giovedì 6 giugno 2013

La piaga del divorzio tra vescovo e diocesi









Papa Francesco martella contro le ambizioni di carriera. Tra cui il voler passare da una cattedra episcopale a un'altra e poi a un'altra ancora. Ma il proposito di legare indissolubilmente un vescovo alla sua diocesi è finora caduto nel vuoto. I curriculum dei cardinali ne sono la prova




di Sandro Magister

CITTÀ DEL VATICANO, 6 giugno 2013 – Uno dei temi ricorrenti della predicazione di papa Jorge Mario Bergoglio è la messa in guardia dal carrierismo ecclesiastico. Più volte, sia nelle omelie delle messe mattutine a Santa Marta, sia in quelle pronunciate in occasioni solenni, il pontefice venuto "dalla fine del mondo" denuncia una tentazione antica, che in effetti risale ai tempi di Gesù, quando gli apostoli, raccontano i Vangeli, battagliavano tra loro su chi fosse il più grande.

La denuncia del carrierismo ecclesiastico non è comunque – se non per la più frequente reiterazione – un'esclusiva dell’attuale stagione papale.

Proprio quest’anno ricorrono i cinque anni dalla morte del cardinale Bernardin Gantin, che nel secolo ormai scorso lanciò un memorabile "j’accuse" contro il carrierismo clericale. E lo fece dopo essere stato per ben 14 anni, dal 1984 al 1998, prefetto della congregazione per i vescovi, il dicastero vaticano che più da vicino collabora con il papa per la nomina dei pastori di gran parte dell’orbe cattolico.

Era il 1999, quando il 27 marzo "L’Osservatore Romano" pubblicò un articolo siglato dal compianto cardinale Vincenzo Fagiolo, illustre canonista della curia romana, dal titolo: "Come giudicare 'le cose disposte' dalla Santa Sede".

In esso il porporato prendeva spunto da una lettera del 1928 che monsignor Angelo Roncalli, quando era delegato apostolico in Bulgaria, inviò ad Alfonso Maria De Sanctis, parroco di San Giovanni Battista dei Fiorentini a Roma, che era stato nominato vescovo di Segni.

Nella missiva, il futuro Giovanni XXIII si congratulava per la nomina e riprovava i commenti che la stessa aveva suscitato a Roma: "Povero mons. De Sanctis! Lo mandano vescovo a Segni. Poteva capitargli di peggio!"; oppure: "Lo mandano colà solo per poco tempo, e in vista di un posto migliore".

Questo fu il commento del cardinale Fagiolo all’episodio in questione:

"La dignità dell’episcopato sta nel 'munus' che comporta ed è tale che per sé prescinde da ogni ipotesi di promozioni e di trasferimenti, che andrebbero, se non eliminati, resi rari. Il vescovo non è un funzionario, un avventizio, un burocrate di passaggio, che si prepara per altri più prestigiosi incarichi".

Fu proprio a questa frase che si agganciò il cardinale Gantin – che all’epoca era decano del collegio cardinalizio ed era stato il primo africano a ricoprire un incarico di primo piano in curia – per lanciare la sua invettiva contro il carrierismo ecclesiastico.

Al fine di promuovere una possibile soluzione, o almeno frenare il fenomeno, Gantin propose di proibire il trasferimento da una diocesi ad un’altra, recuperando la prassi di stabilità che era in vigore nei primi secoli della storia cristiana.

Lo fece nell'aprile del 1999 con un'intervista al mensile internazionale "30 Giorni", il periodico allora diretto da Giulio Andreotti, lo statista cattolico scomparso di recente che tra l’altro era amico d'infanzia del cardinale Fagiolo:

"Un vescovo deve rimanere lì per sempre"

Gantin disse:

"Quando viene nominato, il vescovo deve essere per il popolo di Dio un padre e un pastore. E padre lo si è per sempre. E così un vescovo, una volta nominato in una determinata sede, in linea di massima e di principio deve rimanere lì per sempre. Sia chiaro. Quello tra vescovo e diocesi viene raffigurato anche come un matrimonio; e un matrimonio, secondo lo spirito evangelico, è indissolubile. Il nuovo vescovo non deve fare altri progetti personali. Ci possono essere motivi gravi, gravissimi, per cui l’autorità decida che il vescovo vada, per così dire, da una famiglia a un’altra. Nel fare questo l’autorità tiene presente numerosi fattori, e tra questi non vi è certo l’eventuale desiderio di un vescovo di cambiare sede".

Il porporato del Benin – al cui nome è stata intitolata quest'anno una cattedra alla Pontificia Università Lateranense – demoliva anche il concetto delle cosiddette sedi cardinalizie, tradizionalmente mete di trasferimenti molto agognati:

Diceva Gantin, prefigurando ciò che forse potrebbe accadere proprio sotto papa Francesco:

"Il concetto delle diocesi cosiddette cardinalizie deve essere molto relativizzato. Il cardinalato è un servizio che viene chiesto a un vescovo o a un sacerdote tenendo conto di tante circostanze. Oggi nei paesi di recente evangelizzazione, come in Asia e in Africa, non ci sono sedi cosiddette cardinalizie, ma la porpora viene data alla persona. Dovrebbe essere così dappertutto, anche in Occidente;.

Per il cardinale Gantin, quindi, bisognava tornare alla prassi antica e ridurre quasi a zero l’uso di trasferire un vescovo da una sede a un'altra più prestigiosa:

"Nel passato, quando il numero delle diocesi aumentava, era comprensibile che si operasse con dei trasferimenti. Adesso questa esigenza non esiste più nei paesi in cui la gerarchia cattolica si è ormai assestata, come in Europa, ad esempio. Mentre esigenze di questo genere possono essere presenti ancora nelle terre di missione. Ma in quest’ultimo caso i trasferimenti dovrebbero essere verso sedi più disagiate, difficili, e non verso sedi più comode e prestigiose".

Il cardinale africano, scomparso nel 2008 e sostenitore fino all'ultimo delle tesi di quella sua intervista, arrivò anche ad auspicare una codificazione della proibizione dei trasferimenti:

"Non sarebbe male che si avviasse una procedura per introdurre questa norma nel codice di diritto canonico. Certo ci potranno essere delle eccezioni, determinate da gravi motivi. Ma la norma dovrà essere quella della stabilità, per evitare arrivismi e carrierismi".

L’intervista di Gantin ebbe una notevole eco nei sacri palazzi e sui media. Tra gli ecclesiastici che ne sposarono i contenuti ci fu anche l’allora cardinale Joseph Ratzinger, che aveva ricevuto la porpora assieme a Gantin da Paolo VI nel 1977.

Sempre sulla rivista "30 Giorni", nel numero di giugno di quello stesso anno 1999, l'allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede e vice-decano del collegio cardinalizio si disse "totalmente d’accordo con il cardinale Gantin":

Il mistero e l'operazione della grazia

E aggiunse:

"Soprattutto nella Chiesa non dovrebbe esistere alcun senso di carrierismo. Essere vescovo non deve essere considerato una carriera con diversi gradini, da una sede all’altra, ma un servizio molto umile. Penso che anche la discussione sull’accesso al ministero sarebbe molto più serena se si vedesse nell’episcopato non una carriera ma un servizio. Anche una sede umile, con pochi fedeli, è un servizio importante nella Chiesa di Dio. Certo, ci possono essere casi eccezionali: una grandissima sede in cui è necessario avere esperienza del ministero episcopale; in questo caso può darsi… Ma non dovrebbe essere una prassi normale; solo in casi eccezionalissimi".

Ratzinger si mostrò scettico solo circa la possibilità immediata di codificare una norma che impedisse i trasferimenti da una diocesi all'altra:

"È pensabile, benché difficile. Difficilmente si cambia il codice a solo sedici anni dalla sua pubblicazione [nel 1983]. In futuro vedrei anch’io bene che fosse aggiunta una frase su questa unicità e fedeltà di un impegno diocesano".

In realtà, tuttavia, né nella fase finale del pontificato di Giovanni Paolo II, né in quello di Benedetto XVI è stato fatto alcunché per cercare di diminuire il fenomeno dei trasferimenti episcopali, che fino al IV secolo erano tassativamente proibiti per poi essere ammessi già in epoca carolingia e infine molto praticati a partire dal basso medio evo, come ha documentato don Lorenzo Cappelletti sempre in quel numero di "30 Giorni":

Nessun vescovo passi da una diocesi all'altra

In questi ultimi decenni, di fatto, i trasferimenti di diocesi sono stati frequentissimi. Basti pensare, ad esempio, che tra i porporati attualmente con diritto di voto in conclave ben 28 hanno nel proprio "cursus honorum" tre diocesi delle quali sono stati vescovi.

Tra questi ci sono gli italiani Ennio Antonelli, Angelo Bagnasco, Angelo Scola, Dionigi Tettamanzi e Agostino Vallini. I brasiliani Geraldo Maiella Agnelo, Joao Braz de Aviz e Claudio Hummes. Gli americani Timothy Dolan, Francis George, William Levada, Roger Mahony, Edwin O’Brien, Donald Wuerl. Gli spagnoli Antonio Cañizares e Lluis Martinez Sistach. I tedeschi Reinhard Marx e Joachim Meisner. I latinoamericani José Francisco Robles Ortega, Ruben Salazar Gomez e Julio Terrazas Sandoval.

Lo statunitense Sean Patrick O’Malley e l’ecuadoregno Raul Eduardo Vela Chiriboga sono stati vescovi addirittura in quattro diocesi diverse. Mentre Meisner, Tettamanzi, Scola e il messicano Robles Ortega hanno cambiato sede quando già erano cardinali.

Al contrario, sono appena dieci i porporati che hanno svolto la loro missione episcopale esclusivamente in una singola diocesi.

Si tratta dell’irlandese Sean Brady, dell’ungherese Peter Erdö, del tedesco Karl Lehmann, dello scozzese Keith O’Brien, del portoghese José da Cruz Policarpo, del croato Vinko Pulijc, dell’honduregno Oscar Andres Rodríguez Maradiaga, del brasiliano Odilo Scherer, dell’austriaco Christoph Schönborn, del cinese John Tong Hon e del canadese Jean-Claude Turcotte.

Anche il cardinale Bergoglio, prima di essere eletto vescovo di Roma, ha avuto come unica sua “esposa” episcopale l'arcidiocesi di Buenos Aires.

Chissà se adesso rispolvererà l’idea lanciata 14 anni fa dal cardinale Gantin e se, eventualmente, avrà più fortuna di Ratzinger nel vederla applicata.

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Recentemente anche padre Timothy Radcliffe, già maestro generale del domenicani e dalle indubbie credenziali progressiste – al contrario dei cardinali Fagiolo, Gantin e Ratzinger – ha criticato la prassi dei trasferimenti di diocesi:

Ha detto padre Radcliffe in un'intervista del 24 maggio sul blog teologico dell’editrice Queriniana:

"Mi chiedo anche se sia un bene per i vescovi l’essere spostati da una diocesi all'altra. Indossano un anello che è un segno del loro essere 'sposati' alla diocesi, ma sono spesso separati dalle loro diocesi originali e sposati ad altre diocesi. Se sapessero invece di rimanere nella loro diocesi, allora potrebbero prestare ad essa la loro intera attenzione. È davvero strano che si permetta ai vescovi di essere divorziati dalle loro diocesi, ma non alle persone unite in matrimonio!".





http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350531

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