lunedì 12 settembre 2016

Fede e morale, i credenti hanno bisogno di certezze




                     
di Enrico Cattaneo
12-09-2016

Caro Direttore,

l’Anno della Misericordia ha rimesso in primo piano le “opere di misericordia”, per ricordarci che “senza le opere la fede è morta” (lettera di Giacomo, 2, 17). È vero che, come insegna san Paolo, “siamo giustificati gratuitamente per grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù Cristo” (lettera ai Romani, 3, 24). Ma se colui che è “giustificato” non fa le “opere” di chi è stato “reso giusto”, la sua giustificazione non gli serve a nulla, anzi diventerà la sua condanna.

Molto rilievo è stato dato in questo anno alle “opere di misericordia corporale”: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, fino alla settima, seppellire i morti. Però non meno importanti sono le “opere di misericordia spirituale”, la prima della quali è “consigliare i dubbiosi”.

Nell’epoca moderna c’è chi ha fatto “l’elogio del dubbio”, applicandolo anche alla fede, come se avere delle “certezze” fosse una specie di peccato. Il dubbio ragionevole può essere una cosa buona in filosofia, nelle scienze, e anche nella vita comune, compresa la vita religiosa. Però c’è dubbio e dubbio. Le persone “credulone” non rendono un buon servizio alla fede, ma anche lo scetticismo esasperato è negativo. Oggi sono di moda tutte quelle espressioni che parlano di “incompiutezza”, “provvisorietà”, “positività” o addirittura “necessità” del dubbio per un credente, come se la sola certezza sia quella di “non avere certezze”. Come si esce allora da questa situazione?

Grande importanza si è data al “discernimento”, come anche Papa Francesco ha ribadito più volte. Però spesso questo concetto è usato a sproposito, senza sapere bene che cosa si dice. Per risalire a sant’Ignazio di Loyola, che ha sistematizzato per primo questa tematica, non vanno confuse le “regole per il discernimento degli spiriti”, cioè di quei “movimenti interiori” che avvengono nell’anima, con le regole “per fare elezione”, cioè in vista di una scelta pratica.

Usando ora per comodità la parola “discernimento”, senza troppi distinguo, bisogna ricordare che per Ignazio il discernimento va fatto su cose “indifferenti o buone in sé” [170], cioè “in tutto quello che è permesso al nostro libero arbitrio e non gli è proibito” [23]. Così non ha senso fare discernimento sui dieci comandamenti. Non posso fare discernimento se mi conviene o no abortire, se mi conviene o no intraprendere una nuova relazione coniugale, se mi conviene o no assecondare un impulso omosessuale, e via dicendo. Discernimento è invece vedere se devo seguire la vita religiosa oppure la via del matrimonio, se devo (anzi “dobbiamo” in questo caso) avere uno, due, tre o più figli; se devo condividere maggiormente le mie risorse economiche, se devo regolarmi nel cibo, nei divertimenti, ecc., facendo però in modo che l’amore che mi nuove e mi fa scegliere tale cosa “discenda dall’alto, dall’amore di Dio” [184], “mirando unicamente al fine per cui sono stato creato, cioè per la lode di Dio nostro Signore e per la salvezza dell’anima mia” [169]. Solo così le mie scelte saranno “pure, limpide” e non “disordinate e oblique” [172].

Detto questo, caro Direttore, a ma pare che sia importante riprendere la prima opera di misericordia spirituale che è, come abbiamo detto “consigliare i dubbiosi”. Penso anzitutto che il popolo di Dio abbia diritto a non rimanere nel dubbio circa le cose di fede e di morale. È vero che non si tratta di fare un trattato “more geometrico”. La vita morale è molto più complessa, ma appunto per questo occorre avere dei punti di riferimento. C’è spazio, certamente, per questioni dibattute, per legittime opinioni diverse, ma nei punti essenziali di fede e di morale, il dubbio è deleterio, rischia di far perdere l’orientamento, di non sapere più che strada prendere, così che molti arrivano o al “fai da te” o ad abbandonare la fede.

Già il profeta Isaia ammoniva a suo tempo dicendo: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene!” (Is 2,20). E si potrebbe aggiungere, con sant’Agostino, guai a quei “cani muti”, che quando vedono venire il lupo per sbranare le pecore, se ne stanno zitti o se la danno a gambe.

Se il peccato non è una bazzecola, se non è una semplice convenzione sociale, ma è qualcosa che ci separa da Dio, con la conseguenza che, se non c’è pentimento, ci porta alla dannazione eterna, allora stare zitti è un reato davanti a Dio. Lo ricordava già il papa san Gregorio Magno. Beati allora quegli operatori di misericordia, che, pur consapevoli di tutta la complessità dei problemi, sanno aiutare i fratelli uscire dal dubbio e a sentire come indirizzate a sé quelle parole che Gesù rivolse a Pietro: “Uomo di poca fede, nella fede perché hai dubitato?” (Mt 14,31). E anche quelle rivolte a tutti gli apostoli: “Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).






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