lunedì 24 dicembre 2018

LA NASCITA DI CRISTO nelle visioni della Beata Emmerick






Beata Caterina Emmerick

Lo splendore che irradiava la Santa Vergine diveniva sempre più fulgido, tanto da annullare il chiarore delle lampade accese da Giuseppe. La Madonna, inginocchiata sulla sua stuoia, teneva il viso rivolto ad oriente. Un'ampia tunica candida priva di ogni legame cadeva in larghe pieghe intorno al suo corpo. Alla dodicesima ora fu rapita dall'estasi della preghiera, teneva le mani incrociate sul petto. Vidi allora il suo corpo elevarsi dal suolo. Frattanto la grotta si illuminava sempre più, fino a che la Beata Vergine fu avvolta tutta, con tutte le cose, in uno splendore d'infinita magnificenza. Questa scena irradiava tanta Grazia Divina che non sono in grado di descriverla. Vidi Maria Santissima assorta nel rapimento per qualche tempo, poi la vidi ricoprire attentamente con un panno una piccola figura uscita dallo splendore radioso, senza toccarla, né sollevarla.

Dopo un certo tempo vidi il Bambinello muoversi e lo udii piangere. Mi sembrò che allora Maria Santissima, sempre Vergine, ritornando in se stessa, sollevasse il Bambino e l'avvolgesse nel panno di cui l'aveva ricoperto. Alzatolo dalla stuoia, lo strinse al petto. Sedutasi, la Madonna si avvolse col Fanciullo nel velo e col suo santo latte nutri il Redentore. Vidi una fitta schiera di figure Angeliche nelle spoglie umane genuflettersi al suolo e adorare il Neonato divino; erano sei Cori angelici entro un alone di fulgida luce abbagliante.

Un'ora circa dopo il parto, Maria chiamò Giuseppe, che se ne stava ancora assorto nella preghiera. Lo vidi avvicinarsi e protendersi umilmente, mentre guardava in modo gioioso e devoto il Bambino Divino. Solo quando la santa Consorte gli ripeté di stringere al cuore con piena riconoscenza il dono dell'Altissimo, egli prese il Bambino tra le braccia e lodò il Signore con lacrime di gioia. La Vergine allora avvolse il Bambinello nei pannolini, vidi che lo ricoprì dapprima con un panno rosso, poi lo avvolse in uno bianco fino alle ascelle, mentre avvolse la testolina in un altro ancora. La Madonna aveva con sé solo quattro pannolini. Vidi allora Maria e Giuseppe seduti al suolo; non parlavano ma parevano assorti nella meditazione. Bello e raggiante vidi il Santo Neonato tutto fasciato disteso sulla stuoia, mentre Maria lo contemplava. A quella vista esclamai: "Questo Corpicino è la salvezza dell'universo intero". Poco dopo la santa Coppia pose il divino Neonato nella mangiatoia, che era stata riempita di ramoscelli e di fini erbette, e gli adagiarono una coperta sul corpicino. Deposto il Bambino in questa culla, che si trovava più in basso del posto dove era stato partorito, la santa Coppia pianse di gioia e cantò le lodi del Signore. Giuseppe dispose il giaciglio e la seggiola della Santa Vergine vicino al presepe. Vidi Maria Santissima, prima e dopo il parto, sempre velata e biancovestita; nei primi giorni, subito dopo l'Evento, stava seduta o inginocchiata, dormiva su un fianco e mai la vidi ammalata o affaticata. Quando qualcuno veniva a visitarla si velava ancor più accuratamente e se ne stava diritta sul posto dove era avvenuta la santa Nascita.



BUON NATALE!











domenica 23 dicembre 2018

LETTERA DI UNA DONNA PER DIRE GRAZIE, A NATALE, AI SACERDOTI INTEGRI E FEDELI







Lettera pubblicata sul blog di Marco Tosatti il 23 dicembre 2018.

Cari Stilumcuriali, mi ha scritto una donna che non conosco personalmente, chiedendo se fosse possibile pubblicare una lettera che le era maturata in cuore per dire grazie ai sacerdoti integri e fedeli che in questi tempi di tempesta e confusione cercano di tenere salda la barra della loro barca nella fede a Gesù il Cristo e alla Sua Chiesa. Mi ha colpito per la sincerità degli accenti, e ve la passo volentieri. (M. Tosatti)


Sig. Tosatti,

Le chiedo, qualora sia possibile, di pubblicare la presente lettera quale atto di ringraziamento e riconoscenza per il dono dei Sacerdoti e l’occasione per augurare a tutti loro, un lieto e fecondo Natale.

Mi sono chiesta più volte in questi giorni che ci avvicinano al Santo Natale, costellati di dolorosi dibattiti nel ‘mondo cattolico’ fra contese e confusione dottrinale, se qualcuno avesse trovato il tempo per fermarsi un istante e pensare che i Sacerdoti sono il segno visibile della sacralità del Natale, i Pastori del gregge che adora il “Bambinello”, gli uomini di buona volontà che con il Sacramento dell’Ordine Sacro, hanno accolto la chiamata a conformarsi a quel vincolo di carità con Gesù, divenendo Alter Christus. Al riguardo così leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica all’articolo 1536:“l’Ordine è il Sacramento grazie al quale la missione affidata da Cristo ai suoi Apostoli continua ad essere esercitata nella Chiesa sino alla fine dei tempi: è, dunque, il Sacramento del ministero apostolico […]”.

Alter Christus, il Sacerdote è profondamente unito al Verbo del Padre, che incarnandosi pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò Se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò Se stesso facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce (Fil.2).

I Sacerdoti sono dunque i Ministri di Dio, i Suoi Ministri! E noi laici battezzati, quante volte li abbiamo ringraziati per il loro servizio di amore e abnegazione? Chiediamocelo…

Questo Sacerdozio, ci insegna il Catechismo al punto 1551, è un ufficio che il Signore ha affidato ai Pastori del Suo popolo, un vero servizio interamente riferito a Cristo e agli uomini che dipende interamente da Cristo e dal Suo unico Sacerdozio, ed è stato istituito in favore degli uomini e della comunità della Chiesa. Il Sacramento dell’Ordine comunica «una potestà sacra», che è precisamente quella di Cristo. L’esercizio di tale autorità deve dunque misurarsi sul modello di Cristo, che per amore si è fatto l’ultimo e il servo di tutti. «Il Signore ha esplicitamente detto che la sollecitudine per il Suo gregge era una prova di amore verso di Lui».

Ma la presenza di Cristo nel Ministro non deve essere intesa come se costui fosse premunito contro ogni debolezza umana, lo spirito di dominio, gli errori, persino il peccato, e infatti esistono molti atti in cui l’impronta umana del Ministro lascia tracce che non sono sempre segno della fedeltà al Vangelo e che, di conseguenza, possono nuocere alla fecondità apostolica della Chiesa (CCC 1550).

Sua Santità Benedetto XVI, nell’udienza generale in piazza San Pietro il 24 giugno 2009,ci ha ricordato che “il santo Curato d’Ars ripeteva spesso con le lacrime agli occhi: “come è spaventoso essere prete!”. Ed aggiungeva: “come è da compiangere un prete quando celebra la Messa come un fatto ordinario! Com’è sventurato un prete senza vita interiore!”. Ed esortava: “possa l’anno Sacerdotale condurre tutti i Sacerdoti ad immedesimarsi totalmente con Gesù crocifisso e risorto, perché, ad imitazione di San Giovanni Battista, siano pronti a “diminuire” perché Lui cresca; perché, seguendo l’esempio del Curato d’Ars, avvertano in maniera costante e profonda la responsabilità della loro missione, che è segno e presenza dell’infinita Misericordia di Dio”. E concludeva affidando alla Madonna, Madre della Chiesa, tutti i Sacerdoti.

Sono consapevole che le cronache di tutti i giorni ci parlano di circostanze poco degne che interessano anche i Sacerdoti, dal più efferato e ignobile scandalo della pedofilia, a Ministri che ormai avendo perso lo ‘sguardo soprannaturale’ del proprio servizio, hanno ridotto il loro alto Ministero al più basso compiacimento dello spirito di questo mondo…

Vi sono Sacerdoti che si sono allontanati dalla Verità, che la rinnegano con omissioni, opere e parole che tradiscono il Vangelo; costoro sono diventati increduli, superbi, mondani, apostati! Hanno smarrito la sublime dignità della vocazione, e hanno abbracciato il modernismo in luogo della sacra paternità che genera vita eterna!

Ma oggi voglio ricordare tutti quei degni Ministri di Dio che vivono la propria vocazione Sacerdotale accogliendo la speciale chiamata che Gesù ha riservato per loro, con coraggio e sacrificio, mantenendo viva la fiammella della fedeltà ogni giorno, pur fra mille tribolazioni. Il mio pensiero vuole andare ai Sacerdoti che in questo tempo avverso al nostro Creatore Onnipotente, sono chiamati a proclamare la Parola di Dio in una società che ha mosso guerra a Gesù Cristo, alle Sacre Scritture, al messaggio di salvezza della Chiesa Cattolica.

Cosa significa essere Sacerdoti fedeli al Vangelo oggi? Forse ognuno di noi dovrebbe chiederselo! Dobbiamo chiederci seriamente se sia giusto da parte della società pagana, che sia imposto ogni sorta di bavaglio a chi ha scelto di essere Ministro di Dio, e non di questo mondo! In troppi, solo quando si tratta di cristianesimo, dimenticano le garanzie costituzionali che all’articolo 19 ci ricorda che tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume. Eppure oggi l’Occidente scristianizzato e ideologico, ha deciso che tutti hanno diritti, tutti e tutto, tranne coloro che intendono restare autenticamente cattolici. E’ stato deciso che i Preti possono avere soltanto due possibilità: tacere o parlare, ma “politicamente corretto”! Il motivo è chiaro: la Parola che portano i Sacerdoti fedeli a Cristo è scomoda perché mette tutti innanzi al grande inganno della società odierna, società di cartone direi, l’inganno che si possa fare a meno di quel Bimbo nato a Betlemme.

Si avvicina il Santo Natale, la ricorrenza di un evento unico nella storia dell’umanità; accadde poco più di duemila anni fa, fra gli uomini di questa terra, il Creatore di tutte le cose decise di nascere dal grembo di una Donna Vergine e Immacolata, Sposa del casto Giuseppe, nell’umiltà, senza clamori, quel Bambino nato in una grotta ha scelto di venire ad abitare in mezzo a noi per annunciarci il lieto annuncio del Vangelo! L’evento è descritto nel Vangelo di Luca, ove al capitolo 2 leggiamo della nascita di Gesù e la visita dei pastori: [1]In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. [2]Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. [3]Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. [4]Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, [5]per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. [6]Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. [7]Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. [8]C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. [9]Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, [10]ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: [11]oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore, che è il Cristo Signore. [12]Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Il Natale ci ricorda dunque che è nato il Salvatore, e se c’è un Salvatore, c’è anche una via di salvezza e questa via è Gesù Cristo: via, verità e vitae questa vita ci viene portata dai Suoi Ministri solo se restano saldi nella Verità custodita dalla Dottrina bimillenaria. Al di fuori di essa non c’è salvezza perché regna la menzogna; solo la Verità, come ci ha insegnato Gesù, rende liberi. Nel Vangelo di San Giovanni è infatti scritto: «Conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi»(Gv 8,32).

In nome di questa Verità, molti Sacerdoti che hanno esercitato degnamente il loro Ministero, sono stati posti al silenzio, alla gogna, costretti all’isolamento, alla riforma mentale.

Chi ha permesso e permette questo scempio? Per ragioni di spazio non posso approfondire un tema così delicato ma voglio concludere con il ricordo della Pia Veronica, la donna che amò la Verità perché la riconobbe nell’Uomo della Croce. Veronica, figura popolare molto cara alla Tradizione, vedendo il Signore salire il Calvario sfinito dalle sofferenze, in uno slancio d’amore, senza curarsi dei nemici di Gesù, volle asciugare il Suo Volto Santo con un panno, offrendoGli così un omaggio di riconoscenza che fu forse anche frutto modesto del proprio lavoro. L’amore forte e devoto di un cuore femminile aiutò il Cristo mentre compiva e realizzava la Sua missione redentrice. Quel cuore, oggi voglio dedicarlo a tutti i Sacerdoti sfiniti da questi tempi di abominio in cui, uomini e donne sempre più lontani da Dio, e superbi, vogliono dettare le proprie leggi persino alle omelie della domenica. Vorrebbero un cattolicesimo silenzioso, che non reca disturbo, che non sia più “segno di contraddizione”, che non sia luce che illumina ma fioco barlume da soppiantare con le tenebre, che non sia sale che dona sapore, ma veleno che ammorba l’anima per condurla alla morte spirituale…

In nome di quel Santo Bambino deposto in una mangiatoia, che ricorda la miseria delle nostre debolezze, voglio esprimere la riconoscenza a Dio per il dono del Sacerdozio e invitare ogni battezzato a pregare per i Ministri di Dio, a riconoscere in essi un dono immenso, spesso ignorato! Del resto ripetendo le parole del Santo Curato d’Ars possiamo affermare:“Oh! Che cosa grande è il Sacerdozio! Non lo si capirà bene che in Cielo… se lo si comprendesse sulla terra, si morirebbe, non di spavento ma di amore!”

Ha scritto Sua Santità Benedetto XVI nella «Lettera per l’indizione dell’anno sacerdotale in occasione del 150° anniversario del ‘dies natalis’ di Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars»(16 giugno 2009):

“Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi Ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi Ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di San Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”. Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!… Se egli si comprendesse, morirebbe…[…] tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il Sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il Sacerdote […]”.
Riflessioni significative, che non possono lasciarci indifferenti o non interrogarci seriamente.

Infine, concludo con la speranza che San Giovanni Maria Vianney parli ancora oggi al cuore di tutti quei Ministri ormai lontani dal Vangelo, ripiegati su sé stessi, smarriti negli errori dell’eresia, per scuoterli dall’accecamento spirituale che li ottenebra. Possa il Santo Curato d’Ars con le sue mirabili parole, risvegliare in essi lo zelo apostolico senza compromessi, e in tutti noi la sequela a Gesù conformati ai Suoi santi insegnamenti!

E a tutti i Sacerdoti santi, integri, intemerati, rivolgo il mio più sincero ringraziamento per il dono della loro vita e il martirio nella Verità!

Santo Natale a tutti…

Simona











sabato 22 dicembre 2018

Meglio non nascere? Risposta cattolica a un pessimista totale



Aldo Maria Valli, 22-12-2018

Ho sessant’anni suonati, sono sposato da trentaquattro (con una donna, sempre la stessa), ho sei figli e tre nipoti. Sono sempre stato natalista e antiabortista, tanto che la mia tesi di laurea in Teoria e tecnica dell’informazione fu dedicata al modo truffaldino con cui la stampa progressista spacciò l’aborto come un diritto di libertà e sulla stessa linea fu il mio primo libro, scritto quando avevo ventotto anni.

Perché racconto tutto ciò? Perché in questi giorni ho letto Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, di David Benatar (Carbonio Editore, 256 pagine, 16,50 euro) e devo dire che raramente mi è capitato di confrontarmi con un pensiero così radicalmente opposto al mio. Eppure, in questo nostro tempo, segnato sotto molti aspetti dalla confusione e dall’ambiguità, sento di dover rendere l’onore delle armi all’autore, come si fa con i nemici che si sono battuti onorevolmente. Perché Benatar è chiaro, trasparente, e non fa assolutamente nulla per addolcire la pillola o girare attorno al discorso. Secondo lui non nascere è molto meglio che nascere. Anzi, venire al mondo è sempre un male. Punto. Dopo di che sta a noi, nel caso, confutare i suoi argomenti.

Già dalla dedica (“Ai miei genitori, anche se mi hanno messo al mondo”) la posizione di Benatar è ben delineata. “Ognuno di noi – scrive – ha subito un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo. E non si tratta di un oltraggio da poco poiché anche la qualità delle vite migliori è pessima, e notevolmente peggiore di quanto riconosca la maggior parte delle persone”.

La tesi è dunque semplice. Poiché la vita, inevitabilmente, è dolore, e poiché nessuno chiede di venire al mondo, dare la vita è qualcosa di “moralmente problematico”. In pratica equivale a una condanna. Siccome la procreazione provoca una grande quantità di dolore a un soggetto innocente, venire al mondo è sempre un grave male. Dunque “le persone non devono più fare bambini”, “è bene essere a favore dell’aborto (almeno nei primi stadi della generazione”) e “sarebbe meglio se non ci fosse più vita cosciente sul pianeta”.

Dite la verità: siete sconcertati, non è vero?

Ora, come rispondere a un’argomentazione del genere? Su un piano strettamente umano, senza ricorrere alla fede religiosa e all’esistenza di un Dio creatore, si può rispondere che non è vero che la vita è solo dolore, che ci sono anche le gioie e i momenti positivi, che alcuni sentimenti (quali l’amore e l’amicizia) e alcune esperienze (per esempio l’emozione di fronte alla bellezza della natura o dell’arte) fanno della vita umana un’esperienza che merita di essere vissuta. Tuttavia tale risposta a un certo punto si deve arrendere: di fronte all’inevitabilità della morte, alla fine il dolore prevale su ogni possibile gioia ed esperienza positiva. Alla fine il non essere prevale sull’essere. E quando l’esito finale è solo il nulla, è difficile trovare un senso alla vita, per quanto possa essere stata soddisfacente e vissuta in pienezza.

Non sono filosofo e mi scuso se vado un po’ per le spicce (mia moglie lo è, e immagino già che leggerà queste mie righe alzando il sopracciglio), tuttavia sento di poter sostenere che l’unica risposta che davvero può opporre un’argomentazione valida a quelle di Benatar è la risposta religiosa. E più precisamente la risposta cristiana. Solo la fede in un Dio creatore, un Dio padre che ci vuole bene, può mostrarci la vita non come condanna o come regalo avvelenato, ma come dono bello e buono. Bello e buono non solo perché, mentre siamo in vita, possiamo rivolgerci a lui, stare in sua compagnia e avvertire il suo amore, ma perché tale paternità ci assicura che con la morte non finisce tutto, bensì tutto ha inizio: dopo la morte infatti potremo stare faccia a faccia con lui e addirittura potremo vivere in lui, unendoci al suo amore eterno.

Benatar sa bene che la sua tesi, volutamente radicale, può far sorgere dubbi sulla salute mentale e psichica dell’autore. Infatti a un certo punto, verso la fine del libro, egli stesso sente il bisogno di chiedersi: “I miei ragionamenti sono esempi di una ragione impazzita?”. Tuttavia va dritto per la sua strada e non si nasconde. Il suo è un pessimismo totale. A ciglio asciutto, senza piagnistei, ma è comunque pessimismo totale, di fronte al quale l’ottimista, per quanto possa essere deciso e motivato, fatica a trovare contro-argomentazioni. Perché uno può pensare che le cose, in fondo, vanno meglio di come sembra, che il bello è superiore al brutto, che nel mondo c’è più bontà che malvagità, che è meglio guardare il lato positivo, ma alla fine c’è sempre il problema insormontabile della morte.

Benatar si guarda attorno e trova che il comportamento di chi decide di avere figli sia altamente contraddittorio: “Mentre le brave persone fanno ogni cosa per risparmiare la sofferenza ai propri figli, pochi di loro hanno capito che il modo migliore per prevenire le sofferenze dei figli è non metterli al mondo”.

Ripeto ancora una volta che non sono d’accordo con tale argomentazione, eppure sento di dover ringraziare chi, come l’autore, la propone in modo così diretto e brutale. Perché mi obbliga a concludere che sì, in effetti, per quanto io possa sforzarmi di rendere la vita di un figlio gradevole e serena, il regalo più prezioso che gli posso fare non è quello di permettergli di passare da una bella esperienza a un’altra bella esperienza, ma quello di aiutarlo a trovare un senso alla vita. Il che significa trovare un senso anche alla sofferenza, anche al dolore e anche alla morte.

Poiché Bernatar è molto chiaro, voglio esserlo anch’io. Quando dico che il regalo più bello che un genitore può fare a un figlio è aiutarlo a trovare un senso alla vita penso in effetti alla fede religiosa, e specificatamente alla fede cristiana all’interno della Chiesa cattolica.

La fede può sbocciare solo nella libertà, e per questo parlo di “aiuto”. Di quale tipo? Si tratta di mostrare che, oltre alla fisica, c’è la metafisica. Che oltre al naturale c’è il soprannaturale. E che la ragione umana non è più fedele a se stessa quando rinuncia alla ricerca pensando che il soprannaturale non sia di sua pertinenza, bensì quando, al contrario, si innalza fino alla trascendenza.

A ben guardare, infatti, la vera differenza tra chi, come il sottoscritto, crede che la vita sia bene, e dunque sia bene perpetuarla, e chi, come Benatar, pensa che la vita si male e dunque sia necessario estinguerla, è la disponibilità a rivolgersi alla trascendenza. Se ci fermiamo su un piano strettamente umano, il pessimismo totale di Benatar, per quanto possa essere sgradevole, ha inevitabilmente la meglio.

Dunque, onore a questo avversario sincero e chiaro. Che mi permette di poter dire, da papà e nonno, che il regalo più prezioso che io possa fare ai miei figli e nipoti non è aiutarli a schivare dolore e sofferenza, ma invitarli a quaerere Deum, a cercare Dio. E, come direbbe Benedetto XVI, a lasciarsi trovare da lui.

Aldo Maria Valli







giovedì 20 dicembre 2018

Essere cattolici. Ovvero lo splendore della Verità. Nel ricordo di Richard Neuhaus





Aldo Maria Valli, 20-12-2018

Fra poco, l’8 gennaio 2019, saranno dieci anni dalla morte di padre Richard John Neuhaus, presbitero e scrittore canadese, naturalizzato statunitense. Pastore luterano, fu accolto nella Chiesa cattolica l’8 settembre 1990, nel giorno della Natività della Beata Vergine Maria, dal cardinale John O’Connor e l’anno successivo fu ordinato sacerdote per l’arcidiocesi di New York. Fondatore della rivista First Things, fu autore di diversi libri, fra i quali Lo Splendore della Verità. Perché sono diventato cattolico (e sono felice di esserlo), del 2008.

Ricordare oggi Neuhaus significa rendere omaggio a un difensore degli insegnamenti della Chiesa cattolica in materia di aborto e difesa della vita, un innamorato della Chiesa che, ricordando la sua conversione, disse: “Nel mistero di Cristo e della Chiesa nulla è perduto. Se ora la mia comunione con la Chiesa di Cristo è totale, allora la mia unione con tutti coloro che credono in Cristo è più forte”.

La riconoscenza per la Chiesa luterana non venne mai meno (“Io non posso esprimere con adeguatezza la mia gratitudine per tutta la bontà che ho ricevuto nella confessione luterana. Lì fui battezzato, imparai le preghiere, fui nutrito dalla Scrittura e conobbi ciò che rappresenta il gratuito e meraviglioso amore di Dio”), tuttavia Neuhaus spiegò che l’approdo al cattolicesimo fu un completamento necessario: “Io mi feci cattolico per essere con pienezza ciò che già ero credendo nel protestantesimo. Nei miei trent’anni come pastore luterano non avevo altro per cui pregare se non i miei peccati e le mie debolezze. Giungere ad essere sacerdote della Chiesa cattolica significa compiere e concludere ciò che cominciai molti anni fa. Nulla che è buono è rifiutato, tutto è completato”.

E ancora: “Sono diventato cattolico per essere più pienamente ciò che ero e chi ero da luterano. Sono diventato cattolico quando ho scoperto che non riuscivo più a spiegare in modo convincente né agli altri né a me stesso perché non lo fossi”.

Padre Neuhaus fece proprio il detto di san Cipriano: “Chi ha Dio come Padre, deve avere la Chiesa come Madre”. E avere la Chiesa come Madre significa apprezzare l’autorità papale ed essere grati per questa potestà di insegnamento e di unità. “Quando noi protestanti avevamo qualche questione in sospeso – raccontò una volta – facevamo ricorso al sinodo del Missouri. I cattolici invece ricorrono al Papa. I cattolici credono di appartenere alla Chiesa. Noi appartenevamo al sinodo del Missouri”.

Ma il problema fondamentale fu la deriva del luteranesimo in campo morale. “Mi rattristò – spiegò – che una corrente luterana di questo paese [gli Stati Uniti, ndr] stesse travisando l’insegnamento tradizionale”, in particolare “riguardo alla morale sessuale” e “specialmente in relazione all’omosessualità”.

Diceva che per quanto uno studio possa essere condotto in modo rigoroso, non si può accettare che, attraverso un voto a maggioranza, si arrivi, citando la Scrittura, a una dottrina diversa da quella proclamata e testimoniata dalla Chiesa.

I protestanti, spiegava, sono spaventati dalla parola “infallibilità”, ma non bisogna temerla: “Significa semplicemente che la Chiesa mai sarà distrutta perché conserva la promessa di Gesù che non le permetterà di cadere nell’apostasia. Lo Spirito Santo non permetterà che la Chiesa insegni qualcosa di falso presentandolo come dogma di fede”.

Figlio di un pastore luterano, Neuhaus non amava definire la sua come una conversione. Si trattò piuttosto, diceva, di un approfondimento. Consigliere di George W. Bush, fu criticato e accusato di essere un neoconservatore, ma da lui non arrivarono mai polemiche.

Nel libro Lo splendore della verità, il cui titolo si ispira alla Veritatis splendor del suo amico Giovanni Paolo II, Neuhaus mette l’accento su un fatto generalmente trascurato: negli Usa sono decine di migliaia ogni anno i fedeli che decidono di passare dal protestantesimo alla Chiesa cattolica. E lo fanno nonostante l’opposizione di tanti preti che Neuhaus definiva “ecumaniaci”, ovvero maniaci dell’ecumenismo.

Neuhaus sosteneva anche che i cattolici del dissenso, a favore dell’aborto e del sacerdozio femminile, fanno molto rumore ma sono una sparuta minoranza. Occorre dunque non lasciarsi condizionare e lavorare per la conferma della dottrina tradizionale.

Ma perché un cristiano non cattolico si sente attratto dalla Chiesa di Roma? Secondo Neuhaus, un motivo decisivo sta nella ricerca della verità e nella risposta, offerta dalla sintesi tra fede e ragione, che si trova solo nel cattolicesimo. “Credo che la verità abbia la sua forza di gravità nell’attirare gente in cerca di una sintesi convincente di fede e ragione. Un itinerario tipico parte dal retroterra di una delle tante denominazioni protestanti, arriva poi a una tradizione con una più forte dimensione liturgica, come la luterana o l’anglicana, e approda infine al cattolicesimo, come una sorta di post-laurea della carriera scolastica cristiana”.

Quando, nell’aprile 2008, Benedetto XVI si recò negli Stati Uniti, padre Neuhaus rimase colpito dalla dolcezza del papa, dal suo coraggio nel denunciare lo scandalo degli abusi sessuali e dall’efficacia con la quale riuscì a presentare “il Vangelo e la comprensione cattolica del Vangelo come una prospettiva invitante per chi voglia vivere la vita come una grande avventura morale e spirituale”.

Circa l’enciclica Humanae vitae, Neuhaus diceva che “le devastazioni prodotte dall’aborto, dal fallimento dei matrimoni e dalla divisione delle famiglie testimoniano la saggezza” di quel documento.

A proposito delle divisioni nella Chiesa del post Concilio Neuhaus era ottimista. Pensava che nella disputa tra sostenitori della discontinuità e paladini della continuità i secondi, per grazia di Dio, si fossero imposti sui primi. Sarebbe interessante sapere che cosa avrebbe detto oggi, alla luce dell’attuale pontificato.

“Sono diventato il cattolico che ero” rispondeva quando gli venivano rivolte domande sul suo approdo al cattolicesimo. Credeva che il futuro della Chiesa fosse nella fedeltà e nella continuità, non nel soggettivismo e nella novità.

Pensando di metterlo in difficoltà, i critici lo accusavano di essere diventato cattolico a causa di un bisogno di autorità. Al che lui rispondeva senza scomporsi: “Ho sentito l’esigenza dell’autorità, dell’obbedienza, della sottomissione? Ma certo”.

Gilbert Keith Chesterton disse: “Questa è l’epoca in cui ci si aspetta che il cristiano lodi ogni credo tranne il suo”. Uomini come Richard John Neuhaus ci insegnano a riscoprire le ragioni per lodare il nostro credo cattolico.

Aldo Maria Valli















mercoledì 19 dicembre 2018

Chiese dismesse, il problema è la fede che non c’è



Il Pontificio Consiglio per la cultura emana le linee guida sulle chiese dismesse dopo il convegno del mese scorso. Tutto come previsto: diventeranno musei o "centri sociali". Ma è frutto di una precisa teologia di una Chiesa che si fa mondo. E trascina con sè una fede che si fa etica sociale. Se il compito della Chiesa fosse invece evangelizzare, come è, le chiese dismesse dovrebbero destare interrogativi angoscianti. 



di Stefano Fontana (19-12-2018)

Cosa fare delle chiese “dismesse”? Il Pontificio Consiglio della Cultura
, presieduto dal cardinale Ravasi, ha pubblicato delle Linee-guida per affrontare questo fenomeno. Calo della popolazione – dicono le Linee – invecchiamento dei centri storici, chiese non parrocchiali non più sostenute dalle realtà che le avevano costruite e mantenute, diminuzione del clero, sepecolarizzazione… un insieme di cause pone il problema delle chiese non più sede di uso liturgico. Come evitare che diventino discoteche o pizzerie? Questa è, in sintesi, la problematica.

Il Pontificio Consiglio prende atto di questa situazione, dandola per scontata e irreversibile
, e quindi, dopo aver dichiarato che una chiesa non esaurisce la sua funzione solo come sede liturgica, ma ha anche altre valenze, propone un dialogo con la società civile per la destinazione appunto “sociale” delle chiese.

Tutte le questioni pratiche che la Chiesa deve affrontare
, compresa questa delle chiese “dismesse”, dipendono da una visone teologica. Se compito della Chiesa è evangelizzare il mondo e rinnovarlo con la forza della morte e resurrezione di Cristo, la diminuzione dei “luoghi” in cui questo mistero cosmico e miracoloso avviene dovrebbe angosciare. E dovrebbe portare a chiedersi da dove nasca questa secolarizzazione che non fa più andare a Messa le persone. Perché il problema sta lì, e non nel calo demografico oppure nell’invecchiamento dei centri storici, cause concomitanti ma non certo fondamentali nella dismissione delle chiese. Se, invece, compito della Chiesa è considerare il mondo come altare, i poveri come sacramento, la solidarietà sociale come carità, l’ingiustizia sociale come causa del peccato e non il peccato come causa dell’ingiustizia… allora le chiese servono a poco o non servono addirittura e il fenomeno della secolarizzazione è da vedersi come positivo e frutto dello stesso cristianesimo. Sarebbe il cristianesimo stesso a pretendere che le chiese siano sostituite da strutture sociali o culturali.

Oggi il proselitismo è condannato,
l’osservazione del precetto domenicale è considerata superata, si costituiscono celebrazioni domenicali senza Messa anche in città con un’ampia presenza di sacerdoti e si aspetta il sinodo sull’Amazzonia per poterlo fare in forma autorizzata e sistematica. Si capisce quindi che la preoccupazione non è cosa facciamo delle chiese dismesse, ma cosa facciamo delle chiese. Ci sono tante chiese dismesse, a parte motivi storici vari, perché non sappiamo più rispondere alla domanda a cosa servano le chiese non (ancora) dismesse.

Una volta accettata la secolarizzazione come un fenomeno irreversibile e positivo
, addirittura frutto del cristianesimo, non si vede perché ci si dovrebbe preoccupare della scomparsa delle chiese, esito di una secolarizzazione coerentemente compiuta fino in fondo. Tale scomparsa è da vedersi come un bene, come una uscita verso il mondo, come simbolo di una Chiesa povera che si fa mondo, una Chiesa che non ha privilegi né presunzioni di superiorità e che non vuole sovrapporre al mondo la propria ideologia eucaristica, come se le sorti del mondo dipendessero dalla consacrazione del Pane e del Vino fatta da un inutile sacerdote, una Chiesa che riconosce finalmente che Dio si rivela nell’umanità e, quindi, che fondare un sindacato o una associazione contro la tratta delle donne è più importante che celebrare la Messa davanti a un pugno di persone, dato il calo demografico e l’invecchiamento dei centri storici. Vorrebbe dire non riconoscere che il mondo è adulto e capace di sé e che il mondo e non la Chiesa è il luogo dell’auto-comunicazione di Dio come dice la teologia che oggi va per la maggiore.

Ma almeno le chiese non diventerebbero pizzerie
, dice qualcuno insieme con le Linee guida del Pontificio Consiglio della Cultura. Diventerebbero centri sociali, luoghi di cultura, teatri amatoriali, sedi dell’associazionismo. Ma in questo modo il percorso di una Chiesa che si fa mondo è ancora più evidente. La carità che si fa solidarietà, la pace di Cristo che diventa pacifismo, la liturgia che diventa rappresentazione teatrale, l’amore di Cristo per i Piccoli che diventa scuola di danza, la comunità ecclesiale che diventa assemblearismo, la fede che diventa religione civile, l’unica salvezza in Gesù Cristo che diventa riunione inter-religiosa. Si dice continuamente (sbagliando) che la fede cristiana non è un’etica e poi la si riduce ad etica sociale utilizzando gli spazi liturgici come luoghi di aggregazione sociale e culturale.

In una diocesi italiana un lascito ha conferito al vescovo
la proprietà di una cappella in centro città ormai in disuso e abbandonata. Il vescovo non ha mai pensato nemmeno per un istante di farne un centro sociale, ha subito pensato di restituirla al culto e farne un centro di spiritualità per giovani. Il compito di ogni vescovo e di restituire ogni chiesa al culto e alla celebrazione eucaristica. Niente di meno può soddisfare, né niente di meno può essere programmato dal Pontificio Consiglio della Cultura.




fonte: lanuovabq.it








martedì 18 dicembre 2018

La messa senza prete, si realizza il sogno di Martini





Dopo Ferrara tocca a Vicenza, dove il vescovo ha diramato le linee guida per la celebrazione domenicale senza sacerdote "per motivi imprevedibili". Strano, per una diocesi che ha 683 preti per 354 parrocchie. Ma il "rito" è già pronto e trasuda non di pietà liturgica, ma di liturgia che fa pietà. E' l'imposizione della ministerialità liturgica affidata ai laici, che allontanerà ancora di più i fedeli dalla Chiesa. E purtroppo non è un caso isolato. Segnalateci quello che accade nelle vostre diocesi. E' diventato urgente gridare:
#SALVIAMOLAMESSA




Luisella Scrosati 18-12-2018

Dopo Ferrara, Vicenza. Lo scorso 8 novembre, all’Assemblea del Clero è stato distribuito il sussidio “Assemblea Domenicale nella impossibilità della Celebrazione Eucaristica”, contenente un decreto dell’Ordinario, S. Ecc. Mons. Beniamino Pizziol. Nel Decreto si legge che il rito apposito non intende sostituire la celebrazione eucaristica, ma solo “far fronte a situazioni improvvise ed eccezionali”, “situazioni non programmabili in cui non è possibile una soluzione diversa (ad esempio, un’indisposizione improvvisa del presbitero o un evento imprevisto)”. La cosa già puzza un po’… un rito per quando il parroco scivola dalle scale e si rompe una gamba?


Il direttore dell’Ufficio liturgico diocesano, don Pierangelo Ruaro, in realtà, sul settimanale della diocesi di Vicenza “La Voce dei Berici”, in un articolo dall’eloquente e fuorviante titolo “Domenica senza messa? Si può, ecco come”, rivela qualcosa in più: “La scelta è sempre stata quella di promuovere e sostenere la ministerialità liturgica. Lo abbiamo fatto con i ministri dell’eucaristia e con i ministri della consolazione. Oggi questo avviene cogliendo e accompagnando quelli che sono i cambiamenti che sta vivendo la Diocesi prevedendo la formazione tra i laici di guide della celebrazione”. Dunque accompagniamo i cambiamenti, anziché cercare di risolverli. Accompagniamoli perché finalmente abbiamo la copertura del calo delle vocazioni per arrivare laddove da tempo intendevamo arrivare. Sembra di risentire discorsi di anni fa, quando in diocesi di Milano, in carica ancora il Cardinal Martini, si parlava del lato provvidenziale della diminuzione del clero...


La verità è che, se non lo era la diocesi di Ferrara (vedi qui), ancor meno è la diocesi di Vicenza ad essere paragonabile all’Amazzonia: 683 preti per 354 parrocchie; quasi due preti per parrocchia, 1150 cristiani (che purtroppo non vanno tutti a Messa) per prete e un’estensione di poco più di 3 kmq per sacerdote. Va bene che non saranno tutti giovani, ma diamine! Questi sacerdoti, oltre ad essere, a quanto pare, tutti un po’ invalidi e facilmente predisposti a cadute e fulminee influenze, devono essere anche piuttosto impegnati. Ed anche i diaconi permanenti, che in diocesi risultano essere 41. Perché nella diocesi di Vicenza è già in atto “la possibilità prevista dal Rito delle Esequie, di far guidare a laici (ministri della consolazione) alcuni momenti celebrativi come la veglia funebre, la chiusura della bara, la preghiera al sepolcro, la deposizione dell’urna e l’eventuale preghiera nel luogo della cremazione”. Che bella la ministerialità!


Domanda: ma non si potrebbero coinvolgere i laici, per esempio, nell’organizzazione del trasporto di quelle persone che non possono recarsi nella parrocchia più vicina in cui si celebra l’Eucaristia? Ed anche una specie di “118 domenicale”, una task force che si organizzi in poco tempo quando al parroco vicentino viene un’improvvisa indisposizione. Troppo poco ministeriale?


Quando poi si guarda al rito che l’Ufficio liturgico si è inventato, viene da piangere…


Una persona del gruppo di animazione (non chiedete cosa sia) introduce così la preghiera: “Buongiorno e buona Domenica! Siamo convocati per vivere insieme questa assemblea santa nel Giorno del Signore. Oggi non ci sarà possibile celebrare l’Eucaristia (perché…/a causa di…) Ci poniamo, comunque, al seguito di Gesù Cristo per celebrare la fede che ci accomuna, sentendoci uniti ai fratelli e alle sorelle dell’Unità Pastorale (della comunità parrocchiale). In questa Assemblea ci nutriremo della Parola di Dio, ascoltando e accogliendo le letture della Domenica. Inoltre, riceveremo il Corpo di Cristo nel pane consacrato durante la Messa di Domenica scorsa. Alziamoci ed entriamo nello spirito della celebrazione cantando ...”.


Un incipit di questo tipo ha senz’altro il pregio di far venire la voglia di raggiungere a piedi e di corsa qualsiasi altro punto della diocesi in cui si celebri l’Eucaristia, ma può anche avere l’effetto collaterale di farti tornare a casa e non mettere più piede in una chiesa in cui viga il principio della ministerialità. Ma se il nostro fedele ha avuto ancora stomaco per rimanere, allora sarà travolto da una valanga di monizioni e introduzioni. Premettendo l’atto penitenziale, posto dopo le letture e il Vangelo, la “guida” dice: “La Parola di Dio, che abbiamo ascoltato, scruta nel profondo del nostro cuore per aiutarci a portare frutti di grazia. Riflettiamo sulla nostra vita e imploriamo fiduciosi la bontà del Signore”. Il tutto dovrebbe aiutare a disporre all’esame di coscienza ed al pentimento…


Questa invece è una delle opzioni per introdurre il segno di pace: “Non dividiamo il popolo nuovo che Dio sta radunando da ogni parte della terra. Scambiamoci un segno di pace”. Roba da far rimpiangere la Missa sicca…


Ma il bello deve ancora venire. Prima della preghiera del Padre nostro, l’assemblea è invitata a pregare una di queste composizioni, che dal tenore del testo devono essere databili intorno al XXI sec. D. C., più o meno un mese fa. La prima presenta una serie di invocazione del tipo: “Pane di gioia che diffonde la festa in chi lo riceve”; oppure in stile peace and love: “Pane di pace che accende l’audacia di spezzare i muri che separano gli uomini”. Decisamente più filantropica quest’altra: “Pane di offerta che suscita la fame di condividere tutto”.


Anche la seconda preghiera è un vero gioiello non di pietà liturgica, ma di liturgia che fa pietà: “Grazie per il Pane con il quale ci trasmetti il tuo amore: ci dona l’audacia di inoltrarci sui sentieri in cui si diventa i primi mettendosi a servizio dei fratelli”. C’è poi anche lo spot per queste specie di celebrazioni non eucaristiche: “Grazie per la nostra celebrazione comunitaria: fa cantare in noi la gioia di credere in Te e la necessità di testimoniarti”.


Al termine di tutto, dopo i puntuali annunci previsti nel rito e la benedizione, al congedo “Nel nome di Cristo, andiamo in pace”, non si può che rispondere: “Rendiamo grazie a Dio”!


Veniamo al dunque: Ferrara e Vicenza, che non sono diocesi del Terzo mondo, stanno portando avanti queste pseudo-celebrazioni della Parola. Ma da quante altre parti questo già avviene? Chiediamo il vostro aiuto, cari lettori, per avere il termometro della situazione e dopo la fortunata campagna #salviamolechiese, La Nuova Bussola Quotidiana si trova ora costretta a lanciarne una nuova: #salviamolamessa! Segnalateci dove, nella vostra diocesi questa nuova ministerialità, o una simile che pretenda di sostituire senza motivo grave la Santa Messa con paraliturgie curate da laici, viene messa in pratica senza troppi problemi.


Scrivete a redazione@lanuovabq.it e inserite l'oggetto #salviamolamessa seguito dal nome della diocesi o della città.










sabato 15 dicembre 2018

SILVANA DE MARI: Quale diffamazione? E' stato un puro processo politico




Sono stata assolta da tutte le accuse riguardanti offese alle persone con un comportamento omoerotico. E condannata per due affermazioni sul movimento LGBT. Il mio è stato in tutto e per tutto un processo politico, non un banale processo di diffamazione. Un esempio? Durante il processo moltissime persone sono venute a sostenermi, ma il pubblico ministero li ha stigmatizzati in aula e ha dichiarato di trovarli disdicevoli.




Dottoressa Silvana De Mari*, 15-12-2018

Quando sono entrata in campo sapevo che sarebbe stata una maratona, non i 100 metri. La prima puntata di una guerra lunga è terminata. Me la sono cavata con la condanna su due imputazioni solo, e ho guadagnato parecchio. Le mie idee stanno rimbalzando dappertutto, e per necessità di cronaca, anche giornali non simpatizzanti per queste idee.


Le mie idee sono esattamente le stesse che l’ex gay e psicoterapeuta Richard Cohen riporta nella prima pagina del suo bellissimo libro Riscoprirsi Normali libro dove tra l’altro spiega che gli ex gay sono più numerosi dei gay.


- Nessuno nasce con un orientamento omosessuale.

- Non esiste alcun dato scientifico a sostegno di una base genetica o biologica dell'attrazione verso individui dello stesso sesso.

- Nessuno sceglie di provare attrazione per individui dello stesso sesso.

- Tale attrazione è la conseguenza di traumi infantili irrisolti che conducono alla confusione dell'identità sessuale.


- Gli individui possono scegliere di cambiare e di passare da un orientamento omosessuale a un orientamento eterosessuale.


- L'attrazione per individui dello stesso sesso non è congenita.


- Ciò che si è imparato può essere disimparato.


- Quando le ferite vengono guarite e vengono colmati i bisogni insoddisfatti, si sperimenta l'identità sessuale e viene alla luce il desiderio eterosessuale.


- Non siamo di fronte a una cosa buona o cattiva, ma a un disturbo affettivo nei confronti di individui dello stesso sesso.


- Non c'è nulla di "gaio" nello stile di vita omosessuale; è caratterizzato da molte delusioni e il più delle volte da una incessante ricerca d'amore attraverso relazioni codipendenti.


- Non è una cosa cattiva provare attrazione per individui dello stesso sesso, poiché ciò rappresenta uno stimolo a guarire un bisogno d'amore insoddisfatto. Tuttavia, agire in base a tale desiderio provoca frustrazione e sofferenza.


- Ci si trova di fronte a un disturbo affettivo nei confronti di individui dello stesso sesso per cui l'individuo non riconosce la propria mascolinità o femminilità e cerca disperatamente di colmare la lacuna unendosi a qualcuno dello stesso sesso.


Sono stata assolta da tutte le accuse riguardanti offese alle persone con un comportamento omoerotico. Quindi ora sappiamo che possiamo affermare che la condizione maschile omoerotica passiva è gravata da un tasso di malattie sessualmente trasmissibili venti volte superiore al resto della popolazione. (ma in uno studio eseguito a New York City è 140 volte di più).


Possiamo dire che la sodomia, sia che sia fatta contro un uomo o contro una donna mette in circolazione batteri fecali che sarebbe stato meglio non uscissero dalla strada maestra intestino, water closed, sciacquone e via per sempre, e quindi è anti-igienica perché i batteri fecali sono la seconda causa di morte per infezione, seconda solo alle infezioni respiratorie, e in più ci sono i virus, tra cui quello dell’ epatite A che si è quintuplicato nella popolazione gay negli ultimi anni.


Possiamo impedire che ai nostri figli venga insegnato che l’erotismo anale è qualcosa di normale, e possiamo dichiarare ad alta voce che ci ripugna. Possiamo dire che il comportamento omoerotico è reversibile.


Il mio è stato in tutto e per tutto un processo politico, non un banale processo di diffamazione. Il comune di Torino si era costituito parte civile, fortunatamente rifiutato. Durante il processo moltissime persone sono venute a sostenermi: hanno affrontato il freddo e viaggi lunghi. La loro presenza è stata bellissima e fondamentale. Hanno insistito per sostenermi in tutti i modi, incluso vendendo i miei libri. Il pubblico ministero ha trovato questo gravemente disdicevole, e ha trovato disdicevole che queste persone mi sostenessero, ha trovato disdicevole che “facessero parte delle Sentinelle in piedi o di Alleanza Cattolica“. Ignoro se ci fossero Sentinelle in piedi o appartenenti ad Alleanza Cattolica, personalmente non sono inscritta a nessuno di questi due movimenti, ma che un pubblico ministero in un aula di tribunale li stigmatizzi, è un segno di politicizzazione.


Sono stata condannata per due affermazioni sul movimento LGBT : il movimento LGBT sta intralciando la libertà di parola, tra le altre cose citavo il “decalogo” per i giornalisti che ho riportato in un precedente articolo, e i rapporti che il movimento LGBT ha con gruppi pedofili e citavo tra l'altro i rapporti tra ILGA, il movimento a cui sono affiliati tutti i gruppi LGBT e il NAMBLA, Nord America Men Boy Lovers Association. ( trovate tutto su Google se digitate queste due sigle), e la presenza in Italia di un circolo, finanziato con denaro pubblico intitolato a Mario Mieli: cercate su Wikipedia chi è questo signore.


Se sono stata condannata vuol dire che non è vero. Non è vero che il movimento LGBT vuole imbavagliare la libertà di parola? Evviva! Quindi possiamo considerare decaduto l’assurdo decalogo LGBT ai giornalisti che imbavaglia la libertà di stampa? Non è vero che il movimento LGBT non prenda le distanze dalla pedofilia? Evviva! Quindi domani tutti i movimenti LGBT di Italia prenderanno le distanze da Mario Mieli e dal suo libro?


Sicuramente sì, perché una sentenza non può sbagliare.


In fiduciosa attesa


Silvana De Mari.



*psicoterapeuta e scrittrice fantasy, portata in tribunale a Torino perché pensa – e dice – che dall’omosessualità si può guarire.







fonte lanuovabq.it











giovedì 13 dicembre 2018

Perché ci sentiamo sradicati in questa Chiesa liquida





Aldo Maria Valli

È uscito il libro Sradicati. Dialoghi sulla Chiesa liquida (Edizioni Chorabooks)



dialogo a cuore aperto e a tutto campo tra il maestro Aurelio Porfiri e Aldo Maria Valli sulla situazione attuale della Chiesa. Dal libro, che ha la prefazione di monsignor Antronio Livi, proponiamo qui il capitolo dedicato alla famiglia.

Il nodo della famiglia

Aurelio Porfiri – Qui tocchiamo un punto veramente importante. Da quello che ho capito, è anche per i cambiamenti che coinvolgono la famiglia nel pensiero magisteriale che tu hai ripensato il tuo essere cattolico in questa Chiesa. Io penso dovremmo fare un discorso pre Amoris laetitia, per non rischiare che quello che andiamo a dire possa essere non chiaro. Tutti e due abbiamo famiglie e io ti voglio confessare una cosa che forse ti darà fastidio: a me non piacciono molto coloro che danno l’idea della famiglia come una cosa da “Mulino bianco”. Certo, ci sono gioie nella famiglia, ma ci sono anche molti dolori, e oggi ancora di più, proprio per i cambiamenti nella nostra società. Spesso si sta in famiglia come in croce. A volte questo Papa ha fatto riferimento a tali problemi. Ma è importante la famiglia? Certamente. Bisogna difendere la famiglia naturale e il matrimonio, ma non dalla prospettiva secondo cui si tratterebbe di qualcosa che è solo piacevole. Io penso che molte persone quando si sposano non fanno i conti con la il matrimonio nella sua globalità: pensano solo ai bei momenti iniziali. Da una parte bisogna difendere l’istituto del matrimonio, ma dall’altra bisogna comprenderne le tragedie. Non so tu, ma per quello che mi riguarda ho fatto ampia esperienza di famiglie infelici, disfunzionali, distruttive. Molti dei miei amici o conoscenti o convivono o sono separati. Insomma, non dipingiamo un quadro roseo. La famiglia è in gravissima crisi proprio perché si è perso il senso di che cosa sia una famiglia in ultima analisi, cioè un’alleanza di fronte a Dio. L’amore a volte c’è, a volte se ne va. Nella promessa di matrimonio promettiamo fedeltà alla sposa, non alla persona. Io credo sia una differenza fondamentale.

Aldo Maria Valli – Guarda, neppure io amo la famiglia felice secondo il modello che ci viene imposto dalla pubblicità. Perché è palesemente una finzione. Il Signore è stato molto buono con mia moglie e con il sottoscritto. Siamo sposati da trentaquattro anni, abbiamo sei figli e tre nipoti. Abbiamo creduto nella fedeltà coniugale e quando eravamo giovani ci siamo aperti alla vita, grazie al magistero di san Giovanni Paolo II. Il Signore non ci ha abbandonati mai. Nei momenti più difficili ci ha dato coraggio e ora ci sta dando una gioia grande: quando guardiamo indietro non abbiamo rimpianti. Tuttavia so bene che la famiglia può diventare una gabbia e una prigione. Può anche trasformarsi in calvario. Ciò non giustifica, in ogni caso, le soluzioni che vanno contro la famiglia in quanto alleanza. Che lo si voglia o no, la famiglia resta davvero la cellula fondamentale della società oltre che una piccola Chiesa. Disgregare la famiglia, minarne le basi, significa mettere a repentaglio la stessa vita sociale. Il dovere di difendere la famiglia, pertanto, va ben al di là dell’aspetto religioso. Qui entra in gioco l’idea di libertà, che oggi troppo spesso è intesa come un assoluto. San Paolo insegna che la vera libertà si trova nel servizio reciproco. L’assolutizzazione dell’autonomia dell’io (modello illuministico) porta invece all’infelicità e alla desolazione, come si può ben vedere guardandoci attorno.

AP – Certo, sono d’accordo con te. Bisogna difendere la famiglia come la cellula fondamentale della società e questo ha a che fare non solo con l’aspetto religioso, come tu dicevi. A me sembra però che negli ultimi decenni si sia molto intellettualizzata la concezione della vita famigliare, con voli pindarici della teologia forse belli, ma non essenziali. Dobbiamo fare i conti che molte persone che si sposano e forse non dovrebbero, perché poi non è vero che il matrimonio o i figli aggiustano tutto. Qualcuno mi diceva, o lo ha detto questo Papa (ma non sono sicuro) che probabilmente una percentuale elevata di matrimoni celebrati non sono validi in quanto mancano alcuni degli elementi per garantirne la validità, come la piena consapevolezza di quello che si sta facendo. Quante persone si sposano perché devono? Ed ecco che un tempo, quando l’amore iniziale scemava, si sopportava e si stringeva ancora di più quell’alleanza di cui parlavo in precedenza. C’erano matrimoni sbagliati anche in passato, naturalmente, ma si cercava di salvare capra e cavoli. Oggi tutto è spesso identificato con l’amore iniziale, l’innamoramento, che passa e pure in fretta. Ecco che non si riesce a superare quella crisi: si vorrebbe vivere in un perpetuo innamoramento, che non è possibile. Ecco perché focalizzare il tutto sull’aspetto dell’alleanza è per me molto salutare e veritiero. In fondo tutti possono sposarsi, anche persone che non avranno mai la consapevolezza, per quanto gliela spieghi, delle profondità teologiche sul matrimonio. Si faccia capire che si sta contraendo un’alleanza con un’altra persona, forse si darebbe una visione più veritiera. Certo è bello sentire che ci sono famiglie felici dopo molti anni insieme. Vivrò in un ambiente corrotto, ma non ne ho viste molte attorno a me, anche se ripenso agli anni della mia adolescenza. Bisogna fare i conti con questo? Bisogna chiamare il problema per nome? Certo, si deve, non dimenticando che è un problema, non una soluzione. Quello che accade nella Chiesa per la famiglia è che i problemi divengono soluzioni, ma questo accade per tutto, anche nella liturgia. Si cantano cose inadeguate e commerciali? Allora permettiamo che vengano cantate in modo che non sarà più un problema ma un dato di fatto. Questo perché il confine tra lecito e illecito è oggi molto sbiadito.

AMV – Siamo su un terreno estremamente sdrucciolevole, e confesso che io non mi sento in grado di esprimere valutazioni nette. L’argomento è molto ampio e rischia di sfuggire di mano. Mi limito a chiedere alla nostra Santa Madre Chiesa di non abbassare continuamente il livello della proposta, ritenendo che il modello di famiglia cristiana, fondata sul matrimonio cattolico, sia troppo elevato. So di certi religiosi che in una grande città italiana consigliano ai giovani (discernimento, lo chiamano) di convivere per un po’ prima del matrimonio, perché ciò farebbe bene alla coppia ed eviterebbe errori. So di parroci che evitano di proporre discorsi troppo espliciti su indissolubilità e apertura alla vita per non turbare o non offendere le pecorelle che si rivolgono loro. Ecco, secondo me in questo modo non si è più misericordiosi: si è semplicemente meno cattolici. È vero, le difficoltà sono tante, ma davanti a una bella proposta di vita, trasmessa in modo entusiasmante, le anime sono ancora in grado di rispondere positivamente. Il fatto è che troppo spesso la proposta non arriva perché chi dovrebbe farla non ne è capace, oppure non vi crede fino in fondo, o non vi crede per niente. Questo, secondo me, è il dramma.

AP – Certo, su questo punto hai ragione. Probabilmente la proposta della famiglia non viene fatta in tutta la sua dirompenza e quindi le persone non sono in grado di capire quello a cui vanno incontro, nel bene e nel male. La Casti connubii di Pio XI del 1930 aveva queste frasi: “Mediante il connubio, dunque, si congiungono e si stringono intimamente gli animi, e questi prima e più fortemente che non i corpi, né già per un passeggero affetto dei sensi o dell’animo, ma per un decreto fermo e deliberato di volontà; e da questa fusione di anime, così avendo Dio stabilito, sorge un vincolo sacro ed inviolabile. Tale natura, affatto propria e speciale di questo contratto, lo rende totalmente diverso, non solo dagli accoppiamenti fatti per cieco istinto naturale fra gli animali, in cui non può esservi ragione o volontà deliberata, ma altresì da quegli instabili connubii umani, che sono disgiunti da qualsivoglia vero ed onesto vincolo di volontà e destituiti di qualsiasi diritto di domestica convivenza”. Io credo che sia l’idea che menzionavo, quella dell’alleanza che prescinde dalle difficoltà del momento. L’unione è prima degli animi e poi dei corpi. Non so che ne pensi, ma mi sembra che ci fosse maggiore senso pratico, e forse anche più verità, in questa visione. A volte ci fanno pensare che l’ideale del matrimonio cristiano sia inarrivabile e ha come suo modello la famiglia del “Mulino bianco”, dove tutti sorridono e sono felici da mattina a sera.

AMV – Tempo fa un importante cardinale mi ha confidato: “Dopo che, con Benedetto XVI e i valori non negoziabili, la nostra proposta sulla famiglia ha fallito, c’era bisogno di cambiare linea: Francesco è il volto del cambiamento. Ora puntiamo sulla bontà di Dio, che accoglie e comprende, non sull’obbligo morale che deriva dalla scelta di fede”. Credo che quel cardinale sia stato abbastanza onesto nel riassumere così la proposta. Ma non si rende conto del duplice errore. Prima la Chiesa, puntando con insistenza sui valori non negoziabili, trasformava in discorso esclusivamente o principalmente politico quella che dovrebbe essere una bella e chiara proposta rivolta ai fedeli. Ed ora, puntando sul misericordismo, cede al sentimentalismo dilagante, dimenticando l’intera lezione di Giovanni Paolo II sull’unione di ragione e fede. Vedo qui un deficit culturale non da poco da parte della Chiesa, che sbanda da una parte o dall’altra perché è più attenta al giudizio del mondo che all’integrità del suo messaggio. Dopo di che è chiaro che la storia di ogni coppia e di ogni famiglia è storia a sé. È chiaro che ci sono le debolezze, i fallimenti, i peccati. Ma non per questo la proposta deve smettere di essere chiara. E la proposta è semplice: matrimonio fra un uomo e una donna, fondato sull’indissolubilità, sul mutuo servizio, sull’apertura alla vita e sulla presenza di Dio nell’unione. Un punto, quest’ultimo, che è decisivo. Ma se tu, Chiesa, prima fai di questa proposta una bandiera politica e poi la disconosci e cedi al pensiero dominante, non rendi certamente un buon servizio alle pecorelle delle quali ti devi occupare.

AP – Certo, la situazione attuale è molto preoccupante, quasi disperata. Io so che tu vedi con particolare severità la Amoris laetitia, e non sei solo in questo. Io credo che Giovanni Paolo II, non esente come gli altri anche da errori, abbia cercato di arginare una marea montante che poi ha comunque trovato il suo sfogo. Questo è un processo che va oltre i Papi. Anzi, alcuni di essi hanno tentato di fermarlo, ma forse invano. Lo vedo come un processo storico di dissoluzione di proporzioni colossali. Pensiamo, anche al di fuori della Chiesa, allo svilimento della mascolinità, della virilità, dell’essere uomini. E qui bisognerebbe parlare anche di certe esagerazioni legate al discorso sulle molestie. Insomma, a me sembra che si arrivi al matrimonio già devastati da una cultura intorno a noi che, forse non lo abbiamo detto in precedenza ma è implicito, non è più cattolica. Viviamo in una società in cui il cattolicesimo è un’opzione fra le altre, e non la più gettonata.

AMV – Direi che è una società non più cristiana, ma profondamente pagana. Cattolica non lo è più da un pezzo, ma qualcosa di cristiano sopravviveva. Ora invece, a una velocità strabiliante, quel poco di cristianesimo che resisteva viene spazzato via giorno dopo giorno. Ecco perché dico che la crisi, prima che della fede, è della ragione. Gettando alle ortiche la filosofia cristiana, il pensare di impronta cristiana, diventiamo barbari: cadiamo nelle superstizioni, non sappiamo più distinguere il bene e il male, il buono e il cattivo, il bello e il brutto. Non ci interroghiamo più sulla verità. La filosofia naturale, il modo di conoscere e di pensare che corrisponde alla nostra natura di esseri razionali, ossia il realismo metafisico, viene fatta ogni giorno a pezzi in nome di principi del tutto illogici e irrazionali, ma imposti ideologicamente come necessari. Così abbiamo, per esempio, il matrimonio tra persone dello stesso sesso e i figli di coppie dello stesso sesso. Tu capisci che, in queste condizioni, ci tocca ogni giorno combattere non tanto per le verità cattoliche, quanto, prima ancora, per le verità umane universali. Un compito immane, data la subcultura nella quale siamo immersi. Ma a questo siamo chiamati oggi. E in quanto padre e nonno ti posso assicurare che questa battaglia si combatte prima di tutto sul piano educativo, in famiglia, nella relazione con i nostri figli e nipoti. Ecco perché i nemici della fede cattolica, che sono i nemici della ragione, vogliono distruggere la famiglia.







mercoledì 12 dicembre 2018

A Dio Spaemann, l'ultimo grande filosofo cattolico. Aveva 91 anni





Robert Spaemann, morto ieri a 91 anni, è stato l’ultimo grande filosofo cattolico. La sua opera è stata una grande critica della modernità e una apologetica della ragione e della fede insieme a tutti i livelli nella verità. Il sodalizio con Benedetto XVI a Ratisbona. La denuncia di relativismo morale dopo la pubblicazione di Amoris laetitia.


Stefano Fontana, 12-12-2018

“Che esista un essere chiamato Dio, è un’antica e intacitabile diceria. Questo essere non è una parte di ciò che accade nel mondo, è piuttosto fondamento e origine dell’universo. Si deve tuttavia alla diceria anche il fato che tracce e indicazioni di questa origine si trovino nel mondo stesso. E soltanto in questo sta il fondamento del perché su Dio si possono dire tante cose”. Così scriveva Robert Spaemann, il grande filosofo tedesco che ieri ha lasciato questa terra per quella promessa, nel suo libro La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità del 2007. Una di quelle frasi del professore a Monaco che aveva sostituito nel 1968 Hans-Georg Gadamer ad HeidelberG, che ci mancheranno perché in esse si poteva trovare nella verità l’incontro della ragione con la fede, il che anche ci fa capire il perché di tanta affinità e stima tra di lui e Benedetto XVI.


Spaemann è stato forse l’ultimo grande filosofo cattolico. Non dico cristiano, dico cattolico. La sua opera è una grande critica della modernità fatta con scopi ricostruttivi del sapere dopo il buio e della vita dopo la morte, una critica genuinamente apologetica della possibilità che nella verità la ragione e la fede si incontrino a tutti i livelli. Della modernità, di cui si era occupato fin dal 1959 con L’origine della sociologia dallo spirito della restaurazione, egli ha criticato e superato tutte le contraddizioni: la sua negazione della natura, per esempio, nel libro Rousseau cittadino senza patria del 1980 ove viene denunciato l’inganno dell’utopia la sua negazione filosofica e religiosa del peccato originale ancora in La diceria immortale; il relativismo morale e l’etica fai da te della coscienza libertaria in Concetti morali fondamentali del 1986; il suo anti-finalismo vale a dire la negazione che le cose non siano solo spinte da dietro ma anche attratte da davanti da parte di un fine che dà loro senso in Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico del 1981 e poi rieditata nel 2005 in Germania e in Italia da Ares nel 2013; la sua deprivazione e annichilimento della persona in Persone. Sulla differenza tra qualcosae qualcuno” del 1996, editata in Italia da Laterza.


Dopo l’elezione di Benedetto XVI fu evidente che le prospettive dei due si incontravano. Nella lectio di Regensburg (2006) di papa Benedetto si possono trovare molti spunti anche del pensiero di Spaemann. “La verità inevitabilmente è intollerante. Tolleranza c’è non verso l’errore, ma soltanto verso l’errante”: così scriveva Spaemann nel saggio “Benedetto XVI e la luce della ragione” pubblicato, all’indomani di Regensburg e delle polemiche lì suscitate, nell’opera collettiva del 2007 Dio Salvi la ragione (Cantagalli). La tolleranza per tutto e per tutti tipica dell’attuale fase terminale del pensiero moderno si fa intollerante proprio negando e combattendo l’intolleranza della verità, senza della quale, però, non si riesce nemmeno a fondare la verità della indiscutibile tolleranza. Per negare il dogma bisogna essere dogmatici. Così il pensiero si condanna a morte e – nota argutamente Spaemann – se l’uomo non sa mai andare oltre se stesso, come oggi si dice, come fa a saperlo? Per sapere se l’uomo sia incapace di verità bisogna già aver trasceso lo spazio della coscienza ed aver già avuto accesso alla verità. Tramite lampi di questo genere Spaemann dava ai suoi lettori la gioia intellettuale e la fiducia che, sapendolo vedere con gli occhi giusti, tutto ha un senso.


Di recente, con l’acuirsi di molte questioni problematiche dentro e fuori la Chiesa, Spaemann era intervenuto anche su grandi temi di attualità come quello dell’Europa, della liturgia e della Chiesa del pontificato di papa Francesco.


Egli vedeva l’Europa prigioniera del “nichilismo debole”: “Nessun pastore e nessun gregge. Ciascuno vuole la stessa cosa. Ciascuno è la stessa cosa. Chi ha una sensibilità diversa, va spontaneamente al manicomio. Oggi si chiama anche liberalismo e per tutto ciò che non si rassegna ad esso si ha già a disposizione il termine intimidatorio ‘fondamentalismo’. Così inteso, un fondamentalista è chiunque possegga qualcosa che gli appare serio, qualcosa di indisponibile”.

L’autoaffermazione velleitaria del nichilismo debole ha bisogno di scontarsi con il sacrificio del Golgota che si rinnova sull’altare: “Deve esser consentito riflettere – scriveva nel 1991 – sul perché, a partire dagli anni Sessanta, questo sia, improvvisamente e completamente, andato perduto”. Da qui la necessità di una “restaurazione di una celebrazione della Messa, in cui il carattere del Mistero, del sacrificio e della preghiera, sgorghi in modo inequivocabile…Questo può accadere soprattutto attraverso la restaurazione di un comune orientamento che assume la preghiera del sacerdote e del popolo. La generale diffusione del cosiddetto altare del popolo cancella la differenza tra altare e pulpito. E quando il microfono sopraggiunge sull’Altare, viene quasi inevitabilmente suscitata l’impressione che il sacerdote sia un animateur”.

Più di recente, dopo la pubblicazione di Amoris laetitia (2015), Spaemann era intervenuto in modo molto duro sull’Esortazione apostolica. La mancanza di risposte da parte del papa ai “Dubia” dei quattro cardinali lo aveva riempito di “grande preoccupazione” perché in quel modo “il magistero supremo si inabissa”. Nell’aprile 2016, in una intervista alla Herder Korespondenz, Spaemann aveva previsto le conseguenze: “incertezza e confusione, dalle conferenze episcopali al parroco nella giungla”. Fino alla affermazione dirompente: “Il papa avrebbe dovuto sapere che un passo del genere avrebbe spaccato la Chiesa portandola verso uno scisma che non si verificherebbe in periferia, ma nel cuore stesso della Chiesa".


C’era da aspettarsi qualcosa di diverso da chi aveva affermato che “La verità inevitabilmente è intollerante. La tolleranza c’è non verso l’errore, ma soltanto verso l’errante”?








martedì 11 dicembre 2018

Il nuovo “Padre nostro” e quel semplicismo pastorale che non semplifica





Aldo Maria Valli 11-12-18

Torniamo a occuparci del Padre nostro e della nuova traduzione della preghiera insegnata da Gesù.

Dopo l’analisi di monsignor Nicola Bux, pubblicata qualche giorno fa, ospito oggi un intervento del teologo dom Giulio Meiattini, monaco benedettino dell’Abbazia della Madonna della Scala a Noci, docente alla Facoltà teologica della Puglia e al Pontificio ateneo Sant’Anselmo di Roma. Un intervento che, commentando l’operazione gestita dalla Conferenza episcopale italiana, spiega: «Chiedendo “non ci abbandonare alla tentazione”, Dio appare ora non più come colui che potrebbe “indurre in tentazione”, ma colui che potrebbe tuttavia abbandonarci ad essa. Dunque, l’oscurità o la difficoltà teologica non è sciolta, ma solo spostata».

Più in generale, il «bel risultato» a cui si è approdati, scrive dom Meiattini, è fallimentare sotto tutti i punti di vista: «a) si è scelta una traduzione chiaramente sbagliata sul piano filologico; b) non si è risolto il problema interpretativo e teologico, che rimane tale e quale; c) si è ripiegato sulla semplificazione divulgativa, considerando quest’ultima come l’unico livello di cui tenere conto; d) questa opera di semplificazione non raggiunge però il suo scopo».

«Il dettaglio della nuova traduzione del Pater – spiega l’autore – è rivelativo di un problema molto più largo e profondo. È il problema della “pastorale” eretta a unico ed esclusivo criterio, che non fa più conto, non dico della teologia, ma neppure del testo biblico e, in nome dell’adattamento e della semplificazione, è disposta non a spiegare, bensì a piegare anche la Scrittura, dopo aver già spiegazzato la liturgia».

A.M.V.

***

Le tentazioni del Pater e i peccati della pastorale
E così non reciteremo più, o non canteremo più, il Padre nostro – l’oratio dominica, la preghiera del Signore – come prima, almeno in Italia. La Conferenza episcopale italiana “è addivenuta alla conclusione” di cambiare la formulazione della penultima invocazione del Pater nel suo uso liturgico: non si dirà più “non ci indurre in tentazione”, come eravamo abituati, bensì “non ci abbandonare alla tentazione”.

A dire il vero non si tratta di una novità vera e propria. Come si sa, questa soluzione era stata adottata già nella nuova versione ufficiale della Bibbia approvata dalla Cei e pubblicata nel 2008 e così, da diversi anni, quando nella Santa Messa veniva letto il brano evangelico contenente il Padre nostro, ascoltavamo questa traduzione. Dunque, era assai probabile che anche nella nuova edizione italiana del Messale Romano, in gestazione da molti anni, si accettasse questa correzione del Pater.

Viene da domandarsi: perché mai proprio ora le obiezioni e le reazioni di vario tipo a questa traduzione si sono fatte più insistenti, e non quando è uscito il nuovo lezionario? Il motivo penso sia facilmente comprensibile: ora non si tratterà più di ascoltare dalla voce del sacerdote o del diacono, poche volte in un anno, quelle parole della preghiera del Signore: “non ci abbandonare alla tentazione”. D’ora in poi, ad ogni Santa Messa feriale e domenicale e, per estensione e uniformità, alle Lodi e ai Vespri di ogni giorno (almeno per coloro che li celebrano), come in ogni circostanza nella quale dei fedeli riuniti insieme reciteranno il Padre nostro, saranno queste le parole che pronunzieremo abitualmente e memorizzeremo. Prima era cambiata la traduzione, ora cambia il nostro modo di pregare. E’ evidente che la questione tocca tutti più da vicino.

Anche se tanto è stato detto, vogliamo provare anche noi a fare qualche considerazione in proposito, perché pur trattandosi di un dettaglio, per quanto non proprio marginale, esso è rivelativo di questioni molto più ampie e profonde, che ormai saltano fuori da ogni parte, persino nella traduzione di un mezzo versetto evangelico come questo.
Niente di nuovo sotto il sole

Innanzitutto è importante rendersi conto che la frase in questione ha costituito da sempre un punto difficile da spiegare, perché è collegata ad alcuni aspetti non semplici circa il rapporto fra bontà divina, tentazione diabolica e permissione del male. La traduzione consueta a cui siamo abituati, infatti, sembra suggerire che Dio sia quasi il responsabile delle nostre tentazioni. Se dobbiamo pregare che Dio non ci induca in tentazione, c’è il pericolo di pensare che egli non sia davvero buono! Il verbo italiano “indurre” contiene in effetti diverse sfumature. Quella forse più comune, nella parlata corrente, suggerisce l’atto del sollecitare, dello spingere, quasi dell’incitare: come quando si dice che qualcuno è stato indotto a un certo comportamento o a una qualche azione. Ed è soprattutto questa sfumatura che, nel contesto del Padre Nostro, è avvertita come problematica. Come si può pensare che Dio induca (spinga, solleciti) in tentazione? La stessa traduzione latina della Vulgata, ne nos inducas in tentationem, conservatasi nei secoli, anche se in modo meno diretto, presenta in fondo lo stesso problema: quello di un Dio che potrebbe anche “condurre” o “portare” l’uomo in una situazione di prova/tentazione (peira/peirasmos). Ma si deve pur riconoscere (dizionari alla mano) che il verbo italiano include ancora il significato di “condurre in un luogo” o “recare”, derivante dall’inducere latino, il quale, usato nel Pater dalla Vulgata, è perfettamente aderente e corrispondente all’originale greco eisenenkes, da eis-ferein, che significa letteralmente “portare/condurre dentro” o anche “intro-durre”. Non sarebbe stato più semplice ricordare questa etimologia del verbo?

Dunque, la difficoltà di questa frase del Padre nostro, non sta nelle traduzioni, latina, italiana o inglese che siano, ma è insita proprio nel testo originale riportato dai vangeli. Lo si può constatare facilmente, aprendo un qualunque buon commentario al vangelo di Matteo o di Luca, che ci riportano il testo del Paterin due forme un po’ diverse: al versetto corrispondente, che è identico sia nel vangelo di Luca sia in quello di Matteo, ci si imbatte immancabilmente in analisi più o meno lunghe e complicate, dedicate alla spiegazione e interpretazione del vero senso, o presunto tale, della difficile espressione: “non ci portare/condurre nella tentazione”. Se, evidentemente, non è Dio a tentare al male, poiché egli vuole solo il bene, allora perché rivolgersi a lui con una simile richiesta?

In questi commentari, però, si troverà anche scritto che la parola greca che noi traduciamo senza problema con “tentazione” (peirasmos) può anche significare semplicemente “prova”. E in effetti, non si capisce perché tutta l’attenzione si sia recentemente concentrata sul verbo “indurre” e non sul sostantivo “tentazione”. La traduzione “non ci condurre nella prova”, sarebbe altrettanto accettabile. Infatti, il latino tentatio/tentare, indica indifferentemente (come il greco peirasmos/peirazein) sia la prova (sofferenza) in generale sia quella prova specifica che è l’essere tentati al male dal diavolo. Per secoli nella Bibbia latina si è letto, senza scandalizzarsi: “Deus tentavit Abraham” (“Dio mise alla prova Abramo”: Gen 22,1) oppure “Hoc autem (Iesus) dicebat tentans eum” (Gesù diceva questo – a Filippo – per metterlo alla prova”: Gv 6,6).

A riprova di quanto detto, basti considerare che di Gesù si dice che “fu condotto (anechthe) dallo Spirito nel deserto per essere tentato/provato da Satana” (Mt 4,1). Frase sconcertante, a prima vista, ma che nessuno si sognerebbe di tradurre diversamente, solo perché lascia intendere che il Padre, per mezzo dello Spirito, ha consegnato Gesù alla prova e alla tentazione, esponendolo a Satana. Se poi ci addentriamo nella tradizione spirituale cristiana, ci possiamo imbattere in affermazioni non semplicissime da comprendere, come questa, risalente a Sant’Antonio abate: “Togli le tentazioni, e nessuno si salverebbe”. La tentazione (o la prova) viene presentata come una fase necessaria sulla via della salvezza, dunque come qualcosa di cui dovremmo persino ringraziare Dio, come in effetti i santi hanno fatto e fanno. E infatti la Bibbia ci presenta le prove come parte della pedagogia divina.

Quello che insomma dobbiamo capire, è che le difficoltà di questo versetto del Padre nostro non sono per nulla nuove e che già gli antichi commentatori si erano cimentati nello spiegarle. Ma di oscurità la Bibbia è piena. E i più grandi Padri non solo non l’hanno negato, ma hanno considerato le oscurità delle pagine bibliche non qualcosa da evitare o ridurre attraverso semplificazioni, ma come un segno della trascendenza di Dio e del suo mistero. Esse fanno parte delle “prove” che accompagnano il cammino verso Dio.
La vera novità

Ma se le difficoltà intrinseche a questa frase del Padre nostro nell’originale greco non sono una novità, qual è allora la novità nell’attuale discussione intorno alla nuova versione? Cosa c’è di veramente nuovo nella scelta di tradurre: “non ci abbandonare alla tentazione”? La novità, se ci è permesso dire quello che pensiamo, è l’atteggiamento disinvolto e superficiale con cui la questione è stata trattata, confondendo in modo grossolano il livello della traduzione, quello dell’interpretazione e, infine, l’altro, ancora distinto, della spiegazione destinata ai fedeli (la catechesi). Si tratta di livelli collegati, ma da mantenere distinti, se non vogliamo rischiare di far dire alla Sacra Scrittura quello che vogliamo farle dire noi, invece di metterci in “religioso ascolto della Parola di Dio” (Dei verbum, 1). La traduzione ha il compito di discostarsi il meno possibile dal testo originale, sforzandosi di trasferire i significati della lingua di partenza nelle parole e nella grammatica di quella di destinazione. Uno scarto è inevitabile, in questa operazione, ma esso dev’essere il più contenuto e controllato possibile. Altro il compito dell’esegesi e dell’interpretazione, che devono cercare di illustrare il vero senso del testo a livello filologico o la sua portata per l’oggi, sciogliendo (anche qui nel limite del possibile) le varie difficoltà, sviscerare gli eventuali temi o problemi teologici connessi e via dicendo. Se il testo fosse, per vari motivi, ostico alla comprensione, l’interpretazione degli esperti potrebbe prolungarsi in un’opera di spiegazione divulgativa per i non addetti ai lavori, cosa che spetterebbe soprattutto ai catechisti e ai predicatori. In quest’ultimo passaggio si dovrà spesso accettare un certo livello di semplificazione.

Sotto questa luce, la nuova traduzione del versetto del Padre nostro – “e non ci abbandonare alla tentazione” – ignorando che questi livelli restano e devono restare distinti, anche se in certa misura intrecciati, si è appiattita al livello della divulgazione (detto altrimenti, della “pastorale”), facendo finta che i problemi della traduzione e le diverse difficoltà interpretative che testo e traduzioni contengono, siano soddisfatte e risolte con questa semplice formuletta di facile consumo. Ma c’è almeno davvero riuscita?

Purtroppo no! Non solo il testo in tal modo è tradotto in modo sbagliato, usando il verbo “abbandonare” per tradurre eisenenkai, che come si è detto significa “condurre/portare dentro”; non solo si è usato un verbo statico (abbandonare) al posto di un verbo che indica moto in luogo (portare dentro), ma si è data direttamente un’interpretazione semplificatoria in luogo di una traduzione fedele, semplificazione che in realtà suscita altrettanti problemi.
Il semplicismo pastorale non semplifica

Chiedendo “non ci abbandonare alla tentazione”, Dio appare ora non più come colui che potrebbe “indurre in tentazione”, ma colui che potrebbe tuttavia abbandonarci ad essa. Dunque, l’oscurità o la difficoltà teologica non è sciolta, ma solo spostata. Anzi, forse acutizzata, se pensiamo che il mistero più abissale della nostra fede è quella croce dalla quale Gesù ha pregato dicendo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. C’è uno skandalon più grande? Un Dio che abbandona il Figlio e può abbandonare noi alla tentazione diabolica o alla prova non è meno misterioso di un Dio che “conduce nella tentazione” o che “conduce” il Figlio nel deserto per esservi tentato dal diavolo. Anche il tema dell’abbandono ha dunque bisogno di essere spiegato e provoca altrettante domande e perplessità.

Ecco allora il bel risultato a cui si è approdati: a) si è scelta una traduzione chiaramente sbagliata sul piano filologico; b) non si è risolto il problema interpretativo e teologico, che rimane tale e quale; c) si è ripiegato sulla semplificazione divulgativa, considerando quest’ultima come l’unico livello di cui tenere conto; d) questa opera di semplificazione non raggiunge però il suo scopo.

E’ qui che affiora e viene in piena luce quello che dicevamo all’inizio. Il dettaglio della nuova traduzione del Pater è rivelativo di un problema molto più largo e profondo. E’ il problema della “pastorale” eretta a unico ed esclusivo criterio, che non fa più conto, non dico della teologia, ma neppure del testo biblico e, in nome dell’adattamento e della semplificazione, è disposta non a spiegare, bensì a piegare anche la Scrittura, dopo aver già spiegazzato la liturgia. Insomma, “la pastorale colpisce ancora” e sacrifica sull’altare della fruizione immediata la verità della filologia, glissa sul livello teologico, e presume, con non poca ignoranza, di ritenersi come la soluzione, il rischiaramento (Aufklärung) di ogni oscurità o antropomorfismo mitico. Senza neppure accorgersi che così facendo non ottiene neppure il risultato che aveva sperato. Ironia della sorte! Come in nome del pastoralismo (ben diverso dalla pastorale vera) si è immiserita o banalizzata la liturgia, così adesso si è proceduto nei confronti della Sacra Scrittura. L’esclusione dei cosiddetti salmi imprecatori, o delle sezioni imprecatorie dei salmi, dalla nuova Liturgia Romana delle Ore, è stato uno dei primi capitoli di questa forzata riduzione della Scrittura alle limitate capacità della illuministica o post-illuministica ragione occidentale, in piena crisi. Ora, la nuova traduzione del Padre nostro non fa che continuare su questa linea, cioè la linea di una profonda incomprensione del rapporto fra verità e metodi pastorali, che resta il nodo irrisolto lasciatoci in eredità dall’ultimo Concilio.

L’episodio, apparentemente marginale, della traduzione di una frase del Pater, in realtà è una prova in più del semplicismo con cui sempre più spesso siamo soliti trattare il mistero di Dio, che resta sempre o dovrebbe restare – nelle parole delle Scritture come nella Liturgia – colui che, pur nella somiglianza con l’uomo, mantiene una più grande dissomiglianza (maior dissimilitudo), secondo quel principio dell’analogia che è uno dei caratteri distintivi di ogni approccio al mistero ri-velato, nonché del cattolicesimo. Potrebbe apparire esagerata tutta questa discussione sulla traduzione di un mezzo versetto, se la scelta fatta non mostrasse, ancora una volta, che il piano inclinato della pastorale del ribasso o del ribasso della pastorale continua ad avere la meglio. Si continua ad umanizzare Dio, ma si dimentica che la maior dissimilitudo attende la trasformazione dell’uomo in Dio.

In realtà la Bibbia è costellata di innumerevoli passi oscuri. Qualcuno mi può spiegare cosa può pensare un qualunque fedele, ascoltando la finale della parabola dei talenti? “A chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Che razza di giustizia è questa, si potrebbe domandare chi va a Messa, ascoltando queste parole? Di questi passi se ne potrebbero enumerare molti. Dovremmo forse, invece di tradurre, trasformare Bibbia e Lezionario in una parafrasi della Parola divina ad usum delphini?

A sottolineare ancora di più la paradossalità dell’operazione, va ricordato che l’oratio dominica contiene altri punti enigmatici. Un esempio per tutti: cosa significa “sia santificato il tuo nome”? Forse il nome di Dio non è abbastanza santo o ha bisogno di un incremento di santità? Che idea si fa la gente sentendo risuonare questa espressione? Dovremmo per caso usare altre “traduzioni divulgative” per questa invocazione? Ma dovrebbero essere gli omileti, non i traduttori, a illuminare i fedeli in proposito, spiegando il senso di queste parole, perché il Padre nostro dice proprio così: “sia santificato il tuo nome”, anche se il Nome di Dio, cioè Dio stesso, è già perfettamente santo. Peccato, dunque, che non si sappia più apprezzare e rispettare quella dimensione di eccedenza, di mistero, di incomprensibilità con la quale Dio ci si presenta nella Bibbia e nel mistero di Gesù. Perché questo alla fine si riflette sul nostro modo di comportarci con Lui: con faciloneria, invece che con fiducia, con cameratismo, invece che con amicizia, manipolando, invece che adorandolo.

Una piccola nota erudita, per finire: non è proprio questo abbassamento di toni, questa semplificazione pastoralista, una versione di bassa lega di quella onto-teo-logia che dopo Heidegger tanti teologi hanno criticato a iosa, pensando alla neo-scolastica, senza accorgersi che loro stessi, col loro “paradigma pastorale”, cadevano proprio in quella Vorhandenheit (lo stare a portata di mano, la manipolabilità, insomma) del mistero dell’Essere da cui proprio Heidegger metteva in guardia?

Forse non ha tutti i torti chi suggerisce di riprendere a cantare il Pater in latino: et ne nos inducas in tentationem! In effetti la tentazione c’è, e non è detto che in questo caso sia da respingere.

Dom Giulio Meiattini, osb