domenica 30 settembre 2018

L'ERMENEUTICA IMPEDISCE IL GIUDIZIO






Editoriale di "Radicati nella fede" - Anno XI n° 10 - Ottobre 2018



Viviamo ormai da tanti, troppi decenni, in un tempo di riforma perenne della Chiesa.
Non sapremmo nemmeno più definirla, la Chiesa, se non dentro un continuo ed estenuante cambiamento: “chi si ferma è perduto” sembra ironicamente diventato il nuovo e onnicomprensivo comandamento.


Una riforma a tutti i suoi livelli e sotto tutti gli aspetti fu invocata e attuata perché, dicevano, la Chiesa potesse venire in contatto con la società degli uomini in perenne mutamento; perché potesse venire in contatto con essa in modo più libero e puro.


La riforma fu chiesta e poi propagandata per motivi “pastorali”, perché la Chiesa non continuasse ad emarginarsi in un rifiuto della modernità.


È dentro questa urgenza pratico-pastorale che i più si convinsero che bisognasse accettare tutta una serie di riforme-rivoluzioni che, a partire dalla Messa, dovevano mutare completamente il volto della Chiesa di due millenni.


Non è vero che le riforme, queste riforme, fossero attese. Il mondo cattolico ha avuto sempre una “santa pigrizia” nel non cambiare troppo e per secoli l'immutabilità fu insegnata come una delle più importanti caratteristiche della vera Chiesa.


Ma occorreva non perdere il mondo che stava diventando liberale, agnostico e poi socialista; bisognava inoltre non perdere i “fratelli separati” che, nel mentre, distaccati da secoli da una Roma troppo conservatrice, avevano prodotto in tutta libertà tutta una serie di riforme che forse potevano, almeno in parte, essere recepite e valorizzate.


Occorreva cambiare, cambiare... era il mantra ossessivamente ripetuto da più parti cosicché anche i “devoti” non trovarono più le ragioni e la forza per dire di no a quello che apparve subito come uno sconquassamento generale della vita cattolica.


Il mondo laico ne fu stupito e meravigliato, acclamò alla nuova chiesa che finalmente entrava a far parte del mondo delle rivoluzioni.


Così i preti, piangendo alcuni, faticando e pasticciando molti, lieti pochi, mutarono la Messa della loro ordinazione, la Messa dei preti di tutta la cristianità, e diedero inizio alla nuova e mai vista avventura della fondazione di un nuovo tipo di cristianesimo.
Tutto fu chiesto in nome del dialogo col mondo, che doveva finalmente incontrare una chiesa dal volto umano. Forse perché la Chiesa di un tempo non lo aveva avuto questo volto umano? I santi di secoli non avevano avuto un volto umano? Le nostre semplici comunità parrocchiali, quelle delle grandi città e quelle dei borghi agricoli o montani, non erano forse state famiglie umane? Certo che erano umane, anzi umanissime... ed ora in molti iniziano a rimpiangere quella umanità! Ma tutto questo non bastava ai soliti irrequieti dell'evoluzione sociale.


Bisognava accettare di cambiare per aiutare il mondo ad incontrare Cristo, cosi dicevano i devoti guadagnati alla riforma... così fu detto, solo che in nome dell'incontro con il mondo la Chiesa finì per vergognarsi di Cristo.


“L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo” (Paolo VI, 7.12.1965)...


questo fu il programma, più intellettuale che reale... ma ora, a cinquant'anni di distanza, abbiamo il dovere di valutarne gli esiti disastrosi!


Possiamo chiedere ai pastori della Chiesa che considerino il clima di morte regnante nel mondo cattolico? Eresia, banalità ereticali, immoralità sistematica, spegnimento di ogni entusiasmo, clero cattolico in via di estinzione, laicizzazione agnostica del laicato cattolico, aborto normalizzato, eutanasia praticata di fatto, unioni contro natura di fatto benedette da una chiesa che tace, scomparsa del matrimonio cristiano, denatalità spaventosa, ogni genere di vizio ammesso e compreso in nome di un umanesimo ritrovato: erano questi gli esiti attesi dai “cultori dell'uomo”?


Possiamo chiedere ai legittimi pastori di guardare la realtà e di dire una parola che non sia la cura di una chiesa intesa come una azienda da gestire?


Sembra di sentire le risposte di alcuni di loro, i più “impegnati”: “è troppo presto per giudicare un fenomeno così complesso e recente”.


Sì, è la nuova trovata per sottrarsi ad una verifica, che nel caso della nuova chiesa finirebbe per essere senza dubbio impietosa.


Fanno così i pastori ammodernati, simili a degli agenti di cambio nei loro uffici, più politici che credenti, dicono che non si può ancora dare un giudizio, perché devono passare secoli per una verifica seria! Intanto i cristiani muoiono.
I cristiani muoiono, mentre i pastori sono preoccupati dell'unità delle diocesi, cioè che tutti dicano di sì... ma sì a che cosa, se non al nulla, visto che Cristo in quello che chiedono o non si trova, o è perso in mille mediazioni?


Si sono ostinati i novatori, che non amavano più la Chiesa com'era perché non capivano più Cristo e la sua Grazia – non capivano e si tediavano della vita cattolica – si sono ostinati a pretendere il cambiamento e hanno convinto i timidi “devoti”.
Ora gli stessi hanno inventato l'ermeneutica ecclesiasticamente intesa, per sottrarsi al giudizio, a quel giudizio che è la caratteristica del cristiano: “L'uomo spirituale giudica ogni cosa e non è giudicato da nessuno” (I Cor 2,15).


Hanno cavalcato l'ermeneutica e l'hanno ecclesiasticizzata: “è la distanza che crea significato...” ...per interpretare la riforma della Chiesa bisognerà attendere secoli, solo ora iniziamo a capire Lutero, dicono con sfacciataggine!


Invece noi chiediamo un giudizio subito, che parta dalla realtà, che parta da Cristo. Dobbiamo pretenderla la verifica, senza attendere secoli perché, se siamo cultori dell'uomo, sappiamo che l'uomo vive solo di Cristo.


Dobbiamo pretenderlo tutto questo perché le anime vivano della Grazia e la Chiesa torni al suo volto divino, cioè umano.












venerdì 28 settembre 2018

Elogio della balaustra, nonostante i preti simpaticoni



Aurelio Porfiri, 28-09-2018

Ci ho riflettuto molto e sono giunto alla conclusione che la balaustra che separa(va) il presbiterio dalla navata nelle nostre chiese ha un senso. È bene ci sia una separazione. E questa separazione deve essere fisica ma anche simbolica: il sacerdote è alter Christus, non dobbiamo guardare a lui come al termine ultimo di quello che si compie nella Messa. Purtroppo subiamo liturgie piene di “verbalismo” che risultano più o meno gradevoli a secondo di quanto è abile il sacerdote nella sua capacità di intrattenitore.


Ma il sacerdote deve servire il rito, non servirsene. Non deve interessare che sia simpatico, gradevole, divertente come persona. Può anche essere un delinquente (e ce ne sono come in altre professioni) ma quello che si compie non è grazie a lui, ma ex opere operato.


Non c’è necessità che si debba divenire amici con il sacerdote, quello che lui compie non necessita di un nostro rapporto familiare con lui, ma necessità il nostro rapporto stretto con il Signore. Purtroppo questa idea che una Messa è più efficace se il sacerdote è percepito come “friendly” è del tutto sbagliata. Non dobbiamo affidare al sacerdote qualcosa che non gli compete in modo speciale. Egli non è psicologo, ma confessore e direttore spirituale, non è sociologo o antropologo. Non ci è necessario divenire amici dei medici che ci curano. È possibile, ma non indispensabile. Se ci centriamo sul sacerdote rischiamo di cadere in un neo donatismo, per cui i Sacramenti hanno validità se ci piace chi li celebra. Non è proibito essere amici dei sacerdoti, ma non basiamo la nostra fede su quel tipo di rapporto. Questi sacerdoti che “vanno in mezzo all”assemblea” per aumentare la familiarità rischiano che il centro dell’attenzione si sposti su di loro. Non mi deve interessare nome, razza o età: fate quello che il rito vi comanda.


Don Enrico Finotti, in “Il mio e il vostro sacrificio” (Chorabooks 2018) a proposito della balaustra osserva: “Teologicamente deve essere evidente nell’architettura della chiesa la natura gerarchica della celebrazione liturgica: il ministero ordinato sta in modo essenzialmente diverso dall’assemblea dei fedeli davanti al Mistero, agendo in persona Christi Capitis. Quindi non solo mediante l’abito liturgico si devono distinguere i ministri ordinati, ma, secondo la tradizione, anche mediante un luogo loro proprio (il presbiterio), evidentemente distinto dalla navata. Ridurre tale espressione architettonica significa regredire nell’identità dottrinale della fede e rendere meno intelligibile agli occhi dei fedeli la natura gerarchica del popolo di Dio”.


Non ci interessa che il che il sacerdote sia divertente o meno, se è delinquente se ne occupi il diritto canonico e civile. A noi interessa quello che tramite lui è compiuto, malgrado la sua indegnità. Questo solo è importante “propter nostram salutem”.












Fonte 


mercoledì 26 settembre 2018

Sinodo sui giovani. Dietro le quinte, l’insoddisfazione di chi non si sente rappresentato






by Aldo Maria Valli, 26-09-2018

Manca ormai poco all’inizio del sinodo dei vescovi sul tema I giovani, la fede e il discernimento vocazionale (dal 3 al 28 ottobre 2018), ma è una vigilia tormentata.

Le vicende relative agli abusi sessuali hanno spinto due vescovi a scendere in campo: Charles Chaput di Philadelphia ha chiesto al papa di annullare il sinodo, e Robertus Mutsaerts, ausiliare della diocesi di Hertogenbosch, nel sud dell’Olanda, ha scritto al papa spiegando che non si recherà a Roma e proponendo di rinviare il sinodo sui giovani per dedicarne uno alla situazione della Chiesa. In entrambi i casi, alla luce degli scandali, i prelati ritengono che i vescovi in questo momento non abbiano la credibilità sufficiente per rivolgersi ai giovani con richieste di tipo morale.

Ma anche fra gli stessi giovani le acque non sono tranquille. Ne è prova il testo che proponiamo qui. Arriva dal Pakistan ed è opera di una giovane cattolica, Zarish Neno, che vive in quel paese ed esprime un senso di delusione e frustrazione rispetto al documento elaborato dai giovani al termine della fase preparatoria.

Nel documento ufficiale reso noto dal Vaticano (qui la versione integrale in italiano: http://www.synod2018.va/content/synod2018/it/attualita/documento-finale-pre-sinodale-dei-giovani–traduzione-non-uffici.html) i giovani chiedono una Chiesa che sia «sulla strada», attenta ai problemi sociali, ai temi ecologici, all’uso dei media. Ma i giovani del gruppo di lingua inglese che, come Zarish, non si sono sentiti rappresentati da questo testo dicono: noi in realtà abbiamo chiesto altro, e cioè una Chiesa ispirata alla retta dottrina, fedele alla tradizione, custode della legge eterna, attenta alla liturgia; una Chiesa che ci renda capaci di riscoprire il senso del sacro.

Non si tratta di una plateale contestazione, quanto di una puntualizzazione, per far capire che il documento finale, sebbene sia stato presentato come una sintesi delle sollecitazioni arrivate dai giovani, in realtà accoglie le conclusioni di una parte soltanto dei giovani consultati.

I giovani di tutto il mondo che non si sentono rappresentati dal documento spiegano di essersi messi in contatto spontaneamente, a partire dal comune senso di insoddisfazione. È nato così un testo (lo si può leggere qui: http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/07/12/una-risposta-al-documento-finale-del-pre-sinodo-2018/) che, senza voler essere alternativo a quello ufficiale, allarga comunque il campo della riflessione. Vi si parla infatti di «una maggiore adesione e promozione del rispetto della pratica liturgica, sia nelle forme ordinarie che straordinarie della Messa»; di «una pratica rinnovata e migliorata delle antiche devozioni della Chiesa»; di «educazione giovanile più accurata sulla dottrina e i dogmi della Chiesa cattolica».

Per far capire quali sono il tono e i contenuti del testo nato come risposta a quello ufficiale accenno solo alle parti dedicate alla liturgia e alla retta dottrina.

Circa la liturgia si legge: «Come giovani, aneliamo al sacro in un mondo che ci offre il profano, ad un senso e significato più profondo quando ci viene proposta la banalità, alla pace in una realtà che ci conduce alla frenesia. Auspichiamo comunità cattoliche con liturgie che riflettano ciò in cui crediamo: nel Santissimo Sacramento Gesù Cristo è veramente presente per noi. Desideriamo sacralità nella liturgia in omaggio al Signore del mondo che scende a noi nell’Eucaristia per nutrire le nostre anime ed evangelizzare il mondo (…) Molti sacerdoti hanno perso il loro amore per la liturgia. La Messa è concepita come un dovere, un obbligo da adempiere, piuttosto che il gioioso servizio all’unico vero Dio. D’altra parte, altri sacerdoti introducono in maniera impropria le proprie innovazioni liturgiche che sfociano in semplici assemblee, raduni di condivisione o forme d’intrattenimento che mettono al centro le persone e non Dio (…). La sostituzione della musica sacra tradizionale con la moderna musica secolare è un esempio dell’accantonamento della sacralità in favore di espressioni musicali che non sempre sono appropriate al contesto. Per noi, gran parte della musica religiosa moderna utilizzata nella Messa non ha posto nella tradizione della Chiesa e non dovrebbe avere alcun posto nella Messa (…). Ma il nostro timore non si ferma alla progressiva scomparsa della musica sacra. Siamo cresciuti in una cultura ecclesiale che ha, in molti ambienti, profanato il sacro. Siamo stati testimoni di molti altri abusi nelle nostre esperienze, in diversi paesi e parrocchie. La conclusione alla quale è pervenuta la maggior parte dei giovani è che tali episodi stiano diventando aspetti normali del culto cattolico. Mentre i giovani sono quelli che avrebbero dovuto beneficiarne, il risultato generale è stato il contrario, essendo essi stati estromessi da aspetti falsi e superficiali. Questi abusi ci feriscono perché sappiamo che cosa dovrebbe essere la Messa, perché desideriamo il sacro e perché desideriamo che il mondo venga a conoscere veramente Cristo Gesù nel Santissimo Sacramento dell’altare. Banalizzare e abusare della Messa trasmette ai fedeli la percezione che nulla di sacro avvenga».

Ed ecco che cosa scrivono gli autori del documento a proposito della questione della verità e della retta dottrina: «Uno dei maggiori ostacoli che incontriamo nella Chiesa è rappresentato da chi, tra i suoi membri, stempera e annacqua i suoi insegnamenti, e preferisce proporre l’incontro con un “Cristo accondiscendente” (una falsa immagine di Cristo che non ci mette in discussione, né rimprovera, ma che accetta sorridente il nostro peccato) invece che l’incontro con il Cristo autentico. I giovani cercano e desiderano la verità. Sappiamo che un vero incontro con Cristo è un’esperienza che trasforma, e riteniamo dannoso proporre una versione di Cristo che non ci provoca (nella sua accezione positiva di mettere in discussione spronando al cambiamento) né ci rinnova. Coloro che auspicano che la Chiesa cambi o diluisca i suoi precetti morali o sociali, pur armati di buone intenzioni, falliscono nella comprensione di ciò di cui abbiamo desiderio e necessità. Aspiriamo all’incontro con il Cristo che ci mette in discussione, e non qualcuno dal quale ci sentiamo dire che non abbiamo bisogno di cambiare. Noi non vogliamo il passivo, sorridente “Cristo accondiscendente”, che si mostra accomodante verso le tendenze peccaminose del mondo invece di invitarlo alla santità attraverso l’amore per Lui e l’osservanza dei suoi comandamenti. Noi non desideriamo alcun annacquamento o alterazione degli insegnamenti della Chiesa. Rifiutiamo completamente l’idea che la Chiesa debba cambiare la sua dottrina per soddisfare le esigenze del mondo. Noi desideriamo che la Chiesa adempia al suo carisma di ammaestramento predicando la verità con audacia, senza vergogna e revisioni, anche se ciò comportasse essere respinti dal mondo. La Chiesa non è una pagina di Facebook che tenta d’accaparrarsi il maggior numero possibile di “like” cercando d’essere “moderna” o “alla moda”; la Chiesa è maestra di Verità. Il modo più efficace per danneggiare o addirittura distruggere la fede nei giovani è quello di promuovere una falsa e fuorviante distorsione della verità in un tentativo di acquisire popolarità. Noi desideriamo che la Chiesa sia popolare, perché tutti conoscano l’amore di Cristo. Tuttavia, se dobbiamo scegliere tra popolarità e autenticità, scegliamo l’autenticità».

Ma ora lascio la parola alla giovane del Pakistan Zarish Neno, che ci racconta le difficoltà incontrate e la nascita del testo che risponde a quello ufficiale. Testo che doveva comprendere due parti, ma si è fermato alla prima, perché gli autori, davanti alle più recenti notizie sugli abusi nella Chiesa, hanno perso lo slancio.

*

Vi spiego perché la Chiesa ci allontana
Nel mese di marzo 2018 si è tenuto a Roma un incontro pre-sinodale. Vi hanno partecipato trecento giovani da tutto il mondo. A tutti coloro che non hanno potuto partecipare è stato chiesto di aggiungersi ai gruppi creati su Facebook, diversi gruppi in lingue diverse, onde poter discutere e rispondere alle quindici domande che erano state poste ad ogni gruppo. Io faccio parte del gruppo di lingua inglese.

Anche se il tempo per rispondere alle domande era molto poco, ognuno di noi ha contribuito dando la sua risposta e facendo le nostre osservazioni. Però, quando è uscito il documento finale, che doveva essere il sunto delle nostre riflessioni, ci siamo accorti che non vi erano esposte le osservazioni e i pensieri che il nostro gruppo aveva espresso. Ci siamo sentiti delusi e non presi in considerazione, perché le conclusioni riportate non riflettevano ciò che noi avevamo manifestato.

Quel documento non ci rappresenta perché tante cose che avevamo scritto sono state ommesse o cambiate. Quando abbiamo chiesto chiarimenti circa i cambiamenti che non riflettevano le nostre posizioni, i responsabili del nostro gruppo di lingua inglese ci hanno accusato di essere «una lobby».

Posso confermare che noi non siamo una lobby e non abbiamo alcun interesse politico o religioso. Siamo solo giovani che hanno riposto molte speranze in questo sinodo e perciò ci sentiamo tristi e delusi. Ma la nostra preoccupazione non è stata presa bene da questo gruppo e per questo ci siamo riuniti insieme per parlare e discutere le nostre preoccupazioni.

Dopo ciò che è accaduto, proprio perché non ci siamo sentiti rappresentati dal gruppo di Facebook originario, abbiamo creato, sempre su Facebook, un altro gruppo che si chiama A Response to the Final Document of the Pre-Synod 2018. Attualmente siamo 188 membri, di ogni parte del mondo. In più abbiamo ricevuto 276 richieste di giovani che hanno chiesto di aggiungersi. All’inizio avevamo sei amministratori per questo gruppo: due dagli Stati Uniti, due dalla Polonia, uno dalla Cina e uno dal Pakistan (che sono io). Poi un amministratore ha dovuto lasciare per ragioni personali, ma ha continuato a partecipare al gruppo.

Allora, prima abbiamo discusso le cose che non abbiamo trovato giuste nel documento finale, poi abbiamo deciso di scrivere la risposta in due parti. Dopo aver fatto una buona ricerca, diciassette di noi, con il feedback di ogni membro del gruppo, hanno scritto la prima parte di questa risposta. L’abbiamo pubblicata il giorno della festa di Pentecoste. Il documento originale è in inglese ma con l’aiuto dei amici italiani l’abbiamo tradotto anche in italiano.

Una volta pubblicata la prima parte della nostra risposta, tutti noi abbiamo cercato di condividerla con i vescovi e i cardinali delle nostre rispettive diocesi. Abbiamo anche cercato di raggiungere i media in modo che più persone potessero leggerla.

Sfortunatamente la nostra risposta ha ricevuto più critiche che feedback positivi, ma a prescindere da ciò abbiamo iniziato a lavorare sulla seconda parte che doveva essere pubblicata nella festa del Corpus Domini. Purtroppo non siamo riusciti a farlo in tempo poiché la seconda parte della risposta era più complessa. Infine siamo stati in grado di finirla, ma aveva ancora bisogno di alcune correzioni. Un collega ha preso la responsabilità di apportare le correzioni. Ma durante questo periodo, mentre il nostro collega stava correggendo, molti scandali relativi alla Chiesa sono emersi attraverso i mass media ed è stato pubblicato l’Instrumentum laboris del sinodo, un testo che da molti non è stato preso bene e ha creato molte polemiche.

Le notizie sugli scandali hanno rallentato il ritmo del nostro lavoro e ogni volta che chiedevo ai miei colleghi a che punto fosse la seconda parte del documento dicevano che non avevano trovato il tempo, ma soprattutto che avevano pensato che non c’era più motivo di lavorare. Per loro era «troppo tardi». Alcuni di noi hanno provato a motivarsi a vicenda, ma potevo vedere che qualcosa non andava.

I mesi passavano e la seconda parte della risposta non era pronta. Ho avuto la sensazione che i miei colleghi avessero rinunciato.

Qualche giorno fa, quando ho chiesto loro se pubblicheremo la seconda parte, uno ha affermato che non c’è più bisogno di pubblicare la seconda parte a causa di tutti gli scandali di cui si parla nei media. A questo punto non ho più insistito e ho scelto di lasciarlo stare.

Però mi sono sentita molto triste, perché mesi fa questi stessi colleghi erano molto decisi a pubblicare una risposta, per difendere la Verità e far sentire la propria voce. Alcuni rimasero svegli fino alle quattro del mattino per lavorare su questa risposta, altri si incontrarono da punti diversi ed estremi del mondo, e adesso all’improvviso avevano rinunciato a tutto.

Così ho visto quanto poco spazio rimanga in questo mondo per la Verità.

Il motivo di questo sinodo era quello di ascoltare i giovani e aprire la Chiesa a loro. La Chiesa voleva avvicinarsi ai giovani, ma sembra che li abbia semplicemente allontanati.

Ricordo quanto ero emozionata quando sentii che la Chiesa voleva dedicare il prossimo sinodo ai giovani. Ma ora mi chiedo se la Chiesa in realtà abbia voluto ciò che ha detto all’inizio. Perché chiaramente sembra che non sia vero.

Ci sono così tante sfide per i giovani nel mondo di oggi e questa esperienza non fa altro che peggiorare le cose per loro.

Credo che ora i giovani continueranno a partecipare alla Santa Messa, ma la loro fiducia nella Chiesa rimarrà sempre influenzata da questa esperienza. Mi viene in mente la parabola della pecora smarrita. Il pastore lascia le sue novantanove pecore per andare a cercare quella che è smarrita. Ma non vedo nessuno che viene a cercare queste pecore smarrite. Pecore che non sono smarrite perché non hanno seguito il loro Pastore, ma perché il Pastore non si è preso cura di loro.

È triste vedere i giovani arrendersi dopo che hanno avuto grandi speranze dal sinodo.

Tutto ciò che rimane ora è la preghiera! Preghiamo affinché la Chiesa ed i suoi leader siano in grado di vedere che cosa stanno facendo.

*

Ecco, prima che il sinodo abbia inizio è giusto sapere quali fermenti e quali contrasti si sono verificati tra i giovani che hanno preso parte alla fase preparatoria. Anche all’interno del mondo giovanile non tutti si sentono rappresentati dalle formule che vanno per la maggiore nella Chiesa di oggi, dove spesso tengono banco le idee di vecchi che furono giovani negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Cioè in un altro mondo.

Aldo Maria Valli











martedì 25 settembre 2018

“Per amore del mio popolo non tacerò”





by Aldo Maria Valli, 25-09-2018

Tra le voci che in questi giorni si sono levate per esprimere dissenso nei confronti dell’accordo fra Santa Sede e Cina sulla nomina dei vescovi c’è stata, e non avrebbe potuto essere diversamente, quella del cardinale Joseph Zen, che dall’alto della sua esperienza e dei suoi ottantasei anni ha detto: «Il Vaticano sta svendendo la Chiesa cattolica».

Lo stile diretto e tagliente fa parte del bagagliaio caratteriale e culturale di Zen, uno degli ultimi grandi vecchi della Chiesa cattolica. Arriva dunque a proposito il libro Per amore del mio popolo non tacerò. Ricordando il decimo anniversario della Lettera di Papa Benedetto alla Chiesa in Cina (Chorabooks, Hong Kong 2018), nel quale il cardinale salesiano, vescovo di Hong Kong dal 2002 al 2009, esprime tutto il suo amore per la Chiesa e, proprio in virtù di questo amore, non nasconde la drammaticità della situazione attuale e lo sconcerto per le ultime scelte del Vaticano.

Zen mette a nudo le profonde incomprensioni che stanno accompagnando il cammino della riconciliazione fra Chiesa cattolica e governo comunista cinese. Un cammino che secondo il cardinale, cinese e profondo conoscitore della Cina, rischia di trasformarsi in un fallimento a causa di un accordo che sfavorisce enormemente la Chiesa e punisce i membri della Chiesa clandestina, coloro cioè che, a prezzo di enormi sofferenze e a volte della vita stessa, non hanno mai accettato di entrare nelle organizzazioni ufficiali e hanno già pagato duramente la fedeltà alla Sede apostolica.

Riflettendo sulla Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI (27 maggio 2007), il cardinale Zen porta alla luce la strategia verso la Cina attuata dalla Chiesa cattolica negli ultimi decenni, un cammino all’interno del quale non sono mancati momenti luminosi, ma numerosi sono stati i fallimenti, denunciati con chiarezza da un testimone diretto degli eventi.

A rischio è la libertas Ecclesiae, svenduta pur di poter dire che con Pechino si è giunti finalmente a un’intesa. In tempi in cui le persecuzioni religiose si intensificano, ci si chiede quanto sia ragionevole siglare un accordo che non sembra veramente vantaggioso per le ragioni dell’evangelizzazione.

Il cardinale afferma verso la fine del libro: «I signori del Vaticano … ricordino che il potere comunista non è eterno! Se oggi vanno dietro il regime, domani la nostra Chiesa non sarà benvenuta per la ricostruzione della nuova Cina. In questo momento tutto il mondo vede un terribile peggioramento per la libertà religiosa in Cina. C’è da sperare qualche guadagno nel venire a patti con questo governo? Quando dico che è quasi come sperare che San Giuseppe possa ottenere qualcosa da un dialogo con Erode, non è una battuta”.

Ma che cosa si può sperare di buono se uno dei consiglieri più ascoltati dal Papa, monsignor Marcelo Sánchez Sorondo, parla della Cina come di una sorta di paradiso in terra?

Allora che cosa si deve fare?

Risponde il cardinale: “Tornare alla Lettera di Papa Benedetto, all’inizio della quale egli prega il Signore perché “abbiate una piena conoscenza della sua volontà… rafforzandovi con ogni energia secondo la sua gloriosa potenza per poter essere forti e pazienti in tutto”».

Scritti prima dell’accordo del quale abbiamo avuto notizia nei giorni scorsi, i testi raccolti nel libro parlano dell’intesa come di una possibilità da evitare, il che rende il libro ancora più esplicito.

«A noi – scrive Zen – si presenta uno scenario terrificante, una svendita della nostra Chiesa! Non una libertà essenziale, ma una parvenza di libertà. Non una unità ricostituita, ma una convivenza forzata nella gabbia. Dal punto di vista della fede non vediamo nessun guadagno» . Come giudicare un guadagno, infatti, un accordo che di fatto concede al governo cinese l’aberrante diritto di scegliere i vescovi e condanna la Chiesa sotterranea a una vita perenne nelle catacombe? Come giudicare un guadagno l’accordo con chi da un lato si siede al tavolo della trattativa e dall’altro distrugge le chiese e imprigiona religiosi e fedeli?

E che cosa succederà se il candidato vescovo proposto dalla Cina sarà rifiutato dal papa?

Quanto al perdono che la Santa Sede, pur di arrivare all’accordo, ha deciso di concedere ai sette vescovi illegittimi e scomunicati (due dei quali non vivono il celibato), Zen esclama: «Non sembrava possibile che si arrivasse a tale disprezzo dell’ufficio episcopale!».

Proprio in questi giorni un vescovo cinese, che resta anonimo, scrive su Asianews: «Non c’è fiducia nel Partito, e ci preoccupa la poca conoscenza del Vaticano per quanto riguarda il Partito comunista cinese».

E, sempre su Asianews, scrive il padre Sergio Ticozzi, grande esperto di Cina e missionario del Pime: «Il governo cinese approfitta dell’emotività di papa Francesco, e sa che se ora il Vaticano è pronto a riconoscere vescovi con amante e figli, obbedienti innanzitutto ad esso e pedine politiche fin dal seminario, in futuro non farà problemi ad accettare ogni candidato che le autorità cinesi proporranno e per le diocesi da loro fissate».

Tra le ultime parole del libro del cardinale Zen ci sono queste: «In una mia recente lettera ho scritto a Papa Francesco: “Se le cose che i suoi ‘collaboratori’ stanno macchinando saranno realtà, le conseguenze saranno tragiche e durature, non solo per la Chiesa in Cina, ma per tutta la Chiesa cattolica”».

Se si vuole capire che cosa sta succedendo fra Vaticano e Cina, non si può mancare di leggere questo libro che è anche un inno alla Verità.

Aldo Maria Valli






lunedì 24 settembre 2018

La lingua della Chiesa: il latino, davanti al quale il demonio si dilegua





Come mai noi che ci sentiamo una popolazione civile, che ci gloriamo della nostra cultura, abbiamo tollerato che sparisse da noi quello che era, in fondo, il fondamento della nostra vita spirituale?
Una volta qui in Italia si studiava latino nelle scuole, a partire dalle Medie inferiori; ora solo in pochi licei. Il latino è stato bandito dalle nostre scuole, e ancor più dalle nostre chiese. Ma se si rompe il legame con i Padri – della Patria, se si vuole, e soprattutto della Chiesa – si perde l’identità e ci si sente come orfani. Di chi siamo figli? O non siamo figli di alcuno? Sia come italiani, sia come fedeli nella Chiesa, la lingua latina era quello che manifestava una precisa identità culturale e religiosa. Conoscere il latino significava attingere la linfa vitale della nostra cultura dalle proprie radici.

Come una pianta non vive se le foglie non si nutrono dei sali minerali che provengono dal terreno, così anche la nostra generazione – che non nasce come un fungo dal nulla – si perde se smarrisce il contatto con il proprio passato. Se questo è vero per un popolo e una cultura, tanto più è vero per la santa Chiesa di Dio, che da quando ha rigettato il latino ha smarrito una profonda unità e la ricchezza della comunicazione liturgica. La liturgia della Chiesa infatti non è rivolta al mondo e tanto meno consiste in un dialogo col mondo: è rivolta a Dio. Nella liturgia della Chiesa gli uomini si rivolgono al Padre eterno e lo pregano affinché Egli continui a donare al mondo non solo benedizione e pace, ma soprattutto il Salvatore (il Figlio) e lo Spirito Santo. Dio non ha lingua: egli intende tutti gli idiomi e soprattutto il linguaggio del cuore; siamo noi uomini che dobbiamo entrare in questo “atto” divino e parteciparvi intensamente per ricevere tutto il dono che Dio ha preparato per noi, ossia Egli stesso nel suo Corpo, Sangue, anima e divinità. Tutto ciò si esprime perfettamente in una lingua che non è affatto “morta”, ma ben viva se si pensa che attraverso quelle parole e quei canti noi entriamo realmente in un rapporto vivo e drammatico con il Signore Gesù.


Si prega meglio in italiano o nelle lingue locali?
Queste ultime si usano e si sono sempre usate nella preghiera personale, nella comunicazione intima con Gesù risorto, ma nella liturgia è la comunità, è la Chiesa intera che si esprime, si innalza, si pone come la “Sposa” che implora dallo Sposo ogni bene.


Nella Messa e nella liturgia non sono solo io-singolo,
che vado a Dio, ma sono io-Chiesa che supplico e prego per tutti. E per entrare meglio in questo Mistero il latino è incomparabilmente un mezzo più adeguato, provato, sacro.


Quando io nacqui mi ritrovai in una Chiesa che parlava italiano
, cantava italiano, suonava italiano con chitarre e organi elettrici. Le canzoni di Chiesa avevano la stessa melodia, più o meno, delle canzoni di Sanremo. Non protestai, perché tutti facevano così e dicevano che andava bene. Ma, crescendo, ho cambiato opinione. Mi sono imbattuto nel canto gregoriano. All’inizio mi era ostico. Poi vi entrai pian piano, ed ora non riesco più a cantare altro. Non è “fissazione”, ma la scoperta di un tesoro. Ne sono stato sempre più attratto. Quando mi fu dato in mano un Kyriale per cantare le Messe in gregoriano, inizialmente non feci caso ad un numero scritto in piccolo in caratteri romani che si trova in alto a destra. In alcuni casi era la X, che è il numero 10. Mi fu poi spiegato che cosa significasse; era il secolo in cui quel canto era stato composto. Fu per me una folgorazione: quel Kyrie veniva cantato, così come mi era giunto tra le mani, da più di mille anni! Quanti monaci, quanti fedeli avevano usato quel Kyrie? Innumerevoli, e in ogni parte del mondo. Quello stessissimo Kyrie è stato allora cantato da san Bernardo, da san Francesco, dalle mistiche renane, da santa Teresa di Gesù, da san Giovanni Bosco; è stato cantato dai contadini scozzesi e nelle missioni del Burkina Faso, da Vescovi e popolani, da Papi e donne di casa, in cattedrali e in pievi sperdute, in chiese di bambù e in altari da campo. Mi domandavo se un canto come, ad esempio, Tu sei la mia vita altro io non ho, che facciamo oggi nelle nostre parrocchie, potrà reggere il logorio di un millennio, e se sarà ancora cantato nelle chiese tra mille anni… Non credo.


E noi abbiamo gettato via tutto per… che cosa?
Perso il latino, perso il gregoriano, è sgretolata l’unità.


Diranno senza dubbio che questa è un’esagerazione
e che l’unità si fonda su ben altri valori. Certamente anche la Chiesa che celebrava le Messe in latino e cantava in gregoriano non era perfetta, e i peccati ci sono sempre stati; ma questo non è un argomento probante. Faccio solo il confronto tra quello che era e che abbiamo perduto, e quello che siamo e non abbiamo guadagnato. Nella lingua locale non viene espresso meglio il rapporto con Dio e la partecipazione all’ «atto liturgico». La Messa è un evento, un fatto, un atto: non mio, ma di Dio. In quell’atto io sono chiamato ad entrare e parteciparvi, ricevendo, in modo passivo (ma della passività terribile che è la fede, ossia l’accoglienza del Mistero) il Corpo di Cristo e la salvezza eterna. Nella lingua locale tende a prevalere invece la concettualizzazione, la comprensione della singola parola, a discapito del Mistero, della sacralità e della parola evocativa. La Messa nella lingua locale è divenuta più un parlato che un fatto, una seduta piena di suoni piuttosto che un ingresso nella Realtà. Dicono anche che nella Messa in lingua latina le persone non capivano nulla e le vecchine recitavano il Rosario durante la Messa. Sante vecchine! Lo facessero anche oggi, sarebbe una benedizione. Nelle fasi di silenzio adorante della Messa, mentre il sacerdote recitava sotto voce delle preghiere al Padre, ma a nome di tutto il popolo, la vecchina metteva tutto il suo cuore e la sua fede dicendo mentalmente o sottovoce «Ave Maria». È un peccato, questo? Oggi non si dice il Rosario durante la Messa, ma la testa sovente va altrove, perché quello che dice il sacerdote nelle omelie è sovente insipido e noioso, e la distrazione durante il rimanente della Messa assale… Ci si può distrarre anche durante la preghiera eucaristica, seppur detta in italiano, durante l’elevazione e anche dopo la Comunione.


È interessante notare, infine, quello che dicono diversi esorcisti:
quando essi fanno le preghiere in italiano, secondo il nuovo rituale distribuito qualche anno fa ad uso degli esorcisti, non succede nulla; mentre se passano agli esorcismi che si facevano fino a poco tempo fa, in latino (e che parole potenti venivano usate!), allora il maligno si scatena. Curioso: il demonio conosce assai bene il latino, e lo teme. Evidentemente egli ne sa di più dei liturgisti odierni. Il demonio, così, fa da ottimo sponsor per il ritorno della lingua sacra nella liturgia. Quando sarà che il latino, con i meravigliosi canti gregoriani, gettato fuori dalla porta, rientrerà finalmente dalla finestra?


Ci salveranno le vecchie zie, intitolava Leo Longanesi un suo saggio, ripreso come titolo poi da Gnocchi e Palmaro. Chissà che per il latino invece non ci salvino il demonio e le sante vecchiette col rosario in mano. 


[Fonte: Europa cristiana by MiL]










domenica 23 settembre 2018

Card. Zen sull'accordo Cina-Vaticano: Dire niente con tante parole





di Card. Joseph Zen Ze-kiun, 22/09/2018



Hong Kong (AsiaNews) - Sulla notizia della firma dell'accordo provvisorio fra Cina e Santa Sede sulla nomina dei vescovi, che è stato firmato oggi, il vescovo emerito di Hong Kong, card. Joseph Zen, ha fatto pervenire ad AsiaNews la seguente dichiarazione:

Un capolavoro: dire niente con tante parole!

Il comunicato, tanto atteso, della Santa Sede è un capolavoro di creatività nel dire niente con tante parole.

Dice che l’accordo è provvisorio, senza dire la durata della sua validità; dice che prevede valutazioni periodiche, senza dire quando sarà la prima scadenza.

Del resto qualunque accordo può dirsi provvisorio, perché una della due parti può sempre aver ragione per chiedere una modifica od anche l’annullamento dell’accordo.

Ma la cosa importante è che se nessuno chiede di modificare od annullare l’accordo, questo, anche se provvisorio, è un accordo in vigore. La parola “provvisorio” non dice niente.

“L’accordo tratta della nomina dei Vescovi”. Questo la Santa Sede ha già detto tante volte, da tanto tempo. Allora qual’è il risultato della lunga fatica. Qual’è la risposta alla nostra lunga attesa? Non si dice niente! È segreto!?

Tutto il comunicato si reduce a queste parole “C’è stata la firma di un accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi”. Tutto il resto sono parole senza senso.

Allora quale messaggio la Santa Sede intende mandare ai fedeli in Cina con questo comunicato? “Abbiate fiducia in noi, accettate quel che abbiamo deciso”(?)

E che cosa dirà il governo ai cattolici in Cina? “Obbedite a noi, la Santa Sede è già d’accordo con noi”(?)

Accettare ed obbedire senza sapere che cosa si deve accettare, in che cosa si deve obbedire? Una obbedienza “tamquam cadaver” nel linguaggio di Sant’Ignazio?

Siamo particolarmente preoccupati di sapere: “la nomina dei Vescovi” include anche la legittimazione dei sette? Include anche la rinomina dei Vescovi della Comunità “clandestina” presentati questa volta dal Governo? E quelli che non accettano tale rinomina, non rimane che essere riconoscenti al governo per riconoscerli finalmente come Vescovi Emeriti?











venerdì 21 settembre 2018

Instrumentum laboris o Instrumentum doloris?






by Aldo Maria Valli, 21-09-2018

Chi è alla ricerca di un rimedio per l’insonnia potrebbe provare a usare l’Instrumentum laboris, o «documento di lavoro», per la XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che si terrà a Roma il mese prossimo sul tema Giovani, fede e discernimento vocazionale.

Che il ponderoso documento possa aiutare chi soffre d’insonnia non lo dico io: lo dice George Weigel (https://www.firstthings.com/web-exclusives/2018/09/saving-synod-2018-from-itself), il quale, su First Things, non esita a definire il testo «un mattone», un grosso e noiosissimo «fermaporta» pieno di luoghi comuni sociologici ma del tutto carente di intuizioni spirituali o teologiche.

L’Instrumentum laboris, in effetti, dice poco o nulla sulla fede e sembra uscito dalla penna di qualcuno che prova un certo imbarazzo di fronte all’insegnamento cattolico.

Il filo conduttore è l’ascolto: la Chiesa non dovrebbe far altro che ascoltare. Ma a quale scopo? La risposta è che si tratta di aiutare a discernere, accompagnare e camminare insieme ai giovani. Tuttavia non si dice mai, o si dice in modo assai contorto, dove tutto questo ascolto, questo discernere, questo accompagnare e questo camminare dovrebbero condurre.

«Un testo gigantesco come questo – osserva Weigel – non può seriamente essere considerato una base di discussione per il sinodo. Nessun testo di oltre trentamila parole, anche se scritto in uno stile scintillante e irresistibile, può essere una guida alla discussione».

In effetti qui di scintillante non c’è niente. In compenso c’è un refrain che torna in continuazione, una sorta di mantra che il documento vuole inculcare nella mente del malcapitato lettore: quello della «Chiesa in uscita». Ma che cosa significa?

Uno dei passi in cui sembra arrivare una spiegazione (siamo nella sezione Il discernimento come stile di una Chiesa in uscita) si esprime così: «In questa prospettiva, “scegliere” non significa dare risposte una volta per tutte ai problemi incontrati, ma innanzi tutto individuare passi concreti per crescere nella capacità di compiere come comunità ecclesiale processi di discernimento in vista della missione».

Chiaro, no?

Ed ecco qui la spiegazione della spiegazione: «In questo movimento la Chiesa non potrà che assumere il dialogo come stile e come metodo, favorendo la consapevolezza dell’esistenza di legami e connessioni in una realtà complessa ma che sarebbe riduttivo considerare composta di frammenti, e la tensione verso una unità che, senza trasformarsi in uniformità, permetta la confluenza di tutte le parzialità salvaguardando l’originalità di ciascuna e la ricchezza che essa rappresenta per il tutto».

Ha ragione Weigel: fa dormire. Ma fa anche venire il mal di testa.

Quindi, si chiede Weigel (e il sottoscritto con lui) che cosa potrebbero fare i partecipanti al sinodo del prossimo ottobre per avere una discussione degna di questo nome e non la semplice ripetizione di formule sulla Chiesa in uscita, il discernimento e l’accompagnamento?

Beh, prima di tutto potrebbero sfidare l’affermazione, ripetuta nell’Istrumentum laboris fino alla nausea, secondo la quale i giovani vogliono una «Chiesa che ascolti». Che i giovani, ma anche i meno giovani, vogliano una Chiesa capace di ascoltare è del tutto ovvio, ma soprattutto vorrebbero una Chiesa capace di dare risposte. Ciò che i giovani, ma anche i meno giovani, desiderano, specie in un’epoca così confusa come la nostra, è che la Chiesa insegni chiaramente, indichi che cos’è la santità, dica in modo rigoroso e onesto qual è la strada per la salvezza eterna.

I partecipanti al sinodo, suggerisce poi Weigel, potrebbero anche sottolineare che i giovani d’oggi non sono attratti dalle analisi in sociologhese (nelle quali si avverte il retrogusto del linguaggio usato dai figli del Sessantotto), ma da un insegnamento pienamente cattolico, specie sui temi della vita. E cattolico vuol anche dire pulito, fresco, privo di ambiguità, diverso dall’incoerenza e dalla confusione dilaganti.

Purtroppo, al contrario, l’Instrumentum laboris «tradisce un inacidito senso di incapacità, persino di insuccesso», e in effetti sembra scritto da qualcuno che non crede, o crede molto poco, alla possibilità che la Chiesa abbia davvero qualcosa da dire ai giovani. In nessuna pagina si trovano motivi di speranza, né si dice mai che i giovani del nostro tempo non chiedono un generico accompagnamento, ma risposte solide in termini dottrinali e morali, così da poter davvero orientare la propria vita. E non si fa menzione delle tante esperienze spirituali che giovani di ogni parte del mondo vivono proprio all’insegna di una ricerca spirituale seria, consapevole, fondata non sulla sociologia ma sulla legge divina.

Quando il documento parla di identità sembra quasi che se ne vergogni, per cui ecco l’espressione «identità dinamica». Ma che vuol dire? Sentiamo: l’identità dinamica è quella che «spinge la Chiesa in direzione del mondo, la rende Chiesa missionaria e in uscita, non abitata dalla preoccupazione di essere il centro, ma da quella di riuscire, con umiltà, a essere fermento anche al di là dei propri confini, consapevole di avere qualcosa da dare e qualcosa da ricevere nella logica dello scambio di doni».

Essere fermento di che cosa e per che cosa? Quali i doni da dare e da scambiare? Perché andare in direzione del mondo? Per arrivare a che cosa? Non si dice.

Al centro del sinodo ci sarà, o ci dovrebbe essere, l’idea di vocazione. Dal documento preparatorio, dunque, uno si aspetterebbe espressioni tali da far apprezzare la chiamata di Dio. E invece ecco come una parola bella e ricca quale «vocazione» viene spenta e resa quasi antipatica dalla prosa in sociologhese: «Nella fase della giovinezza prende corpo la costruzione della propria identità. In questo tempo, segnato da complessità, frammentazione e incertezza per il futuro, progettare la vita diventa faticoso, se non impossibile. In questa situazione di crisi, l’impegno ecclesiale è molte volte orientato a sostenere una buona progettualità. Nei casi più fortunati e laddove i giovani sono più disponibili, questo tipo di pastorale li aiuta a scoprire la loro vocazione, che rimane, in fondo, una parola per pochi eletti e dice il culmine di un progetto».

Viene voglia di fare coraggio all’anonimo estensore del documento: ehi amico, forza, non abbatterti, in fondo la vocazione è una cosa bella! Sursum corda!

Ma è inutile aspettarsi qualche sprazzo di entusiasmo. Al lettore sono propinate soltanto formule da Comitato centrale del Pcus buonanima. Tipo questa: «Per essere generativo l’accompagnamento al discernimento vocazionale non può che assumere una prospettiva integrale». Applausi dei compagni delegati. E mal di testa in aumento.

Domanda: e se invece di produrre questo mattone indigeribile, questo Instrumentum doloris, si fosse pubblicata la vita di una santo, o magari di più santi? Certamente i giovani avrebbero capito molto meglio che cos’è la vocazione e quanto possa essere bella.

Il documento stesso, proprio alla fine, in un sussulto di resipiscenza (sebbene con il solito stile da grigio comunicato del Soviet supremo), lo riconosce: «Merita anche ricordare che accanto ai “Santi giovani” vi è la necessità di presentare ai giovani la “giovinezza dei Santi”. Tutti i Santi, infatti, sono passati attraverso l’età giovanile e sarebbe utile ai giovani di oggi mostrare in che modo i Santi hanno vissuto il tempo della loro giovinezza. Si potrebbero così intercettare molte situazioni giovanili non semplici né facili, dove però Dio è presente e misteriosamente attivo. Mostrare che la Sua grazia è all’opera attraverso percorsi tortuosi di paziente costruzione di una santità che matura nel tempo per tante vie impreviste può aiutare tutti i giovani, nessuno escluso, a coltivare la speranza di una santità sempre possibile».

Oh, ecco! Bastava dire questo (magari con un pochino di entusiasmo in più) e il gioco era fatto, senza ricorrere a trentamila sfumature di grigio.

Ma forse sarebbe sembrato un messaggio un po’ troppo cattolico.

Aldo Maria Valli










giovedì 20 settembre 2018

Di sinodalità si può morire






La nuova Costituzione apostolica "Episcopalis Communio" sembra ratificare un grave equivoco sul significato dei Sinodi, ovvero che siano i sinodi a produrre la verità e non viceversa. Ma oggi il vero problema della Chiesa è l’episcopato, vale a dire la perdita del senso di cosa significhi essere successore degli Apostoli.


di Stefano Fontana, 20-09-2018

Bisogna chiedersi se di sinodalità si possa anche morire
. C’è forse oggi un concetto più ambiguo di questo? Se la sinodalità vuol dire ascoltarsi, ascoltare insieme, camminare insieme, decidere insieme, con-venire … sfocia in situazioni vuote di senso o ambigue: ascoltare chi e cosa? Camminare insieme verso dove? Con-venire perché?

Sulla sinodalità incombe l’ombra del proceduralismo
o, se vogliamo, del metodo senza i contenuti. La sinodalità vera è data dai contenuti non dai metodi. È la verità a fare la sinodalità e non viceversa. È la verità che ci fa camminare insieme, non siamo noi che, camminando insieme e solo per il fatto di camminare insieme, facciamo la verità. La verità non si fa, è essa che ci fa essere e che ci fa fare. Una Chiesa che convoca continuamente sinodi non è per questo più sinodale. Una Chiesa che intimamente e silenziosamente colloquia nello Spirito di Verità e nella dottrina della fede è più sinodale di una che produce questionari per ascoltare il “popolo di Dio” e che sforna in continuità documenti assembleari.

Quante sciocchezze si sentono negli incontri cosiddetti sinodali
. Sciocchezze che non perdono tale loro caratteristica solo perché sono dette con sinodalità. Quante sciocchezze abbiamo sentito dire nei due sinodi del 2014 e 2015 che non hanno perso tale loro carattere per il fatto di essere state dette da dei Padri sinodali. Troppo facile chiamare in causa lo Spirito Santo solo per il carattere di apparente sinodalità delle nostre riunioni, se poi le nostre riunioni non esprimono la verità della dottrina cattolica.

Abbiamo assistito a sinodi diocesani da cui sono uscite bestialità dottrinali
sulle quali l’ordinario del luogo non ha detto una parola per non opporsi allo Spirito che avrebbe soffiato sul quel sinodo. Assisteremo a sinodi universali sulle cui sciocchezze il Papa non dirà una parola per non intralciare il soffio dello Spirito che si sarebbe fatto sentire alle orecchie sensibili dei Padri Sinodali? Sinodi diversi potranno dire cose dottrinalmente diverse basandosi sulla propria sinodalità?

La sinodalità, si dice ora, deve nascere dal basso
. Bisogna prima ascoltare il “popolo di Dio”. Mi chiedo: nel modo indecente con cui è stato ascoltato nella fase preparatoria dei sinodi del 2014 e 2015? Con dei questionari che, per la maggior parte dei casi, erano stati compilati dal parroco? E se fossero stati compilati dall’inner circle del parroco invece che dal parroco solo, avrebbero espresso il “popolo di Dio”? Eppoi chi è il “popolo di Dio” e cosa bisogna essere o fare per appartenervi ed essere consultati? La Chiesa discente è diventata Chiesa docente? Nessuna valorizzazione dei laici implica questo. Spero di non essere mai consultato in questa forma e per questi motivi. Se lo fossi mi rifiuterei.

Una cosa del genere non ha niente a che fare con il principio teologico del sensus fidei
presente nei fedeli in virtù del battesimo, ha piuttosto a che fare con le indagini demoscopiche taroccate da chi le propone per far emergere i dati che egli desidera. Dovremmo ascoltare i consigli pastorali diocesani? Per farlo bisognerebbe non sapere come essi vengono composti e costituiti. Da dove dovrebbe derivare una loro presunta attitudine ad esprimere “il popolo di Dio”? Eppoi, c’è un popolo di Dio senza i pastori o prima dei pastori e senza una verità o dottrina della fede che è costitutiva della Chiesa stessa?

Nel 1972 Karl Rahner chiedeva una Chiesa “dal basso”
, “democratica”, “declericalizzata”, una Chiesa “aperta”, ossia fondata sullo stare insieme più che sui contenuti di verità di questo stare insieme, una Chiesa “sinodale” con organismi di condivisione, ascolto e partecipazione formati dal basso e che non si limitassero a consigliare il Papa su determinati argomenti, lasciando poi a lui l’ultima parola, ma che avessero capacità deliberative in materia di dottrina e di morale e che fossero quindi ad ogni titolo “magistero”. La sinodalità è la via per realizzare questo progetto di nuova Chiesa nella quale prevale il processo del camminare insieme più che i contenuti veritativi?

Oggi il vero problema della Chiesa è l’episcopato
, vale a dire la perdita del senso di cosa significhi essere successore degli Apostoli. Che non vuol dire produrre sinodalità ma dare testimonianza della Verità, il che poi produrrà anche unità nella Chiesa. Non vuol dire convocare assise sinodali e poi che dicano quello che vogliono, pensando che l’abbia ispirato lo Spirito Santo. Non vuol dire pronunciare una parola solo se gli altri vescovi della Conferenza episcopale regionale sono d’accordo, altrimenti non si procederebbe in sinodalità: l’episcopato non è una corporazione.

La sinodalità blocca la testimonianza della verità
, prima di tutto da parte di tanti vescovi e abitua ad un positivismo sinodale: quanto è detto “insieme” è per ciò stesso vero. Quello che dice il singolo vescovo, se non assume il metodo sinodale, non è vero ed è guardato con sospetto. Per questo molti vescovi non dicono più niente. Per questo un vescovo non dirà mai che quanto dice un altro vescovo è sbagliato. La sinodalità spesso diventa omertà.

Ecco alcuni pensieri che mi sono venuti alla testa
leggendo la Costituzione apostolica Episcopalis communio di Papa Francesco. Ma forse, anzi con ogni probabilità, sbaglio io, che non sono il Papa: nell’imminente week-end me la dovrò rileggere con attenzione.











venerdì 14 settembre 2018

Commemorazione di Mons. GHERARDINI: Messa da Requiem - sabato 22 settembre a Prato









L'amico Rodolfo Abati ci ha inviato la presente comunicazione.

In occasione del primo anniversario della morte di Monsignor Brunero Gherardini sarà celebrata una Santa Messa da Requiem in suffragio del compianto teologo. Riprende la pubblicazione della Rivista Divinitas.



Il 22 settembre 2017 motiva a Roma Monsignor Brunero Gherardini, illustre figlio della Chiesa di Prato. La sua è stata una lunga vita interamente spesa, nel mistero del sacerdozio cattolico, a servizio di Dio e della Chiesa, della ricerca teologica, della difesa della Verità, senza mai cedere a mode transitorie o lusinghe mondane. Lunghi anni di insegnamento alla Pontificia Università Lateranense, anche nel periodo difficile della contestazione e della messa in discussione, una notevole produzione scientifica, una generosa disponibilità a servire la Chiesa universale in vari Dicasteri della Curia romana, un grande zelo sacerdotale hanno contrassegnato la sua vita.

Allievo e amico di Monsignor Antonio Piolanti, uno dei più grandi tomisti e teologi del Novecento, oggi purtroppo ingiustamente dimenticato dai più, ne fu successore in varie attività: nel presiedere varie Accademie Teologiche Romane, nella Postulazione della causa di beatificazione di Pio IX, nella direzione di alcune prestigiose riviste teologiche, tra le quali si deve ricordare per importanza e diffusione, Divinitas (di cui ereditò proprietà e direzione dallo stesso Mons. Piolanti). Purtroppo nel 2014 l’avanzare dell’età costrinse Mons. Gherardini a sospendere proprio la pubblicazione di questa prestigiosa rivista internazionale di ricerca e di critica teologica; sospensione che avveniva con l’auspicio che presto si trovasse un nuovo direttore che garantisse la continuità editoriale e di ricerca della testata. 

Nel 2015, a Prato, in occasione dei festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno, espresse il suo fermo desiderio di cedere proprietà e direzione della rivista al suo antico allievo e ora valido collaboratore: Mons. Rudolf Michael Schmitz. A tale scopo chiese ad alcuni amici di Prato di portare avanti, per suo conto, l’iter burocratico di tale atto, che doveva essere rogato presso l’ufficio legale del Governatorato, essendo lui cittadino vaticano. La pratica richiese alcuni mesi di lavoro, sia per le condizioni di salute di Gherardini sia per la lontananza dei vari “attori” di tale operazione. Nel giugno del 2016 Mons. Gheradini ebbe la gioia di firmare, nel suo appartamento nel Palazzo dei Canonici, l’atto di donazione a Mons. Schmitz, avendo come testimoni gli amici pratesi che lo avevano aiutato in questa impresa. Una realtà alla quale teneva in maniera particolare era passata, per sua volontà, nelle mani sicure di un suo fedele e competente collaboratore: la gioia del venerando teologo era palpabile ed il suo sguardo limpido e cristallino aveva, quel giorno, una luce particolare.

Con particolare gioia e commozione, Mons. Schmitz, in questi giorni consegna nelle mani dei lettori di Divinitas il nuovo numero, che riprende la pubblicazione della prestigiosa rivista, e lo fa, ad un anno dalla morte, con un numero monografico in memoriam di Mons. Brunero Gherardini. Il miglior modo per ricordare la profondità e la vastità della sua ricerca teologica e onorarne la memoria tenendone vivo il ricordo.

Proprio sabato 22 settembre, in occasione del primo anniversario della morte del compianto teologo, per iniziativa dell’amico Mons. Vittorio Aiazzi, presso la chiesa del Sacro Cuore di Gesù in Prato, alle ore 10.30, Mons. Schmitz celebrerà una solenne Messa da Requiem in suffragio di Mons. Gherardini. Presteranno servizio liturgico Chierici e Seminaristi dell’Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote, a cui Gherardini fu sempre legato da sentimenti di particolare stima ed affetto. Amicizia che datava dalla fondazione dell’Istituto e che continuò sincera e generosa fin oltre l’approvazione definitiva del Diritto Pontificio.

I tanti amici e allievi che hanno goduto della sapienza e dell’umanità del compianto teologo avranno così l’occasione di ricordarlo nella preghiera e di veder continuata la sua opera di ricerca teologica a servizio della Chiesa Cattolica.







giovedì 13 settembre 2018

Georg Gänswein: "Quello che oggi viviamo è solo il crinale di un cambiamento d’epoca"




[L’11 settembre 2018, a Roma, presso Palazzo Montecitorio, si è svolta una presentazione del volume di Rod Dreher, L’opzione Benedetto. Una strategia per i cristiani in un mondo post-cristiano (trad. it., Edizioni San Paolo, Milano 2018). Nel corso della conferenza, S.E. Mons. Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia, ha svolto una relazione, il cui testo in lingua italiana riproduciamo qui integralmente.]


MERCOLEDÌ 12 SETTEMBRE 2018


Ringrazio cordialmente per l’invito alla Camera, che ho accettato volentieri, a presentare il volume di Rod Dreher che viene dall’America e del quale avevo già sentito molto parlare. Benedetto da Norcia, il padre del monachesimo al quale il libro deve il suo titolo programmatico, mi ha molto stimolato a venire qui oggi. Ma mi ha anche molto toccato e commosso la data in cui ci incontriamo con il valoroso autore qui a Roma.


Perché oggi è l’11 settembre che in America, dall’autunno del 2001 in poi, viene chiamato solo e semplicemente “Nine/Eleven”, per ricordare quella sciagura apocalittica nella quale allora membri dell’organizzazione terroristica Al Qaida, attaccarono gli Stati Uniti d’America a New York e a Washington di fronte agli occhi del mondo intero, utilizzando come granate degli aerei di linea dirottati in volo pieni di passeggeri.


Quanto più, nel turbine di notizie delle ultime settimane, mi curvavo sul libro di Rod Dreher, tanto più – a seguito della pubblicazione del rapporto del Grand Jury della Pennsylvania – in questo nostro incontro non potevo non scorgere un vero e proprio atto della Divina Provvidenza: oggi, infatti, anche la Chiesa cattolica guarda piena di sconcerto al proprio “Nine/Eleven”, al proprio 11 settembre, anche se questa catastrofe non è purtroppo associata a un’unica data, quanto a tanti giorni e anni, e a innumerevoli vittime.


Vi prego di non fraintendermi: non intendo confrontare né le vittime né i numeri degli abusi nell’ambito della Chiesa cattolica con le complessive 2.996 persone innocenti che l’11 settembre persero la vita a seguito degli attentati terroristici alWorld Trade Center e al Pentagono.


Nessuno (fino ad ora) ha attaccato la Chiesa di Cristo con aerei di linea pieni di passeggeri. La Basilica di San Pietro è in piedi e così anche le cattedrali in Francia, in Germania o in Italia che continuano a rappresentare l’emblema di molte città del mondo occidentale, da Firenze a Chartres, passando per Colonia e Monaco di Baviera.


E tuttavia, le notizie provenienti dall’America che ultimamente ci hanno informato di quante anime sono state ferite irrimediabilmente e mortalmente da sacerdoti della Chiesa cattolica, ci trasmettono un messaggio ancor più terribile di quanto avrebbe potuto essere la notizia dell’improvviso crollo di tutte le chiese della Pennsylvania, insieme alla “Basilica del Santuario Nazionale dell'Immacolata Concezione” a Washington.


Dicendo questo, ricordo come se fosse ieri quando il 16 aprile 2008, accompagnando Papa Benedetto XVI proprio in quel Santuario Nazionale della Chiesa cattolica negli Stati Uniti d’America, egli in modo toccante cercò di scuotere i vescovi convenuti da tutti gli Stati Uniti: parlava chino per la “profonda vergogna” causata “dall’abuso sessuale dei minori da parte di sacerdoti” e “dell’enorme dolore che le vostre comunità hanno sofferto quando uomini di Chiesa hanno tradito i loro obblighi e compiti sacerdotali con un simile comportamento gravemente immorale”.


Ma evidentemente invano, come vediamo oggi. Il lamento del Santo Padre non riuscì a contenere il male, e nemmeno le assicurazioni formali e gli impegni a parole di una grande parte della gerarchia.


E ora Rod Dreher è qui fra noi e inizia il suo libro con queste parole: “Nessun vide arrivare l’alluvione, un autentico diluvio universale”. Nei suoi ringraziamenti, egli esprime particolare gratitudine a Benedetto XVI. E a me sembra che abbia scritto ampie parti del libro quasi in un dialogo silenzioso con il Papa emerito che tace, rifacendosi alla sua forza profetico-analitica, come ad esempio quando scrive:


“Nel 2012 l’allora Pontefice disse che la crisi spirituale che sta colpendo l’Occidente è la più grave dalla caduta dell’Impero Romano, occorsa verso la fine del V secolo. La luce del cristianesimo sta spegnendosi in tutto l’Occidente.”


Perciò vi prego di permettere di seguito anche a me di accompagnare la presentazione dell’“Opzione Benedetto” di Rod Dreher con parole prese dalla bocca di Papa Benedetto XVI, pronunciate durante il suo ministero, che per me sono rimaste indimenticabili e che nel corso della lettura del libro mi sono via via ritornate in mente: ad esempio quelle dell’11 maggio 2010, quando durante il volo papale verso Fatima egli confidò ai giornalisti:


“Il Signore ci ha detto che la Chiesa sarebbe stata sempre sofferente, in modi diversi, fino alla fine del mondo. [...] Quanto alle novità che possiamo oggi scoprire (in questo terzo segreto del messaggio di Fatima), vi è anche il fatto che non solo da fuori vengono attacchi al Papa e alla Chiesa, ma le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall’interno della Chiesa, dal peccato che esiste nella Chiesa. Anche questo si è sempre saputo, ma oggi lo vediamo in modo realmente terrificante: che la più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa.”


In quel momento egli era Papa già da cinque anni. E più di cinque anni prima – il 25 marzo 2005 – nel corso della Via Crucis al Colosseo, di fronte a Giovanni Paolo II morente, nella meditazione della nona stazione, il Cardinale Ratzinger aveva già trovato le seguenti parole:


“Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? Quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci!”


In precedenza, Giovanni Paolo II ci aveva insegnato che il vero e compiuto ecumenismo è l’ecumenismo dei martiri, per il quale nelle nostre angustie possiamo invocare santa Edith Stein, accanto a Dietrich Bonhoeffer, quali nostri intercessori in Cielo. Ma, come nel frattempo sappiamo, esiste anche un ecumenismo delle difficoltà e della mondanizzazione, e un ecumenismo dell’incredulità e della comune fuga da Dio e dalla Chiesa che attraversa tutte le confessioni. E un ecumenismo del generale oscuramento di Dio. Per questo quello che oggi viviamo è solo il crinale di un cambiamento d’epoca che Dreher profeticamente già un anno fa aveva presentato in America. Aveva visto arrivare la grande alluvione!


E tuttavia egli è anche fermo sul fatto che eclissi di Dio non significa affatto che Dio non c’è più, ma che molti non riconoscono più Dio perché di fronte al Signore si sono frapposte delle ombre che lo oscurano. Oggi sono le ombre dei peccati, dei misfatti e dei delitti dall’interno della Chiesa a oscurare a molti la vista della sua luminosa presenza.


Quella Chiesa popolare nel cui seno ancora noi stessi nascemmo e che così come si ebbe in Europa non ci fu in America, nell’avanzare di questo processo di oscuramento è morta da tempo. Il tono vi sembra eccessivamente drammatico?


Drammatici sono i numeri relativi alle uscite dalla Chiesa
. Ma ancor più drammatico è un altro dato ancora: secondo gli ultimi rilevamenti, dei cattolici in Germania che ancora non sono usciti dalla Chiesa, solo il 9,8% la domenica si incontra nelle rispettive Case di Dio per la comune celebrazione della santissima Eucaristia.


Ancora una volta questo mi riporta alla mente le parole di Benedetto XVI pronunciate durante il primo Viaggio dopo la sua elezione. Era il 29 maggio 2005 quando, sulle rive del mar Adriatico, rivolgendosi a un pubblico prevalentemente di giovani venuti ad ascoltarlo, ricordò che la domenica, quale “Pasqua settimanale”, è “espressione dell’identità della comunità cristiana e centro della sua vita e della sua missione”. Il tema scelto dal Congresso eucaristico (“Senza la domenica nonpossiamo vivere”) lo riportava però indietro, disse il Papa, all’anno 304, quando l’imperatore Diocleziano proibì ai cristiani, sotto pena di morte, di possedere le Scritture, di riunirsi la domenica per celebrare l’Eucaristia e di costruire luoghi per le loro assemblee. E proseguì:


“Ad Abitene, una piccola località nell’attuale Tunisia, 49 cristiani furono sorpresi una domenica mentre, riuniti in casa di Ottavio Felice, celebravano l’Eucaristia sfidando così i divieti imperiali. Arrestati, vennero condotti a Cartagine per essere interrogati dal Proconsole Anulino. Significativa, tra le altre, la risposta che un certo Emerito diede al Proconsole che gli chiedeva perché mai avessero trasgredito l’ordine severo dell'imperatore. Egli rispose: "Sine dominico non possumus": cioè senza riunirci in assemblea la domenica per celebrare l’Eucaristia non possiamo vivere. Ci mancherebbero le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere. Dopo atroci torture, questi 49 martiri di Abitene furono uccisi. Confermarono così, con l’effusione del sangue, la loro fede. Morirono, ma vinsero: noi ora li ricordiamo nella gloria del Cristo risorto”.


Che significa?


Significa che quello che noi ancora da bambini, nelle così dette Chiese popolari, avevamo conosciuto come il così detto “obbligo domenicale”, in realtà è il più prezioso segno distintivo dei cristiani. E che è più antico di tutte le Chiese popolari. È dunque veramente una vera crisi degli ultimi tempi quella nella quale la Chiesa cattolica si trova immersa ormai da tempo; una crisi, però, che credettero di percepire nei loro giorni anche mia madre e mio padre – “vedere l’abominio della desolazione stare nel luogo santo” – e che d’altronde forse ogni generazione nella Storia della Chiesa ha scorto al proprio orizzonte.


Ultimamente, però, ci sono stati giorni in cui mi sono sentito come riportato indietro ai giorni della mia fanciullezza – nella fucina di mio padre nella Foresta nera, al suono dei colpi di martello sull’incudine che sembravano non finire mai, e tuttavia questa volta senza mio padre, delle cui mani sicure mi fidavo come di quelle di Dio.


In questa sensazione evidentemente non sono solo. In maggio, infatti, anche Willem Jacobus Eijk, cardinale arcivescovo di Utrecht, ha ammesso che, guardando all’attuale crisi, pensa alla “prova finale che dovrà attraversare la Chiesa” prima della venuta di Cristo – descritta dal paragrafo 675 del Catechismo della Chiesa cattolica – e che “scuoterà la fede di molti credenti”. “La persecuzione – continua il Catechismo – che accompagna il pellegrinaggio della Chiesa sulla terra svelerà il ‘mistero di iniquità’.”


Con questo “mysterium iniquitatis” Rod Dreher ha la familiarità di un’esorcista
, come ha dimostrato con le sue ricostruzioni degli ultimi mesi, con le quali anch’egli ha favorito – forse come nessun altro giornalista più di lui – la rivelazione dello scandalo dell’ex arcivescovo di Newark e Washington. E tuttavia Dreher non è un giornalista investigativo. E nemmeno un visionario, ma un sobrio analista che da tempo segue in modo vigile e critico la condizione della Chiesa e del mondo, ma nonostante questo mantenendo comunque sul mondo lo sguardo amorevole di un bambino.


Per questo Dreher non presenta un romanzo apocalittico come il famoso “Signore del mondo” con il quale nel 1906 il presbitero inglese Robert Hugh Benson scosse il mondo anglosassone. Il libro di Dreher, invece, assomiglia più a delle istruzioni pratiche e praticabili per la costruzione di un’arca: perché egli sa che non c’è alcuna diga con la quale si possa ancora arginare la grande alluvione; un’alluvione che non solo da ieri è in procinto di inondare l’antico Occidente cristiano al quale per lui è ovvio che appartiene anche l’America.


Da qui emerge subito con chiarezza una triplice differenza fra Dreher e Benson: in primo luogo, da americano autentico qual è, Dreher è più pratico dell’alquanto bizzarro britannico di Cambridge nell’epoca precedente alla Prima guerra mondiale. Inoltre, da cittadino della Louisiana, Dreher è per così dire a prova di uragano. E infine egli non è affatto un religioso, ma un laico che cerca di conquistare anime al Regno di Dio che Gesù Cristo ha annunciato per noi non sulla base di un incarico ingiuntogli da altri, quanto sulle ali di un entusiasmo e di una volontà assolutamente personali. In questo senso è un uomo che corrisponde completamente al desiderio e al gusto di Papa Francesco, perché nessun altro a Roma quanto lui sa che la crisi della Chiesa, nel suo nocciolo, è una crisi del clero.


E che dunque è scoccata l’ora dei laici forti e decisi
, soprattutto nei nuovi mezzi di comunicazione cattolici indipendenti, esattamente come incarnati da Rod Dreher.


La leggerezza del suo stile narrativo va evidentemente ricondotta all’universo della più nobile tradizione degli Stati Unitidell’America meridionale ai quali Mark Twain ha conferito un rango universale. Prima ho detto che ultimamente mi sono sentito più volte rivisto nella fucina di mio padre, al suono dei suoi colpi di martello sull’incudine: e devo ammettere a riguardo che la lettura semplice e scorrevole di questo libro importante e significativo mi ha di continuo riportato al mondo avventuroso della mia fanciullezza, quando bambino sognante correvo dietro a Tom Sawyer e al suo amico Huck’ Finn.


In Rod Dreher, al contrario, non si tratta di sogni, ma di fatti e analisi che egli condensa in una frase come questa: “L’Uomo psicologico… ora è padrone della cultura – come senza dubbio gli Ostrogoti, i Visigoti, i Vandali e altri popoli conquistatori si impadronirono di ciò che restava dell’Impero Romano.”


Oppure in quest’altra: “I nostri scienziati, i nostri giudici, i nostri principi e i nostri scribi – sono tutti quanti all’opera per demolire la fede, la famiglia, il genere, persino quel che significa essere umani. I nostri barbari hanno barattato le pelli animali e le lance del passato in cambio di vestiti firmati e telefoni cellulari.”


Il terzo capitolo inizia con queste parole: “Tornare indietro nel tempo non si può, ma tornare a Norcia sì”.


Poco dopo prosegue così, in modo profeticamente attuale e tuttavia per nulla malizioso: “La leggenda vuole che, in una disputa con un cardinale, Napoleone gli avesse fatto notare che aveva il potere di distruggere la Chiesa.


‘Maestà’, replicò il cardinale, ‘noi, il clero, abbiamo fatto del nostro meglio per distruggere la Chiesa negli ultimi milleottocento anni. Non ci siamo riusciti noi, e non ce la farete nemmeno voi’”
.


“Quattro anni dopo aver cacciato i Benedettini da quella che era la loro casa da quasi un millennio, l’impero di Napoleone era in rovina, e lui era in esilio. Oggi si può nuovamente sentire il suono del canto gregoriano nella città natale del santo.”



In quella stessa Norcia però si udì anche il boato profondo del grande terremoto che nell’agosto del 2016 scosse la città e che in pochi secondi ridusse in macerie la Basilica di san Benedetto, ad eccezione della facciata. Pressappoco nello stesso periodo violenti nubifragi inondavano la città natale di Rod Dreher sul corso superiore del Mississippi. Due drammatiche scene chiave che, come in una sceneggiatura divina, stanno rispettivamente all’inizio e alla fine del suo libro, quasi fossero illustrazioni di un’unica tesi che Dreher nel primo capitolo formula così: “La realtà della nostra situazione è davvero allarmante, ma non ci è concesso di vedere istericamente tutto nero. In questa crisi è iscritta una benedizione nascosta, se vogliamo aprire gli occhi per vederla. [...] La tempesta incombente potrebbe essere un mezzo attraverso il quale Dio ci libera.”


Negli ultimi giorni spesso all’interno della Chiesa si è sentito ripetere il concetto di terremoto associandolo a quel crollo per il quale, come affermo, ora anche la Chiesa ha sperimentato il suo “Nine/Eleven”, il suo 11 settembre.


Rod Dreher invece descrive la risposta dei monaci di Norcia alla catastrofe che ha ridotto in macerie il monastero nel luogo di nascita di san Benedetto con poche parole che sento l’obbligo di leggervi, per quanto sono significative ed eloquenti:


“I monaci benedettini di Norcia sono diventati un segno per il mondo in tanti modi che non prevedevo, quando cominciai a scrivere questo libro. Nell’agosto 2016, un terremoto devastante scosse la loro regione. Quando la scossa arrivò nel bel mezzo della notte, i monaci erano svegli a pregare il mattutino e fuggirono dal monastero riparando per sicurezza nella piazza aperta.

Più tardi, padre Cassiano rifletté che il terremoto simboleggiava lo sbriciolarsi della cultura cristiana dell’Occidente, ma che c’era un secondo simbolo di speranza quella notte: ‘Il secondo simbolo erano le persone raccolte attorno alla statua di san Benedetto, in piazza, per pregare’, scrisse ai sostenitori. ‘È l’unico modo di ricostruire’”.

Dopo questa testimonianza di padre Cassiano vorrei confidarvi che anche Benedetto XVI dal momento della sua rinuncia si concepisce come un vecchio monaco che, dopo il 28 febbraio 2013, sente come suo dovere dedicarsi soprattutto alla preghiera per la Madre Chiesa, per il Suo successore Francesco e per il Ministero petrino istituito da Cristo stesso.


Perciò, con riguardo all’opera di Dreher, quel vecchio monaco dal monastero Mater Ecclesiae dietro la Basilica di San Pietro rimanderebbe a un discorso che l’allora Papa in carica tenne al Collège des Bernardins di Parigi il 12 settembre 2008 – cioè esattamente domani di dieci anni fa – di fronte alla élite intellettuale di Francia. Per queste ragioni vorrei presentarvi brevemente questo discorso citandone alcuni passi.


Nel grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione dei popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva lentamente formata una nuova cultura, disse allora Benedetto XVI, e si chiese: “Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione creare una cultura e nemmeno conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo ‘escatologico’. Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo. […] Quaerere Deum, cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda su Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.”


Sin qui Benedetto XVI, il 12 settembre 2008, sulla vera “Opzione” di san Benedetto da Norcia. Così che, sul libro di Dreher, non mi resta che da dire questo: non contiene una risposta pronta. In esso non troverete una ricetta infallibile o un passepartout per riaprire tutte quelle porte che finora ci erano accessibili ma che adesso sbattendo si sono di nuovo chiuse. Fra la prima e l’ultima di copertina troverete però un esempio autentico di quello che Papa Benedetto dieci anni fa disse sullo spirito benedettino degli inizi. È un vero “Quaerere Deum”. È quella ricerca del vero Dio di Isacco e di Giacobbe che, in Gesù Cristo, ha mostrato il suo volto umano.


Per questo qui mi viene in mente un’altra frase ancora del capitolo 4,21 della Regola di San Benedetto che in egual modo e tacitamente attraversa e anima l’intero libro di Dreher, come fosse il suo cantus firmus. Sono le leggendarie parole “Nihil amori Christi praeponere” che, tradotte, significano: Nulla si anteponga all’amore per Cristo. È la chiave alla quale si deve l’intera meraviglia del monachesimo occidentale.


Benedetto da Norcia è stato un faro durante la migrazione dei popoli, quando nei rivolgimenti del tempo salvò la Chiesa e rifondando con ciò in certo senso la civiltà europea.


Ora però viviamo nuovamente da decenni – e non solo in Europa, ma su tutta la terra – una migrazione dei popoli che mai più giungerà a una fine, come ha chiaramente riconosciuto Papa Francesco appellandosi con insistenza alla nostra coscienza. Anche questa volta dunque non tutto è diverso rispetto ad allora.


Così, se questa volta la Chiesa con l’aiuto di Dio non saprà ancora rinnovarsi, ne andrà di nuovo dell’intero progetto della nostra civiltà. Per molti, tutto porta a credere già oggi che la Chiesa di Gesù Cristo non potrà più riprendersi dalla catastrofe dei suoi peccati che rischia quasi di inghiottirla.


E proprio questa è l’ora in cui Rod Dreher da Baton-Rouge in Louisiana presenta il suo libro nei pressi delle tombe degli Apostoli; e, nel mezzo dell’eclissi di Dio che atterrisce in tutto il mondo, viene in mezzo a noi e dice: “La Chiesa non è morta, ma solamente dorme e riposa”.


E non soltanto questo: la Chiesa “è giovane” sembra anche dirci, e con quella gioia e quella libertà con le quali lo disse Benedetto XVI nella Messa per l’inizio del ministero petrino il 24 aprile 2005. Ricordando ancora una volta la sofferenza e la morte di san Giovanni Paolo II del quale era stato collaboratore per così tanti anni, rivolgendosi a ognuno di noi in Piazza San Pietro disse:


“Proprio nei tristi giorni della malattia e della morte del Papa questo si è manifestato in modo meraviglioso ai nostri occhi: che la Chiesa è viva. E la Chiesa è giovane. Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro. La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto. Nel dolore, presente sul volto del Santo Padre nei giorni di Pasqua, abbiamo contemplato il mistero della passione di Cristo ed insieme toccato le sue ferite. Ma in tutti questi giorni abbiamo anche potuto, in un senso profondo, toccare il Risorto. Ci è stato dato di sperimentare la gioia che egli ha promesso, dopo un breve tempo di oscurità, come frutto della sua resurrezione”.


Non potrà indebolire o distruggere questa verità sull’origine della fondazione della Chiesa universale cattolica per mezzo del Signore risorto e vincitore nemmeno il satanico 11 settembre di essa.


Per questo devo ammettere con sincerità che percepisco questo tempo di grande crisi, oggi evidente a tutti, soprattutto come un tempo di grazia; perché alla fine a “farci liberi” non sarà un particolare sforzo qualsiasi, ma la “verità”, come il Signore ci ha assicurato. In questa speranza guardo alle recenti ricostruzioni di Rod Dreher per la “purificazione della memoria” richiestaci da Giovanni Paolo II; e così, grato, ho letto la sua “Opzione Benedetto” come una, per molti versi, fonte di ispirazione meravigliosa. Nelle ultime settimane quasi nient’altro mi ha dato così tanta consolazione.


Vi ringrazio per la vostra attenzione.




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