- Prologo -
Titolo e sottotitolo non son affatto ermetici: riguardan la T r a d i z i o n e ecclesiastica. Tuttavia, credo opportuno premettere qualche considerazione.
l - Alla Tradizione la coscienza cristiana dedicò sempre, fin dagl’inizi, un’adeguata riflessione. Le grandi monografie sull’argomento son, però, opera della teologia moderna. Dopo l’intenso dibattito sorto in ambito tridentino e concluso da una ben nota definizione conciliare sul fatto e sul concetto di Tradizione, il tema fu ripreso con intenti decisamente contestatari dal Secolo dei Lumi, le cui conclusioni ed il cui spirito furon poi la culla nella quale la dissoluzione modernistica della Tradizione sarebbe cresciuta e si sarebbe trovata a proprio agio.
A tale dissoluzione, alcuni teologi - e certamente non gli ultimi venuti - opposero di volta in volta e con indubbia efficacia il frutto delle loro ricerche e del loro “intellectus fidei”. Al loro nome son legate le monografie di cui sopra, in special modo quelle di J. B. Franzelin e L. Billot, in seguito continuate e precisate da Y. M.-J. Congar, A. Deneffe, P. Lengsfeld, A. Michel, J. Ranft, G. H. Tavard, J, R. Geiselmann, H. Holstein, J. Beumer e tanti altri ancora. In genere, si tratta d’opere davanti alle quali sta non “lo spazio d'un mattino”, ma l’oggi e il domani. È quindi logico che qualcuno mi chieda se ci fosse proprio bisogno del mio intervento. Che proprio io dovessi intervenire e che il mio intervento fosse necessario in assoluto, son il primo a negarlo. Ho peraltro la consapevolezza che il mio non è un intervento di ripetizione. P. es., mentre mi trovo in sostanziale armonia con Geiselmann, qualche perplessità suscita in me Tavard; e mentre seguo in gran parte l’opera di Beumer, ne rifiuto l’acritica adesione al Vaticano II. Nemmeno lo scritto di Congar, un po’ confuso ed eccessivamente didascalico, mi convince molto né m’entusiasma. Quanto a Deneffe, che pur ha scritto una delle opere migliori sulla Tradizione, mi discosto dalla sua identificazione di Tradizione e Magistero. Anche se, per quanto mi riguarda, su quest’argomento mi soffermo poco, son di parere nettamente contrario.
Quanto al mio intervento, il titolo proviene notoriamente dall’apostolo Paolo, il quale, in l Cor 11,23, introduce così il racconto dell’istituzione eucaristica. Alla giovane comunità di Corinto, dove non mancan abusi e deviazionismi, rivolge un salutare richiamo perché la fede sia vissuta con totale e cordiale adesione alla sua fonte genuina. Si tratta d’una fonte non già umana, né puramente storico-letterararia, anche se passa attraverso la testimonianza degli uomini e le maglie della storia. Ciò che d’umano e di storico la caratterizza non costituisce la fonte in sé e per sé, ma indica la mediazione che la veicola ad una libera e responsabile scelta. La fonte, in effetti, è rivelata. Parte da Dio. È sua parola. Una parola non al vento, ma alla coscienza dei destinatari, ai quali Dio la rivolge.
1/1 - In forma diretta ed immediata quella parola fu rivolta alla Chiesa nella persona di coloro che, fin dall’inizio, eran considerati le sue colonne (Cf G1 2, 9): gli apostoli, nel cui collegio una chiamata d’eccezione (1) inserì pure Paolo di Tarso, il convertito sulla strada di Damasco (At 9,3-9).
L’annuncio dell’avvenuta Rivelazione e del suo contenuto - un annuncio ufficiale, in nome cioè della Chiesa che ne aveva avuto il sacro deposito dal suo divin Fondatore - fu tra i compiti precipui degli apostoli e di coloro ai quali essi stessi l’affidarono perché si perpetuasse nel tempo. E “Paolo, servo di Gesù Cristo, chiamato ad esser apostolo e destinato alla proclamazione dell'Evangelo” (Rm l,l), fa appello a questa sua qualità e conseguente responsabilità e trasmette ai Corinzi la Fede ch’egli stesso ha ricevuto.
Come l’abbia ricevuta fa parte delle sue confidenze e del suo racconto; è quindi un fatto acquisito. Egli è apostolo perché scelto come tale non da questo o da quello, ma dallo stesso Cristo (Gal l,l). Il riferimento all’evento di Damasco che lo trasformò da persecutore a confessore e lo pose al servizio di Cristo e della Chiesa è qui evidente. Evidente è, alla base di tutto, una manifestazione diretta; quello ch’egli predica non proviene da un insegnamento umano, ma “da una rivelazione di Gesù Cristo - αλλα δι αποκψεωσ ’Ιησου Χριστου” (Gal 1,12). L’espressione rievoca certamente un fatto straordinario. È la stessa con cui, “quattordici anni dopo”, giustifica la sua seconda ascesa a Gerusalemme (Gal 2,2).
Subito dopo Damasco, era stato accolto in seno alla Chie¬sa. La Rivelazione ricevuta direttamente da Cristo passò allora attraverso la voce della Chiesa stessa; e ne ebbe conferma. Poi, tre anni dopo, il convertito “rese omaggio” (ιστορεσαι) a Pietro e si fermò “quindici giorni con lui” (Gal 1,18); fu l’occasione d’una prima verifica del suo “Evangelo”. Nella circostanza del suo secondo ritorno a Gerusalemme, confessa candidamente d’aver “confrontato” la sua predicazione con quella degli altri apostoli, per accertarsi di “non correre invano” (Gal 2,2). Dal confronto con coloro che, nella stima comune, eran alla guida della Chiesa (cf Gal 2,2), uscì con la confermata coscienza d’una predicazione in tutto conforme a quella delle “colonne” ecclesiali - gli altri apostoli - con l’eccezione d’alcune circostanze esterne e non sostanziali. Ben poteva perciò dichiarare di trasmettere ciò che - da Cristo e dalla Chiesa - aveva egli stesso ricevuto.
1.2 - Ho parlato di forma diretta ed immediata. Ma la vicenda stessa di san Paolo fa capire - a me sembra chiaramente - che perfino per lui ci fu anche una forma indiretta e mediata.
Riportiamoci sulla via di Damasco per assister ancor alla drammatica scena descritta in At 9,3ss. L’ex persecutore, rialzatosi cieco da terra, venne accompagnato “per mano” in città, dove Anania, un discepolo, l’accolse fraternamente, “gl’impose le mani” in segno di benedizione e lo battezzò. Altri discepoli, stupefatti per il suo cambiamento o dubbiosi ancora, lo trattennero in città “alcuni giorni”. Non si sa quanti, ma furon sufficienti perché da Anania e dagli altri apprendesse “la buona notizia” e subito dopo la trasmettesse, predicando Cristo in quelle sinagoghe (At 9,10-22). La dinamica del “ricevere-trasmettere” è qui fuori discussione. Ma è ormai indiretta e mediata: Paolo ritrasmette quello che ha ricevuto. È la dinamica della παραδοσισ, la quale è la vita stessa della Chiesa: un’ininterrotta trasmissione dell’eredità apostolica.
A suo tempo si vedrà come una siffatta trasmissione fu messa in moto, con lo scopo che non subisse alcun arresto né alcun’innovazione in processo di tempo e continuasse a normare per sempre la vita della Chiesa con l’eredità degli apostoli. Ebbe così inizio la trasmissione ecclesiale, priva della sua prima caratteristica di comunicazione diretta ed immediata. Con la morte dell’ultimo apostolo - san Giovanni - la Rivelazione si chiuse. Da allora, il Cristianesimo vive non già di nuove rivelazioni, non di nuove dottrine, non d’una Fede nuova, ma di quell’unica Rivelazione ed unica dottrina ed unica Fede che, predicata da Cristo e dai suoi apostoli, attraversa il tempo del “già e non ancora” mediante il ministero della Chiesa.
1.3 - Mediante, vale a dir in forme spazio-temporali che si rifanno a valori originari ed ormai lontani, ne ripeton la normatività sempre attuale, li fanno rivivere. È questa la vita della Chiesa: una continuità mediante l’aggancio all’originario e la sua inalterata attualizzazione. Ciò che ella ebbe in origine, è ciò che ritrasmette in ogni istante del suo “hic et nunc”: in origine le fu consegnato per via diretta ed immediata ciò che, qui ed ora, il suo ministero ne fa una comunicazione indiretta e mediata, in risposta ad una precisa disposizione di Cristo: “Andate in tutt’il mondo ed ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed insegnando loro a conservare tutto quanto vi ho comandato”. Poi, quasi a rivendicare per sé l’ammaestramento in forma diretta ed immediata, aggiunse: “Ecco, io sono con voi o¬gni giorno, sin alla fine del tempo” (Mt 28,18-20). Il maestro, la guida, il pastore è Lui: “non vi lascerò orfani” (Gv 14,18).
Sembra di capire che anche nel mediante - fermo restando e non discutibile lo statuto indiretto e mediato della comunicazione cristiana ad opera dei “mandati” da Cristo - sussiste qualcosa della comunicazione originaria, diretta ed immediata. La Chiesa, è vero e lo si sa, non è un semplice megafono né un ripetitore meccanico; trasmette infatti ciò che ha ricevuto con tutta la sua responsabile soggettività. Ma il maestro la guida il pastore continua ad esser Lui. Misticamente sacramentalmente mistericamente è sempre Lui colui che comunica. Una vera interazione si verifica, dunque, nell’atto stesso della παραδοσισ: dalla trasmissione ecclesiale dei valori ricevuti mediante l’ininterrotta catena del ricevere e ritrasmettere, emerge l’Io di Cristo, “il rivelatore del Padre” (cf 2Cor 4,4; Col 1,15).
Cristo stesso, del resto, aveva affidato al suo Spirito il compito d’attualizzare la propria parola: “Fin a che son rimasto in mezzo a voi, vi ho comunicato queste cose. Poi il Padre manderà il Paraclito, cioè lo Spirito Santo, il quale vi ripeterà tutto quello che v’ho insegnato io” (Gv 14,25-26). “E quando questo Spirito della verità sarà venuto, v’introdurrà – οδηγησει - nella verità tutt’intera” (Gv 16,13).
Questi due ultimi testi hanno un’importanza decisiva per la storia della Chiesa, a condizione che non se ne equivochi il genuino significato. Nella sua sostanza, infatti, la verità che lo Spirito Santo trasmetterà alla Chiesa non avrà nulla di nuovo: sarà costituita da “tutto quello che v’ho insegnato io”. Il fatto, poi, che lo Spirito Santo introduce la Chiesa in tutta la verità, non significa che la “revelatio” di Cristo, perché parziale, verrà integrata dalla “suggestio” dello Spirito Santo; significa invece che, grazie a codesta “suggestio”, saranno scoperti, della Rivelazione di Cristo, aspetti prima in tutto o in parte nascosti o moduli espressivi meno inadeguati.
A questi due testi non pochi, oggi, fan risalir errori e contraddizioni evidenti tanto quanto stridenti rispetto alla comunicazione originaria. Come se Dio, verità sostanziale che non inganna né s’inganna, si correggesse nel rinnovarsi del suo rapporto con l’uomo e con la storia. Come se questo rapporto fosse in tanto nuovo, in quanto allineato con la cultura del momento, ignorando superando o azzerando il passato, recente o remoto. S’è infatti convinti che lo Spirito Santo tutto legittimi e perfino il contrario di tutto, fosse pur un’eresia. Introducendo nei gangli vitali della Chiesa ciò che ieri si riteneva errore, se ne coglierebbe non “frutti di cenere e tosco”, ma un’efflorescenza nuova ed attuale della verità quale “qui ed ora” si rende visibile. In tal modo verrebbe garantita alla Chiesa una vitalità sempre nuova e rigogliosa, proprio perché prima nemmeno intravista. E tutto, anche un assurdo teologico/dogmatico, diventerebbe la novità, che lo Spirito della verità farebbe scaturire come giovane e vitale virgulto dal vecchio ceppo della prima Rivelazione, dimostrandone tutta l’imperitura e rinascente vitalità.
Anche il Tridentino si richiamò ai due testi giovannei, ma con ben altro intento ed altro significato. Tra le sue righe, specie là dove si parla delle verità predicate da Cristo o (suggerite) dallo Spirito Santo (2), riemerge, come culla della novità, la prima comunicazione diretta ed immediata. Da tutto l’insieme perfino l’ombra della contraddizione e dell’assurdo è assente. La novità vien legittimata da una “conditio sine qua non”: quella dell’ “eodem sensu eademque sententia” (3) .
2 - Se la spiegazione d’un titolo che proprio sibillino non sembra, a queste considerazioni - ma anche ad altre, per il momento taciute - ha portato, le parole con cui è formulato il sottotitolo parrebbero ancor men bisognose di precisazioni e d’osservazioni ermeneutiche, grazie alla loro chiarezza ed alle stesse discussioni di questi ultimi tempi.
2.1 - Può darsi che anch’io abbia dato un contributo a codeste discussioni con il mio recente scritto sull’ermeneutica del Vaticano II (4). Certo è che l’impatto è stato vastissimo e vivace; se n’è parlato e si continua a parlarne. E la discussione verte preminentemente sulla Tradizione: una realtà vivente, o un soprammobile del passato?
Non ho alcuna intenzione d’anticipar a questo prologo il nucleo di fondo della mia riflessione. Ma allo scopo di render questa medesima riflessione non puramente teorica ed astratta e di convincer il lettore, fin da subito, sulla provata necessità della discussione, se non proprio sulla sua ineludibilità per alcuni aspetti riguardanti la vera Fede cristiano-cattolica, ritengo che il sottotitolo debba esser adeguatamente sviluppato.
Nessuno s’aspetti d’incrociare, attraverso le sue letture, qualche difensore dell’alternativa sopra indicata. Credo che nessuno formuli la domanda in termini così nettamente alternativi. La maggior parte, anzi, anche di coloro che parteggian per la c. d. Tradizione vivente, si dichiara a favore della Tradizione apostolica, di cui intende metter in evidenza la vitalità imperitura, la capacità di corrisponder alle attese di sempre, la funzione di tacitarle assumendone in proprio le acquisizioni scientifiche e come proprie proclamandole, la sintesi della verità cristiana nella “geltende Lehre” di schleiermacheriana memoria (5) con conseguente integrazione di Cristianesimo e cultura imperante.
Sì, l’alternativa parrebbe del tutto estranea agl’intenti critici di chi si schiera a difesa della Tradizione vivente. Lo sanno tutti che nessuna verità può aver diritto di cittadinanza nel complesso delle verità cristiane se in concorrenza con esse, o a sostituzione anche parziale d’una sola di esse. Le verità rivelate godono dell’intangibilità ed inalterabilità di Dio; le altre in tanto sono, in quanto cambiano. Si potrebbe applicar loro una famosa ed acuta osservazione agostiniana: “Mutantur enim, ergo creata sunt”. Il loro stesso adattarsi agl’imperativi del momento esclude che vengan da Dio, la cui parola “dura per sempre” (Sal 119/118,89).
L’alternativa è, allora, assente dall’orizzonte teologico dei fautori della Tradizione vivente? Non lo direi. Da quando l’aggettivo “vivo/vivente” fece il suo ingresso nel Vaticano II (6) portandovi un significato ignoto all’uso che prima se ne faceva, l’alternativa è in atto. In alcuni teologi e pastori, in modo acritico e superficiale, in ossequio alla “svolta” conciliare, sotto la spinta emotiva dell’ondata innovatrice che il gruppo di Bologna (Alberigo e colleghi) era riuscito a diffondere ovunque, giustificandola all’insegna d’una Chiesa pre- e d’una Chiesa postconciliare. Chi infatti considerava il Vaticano II come l’evento epocale che aveva conferito un assetto nuovo alla Chiesa, un nuovo inizio, una nuova autocoscienza, celebrandone il trionfo sulle ceneri del vecchiume tridentino e scolastico, non era affatto tenero per la Tradizione che, fin a poco prima, aveva sorretto proprio quel “vecchiume”. Davanti a sé aveva solamente “il sol dell'avvenire” e ne preparava l’avvento mediante tutto ciò che di vivo e vitale fosse reperibile nella matrice cristiana. La “nuova Pentecoste” e l’“ondata di primavera”, espressioni ormai proverbiali dopo che Giovanni XXIII aveva in esse sintetizzato il Concilio (7), escludevan uno sguardo a ritroso verso quei valori che il tempo aveva inesorabilmente usurato - qualcuno parlava pure di “nuova primavera”, come se l’alternarsi di essa alle stagioni precedenti potesse anche farne qualche cosa di vecchio -. Son fatti, questi, ch’escludon perentoriamente il bilanciarsi delle posizioni tra l’una e l’altra Tradizione. Che lo si dicesse o no, la scelta e le simpatie avevan una sola direzione, quella della Tradizione vivente.
2.2 - Che di natura sua il Magistero ecclesiastico sia vivente fa parte delle certezze illustrate e suggellate dalla dottrina teologica. Quando, solo per portar un esempio, san Tommaso fa intervenire il Magistero per render più esplicita una verità di Fede e per adeguarne la proposta al superamento d’incomprensioni ed errori (8) , ne dimostra l’intrinseca vitalità. E quando dalla sponda del Magistero si passa a quella della Tradizione per ricuperarne la qualità apostolica e risponder agl’interrogativi del momento con la dottrina proveniente dagli apostoli, non il Magistero soltanto si rivela vivo e vitale, ma anche la Tradizione. Questa, cioè, dimostra la sua immanente ed immutabile vitalità in quanto “deposito sacro” di quella divina verità che il Magistero eredita dagli apostoli e ripropone in quanto tale e che, in quanto tale, trascende ogni limite di tempo e di cultura. La qual cosa mai si verificò, né mai si verificherà per nessun sistema nato nel tempo, espressione del livello culturale di quel tempo e perciò stesso destinato a tramontare insieme con esso.
L’eredità apostolica ha una vitalità che trascende ogni limite spaziotemporale, perché raccoglie nel “sacro deposito” affidato al Magistero qualcosa d’assoluto: la verità rivelata da Cristo nell’intero arco della sua esistenza terrena, compresi i giorni tra la sua risurrezione e la sua gloriosa ascensione. Essendosi definitivamente chiusa la Rivelazione pubblica con la morte dell’ultimo apostolo, si chiuse pure con essa quel periodo transitorio che s’era aperto con la prima Pentecoste cristiana, durante il quale lo Spirito Santo aveva dato inizio alla sua missione di ricordar alla Chiesa “tutto quello che Cristo aveva insegnato”. Da allora la sua “suggestio” immette nel “sacro deposito” qualche nuovo elemento, estrinseco all’insegnamento di Cristo, ma in grado di confermarlo e d’approfondirne la conoscenza. Quando ciò avviene, entra nel “sacro deposito” non una nuova rivelazione, ma un nuovo raggio di luce che illumina la verità rivelata da Cristo (9).
Nient’altro potrà più entrarci. Nient’altro, da allora alla fine del mondo. È questo il tempo del “già e non ancora”, riempito illuminato e signoreggiato - per quanto attiene alla vita cristiana e all’eterna salvezza - da Cristo e dallo Spirito Santo: una presenza che mantiene la Tradizione apostolica sempre viva e sempre vivificatrice perché sempre se stessa nel volger inarrestabile dei secoli.
2.3 - Ciò non ha nulla a che fare con il fissismo e l’immobilismo dogmatico, rimproverato a Roma - non solo alla teologia della Scuola Romana, ma anche alla Curia romana, alla Santa Sede, agli organi di governo e di magistero ecclesiastico -. Fronteggiò queste accuse il beato Pio IX soprattutto con il Syllabus del 1864 e fece altrettanto san Pio X con i suoi interventi antimodernistici. Dunque, non solo un no all’immobilismo, ma anche un sì ad una visione evolutiva della Tradizione. Anche se ne parlerò più diffusamente in fase espositiva, dev’esser chiaro fin d’ora che la Tradizione è viva non se cambia i suoi connotati, ma se li mantiene; e li mantiene non per sclerotizzarli, ma per precisarli sempre meglio.
Si vedrà a suo tempo che la vitalità della Tradizione è dovuta, paradossalmente, ad un non negoziabile sbarramento d’ingresso per ogni progresso sostanziale o intrinseco di essa. Per capir di che cosa si tratti, basta riferirsi al pericolo mortale, subdolamente teso alla Fede e alla Chiesa dai campioni più rinomati del modernismo, quando il dogma veniva da loro dissolto nel suo contrario con l’immissione di dati emergenti dalla cultura del tempo, dalle scienze cosiddette umane e segnatamente dalla psicologia (“e latebris subconscientiae” [10]), dalle filosofie immanentistiche e razionalistiche, dalle metodologie c. d. critico-scientifiche. La rivelazione diventava un’illuminazione soggettiva del senso religioso, Dio non ne era più l’autore personale e trascendente; e suo contenuto non eran più le verità oggettivamente e storicamente da Lui rivelate. Tutto si risolveva sul piano della coscienza individuale, del sentimento, della cultura, della storia e del suo “eterno” movimento.
Forse pochi altri movimenti eterodossi furon più del modernismo responsabili d’un piano così terribilmente eversivo del dogma cattolico. Sottoposto ad un suo movimento interno che ne dissolveva il contenuto e si concludeva, sia pur temporaneamente, con un suo sostanziale cambiamento, il dogma modernisticamente corretto e riveduto era sempre qualcos’altro. Si vide in ciò il suo “progresso sostanziale”; senza l’opera di san Pio X, sarebbe stato la tomba di se stesso.
Eppure, va detto con altrettanta chiarezza e fermezza che la vitalità della Tradizione apostolica non impedisce del dogma un miglioramento espressivo-conoscitivo, detto sintomaticamente progresso accidentale. Si tratta d’un progresso estrinseco, estraneo alla natura d’un dogma in particolare, o del dogma in quanto tale. A solo titolo d’esempio, riporto l’attenzione al grande e grandemente bistrattato Pio IX. Nel 1854, come ognuno sa bene, proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione (11) . Se, con tale definizione, avesse inteso:
• aggiungere nel “sacro deposito” delle verità rivelate una nuova e fin a quel momento sconosciuta verità;
• arricchire d’un nuovo contenuto dogmatico l’esperienza originaria della Rivelazione;
• ed affermar il ripetersi degli atti rivelatori anche dopo la morte dell’ultimo apostolo,
avrebbe operato un cambiamento veramente sostanziale della Tradizione apostolica, della Rivelazione e dello stesso dogma. Della Tradizione, infatti, avrebbe dilatato i margini contenutistici al di là del “sacro deposito” che la Chiesa ha ereditato da Cristo e dagli apostoli; della fonte rivelata avrebbe considerato tuttora aperto e mai prima d’ora chiuso il flusso rivelatorio; del dogma avrebbe dissociato il rapporto “fondativo” con codesta medesima fonte, nei limiti storici e dogmatici entro i quali essa è conclusa.
Nulla di tutto questo è ascrivibile al beato Pio IX. Va intanto ricordato che né inventò lui la pia credenza nell’Immacolato Concepimento di Maria - riconosciuto, certo a modo suo, perfino da Lutero (12) - né convertì la pia credenza in dogma con un coup de théâtre. I precedenti storici, le commissioni di studio, i pareri raccolti presso tutto l’episcopato son dati di fatto storicamente accertati. Con la definizione e dopo di essa, la Fede cattolica non registrò alcun cambiamento sostanziale, rimanendo quella ch’era sempre stata. Il cambiamento ci fu, ma esclusivamente sul piano d’una più profonda intelligenza del dogma cristologico e d’un passaggio dall’implicito all’esplicito.
3 - Quando leggo o ascolto eminenti teologi che, dall’alto della loro raffinata intelligenza e sconfinata cultura, apron con evidente convinzione - e qualcuno spalanca -la Fede al mondo per integrar in essa principi e metodi assolutamente inconciliabili con la trascendenza della Fede stessa; quando ne seguo l’affannarsi nella dimostrazione dell’inconciliabile conciliabilità e addirittura dei vantaggi che la verità cristiana potrebbe trarre dall’apporto del sapere profano; quando perfino altissime personalità della Chiesa leggon nel positivismo, nel razionalismo, nel romanticismo ed in genere nell’illuminismo segnali certi d’un’ineludibile provenienza da Cristo e d’una Tradizione che proprio in questo rivelerebbe la sua vitalità, mi si stringe il cuore e mi chiedo se si sappia davvero ciò di cui si sta parlando. Di per sé, cioè nel rigoroso rispetto dei propri e degli altrui confini, il compito d’annunciar la Fede, e di professarla annunciandola in piena conformità alla Tradizione apostolica e non come una “lezione cattedratica”, spetta al “ministro della parola” (At 6,4) e soprattutto al vescovo. Il professore, invece, ne proporrà i termini tecnici e l’analisi scientifica, per dimostrare che fede e scienza, se rispettose dei propri statuti, non si contraddicono. Quando “ministro della parola” e professore son la stessa persona, annuncio e lezione interagiranno, ed anche utilmente, ma solo se s’asterranno da reciproche prevaricazioni.
Un’invasione di campo sarebbe insostenibile: lo scienziato che, con lo strumento del suo metodo sperimentale, sdottoreggia in campo teologico; il giornalista che, solo perché accreditato presso la sala stampa della Santa Sede, s’atteggia a san Tommaso d’Aquino; il teologo che, specie se non digiuno d’infarinature scientifiche, concilia la creazione con il fantasmagorico Big Bang originario e sua disseminazione dell’essere; il pastore, che scambia il pulpito o l’ambone con la cattedra. L’invasione di campo è davvero un caos e caos è quel farneticare degli invasori che nella Tradizione vivente introduce o il tarlo che la corrode, o il veleno che l’uccide.
A chi mi chiedesse una parola più chiara, potrei risponder “tolle et lege”: c'è solo il problema della scelta. Indirettamente, tutt’il presente volume sarà una risposta. Al fine di renderla il più possibilmente accessibile mediante una fondamentale consonanza d’idee tra chi scrive e chi legge, mi rifaccio al titolo di questo volume ed al testo paolino (l Cor 11,23) che l’ha suggerito.
Anche al tempo di san Paolo, specie nella città di Corinto, c’eran non pochi e perfino gravi disordini. Per liberarsene e dar un nuovo assetto alla scomposta situazione determinata da alcuni scontenti, l’apostolo invitò i Corinzi a voltarsi indietro, verso l’inizio. Oggi, al contrario, proprio quella situazione qualcuno avrebbe analizzato - ovviamente in profondità - per valutarne i disordini come un arricchimento della comune esperienza vissuta. Avrebbe osservato che quei disordini nascevan non dalla, ma all’interno della vita cristiana. Potevan esser, perciò, rettificati purificati ed amalgamati nella grande Tradizione apostolica. L’apostolo Paolo fu di tutt’altro avviso. Invitò i Corinzi a discernere i dati costitutivi dell’inizio, per confrontare con essi la situazione del momento e risolverla alla luce del detto confronto. All’inizio c’era stato un ricevere ed un ritrasmettere: “vi ho infatti trasmesso ciò che io pure ho ricevuto”. Nel dire “ciò che” l’apostolo stabilisce un’assoluta coincidenza, anzi un’indiscutibile identità di contenuti fra il ricevere ed il ritrasmettere, in ogni loro margine e senz’alcun’eccezione. Ne consegue che la verità cristiana è reperibile non già nella situazione sopraggiunta, l’ultima nella ridda di tutte le altre, senza connessione con l’inizio o in rottura con esso, ma nell’accennata coincidenza ed identità fra ciò che si riceve e si ritrasmette. Ai Corinzi, pertanto, l’apostolo affida il compito di ripristinare codest’identità ed espungerne ogni deviazionismo dalla Tradizione degli apostoli.
Non diverso sarà il compito sia di chi, oggi domani e sempre, regge in mano i “suscepta gubernacula” di cui parla san Leone Magno (13), sia di quanti son in comunione con lui nel moderare la rotta della Chiesa: davanti ad essi sta l’inizio come faro e punto d’orientamento. Il segreto della Tradizione vivente - di quella forza vitale che ringiovanisce la Chiesa nonostante il passare degli anni e l’irrobustisce nonostante ogni assalto dall’interno e dall’esterno - sarà dunque la fedeltà all’inizio, a quel “ciò che” ricevuto e ritrasmesso che porta la Tradizione stessa nel presente per predisporre il futuro prossimo e remoto.
4 - Aggiungo qualche breve indicazione metodologica, forse superflua, considerando che i lettori del presente scritto saranno soprattutto i teologi. Rifuggendo dalle deprecabili invasioni di campo, mi son fatto scrupolo di rimaner e procedere su un terreno specificamente teologico, lungo i suoi più tipici percorsi. Il discorso sul metodo, si sa, è il discorso sulle strade da battere: metodo significa “attraverso la strada” o “via che conduce oltre”. Sembra ovvio che, svolgendo un argomento teologico, si segua una strada teologica, vale a dir un metodo teologico. Ma quale?
4.1 - Prima, tuttavia, di stabilire quale esso sia, non si può non tener conto del fatto che l’attuale interconnessione dello scibile ha toccato anche il “santuario”. È vero, inoltre, che poche altre discipline hanno, come ha la teologia, contatti e riferimenti al di là del proprio recinto. Filosofia, diritto, storia, psicologia, sociologia ed altre scienze c.d. umane: un ventaglio molto ampio, dal quale il teologo potrebb’esser tentato e perfino disorientato. Per quel che mi riguarda, credo d’esser rimasto nel mio orticello.
Con riferimento più diretto alla questione del metodo, posso dire d’essermi rigorosamente attenuto al principio del decreto conciliare OpT 16/a: “In lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu”. Esso sembra, almen a prima vista, un principio aureo. Pone nella Fede il punto di partenza e l’orientamento sicuro; chiede poi di proceder accompagnati per mano dalla Chiesa.
Affiora subito, peraltro, qualche interrogativo: qual è la Fede che illumina? la mia, cioè quella del singolo credente, che egli crede e per la quale crede, o quella pubblica, sociale, ecclesiale? ed in base a che cosa o l’una o l’altra potrà costituir il “lumen” per il mio orientamento ed il mio avanzamento? dove dovrò attinger questa Fede e dove la sua luce: dalla Sacra Scrittura? dalla mia coscienza? e perché non dalla Tradizione?
Se dalla Tradizione, l’oggetto stesso di tutta la ricerca funge pure da faro d’orientamento. Ma non ne deriva, allora, una contraddizione? o quanto meno una tautologia? una “petitio principii”?
4.2 - Quando i Padri conciliari proclamaron: “In lumine fidei - sub ductu Ecclesiae” forse non vennero nemmeno sfiorati dai suesposti interrogativi. Si può dire, anzi, che non percepiron nemmeno tutta la portata del “ductus Ecclesiae"”. Il quale, lungi dall’abbinarsi con il “lumen fidei", ha di questo il pieno controllo ed esercita a suo favore una funzione formale. Impressiona, a tale riguardo, la frequenza con cui san Tommaso parla di "fides Ecclesiae”, dove il genitivo indica non solo il soggetto d’un possesso, ma anche il titolo di esso e la sua ragione. La Fede, pertanto, che dovrà guidar il mio cammino di ricerca sarà non astratta e generica, ma specifica e garantita dal giudizio della Chiesa. In ultim’analisi, il principio metodologico suggerito dal Vaticano II stabilisce, sì, due condizioni, ma le collega in un rapporto per cui la prima dipende dalla seconda, da questa autenticata e quasi legittimata.
4.3 - La “fides Ecclesiae” è in realtà la Fede oggettivamente ed inequivocabilmente ricevuta precisata formulata e ritrasmessa come propria dalla Chiesa cattolica nell’arco della sua storia più che bimillenaria. È il patrimonio delle verità che ebbe in “deposito” da Cristo e dagli apostoli e che ritrasmise nei secoli con fedeltà sostanziale, se pur non senza qualche passaggio da una minore ad una maggiore chiarezza, né senza qualche conoscenza più piena, più profonda, più chiara delle parti men evidenti del patrimonio stesso. Al termine della ricerca, non sarà difficile per nessuno - questa è la mia speranza - chiamar per nome questa “fides Ecclesiae”: Tradizione apostolica, identificandola con la Tradizione ecclesiastica.
4.4 - I lettori teologicamente più provveduti non avran difficoltà a collegar una siffatta metodologia con le linee maestre d’un’opera ormai completamente dimenticata, ma degna, come il nome del suo autore, il domenicano Melchior Cano († 1560), di rinnovato interesse. Alludo al De locis theologicis (14). L’espressione, nell’improvvisato linguaggio d’alcuni moderni, è diventata sinonimo di tematiche teologiche, mentre in Cano indicava l’elenco delle autorità a sostegno delle singole verità della Fede cattolica. Le elencò secondo l’ordine decrescente del loro valore probatorio: Sacra Scrittura, Tradizione di Cristo e degli apostoli, Chiesa cattolica, Concili ecumenici, Curia apostolico-romana, Santi Padri, Teologi scolastici, Ragione naturale, Filosofi, Storia umana (15). È sintomatico il posto assegnato alla Tradizione, immediatamente dopo la Sacra Scrittura e prima della Chiesa stessa, anche se poi gran parte dell’intero discorso ha un valore prettamente ecclesiologico. E proprio in esso sta la ragione dell’incontro metodologico fra la strada da me seguita e quella suggerita da M. Cano. Anche se mi son astenuto dal portar l’attenzione alla storia delle religioni – un’attenzione di cui Cano si sarebbe avvalso, secondo J. Ranft (16), per dar risalto alla specificità della Tradizione cattolica – l’accennato accostamento metodologico mi sembra evidente nel fatto stesso del premetter la Tradizione alla Chiesa e del ricondurre alla Chiesa la Tradizione. Nel dir Chiesa, in realtà, si dice implicitamente Tradizione. Nella Tradizione la Chiesa trova la divina Rivelazione che la fa Madre e Maestra. Nella Chiesa la Tradizione vive la sua inalterata stagione ed assicura l’identità della “Sponsa Christi”.
5 - Dovrei, a questo punto, elencare le opere alle quali, direttamente o no, la mia si riferisce. In genere, non son molto entusiasta delle lunghe liste bibliografiche, perché né sempre né in tutto “sunt ad rem” ed in qualche caso son semplicemente affastellamenti di titoli. Riconosco peraltro la funzione non solo documentaria, ma anche orientativa d’una buona bibliografia. Ad una tale funzione rispondon, nel mio caso, la nota a piè di pagina, senz’alcuna pretesa né d’esaurire l’elencazione delle opere esistenti, né di segnalar le migliori. Segnalo infatti quelle che mi sono state utili.
Tuttavia, per un argomento di tale e tanta rilevanza, una nota bibliografica minima e ridotta all’essenziale mi sembra doverosa. Così com’è doveroso iniziarla con il nome di:
FRANZELIN J. B., Tractatus de divina traditione et scriptura, Roma 1870 (18964). La prima edizione ha recentemente trovato un bravo traduttore e commentatore francese nella persona di Jean-Michel Gleize (Cardinal Jean- Baptiste Franzelin -1816/1886 - La Tradition, Courier de Rome, s.d.);
BILLOT L., De immutabilitate Traditionis, Roma 1904;
BAINVEL J.V., De magisterio vivo et traditione, Parigi 1905;
RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, ed. M. Schmaus, Monaco 1931;
DENEFFE A., Der Traditionsbegriff Studie zur Theologie, Miinster 1931;
SALAVERRI J., La tradición valorada come fuente de la revelación en el Concilio de Trento, in “Estudios eclesiásticos” 20 (1946) 33-61;
MICHEL A., Tradition, in DThC XVI/I (1946) 1252-1350;
GEISELMANN J.R., Die Tradition - Fragen der Theologie heute, Einsiedeln 1957; ID., Das Konzil von Trient über das Verhältnis der Heiligen Schrift und die nichtgeschriebenen Traditionen: die mündliche Überlieferung, ed. M. Schmaus, Monaco 1957;
VAN DEN EYNDE D., Tradizione e Magistero, in AA.VV., Problemi e orientamenti di Teologia Dogmatica, 1. Milano 1957, p. 231-252;
PIEPER J., Über den Begriff der Tradition, Colonia 1958;
LENNERZ H., Scriptura sola? In “Gregorianum” 40 (1959) 38-53; ID., Sine scripto traditiones, ivi, p. 624-635;
CONGAR Y. M., La Tradition et les traditions. Essai historique, Parigi 1960; tr. it. di G. Auletta, ed. Paoline 1961;
HOLSTEIN H., La Tradition dans l’Eglise, Parigi 1960;
RAMBALDI G., In libris scriptis et sine scripto traditioni¬bus. La interpretazione del teologo conciliare G. A. Delfino OFM Conv., in “Antonianum” 35 (1960) 88-94;
BEUMER J., Die mündliche Überlieferung als Glaubensquelle, Friburgo i. Br., 1962; tradotto in fr. da P. Roche e P. Maraval, Parigi 1967;
TAVARD G. H., Écriture ou Église? La crise de la réforme, Unam Sanctum 42, Parigi 1963;
PENNA A., La Scrittura come momento della tradizione - la tradizione come contesto della Scrittura, in “Atti della XX Settim. Biblica”, Brescia 1970, p. 151-176 (17).
6 - Manca, in questa nota, ogni riferimento ad opere non direttamente né squisitamente teologiche (18), così come ad alcune elaborazioni teologiche della Tradizione secondo i due Concili Vaticani (19). Sull'influsso di questi due Concili e su coloro che più d'altri se ne fecero assertori convinti, riferirò al momento opportuno.
7 – Un’ultima precisazione. Manca in questi preliminari un elenco di sigle, il ricorso alle quali generalmente vorrebbe semplificare l’esposizione. Ci ho rinunciato, preferendo alla sigla il nome intero, per motivi di chiarezza e di tempo: il lettore avrà sotto gli occhi la citazione nella sua interezza e non sarà più obbligato a verifiche che ne interrompan la lettura.
Qualche sigla, peraltro abituale ai lettori d’altri miei scritti, è l’eccezione che conferma la regola. I documenti del Vaticano II son tutti indicati con la loro sigla abituale: LG per Lumen gentium; GS per Gaudium et spes; DV per Dei verbum; DH per Dignitatis humanae, e così via.
8 - Ho la triste consapevolezza che, a distanza di quasi mezzo secolo dall’ultimo Concilio, ancora non si sia colto di esso una sintesi teologica che ne inquadri l’insegnamento all’interno ed in armonia con l’insegnamento di sempre: con la Tradizione e con lo stesso concetto di essa. Si è indubbiamente parlato in tal senso, ora per auspicare l’accennata sintesi, ora per assicurare che determinate iniziative teologiche - monografie, manuali, articoli, tavole rotonde ed atti di congressi anche ad altissimo livello – s’inseriscano, col Vaticano II, nel solco della Tradizione viva della Chiesa.
Ma, né l’auspicio è realtà, né la realtà è andata oltre il limite della sterile e talvolta ingannevole declamazione. Potrei portare migliaia d’esempi, attingendo direttamente al Vaticano II, ai suoi celebrati interpreti, all’attività della Santa Sede, alle numerose riviste teologiche italiane e straniere, alla valanga di libri ed articoli del c. d. postconcilio, ai già ricordati congressi. Un solo atteggiamento prevale: il plauso. E quando ad esso s’aggiunge una parvenza d’interesse critico, non è per verificare se “l’ermeneutica della continuità” abbia frnalmente smosso le acque, ma per proporre il ridicolo d’accostamenti impossibili, come quello recentemente (15-16 maggio 2009) compiuto da un periodico dal nome glorioso: la “Revue thomiste” e dall’Institut Saint-Thomas d’Aquin di Tolosa (20). Ridicolo, ho detto: non saprei in qual altro modo qualificar un “colloquio” che “si propone di riflettere sul modo con cui l’indirizzo teologico ispirato a san Tommaso d’Aquino possa concorrere ad una ricezione tale del Vaticano II, che onori il Concilio come un atto della Tradizione vivente”. Come se del Concilio bastasse sottolineare “l’aspetto-memoria e l’aspetto-novità” per poter parlare di Tradizione vivente. E come se la memoria fosse di per sé riferibile a fatti di “Tradizione vivente”, e fatti di “Tradizione vivente” venissero in piena luce con la novità. Il colmo, poi, è nella convinzione che ciò possa conseguirsi con l’aiuto di quel san Tommaso d’Aquino che, in tutto il Vaticano II, vien ri¬cordato due sole volte e quasi di passaggio.
È pertanto evidente che, sul concetto cattolico di Tradizione, s’impone un’operazione chiarificatrice. Nella storia della teologia cattolica l’impresa è stata tentata, talvolta egregiamente e qualche altra volta un po’ meno. Mi ci provo anch’io, con l’intento e la speranza d’aggiornare l’argomento.
Dal Vaticano, 31gennaio 2010
Brunero Gherardini
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NOTE
1 - Il fatto avvenuto sulla via di Damasco è noto. In At 9,1-19 si nar¬ra la straordinaria trasformazione del persecutore Saulo nell’apostolo e “vaso d'elezione” Paolo. Sui Dodici, cioè sugli apostoli, cf KREDEL E. M., Apostolo, in BAUER J., (a c. di), Dizionario di Teologia Biblica, ed. italiana a c. di L. Ballarini, Morcelliana, Brescia 1965, p. 127-139; ID., Der Apostelbegriffin der neueren Exegese. Historisch-kritische Darstellung, in “Zeitschrift f. kathol. Theologie” 78 (1956) 266-290, 425-444.
2 - CONC. OECUM. TRIDENT., sess IV (8 apr. 1546) DS 1501; cf CONC. OECUM. VATIC. I, sess. III (24 apr. 1870) DS 3006.
3 - Cf. S. VINCENZO DA LERINS, Commonitorium 23 PL 50,667.
4 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico Vaticano II - Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009. In poco più d’un mese si è provveduto ad una seconda edizione e si stan già ultimando varie traduzioni.
5 - SCHLEIERMACHER Fr., Kurze Darstellung des theologischen Studiums, a c. di H. Scholz sulla terza ed. del 1910, Verlag Olms, Hildesheim 1977, §§ 94-97 e 195-231, p. 40-41 e 73-88.
6 - GHERARDINI B., Concilio Ecumenico…, cit., pp. 130-133
7 - GIOVANNI XXIII, Alloc. 8 dic. 1962 in SEGRETERIA GEN. VA¬TICANO II, Constitutiones, decreta, declarationes, Poliglotta Vaticana 1966, p. 891.
8 - S. TOMMASO, STh 11/2,1,9 ad 2.
9 - A ciò si riferisce il Tridentino distinguendo tra verità di Cristo e dello Spirito Santo.
10 - PIO X, Encicl. “Pascendi dominici gregis”, 8 sett. 1907, ASS 40 (1907) 597-598.
11 - PIO IX, Bolla “Ineffabilis Deus”, 8 dic. 1854, DS 2800-2804.
12 - GHERARDINI B., Lutero-Maria. Pro o contro?, Giardini editori, Pisa 1985, p. 140-147.
13 - S. LEONE MAGNO, Serm 3,3-4 PL 54,146-147.
14 - M. CANO, De locis theologicis lib. XII, Tipogr. Remondiniana, Venezia 1799, spec. p. 4-7.
15 - M. CANO, De locis, cit., p. 4.
16 - RANFT J., Der Ursprung des katholischen Traditionsprinzips, Würzburg 1931, p. 112-113, 248-284.
17 - Ovviamente si dovrebbe far attenzione anche ai manuali di Teologia dogmatica, d’estrazione sia romana che straniera. Quanto all’elenco sopra presentato, si tratta solo d’un piccolissimo “specimen” d’interventi a carattere o storico o dogmatico, non tutti dello stesso valore né tutti dello stesso indirizzo, ma tutti meritevoli della massima attenzione.
18 - Un solo esempio: ZOLLA E., Che cos’è la Tradizione?, Bompiani, Milano 1971. L’opera non è priva d’un suo afflato religioso ed ha soprattutto nella parte esplicativa un’importanza di notevole rilievo. S’oppone - e qui colpisce anche nel segno teologico - ad ogni ricostruzione storicistica della Tradizione, come forma e come contenuto, e difende egregiamente una visione metafisica di essa.
19 - Non si tratta d’un rifiuto, come se i due Concili in parola non avessero una loro dottrina sulla teologia della Tradizione e non avessero avuto un forte influsso sul successivo dibattito teologico. Ne parlerò in fase espositiva e non mancherò di tratteggiare il detto influsso, ricordando pure qualcuno dei teologi che vi s’impegnarono. Questo farò anche per colmare una strana lacuna: né il Beumer né lo Holstein, giustamente ammirati e spesso lodati, son molto sensibili all’influsso del Vaticano I sul concetto di Tradizione.
20 - REVUE THOMISTE - INSTITUT SAlNT-THOMAS D’AQUIN, Vatican II: rupture ou continuité. Les herméneutiques en présence.
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