stefano Fontana, "L'età del Papa scomodo. Chiesa e politica negli ultimi tre anni" (Cantagalli, pp. 254, euro 16), che raccoglie una serie di articoli usciti in questi anni, pubblichiamo il testo "Il sogno di Bagnasco si infrange contro la realtà dei cattolici adulti" del 27 gennaio 2010.
«Il sogno del cardinale Bagnasco»: la questione dei cattolici in politica sara forse chiamata così dopo che il presidente dei vescovi italiani, ha rivelato di avere – nonostante tutto, viene da aggiungere – il sogno che «questa stagione contribuisse a far sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che, pur nel travaglio della cultura odierna e attrezzandosi a stare sensatamente dentro ad essa, sentono la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti, e per essa sono disposti a dare il meglio dei loro pensieri, dei loro progetti, dei loro giorni».
Una vocazione, insomma, in una società in cui ogni vocazione, e non solo quella politica, sembra profondamente in crisi. Viene in mente quanto Benedetto XVI aveva auspicato in un famoso discorso tenuto a Cagliari il 7 settembre 2008: «Serve una nuova generazione di politici cattolici». Con una differenza, pero. Quello di Bagnasco e “un sogno”, qualcosa di irreale e destinato a rimanere tale, oppure destinato a diventare realta? Le interpretazioni sono aperte. Forse il “sogno” di Bagnasco ha a che fare con la speranza cristiana, che non muore mai e purifica la ragione dal suo pessimismo.
Ma cosa ci vorrebbe perche il sogno si avverasse? Giustamente il cardinale ricorda che ormai la questione sociale è diventata la «questione antropologica». La crisi ci attraversa trasversalmente perchè vogliamo mettere le mani sulla identità umana senza piu sapere cosa l’uomo sia. Viene allora da pensare che ciò di cui hanno bisogno i cattolici della sognata “nuova generazione” sia di ripartire dall’uomo, dalla dignità della persona. Però questo è gia stato fatto e, purtroppo, i cattolici adulti e non adulti si sono ampiamente divisi proprio sul significato di dignità della persona. Da quando Emma Bonino si è candidata per la presidenza della regione Lazio fioriscono molte indagini su come potrebbe essere il voto cattolico in quella regione. Dalle interviste e dalle statistiche non risulta affatto che i cattolici siano compattamente schierati per il no alla Bonino e le donne cattoliche del Pd, come Mariapia Garavaglia per esempio, hanno dichiarato che la candidata radicale sapra ampiamente andare incontro alle attese dei cattolici. Ora, se la dignità della persona umana non è nemmeno in grado di motivare agli occhi di molti cattolici un voto contrario a Emma Bonino, con tutto ciò che questo nome significa nei campi della vita e della famiglia, potrà essa costituire il terreno ove far maturare e fruttificare una nuova generazione di cattolici?
Il problema politico dei cattolici, prima ancora che un problema di fede, è un problema di ragione. Credono in modi talmente diversi nella capacità della ragione di vedere la verità delle cose che questo si ripercuote perfino sulla loro concezione della fede e molti ritengono che i veri peccati siano votare Pdl, sprecare l’acqua quando ci si lavano i denti, non andare a far spesa al chilometro zero; pensano che nella loro parrocchia tutto vada bene se ci sono i pannelli solari sulla canonica come forma di lotta contro il riscaldamento globale e ritengono che affermare delle verità naturali sul matrimonio o il diritto alla vita sia una forma superata di ideologia. Ma se alla Cattolica di Milano nessun docente parla piu di Tommaso d’Aquino e se l’editrice Vita e Pensiero, fondata da padre Gemelli, pubblica un Lessico dei diritti umani in cui non si parla del diritto alla vita e dei diritti della famiglia, come sarà possibile formare una nuova generazione di politici senza che rimangano vittime delle piu trite ideologie dei nostri tempi e da esse divisi?
In Francia, ove i cattolici in politica non ci sono più da tempo, si sta discutendo se vietare il velo integrale usato da certe donne islamiche. Come potranno uscirne ricorrendo alla dignità della persona umana se si è persa la fiducia di conoscere con la nostra ragione cosa questo significhi? Alla fine ridurranno gli argomenti per vietare il velo alla tutela dell’ordine pubblico e alla necessità di impedire le sostituzioni di persona agli esami universitari. Ben poca cosa rispetto alla dignità della persona.
Ma il discorso del cardinale Bagnasco contiene anche una frase che indica una via d’uscita: i cattolici "imparino a vivere con intensità il mistero di Dio nella vita". Il cardinale ha ragione. In fondo, dal punto di vista cattolico, la questione sociale è non tanto la questione antropologica quando la questione teologica. Secondo la Rerum novarum non c’e soluzione alla questione sociale fuori dal Vangelo e che per la Caritas in veritate, la recente enciclica sociale di Benedetto XVI, il cristianesimo non è solo utile ma indispensabile alla costruzione di una società veramente umana. Non è questione di sistema elettorale nè di contingenze politiche.
Una nuova generazione di politici richiede che i cattolici pensino che ci sia un posto per Dio nel mondo. Niente di più e niente di meno. Secondariamente, che pensino che questo Dio non toglie nulla alla legittima autonomia della politica, non le si sovrappone, ma la invita dall’interno a essere più pienamente se stessa, a essere compiutamente adulta. Concetto questo che il cardinale Bagnasco ha espresso affermando che la fede "include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani".
Può essere utile, allora, ribadire i principi "irrinunciabili", come ha fatto il cardinale nel suo discorso alla Cei. Forse bisognerebbe però non moltiplicare troppo questi elenchi. Li ha già enumerati il Papa, bisognerebbe ricorrere a quelle sue espressioni altrimenti ci saranno i principi irrinunciabili secondo Enzo Bianchi, secondo il cardinale Bagnasco o secondo padre Sorge. Secondariamente bisognerebbe distinguere meglio tra alcuni di questi principi che, secondo la morale cattolica, non permettono deroghe – come il diritto alla vita – e altri che possono venire perseguiti in molti modi discrezionali, come per esempio la solidarietà e il lavoro, per attenermi all’elenco proposto dal cardinale.
Fonte: La Bussola Quotidiana
sabato 26 marzo 2011
Le esortazioni del Santo Padre
"chiedo che i futuri sacerdoti siano preparati a celebrare la santa Messa in latino e ad utilizzare testi latini e canto gregoriano. Non si trascuri la possibilità che i fedeli siano educati a conoscere le preghiere in latino e a cantare in gregoriano parti della liturgia"
Sacramentum Caritatis, n. 62
Esortazione apostolica post-sinodale di Benedetto XVI (2007)
venerdì 25 marzo 2011
Il valore pedagogico della Confessione
UDIENZA AI PARTECIPANTI AL CORSO SUL FORO INTERNO PROMOSSO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA, 25.03.2011
Alle ore 12 di questa mattina, nell’Aula delle Benedizioni, il Santo Padre Benedetto XVI riceve in Udienza i partecipanti al Corso sul Foro Interno, promosso dalla Penitenzieria Apostolica, e rivolge loro il discorso che riportiamo di seguito:
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Cari amici,
sono molto lieto di rivolgere a ciascuno di voi il più cordiale benvenuto. Saluto il Cardinale Fortunato Baldelli, Penitenziere Maggiore, e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato. Saluto il Reggente della Penitenzieria, Mons. Gianfranco Girotti, il personale, i collaboratori e tutti i partecipanti al Corso sul Foro Interno, che è diventato ormai un appuntamento tradizionale e un’importante occasione per approfondire i temi riguardanti il Sacramento della Penitenza.
Desidero soffermarmi con voi su un aspetto talora non sufficientemente considerato, ma di grande rilevanza spirituale e pastorale: il valore pedagogico della Confessione sacramentale. Se è vero che è sempre necessario salvaguardare l’oggettività degli effetti del Sacramento e la sua corretta celebrazione secondo le norme del Rito della Penitenza, non è fuori luogo riflettere su quanto esso possa educare la fede, sia del ministro, sia del penitente.
La fedele e generosa disponibilità dei sacerdoti all’ascolto delle confessioni, sull’esempio dei grandi Santi della storia, da san Giovanni Maria Vianney a san Giovanni Bosco, da san Josemaría Escrivá a san Pio da Pietrelcina, da san Giuseppe Cafasso a san Leopoldo Mandić, indica a tutti noi come il confessionale possa essere un reale "luogo" di santificazione.
In che modo il Sacramento della Penitenza educa? In quale senso la sua celebrazione ha un valore pedagogico, innanzitutto per i ministri? Potremmo partire dal riconoscere che la missione sacerdotale costituisce un punto di osservazione unico e privilegiato, dal quale, quotidianamente, è dato di contemplare lo splendore della Misericordia divina. Quante volte nella celebrazione del Sacramento della Penitenza, il sacerdote assiste a veri e propri miracoli di conversione, che, rinnovando l’"incontro con un avvenimento, una Persona" (Lett. enc. Deus caritas est, 1), rafforzano la sua stessa fede.
In fondo, confessare significa assistere a tante "professiones fidei" quanti sono i penitenti, e contemplare l’azione di Dio misericordioso nella storia, toccare con mano gli effetti salvifici della Croce e della Risurrezione di Cristo, in ogni tempo e per ogni uomo.
Non raramente siamo posti davanti a veri e propri drammi esistenziali e spirituali, che non trovano risposta nelle parole degli uomini, ma sono abbracciati ed assunti dall’Amore divino, che perdona e trasforma: "Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve" (Is 1,18). Conoscere e, in certo modo, visitare l’abisso del cuore umano, anche negli aspetti oscuri, se da un lato mette alla prova l’umanità e la fede dello stesso sacerdote, dall’altro alimenta in lui la certezza che l’ultima parola sul male dell’uomo e della storia è di Dio, è della sua Misericordia, capace di far nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). Quanto può imparare poi il sacerdote da penitenti esemplari per la loro vita spirituale, per la serietà con cui conducono l’esame di coscienza, per la trasparenza nel riconoscere il proprio peccato e per la docilità verso l’insegnamento della Chiesa e le indicazioni del confessore.
Dall’amministrazione del Sacramento della Penitenza possiamo ricevere profonde lezioni di umiltà e di fede! E’ un richiamo molto forte per ciascun sacerdote alla coscienza della propria identità. Mai, unicamente in forza della nostra umanità, potremmo ascoltare le confessioni dei fratelli! Se essi si accostano a noi, è solo perché siamo sacerdoti, configurati a Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote, e resi capaci di agire nel suo Nome e nella sua Persona, di rendere realmente presente Dio che perdona, rinnova e trasforma.
La celebrazione del Sacramento della Penitenza ha un valore pedagogico per il sacerdote, in ordine alla sua fede, alla verità e povertà della sua persona, e alimenta in lui la consapevolezza dell’identità sacramentale.
Qual è il valore pedagogico del Sacramento della Penitenza per i penitenti? Dobbiamo premettere che esso dipende, innanzitutto, dall’azione della Grazia e dagli effetti oggettivi del Sacramento nell’anima del fedele.
Certamente la Riconciliazione sacramentale è uno dei momenti nei quali la libertà personale e la consapevolezza di sé sono chiamate ad esprimersi in modo particolarmente evidente. È forse anche per questo che, in un’epoca di relativismo e di conseguente attenuata consapevolezza del proprio essere, risulta indebolita anche la pratica sacramentale. L’esame di coscienza ha un importante valore pedagogico: esso educa a guardare con sincerità alla propria esistenza, a confrontarla con la verità del Vangelo e a valutarla con parametri non soltanto umani, ma mutuati dalla divina Rivelazione. Il confronto con i Comandamenti, con le Beatitudini e, soprattutto, con il Precetto dell’amore, costituisce la prima grande "scuola penitenziale".
Nel nostro tempo caratterizzato dal rumore, dalla distrazione e dalla solitudine, il colloquio del penitente con il confessore può rappresentare una delle poche, se non l’unica occasione per essere ascoltati davvero e in profondità.
Cari sacerdoti, non trascurate di dare opportuno spazio all’esercizio del ministero della Penitenza nel confessionale: essere accolti ed ascoltati costituisce anche un segno umano dell’accoglienza e della bontà di Dio verso i suoi figli. L’integra confessione dei peccati, poi, educa il penitente all’umiltà, al riconoscimento della propria fragilità e, nel contempo, alla consapevolezza della necessità del perdono di Dio e alla fiducia che la Grazia divina può trasformare la vita. Allo stesso modo, l’ascolto delle ammonizioni e dei consigli del confessore è importante per il giudizio sugli atti, per il cammino spirituale e per la guarigione interiore del penitente.
Non dimentichiamo quante conversioni e quante esistenze realmente sante sono iniziate in un confessionale! L’accoglienza della penitenza e l’ascolto delle parole "Io ti assolvo dai tuoi peccati" rappresentano, infine, una vera scuola di amore e di speranza, che guida alla piena confidenza nel Dio Amore rivelato in Gesù Cristo, alla responsabilità e all’impegno della continua conversione.
Cari sacerdoti, sperimentare noi per primi la Misericordia divina ed esserne umili strumenti, ci educhi ad una sempre più fedele celebrazione del Sacramento della Penitenza e ad una profonda gratitudine verso Dio, che "ha affidato a noi il ministero della riconciliazione" (1Cor 5,18), Alla Beata Vergine Maria, Mater misericordiae e Refugium peccatorum, affido i frutti del vostro Corso sul Foro interno e il ministero di tutti i Confessori, mentre con grande affetto vi benedico.
© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana
Il Concilio rivisto dallo storico de Mattei
Domani a San Marino importante incontro della Fondazione Giovanni Paolo II sul libro di de Mattei
di Paolo Facciotto
Importante incontro, domani sera alle 21 nella Sala del Castello di Domagnano (San Marino), con il professor Roberto de Mattei, docente di Storia della Chiesa e del Cristianesimo all’Università Europea di Roma e vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
La Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II ha organizzato la presentazione del suo libro “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta”, editore Lindau. Con l’autore ci saranno Vincenzo Sansonetti, giornalista e scrittore, e il presidente della Fondazione, Mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che tirerà le conclusioni. Al Concilio (1962-1965), nonostante le attese e le speranze di tutti, seguì un periodo di crisi e di difficoltà, con cui la Chiesa si misura tuttora, in Italia e nel mondo. Abbiamo intervistato de Mattei per farci spiegare alcuni temi del libro, un contributo storico e non teologico, sui quali si è aperto un vivace dibattito.
Professor de Mattei, nella conclusione del suo libro lei ha parole di venerazione per Papa Benedetto XVI e lo ringrazia “per aver aperto le porte a un serio dibattito sul Concilio Vaticano II”, chiedendogli poi di “promuoverne un approfondito esame” al fine di “verificare la sua continuità con i venti Concilii precedenti”. Come sappiamo il Papa ha invitato la Chiesa a leggere il Vaticano II secondo l’“ermeneutica della continuità”, e non “della rottura” con il magistero precedente. Eppure lei in alcune recensioni è stato accusato di non credere nella possibilità di questa lettura “in continuità”. Che cosa risponde a queste critiche?
«Nel mio libro, come è evidente a chiunque lo abbia letto, non ho inteso assumere una posizione sull’ermeneutica della continuità. Io ho inteso pormi su di un terreno diverso, storico e non teologico, senza per questo negare l’importanza dell’ermeneutica teologica. Alcuni miei critici hanno commesso un errore epistemologico confondendo piani diversi. Lo storico cerca la verità cosiddetta fattuale, il teologo cerca la verità sul piano dei princìpi alla luce della rivelazione divina. Certo non si tratta di due settori impermeabili ma sono due campi di indagine diversi. La pretesa di giudicare il mio lavoro su aspetti riguardanti altre discipline è un errore epistemologico che io respingo. Nel mio operare mi ispiro agli storici della Chiesa. Lo stesso Papa Leone XIII disse che la Chiesa non deve temere la verità dei fatti e assegnò agli storici il compito di cercare la verità senza inutili veli, perché la Chiesa non ha paura della verità ma della menzogna; la Chiesa è la verità. Questo è il compito dello storico. Se devo essere confutato, mi attendo di esserlo sul piano storiografico, se in tutto o in parte la mia ricostruzione storica fosse vera o falsa, ma non ha senso farlo applicando criteri diversi. Sull’ermeneutica io mi affido al Magistero, al Papa: lui mi assicura che i testi del Concilio Vaticano II vanno letti secondo l’ermeneutica della continuità con il Magistero precedente, perciò mi affido al suo giudizio. La mia opera di storico non riguarda questo aspetto della discussione. Ma ho l’impressione da certe recensioni che i critici non abbiano letto il libro... Molti interventi giornalistici mi sono sembrati mossi da apriori ideologici, in un senso o nell’altro.»
Dal punto di vista storiografico ha ricevuto critiche o approvazioni?
«C’è stato in realtà un solo intervento di uno specialista. Con una lettera privata, che mi ha autorizzato a divulgare nei suoi contenuti, il Cardinal Brandmüller, il più grande specialista vivente della storia dei concilii, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, ha elogiato e apprezzato il mio libro dando un giudizio positivo sul metodo storico usato.
Mentre sul fronte opposto Alberto Melloni della “scuola di Bologna”, specialista della storia del Vaticano II, non della storia dei concilii, nella sua recensione sul Corriere della Sera mi ha mosso l’appunto di alcuni refusi, poi corretti nella seconda edizione del libro, ma nessun rilievo storiografico. Se ha trovato solo questo... Poi ha usato un certo sarcasmo, mostrandosi meravigliato come nel libro uscisse una critica a Pio XII: non è vero, io sono un grande ammiratore di Pio XII e del suo straordinario corpus magisteriale. Nel libro ho mostrato che dal punto di vista del governo talvolta Pio XII non ha avuto fermezza nel reprimere l’errore. E’ un giudizio che può essere condiviso o no, ma è paradossale che ci si meravigli di questo, Pio XII è stato accusato di ben altro e da altri...
Infine, il libro è stato accolto non molto bene da alcuni cattolici preoccupati che potesse apparire in contasto con l’ermeneutica della continuità proposta dal Papa, ma non è vero.»
Mi può fare un esempio, dal suo punto di vista, di affermazioni del Concilio dubbie o riformabili, in rapporto alla tradizione del Magistero?
«Non ho la competenza per poter rispondere a questa domanda.
L’opera di mons. Brunero Gherardini (Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, 2009, ndr) solleva alcuni problemi del genere ma non ho competenza al riguardo. Come storico, osservo che una grave mancanza del Concilio fu la mancata condanna del comunismo, in un momento in cui per i cristiani e il cristianesimo l’espansione dell’imperialismo comunista costituiva il più macroscopico dei problemi. Parliamo di una omissione, ma è una lacuna grave il fatto che il Concilio non abbia detto una parola forte, che sia mancata una voce profetica».
Vorrei affrontare con lei il tema dell’attuazione della riforma liturgica, in rapporto al testo approvato dal Vaticano II, la costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium, del dicembre 1963. Il Card. Antonelli nelle sue memorie parla di procedure molto poco chiare seguite nella commissione attuativa, il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia: ad esempio la mancanza di verbalizzazione delle sedute, in generale la gran fretta con cui si affrontavano argomenti epocali che avrebbero richiesto al contrario molta calma e ponderazione. D’altra parte il volto che ha assunto oggi la liturgia ordinaria del Novus Ordo, non lo si ritrova quasi per nulla leggendo la Sacrosanctum Concilium. Qual è il suo giudizio di storico al riguardo?
«La riforma liturgica culminata nel Novus Ordo in effetti non è conciliare ma post-conciliare, la ‘nuova messa’ infatti è del 1969.
La Sacrosanctum Concilium si pone in una prospettiva molto diversa e in effetti il punto è il rapporto fra Concilio e post-concilio. Ma non si può affermare che la riforma del ’69 sia una totale contraddizione della Sacrosanctum Concilium.
Il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia fu istituito da Paolo VI proprio per attuare la riforma liturgica ‘implicita’ nella Sacrosactum Concilium. Che poi questa commissione, il Consilium, abbia forzato e deformato certe cose, non cambia la sostanza: storicamente non c’è una cesura fra Concilio e post-concilio. Le radici vanno cercate nel Concilio. Abusi e deformazioni ce ne sono state, però va detto che la maggior parte delle dichiarazioni approvate dal Concilio erano una sorta di ‘leggi-quadro’ la cui applicazione era demandata alle Conferenze episcopali, quindi c’è un certo rapporto di causa-effetto. Oggi la situazione è un po’ paradossale: ieri esisteva il Vetus Ordo; a partire dalla nascita del Novus Ordo, ciò che si è sviluppato nella prassi è una vera e propria anarchia liturgica. Mentre per quanto riguarda il rito antico la messa è la stessa dappertutto, che sia celebrata a Washington o a Roma, in quelle nuove invece, le messe celebrate, mettiamo, a Roma, a Bruxelles o in Africa, sono quasi irriconoscibili l’una con l’altra. Sono contento che il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI abbia restituito piena cittadinanza al rito antico, d’altra parte auspico che ci siano interventi fermi della Congregazione per il Culto Divino per la celebrazione della nuova messa».
Qual è a suo parere il punto decisivo che fece affermare a Papa Paolo VI, il 29 giugno 1972, che il fumo di Satana era entrato nella Chiesa?
«Quello che succedeva in quegli anni. Ci fu la plateale contestazione della sua enciclica Humanae Vitae del 1968 da parte di vescovi, come il Cardinal Suenens che la contestò apertamente…»
Lo stesso Card. Suenens che durante il Concilio era stato uno dei più stretti collaboratori di Paolo VI…«…
così come altri vescovi del centro-Europa la contestarono. E poi la nascita della teologia della liberazione. E il periodo in cui nella chiesa ci fu un’euforia nella liquidazione di altari, paramenti sacri, svenduti in breve tempo e per pochi soldi: fra il ’68 e l’inizio Anni Settanta molti uomini di chiesa sembravano presi dalla frenesia di sbarazzarsi di ogni sorta di uso e costume della Chiesa. Ci fu anarchia. Per questo Paolo VI fece quei due discorsi, in cui parlò dell’autodemolizione della Chiesa (7 dicembre 1968, discorso ai membri del Pontificio Seminario Lombardo, ndr) e del fumo di Satana che era “entrato nel tempio di Dio”».
I lupi vespertini, tuttavia, non sono riusciti a fare razzia completa dell’ovile, non crede?
«Sì, però nella sua prima messa da Papa, Benedetto XVI disse “Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi” (inizio del ministero petrino, omelia, 24 aprile 2005, ndr), essendo ben consapevole che i lupi esistono. Noi dobbiamo pregare per lui, ma dobbiamo anche aiutarlo a difendersi dai lupi, ciascuno facendo ciò che sa fare: i teologi facendo i buoni teologi, i pastori facendo i buoni pastori, gli storici facendo i buoni storici. Non è un’ora facile per lui e per la Chiesa, quindi dobbiamo essere consapevoli della drammaticità del momento e impegnarci, tutti in quanto battezzati, ad offrire la nostra testimonianza nella vita di fede».
L’intervista telefonica con de Mattei si chiude qui. Sono passati quasi sei anni eppure sembra ieri, quando Joseph Ratzinger apparve al balcone dicendo di essere “un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore”: sorprese tutti. Oggi è lo stesso, la vigna e l’ovile sono sempre quelli, seminascosti nelle oscurità occhieggiano i lupi, ci provano. “Nella gioia del Signore risorto, fiduciosi nel suo aiuto permanente, andiamo avanti”, disse il Papa, “Maria starà dalla nostra parte”.
© Copyright La Voce di Romagna, 23 marzo 2011
giovedì 24 marzo 2011
Le cose buone che fanno bene secondo Sant'Agostino
Chi riconosce i propri peccati e li condanna è già d'accordo con Dio. Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio. L'uomo e il peccatore sono due cose distinte: l'uomo è opera di Dio, il peccatore è opera tua, o uomo. Distruggi ciò che tu hai fatto, affinché Dio salvi ciò che egli ha fatto. E’ necessario che tu detesti in te l'opera tua e ami in te l'opera di Dio. Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive.
Le opere buone cominciano col riconoscimento delle opere cattive. Operi la verità, e così vieni alla luce. Cosa intendo dire dicendo: operi la verità? Intendo dire che non inganni te stesso, non ti blandisci, non ti lusinghi; non dici che sei giusto mentre sei colpevole. Allora cominci a operare la verità, allora vieni alla luce, affinché sia manifesto che le tue opere sono state fatte in Dio. E infatti il tuo peccato, che ti è dispiaciuto, non ti sarebbe dispiaciuto se Dio non ti avesse illuminato e se la sua verità non te l’avesse manifestato. Ma chi, dopo essere stato redarguito, continua ad amare i suoi peccati, odia la luce che lo redarguisce, e la fugge, affinché non gli vengano rinfacciate le sue opere cattive che egli ama. Chi, invece, opera la verità, condanna in se stesso le sue azioni cattive; non si risparmia, non si perdona affinché Dio gli perdoni. Egli stesso riconosce ciò che vuole gli sia da Dio perdonato, e in tal modo viene alla luce, e la ringrazia d'avergli mostrato ciò che in se stesso doveva odiare. Dice a Dio: Distogli la tua faccia dai miei peccati. Ma con quale faccia direbbe così, se non aggiungesse: poiché io riconosco la mia colpa e il mio peccato è sempre davanti a me (Sal 50,5)? Sia davanti a te il tuo peccato, se vuoi che non sia davanti a Dio. Se invece ti getterai il tuo peccato dietro le spalle, Dio te lo rimetterà davanti agli occhi; e te lo rimetterà davanti agli occhi quando il pentimento non potrà più dare alcun frutto.
Correte, o miei fratelli, affinché non vi sorprendano le tenebre ( Gv 12,35); siate vigilanti in ordine alla vostra salvezza, siate vigilanti finché siete in tempo. Nessuno arrivi in ritardo al tempio di Dio, nessuno sia pigro nel servizio divino. Siate tutti perseveranti nell'orazione, fedeli nella costante devozione. Siate vigilanti finché è giorno; il giorno risplende; Cristo è il giorno. Egli è pronto a perdonare coloro che riconoscono la loro colpa ma anche a punire quelli che si difendono ritenendosi giusti, quelli che credono di essere qualcosa mentre sono niente. Chi cammina nel suo amore e nella sua misericordia, non si accontenta di liberarsi dai peccati gravi e mortali, quali sono il delitto, l'omicidio, il furto, l'adulterio; ma opera la verità riconoscendo anche i peccati che si considerano meno gravi, come i peccati di lingua, di pensiero o d'intemperanza nelle cose lecite, e viene alla luce compiendo opere degne. Anche i peccati meno gravi, se trascurati, proliferano e producono la morte.
Sono piccole le gocce che riempiono i fiumi; sono piccoli i granelli di sabbia, ma se sono numerosi, pesano e schiacciano. Una piccola falla trascurata, che nella stiva della nave lascia entrare l'acqua a poco a poco, produce lo stesso effetto di un'ondata irrompente: continuando ad entrare poco alla volta, senza mai essere eliminata, affonda la nave. E che significa eliminare, se non fare in modo con opere buone -gemendo, digiunando, facendo elemosine, perdonando - di non essere sommersi dai peccati?
Il cammino di questa vita è duro e irto di prove: quando le cose vanno bene non bisogna esaltarsi, quando vanno male non bisogna abbattersi. La felicità che il Signore ti concede in questa vita è per consolarti, non per corromperti. E, se in questa vita ti colpisce, lo fa per correggerti, non per perderti. Accetta il padre che ti corregge, se non vuoi provare il giudice che punisce. Son cose che vi diciamo tutti i giorni, e vanno ripetute spesso perché sono buone e fanno bene.
Sant'Agostino
mercoledì 23 marzo 2011
Mistica della Quaresima
del Servo di Dio Dom Prosper Guéranger
Il sacro tempo di Quaresima è ricco di profondi misteri che hanno lo scopo non solo di ripresentare eventi e circostanze fondamentali della storia della salvezza, ma anche di risvegliare nel cuore dei cristiani, attraverso la meditazione di tali misteri, un più vivo fervore nell'applicarsi all'opera della personale santificazione, e un più intenso raccoglimento per ben disporsi a degnamente celebrare l'opera mirabile della Redenzione.
Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello del1a Quaresima sia pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell'opera dell'espiazione annuale. [...].
IL NUMERO 40 E IL SUO SIGNIFICATO
Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e delle quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d'aver creato l'uomo (Gn 7,12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d'una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quarant'anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Nm 14,33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (4,6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d'un regno al qua1e doveva seguire la rovina di Gerusalemme.
Due uomini, nell'Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L'uno e l’altro s'avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es 24,18), il secondo sull'Oreb (IRe 19,8); ma sia l'uno che l'altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l'espiazione di un digiuno di quaranta giorni. Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, vol1e scegliere il numero di quaranta giorni per quest'atto solenne. L'istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime.
L'ESERCITO DI DIO
Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio. Per questa ragione, il Mercoledì delle Ceneri, essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. Per ottenere, infatti, quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell'Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo esser armati e vegliare senza stancarci.
Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo 90, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e da1 quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell'Ufficio. Con la meditazione di quel salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all'ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infermale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s'avvicinarono a lui dopo la vittoria per servirlo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni in cui dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l'espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.
martedì 22 marzo 2011
Ritiro spirituale quaresimale
Sabato 2 aprile 2011, ore 10,00-16,30
Convento di Ognissanti dei Padri Francescani dell'Immacolata
Borgo Ognissanti, 42 - Firenze
RITIRO SPIRITUALE QUARESIMALE
DEL COORDINAMENTO TOSCANO «BENEDETTO XVI»
Il ritiro spirituale d'Avvento organizzato dal Coordinamento Toscano "Benedetto XVI" è rivolto a tutti i fedeli che intendono approfondire la spiritualità legata all'antica tradizione liturgica romana.
Esso avrà luogo sabato 2 aprile 2011 presso il Convento di Ognissanti a Firenze (Borgo Ognissanti, 42) e sarà predicato dai Padri Francescani dell'Immacolata.
PROGRAMMA
Ore 10,00 - Ritrovo dei partecipanti e conferenza spirituale.
Ore 12,00 - S. Messa in rito romano antico.
Ore 13,00 - Pranzo (al sacco: ognuno porta il necessario per sé). Tempo libero per approfondimento personale.
Ore 14,30 - Conferenza spirituale e riflessioni condivise.
Ore 16,00 - Adorazione e Benedizione Eucaristica.
Ore 16,30 - Congedo dei partecipanti.
È possibile, come sempre, partecipare ad una parte soltanto del ritiro, compatibilmente coi propri impegni.
Il ritiro è aperto a tutti, senza bisogno di previa iscrizione.
Per informazioni e adesioni: coordinamentotoscano@hotmail.it
Convento di Ognissanti dei Padri Francescani dell'Immacolata
Borgo Ognissanti, 42 - Firenze
RITIRO SPIRITUALE QUARESIMALE
DEL COORDINAMENTO TOSCANO «BENEDETTO XVI»
Il ritiro spirituale d'Avvento organizzato dal Coordinamento Toscano "Benedetto XVI" è rivolto a tutti i fedeli che intendono approfondire la spiritualità legata all'antica tradizione liturgica romana.
Esso avrà luogo sabato 2 aprile 2011 presso il Convento di Ognissanti a Firenze (Borgo Ognissanti, 42) e sarà predicato dai Padri Francescani dell'Immacolata.
PROGRAMMA
Ore 10,00 - Ritrovo dei partecipanti e conferenza spirituale.
Ore 12,00 - S. Messa in rito romano antico.
Ore 13,00 - Pranzo (al sacco: ognuno porta il necessario per sé). Tempo libero per approfondimento personale.
Ore 14,30 - Conferenza spirituale e riflessioni condivise.
Ore 16,00 - Adorazione e Benedizione Eucaristica.
Ore 16,30 - Congedo dei partecipanti.
È possibile, come sempre, partecipare ad una parte soltanto del ritiro, compatibilmente coi propri impegni.
Il ritiro è aperto a tutti, senza bisogno di previa iscrizione.
Per informazioni e adesioni: coordinamentotoscano@hotmail.it
Il significato cristiano della penitenza: sulle parole del Papa all'Angelus, la riflessione di don Nicola Bux
A Quaresima, siamo chiamati a schierarci con Cristo contro il peccato: è l’esortazione ai fedeli di Benedetto XVI, che all’Angelus di domenica scorsa si è soffermato sull’atteggiamento che deve contraddistinguere questo tempo forte dell’anno. In particolare, riprendendo un pensiero di Paolo VI, il Papa ha esortato i cristiani “a rispondere al precetto divino della penitenza con qualche atto volontario, al di fuori delle rinunce imposte dal peso della vita quotidiana”. Un passaggio dal quale muove la riflessione del teologo don Nicola Bux, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede. L’intervista è di Alessandro Gisotti:
R. - E’ chiaro che le rinunce che ogni giorno facciamo per il peso della quotidianità sono, in qualche modo, indotte dalla condizione che viviamo, dallo stato di vita in cui ci troviamo. Invece le altre – quelle cui allude sempre il Santo Padre – sono quelle che noi, volontariamente, decidiamo di fare. Queste ultime non sono perciò indotte dalla condizione di ogni giorno, ma sono piuttosto esito di una nostra scelta e dovrebbero, in un certo senso, vertere sulla correzione di quegli atteggiamenti viziosi, proprio per potenziare le virtù.
D. - Questo aspetto è fondamentale: preghiera, digiuno ed elemosina a volte il fedele le sente, in questo periodo di Quaresima, come un dovere, un qualcosa che viene dall’esterno. Evidentemente è invece un qualcosa che deve venire dal di dentro…
R. - Indubbiamente, perché preghiera, digiuno ed elemosina sono certamente le grandi vie della misericordia che la tradizione della Chiesa e i Padri in modo particolare raccomandano. E’ chiaro che poi queste vie vanno attraversate da ciascuno secondo modalità e prospettive che ciascuno cerca di prefissarsi. Come direbbe San Francesco di Sales a proposito della devozione, ogni stato di vita può indubbiamente applicare queste opportunità alla propria condizione.
D. - Benedetto XVI, nel suo discorso alla fine degli esercizi spirituali tenuti in Vaticano, ha sottolineato quanto sia importante la vita dei Santi, anche come esempio - soprattutto in questo periodo forte della Quaresima - per noi fedeli…
D. - Benedetto XVI, nel suo discorso alla fine degli esercizi spirituali tenuti in Vaticano, ha sottolineato quanto sia importante la vita dei Santi, anche come esempio - soprattutto in questo periodo forte della Quaresima - per noi fedeli…
R. - Certamente, perché i Santi sono una delle prove inconfutabili della verità della religione cristiana cattolica. I Santi dimostrano che Cristo è sempre imitabile ed attualizzabile e la loro esistenza è una delle prove apologetiche più importanti della verità cristiana cattolica. Talvolta, un certo “liturgismo” vorrebbe isolare i Santi da Dio. Si teme che i fedeli, onorando i Santi, non onorino Dio, ma non è vero, perchè Dio non vive da solo. Egli vive in una grande famiglia, che è quella dei Santi, e quindi, quando si onora un Santo si onora Dio e quando si onora Dio si onorano i Santi. Su questo la Quaresima potrebbe essere un ottimo esercizio sia spirituale sia pastorale per pastori e fedeli. (vv)
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lunedì 21 marzo 2011
Un rinnovato amore per il mistero di Cristo
Sul linguaggio dell'«ars celebrandi»
Pubblichiamo ampi stralci della relazione sul «Linguaggio della celebrazione liturgica» che il maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, Mons. Guido Marini, ha tenuto il 24 febbraio scorso in apertura del corso sull'ars celebrandi presso la Pontificia Università della Santa Croce.
Iniziare un corso sulla ars celebrandi, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell'esortazione apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI: «Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l'attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l'essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell'ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l'artificiosità di aggiunte inopportune. L'attenzione e l'obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell'Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono» (n. 40).
Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia. Si tratta semplicemente di un titolo, non c'è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.
Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l'opera della nostra redenzione (cfr. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità.
Nella stessa celebrazione eucaristica, l'assemblea radunata risponde al «Mistero della fede», successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero, la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l'anticipazione della gloria futura. In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l'esperienza della verità dell'affermazione paolina: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 9). Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.
La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di «splendore della nobile semplicità», perché questa è l'espressione completa usata dai padri conciliari. In essa è dato riscontrare l'intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità. Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l'intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull'insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità. Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l'inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?
Torniamo all'autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell'esortazione apostolica postsinodale sull'Eucaristia Sacramentum caritatis: «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor (…) Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore (…) La vera bellezza è l'amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra (…) La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la propria natura» (n. 35).
Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell'amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di «sprecare» per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell'arte: dall'architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: «Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l'infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d'arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!» (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).
«La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire» (Sacramentum caritatis, n. 36). È Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa. Dall'affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell'essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.
Nell'agosto del 2006, a Castel Gandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: «La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel “noi” della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro “io” entrando nel “noi” della Chiesa, arricchendo, allargando questo “io”, pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio».
Entrare nel «noi» della Chiesa che prega. Questo «noi» ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall'eternità.
Ne consegue che fa parte dell'essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l'auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica i, nella quale chiediamo: «Fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo».
Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l'azione di Cristo e della Chiesa. È proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un'autentica comunione del fedele con l'agire della Chiesa e l'agire di Cristo.
Ma qual è l'agire della Chiesa? È l'agire della Sposa che tende a diventare un'unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l'agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l'azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall'azione dello Sposo che è donazione d'amore al Padre per la salvezza del mondo.
Il tema della partecipazione offre ora l'opportunità di ampliare quanto già detto in merito all'agire di Cristo nella liturgia. Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: «Con il termine “actio” riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana (…) Questa oratio -- la solenne preghiera eucaristica, “il canone” -- (…) è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l'actio umana (…) passa in secondo piano e lascia spazio all'actio divina, all'agire di Dio» (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp. 167-168).
Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci domandiamo: «Che cosa è questo essenziale che si svolge?» Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: «L'agire di Dio».
E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l'agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, a un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l'indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Galati, 2, 19-20).
Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato. In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa. In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo. Inoltre, è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio -- quello di Cristo -- alla quotidianità. Infine, è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell'espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un'espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.
(©L'Osservatore Romano 19 marzo 2011)
Pubblichiamo ampi stralci della relazione sul «Linguaggio della celebrazione liturgica» che il maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, Mons. Guido Marini, ha tenuto il 24 febbraio scorso in apertura del corso sull'ars celebrandi presso la Pontificia Università della Santa Croce.
Iniziare un corso sulla ars celebrandi, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell'esortazione apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI: «Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l'attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l'essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell'ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l'artificiosità di aggiunte inopportune. L'attenzione e l'obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell'Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono» (n. 40).
Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia. Si tratta semplicemente di un titolo, non c'è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.
Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l'opera della nostra redenzione (cfr. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità.
Nella stessa celebrazione eucaristica, l'assemblea radunata risponde al «Mistero della fede», successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: «Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta». In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero, la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l'anticipazione della gloria futura. In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l'esperienza della verità dell'affermazione paolina: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei, 13, 9). Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua incarnazione, passione, morte e risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.
La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del concilio Vaticano II (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di «splendore della nobile semplicità», perché questa è l'espressione completa usata dai padri conciliari. In essa è dato riscontrare l'intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità. Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l'intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull'insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità. Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l'inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?
Torniamo all'autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell'esortazione apostolica postsinodale sull'Eucaristia Sacramentum caritatis: «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor (…) Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l'amore (…) La vera bellezza è l'amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra (…) La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la propria natura» (n. 35).
Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell'amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di «sprecare» per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell'arte: dall'architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: «Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l'infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d'arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!» (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).
«La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire» (Sacramentum caritatis, n. 36). È Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa. Dall'affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell'essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.
Nell'agosto del 2006, a Castel Gandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: «La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel “noi” della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro “io” entrando nel “noi” della Chiesa, arricchendo, allargando questo “io”, pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio».
Entrare nel «noi» della Chiesa che prega. Questo «noi» ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall'eternità.
Ne consegue che fa parte dell'essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l'auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica i, nella quale chiediamo: «Fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo».
Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cfr. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l'azione di Cristo e della Chiesa. È proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un'autentica comunione del fedele con l'agire della Chiesa e l'agire di Cristo.
Ma qual è l'agire della Chiesa? È l'agire della Sposa che tende a diventare un'unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l'agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l'azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall'azione dello Sposo che è donazione d'amore al Padre per la salvezza del mondo.
Il tema della partecipazione offre ora l'opportunità di ampliare quanto già detto in merito all'agire di Cristo nella liturgia. Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: «Con il termine “actio” riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana (…) Questa oratio -- la solenne preghiera eucaristica, “il canone” -- (…) è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l'actio umana (…) passa in secondo piano e lascia spazio all'actio divina, all'agire di Dio» (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp. 167-168).
Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci domandiamo: «Che cosa è questo essenziale che si svolge?» Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: «L'agire di Dio».
E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l'agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, a un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l'indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Galati, 2, 19-20).
Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato. In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa. In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo. Inoltre, è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio -- quello di Cristo -- alla quotidianità. Infine, è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell'espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un'espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.
(©L'Osservatore Romano 19 marzo 2011)
domenica 20 marzo 2011
La benedizione sacerdotale
Proponiamo un articolo sul grande valore della benedizione sacerdotale. In questo periodo, nelle parrocchie, cominciano le benedizioni delle famiglie nelle case, ma non è difficile aprire la porta e, invece del sacerdote o del diacono, trovarsi davanti un laico, anche se, forse, accolito o ministro straordinario dell'Eucaristia.
Chi ebbe l'occasione di vedere papa Pio XII quando benediceva i pellegrini non lo potrà più dimenticare: quelle braccia stese, quelle mani alzate verso il cielo come se avesse voluto far scendere tutte le grazie sulla terra.
Quelle benedizioni fatte in tutte le direzioni erano attimi che commuovevano i cuori!
La benedizione di un papa, di un vescovo, o quella di un sacerdote è qualche cosa di grande e di santo. La mano di un semplice sacerdote che benedice non è da meno di quella del papa. Le mani del sacerdote sono state consacrate dal vescovo e unte dallo Spirito Santo. Esse quindi danno anche la forza della Spirito Santo e comunicano alle anime le grazie e l'aiuto di Dio.
Un sacerdote anziano un giorno disse: «Per me è una grande consolazione il pensiero di aver benedetto molto nella mia vita, non solo i miei cari, ma tutti gli uomini, specialmente i malati, i sofferenti, i peccatori, le persone consacrate a Dio».
Gesù disse a Teresa Neuman, la stigmatizzata tedesca che viveva solo dell'Eucaristia: «Cara figlia, voglio insegnarti a ricevere la mia benedizione con fervore. Cerca di capire che qualche cosa di grande ha luogo quando ricevi la benedizione di un mio Sacerdote. La benedizione è uno straripamento della mia divina Santità. Apri la tua anima e lascia che diventi santa attraverso la mia benedizione. Tramite il potere di benedire, ho dato al Sacerdote il potere di aprire il tesoro del mio Cuore e di riversare una pioggia di grazie sulle anime.
Quando il Sacerdote benedice, sono io che benedico. Allora una sterminata corrente di grazie fluisce dal mio Sacro Cuore all'anima fino a riempirla completamente. Tieni perciò aperto il tuo cuore per non perdere il beneficio della benedizione. Attraverso la mia benedizione ricevi la grazia di amore e aiuto per l'anima e per il corpo. Per mezzo di essa ti è data la forza ed il desiderio di cercare il bene, di sfuggire il male, di godere della protezione dei miei figli contro i poteri del Maligno. Perciò non ricevere mai la benedizione in modo piatto o distratto, ma con tutta la tua attenzione! Tu sei povera prima di ricevere la benedizione, sei ricca dopo averla ricevuta. La buona volontà per suo mezzo è rafforzata, le iniziative ricevono la mia Provvidenza particolare, la debolezza è potenziata dal mio potere, i pensieri sono spiritualizzati e tutte le cattive influenze neutralizzate.
Ho dato alla mia benedizione poteri senza confini. Maggiore è lo zelo con il quale la mia benedizione è data e ricevuta, maggiore è la sua efficacia. Io do a ciascuno a seconda della misura della sua fede.
Spesso io tengo nascosti i risultati della mia benedizione in modo che siano conosciuti soltanto nell'Eternità. Spesso sembra che le benedizioni non abbiano risultato, invece è meravigliosa la loro influenza; anche i risultati "apparentemente" infruttuosi, sono una benedizione ottenuta attraverso la santa benedizione: questi sono i misteri della mia Provvidenza che non desidero manifestare.
Le mie benedizioni producono molte volte effetti sconosciuti all'anima, perciò ricevila con buona volontà e con l'intenzione di diventare migliore, allora essa penetrerà nelle profondità del tuo cuore e produrrà i suoi effetti».
Certe anime mistiche hanno avuto il carisma della "ierognosi", cioè la facoltà di riconoscere le cose sante (per es.: la Sacra ParticoIa, i Rosari, le Reliquie, ecc.) e di distinguerli immediatamente e senza esame dagli oggetti non benedetti, dagli oggetti profani.
II caso meglio studiato e comprovato fu certamente quello della famosa mistica Luisa Lateau di Bois d'Haine (Francia). Se le presentavano una Reliquia sorrideva soddisfatta, pronta a baciarla. Lo stesso faceva con gli oggetti benedetti, mentre si mostrava del tutto indifferente e insensibile per gli oggetti non benedetti, anche se fossero immagini sacre. Un sacerdote, travestito da secolare, le presentò un Crocifisso non benedetto e lei si mostrò indifferente. Allora il sacerdote si voltò dall'altra parte e con la sua mano consacrata tracciò sul Crocifisso il segno della Croce, quindi si girò e glielo ripresentò. Solo allora Luisa mostrò il suo caratteristico sorriso e lo baciò. I presenti a questa scena furono costretti ad esclamare: «Che sublime realtà e la benedizione del sacerdote, di cui si fa così poco conto».
Maria Simma è un'anima santa che ha avuto il carisma di venire a contatto con le anime del Purgatorio e svolgere un grande apostolato in loro favore. A pagina 80 del libro Le Anime del Purgatorio mi hanno detto ... , viene riportato quanto segue: «Un incontro rimasto indimenticabile per me fu quello di un prete la cui mana destra era nera. Gli chiesi la causa: "Avrei dovuto benedire di più - mi disse - di' a tutti i preti che incontri che devono benedire di più; essi possono dare numerose benedizioni e scongiurare le forze del male"».
La benedizione del sacerdote attinge dalle ricchezze infinite del Cuore di Gesù e perciò ha una forza curativa e santificante, una potenza esorcizzante e protettiva. Una contadina molto credente racconta: «In casa mia si ha una grande fede. Quando un Sacerdote viene da noi, è come se venisse il Signore. La sua visita ci rende felici. Prima che il Sacerdote vada via, gli chiediamo sempre la benedizione. Nella nostra famiglia di dodici figli la benedizione sacerdotale è qualche cosa di tangibile».
Un sacerdote ha detto: «Nelle mie mani è stato messo un preziosissimo tesoro. Cristo stesso vuole operare con grande forza, mediante la benedizione fatta da uomini deboli. Come un tempo Egli andava benedicendo attraverso la Palestina, così vuole che il Sacerdote continui a benedire. Sì, noi Sacerdoti siamo ultra miliardari non in denaro, ma nella grazia che comunichiamo agli altri. Noi possiamo essere delle radio trasmittenti di benedizioni. In tutto il mondo ci sono antenne che captano le onde delle nostre benedizioni: malati, sofferenti, carcerati, emarginati, ecc.».
La mistica Anna Caterina Emmerick (1774-1824), al riguardo della benedizione sacerdotale diceva: «É molto triste vedere come ai nostri giorni i Sacerdoti siano trascurati quando si tratta di benedire. Pare che essi non conoscono più il valore della benedizione sacerdotale. Molti non ci credono più e si vergognano della benedizione come se essa fosse una cerimonia antiquata e superstiziosa. Molti infine si servono di questa forza e grazia che Gesù Cristo ha dato loro, senza pensarci e superficialmente».
Un'altra anima santa, Maria T. Meyer, morta nel 1952, afferma: «Ogni benedizione sacerdotale che io posso ricevere è come una nuova forza vitale che mi viene regalata. Noi non possiamo misurare l'effetto di una benedizione sacerdotale." Con la benedizione di Cristo eresse il suo amore nei nostri cuori, specialmente l' amore per la purezza ... io me ne sono convinta già da giovane. La benedizione sacerdotale è una grande grazia».
La benedizione sacerdotale presente è una necessità dei tempi in cui viviamo.
Essa non è mai stata così preziosa come oggi. Un famoso predicatore ha definito il nostro tempo "un'era di demoniocrazia". Effettivamente quanti demoni stanno lavorando ai nostri giorni! Quanti disordini, quanti scandali, quanti incidenti che capitano giornalmente, gliene danno la forza. E quindi è necessario sottrarsi dal potere del maligno stando in grazia di Dio, frequentando la Confessione, la Comunione, pregando, e infine ricevendo frequentemente la benedizione sacerdotale.
Come le onde magnetiche della radio, della televisione, dei telefonini, ecc. incrociano l'atmosfera, così le benedizioni dovrebbero incrociare il mondo per frenare e allontanare l'azione malefica dei demoni.
Ogni benedizione del sacerdote è sempre una nuova vittoria sul maligno. In questo modo i sacerdoti benedicenti possono essere continuamente delle stazioni trasmittenti spirituali. Al mondo ci sono ovunque antenne riceventi, cioè dei cuori che hanno bisogno di benedizione per essere fortificati dalla loro forza. La benedizione però ha bisogno di anime ricettive. Gesù ha detto ai suoi Apostoli (Lc 10,5): «in qualunque casa entriate, dite prima: "Pace a questa casa". Se vi sarà un figlio della pace la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi». - Questo significa che la pace e il bene saranno per la casa e per le persone che vi abitano a condizione però che queste persone siano ricettive, cioè devono chiedere la benedizione con fede e con fiducia.
Diceva un'anima molto provata dal dolore e malata da molti anni: «Durante la mia malattia ricevo spesso la benedizione del Sacerdote ed ogni volta sento come una forza che mi viene data per accettare la mia sofferenza, per abbandonarmi sempre più alla volontà del Signore che mi domanda molto sacrificio. La consapevolezza di essere benedetta molte volte da un Sacerdote, anche da lontano, mi dà improvvisamente forza e coraggio per affrontare le grandi tentazioni e le ore di profondo abbattimento. Quante volte la benedizione del Sacerdote mi ha dato pace e tranquillità nelle lotte interiori e nelle grandi burrasche spirituali».
É una cosa stupenda che il sacerdote alzi molto spesso la sua mano consacrata per benedire. Da questa benedizione scorre una forza esorcizzante contro il maligno e una forza salutare per i corpi e santificante per le anime, perché è lo stesso Gesù che benedice, tramite il sacerdote, con le sue mani trafitte da cui scorre il suo Sangue di Amore.
Fonte: Il settimanale di Padre Pio, 6 marzo 2011 - n. 9
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