venerdì 31 agosto 2012

L’instabilità coniugale: il perché di un fenomeno in costante crescita

 
 
di Stefano Arnoldi – direttore di Corsia dei Servi


 

Secondo gli ultimi dati resi noti dall’Istat, gli ultimi anni confermano l’aumento dell’instabilità coniugale. Non che ci sia bisogno dell’Istat per rendersi conto del fenomeno in questione, ma i dati resi noti lasciano comunque sgomenti. Prendendo il 2010 ad esempio, si sono registrate ben 88.191 separazioni e 54.160 divorzi. Per capire meglio l’entità del fenomeno in questione, esaminiamo i dati del 2009, più o meno simili: le separazioni sono state 85.945 e i divorzi 54.456.

Rispetto al 1995, le separazioni sono aumentate di oltre il 64% ed i divorzi sono praticamente raddoppiati (+ 101%).

Tali incrementi si sono osservati in un contesto in cui i matrimoni diminuiscono, avendo lasciato sempre più spazio alla piaga delle convivenze…

Ora, questi dati, facilmente riscontrabili nella vita di tutti i giorni (le persone che decidono di sposarsi sono come mosche bianche e il fallimento di molti matrimoni e convivenze non fa più notizia, anzi: oggi c’è di che stupirsi quando si scoprono matrimoni che durano da decenni!…questo per dire che livelli di profondità si è riusciti a toccare), questi dati, dicevo, non possono che far riflettere a maggior ragione se si constata che il fallimento del matrimonio è spesso considerato come un fallimento di una vita. In altre parole le conseguenze sono devastanti: per i diretti interessati in primis (i coniugi), ma anche e soprattutto per eventuali figli, costretti a subire un dramma familiare loro malgrado.

Ciò che qui intendo portare a riflessione è la causa scatenante del fenomeno dell’instabilità familiare e la motivazione che induce tanti giovani a scegliere la forma della convivenza.
Sgombrerei subito il campo dalla solita motivazione per giustificare la scelta di convivere, piuttosto che sposarsi: proprio perché tanti sono i matrimoni che falliscono, è bene cimentarsi in un cosiddetto “periodo di prova” … come se il fatto di scoprire poi di non essere fatti l’uno per l’altra non sia gravido di conseguenze infelici e dolorose! Lasciamo questa stupida motivazione che altro non è che una ammissione di colpa, e di colpa grave (si “provano” cioè si usano le cose, mai le persone…) e troviamo il coraggio di cercare la vera argomentazione.

E non è poi così difficile arrivare al cuore del problema: oggi si è perso il significato dell’amore; in una società in cui tutto e il contrario di tutto viene messo sullo stesso piano a causa di una cultura nichilista e relativista in cui ognuno crede quello che gli pare, si sono smarriti i concetti essenziali dell’esistenza: non si sa più cosa sia la verità, non si sa più cosa significhi libertà, non si sa più cosa voglia dire “ti amo”…

L’amore, scriveva Fulton J. Sheen, consiste principalmente nella volontà, non nelle emozioni o nelle ghiandole… Il piacere associato all’amore, ovvero ciò che viene chiamato sesso, è la vaniglia del dolce: la sua funzione è di farci amare il dolce, non di farcelo ignorare. La più grande illusione degli amanti è di credere che l’intensità della loro attrazione sessuale sia la garanzia della perpetuità del loro amore. È a causa di questa incapacità di distinguere tra il ghiandolare e lo spirituale – ovvero tra il sesso, cha abbiamo in comune con gli animali, e l’amore, che abbiamo in comune con Dio- che i matrimoni sono così illusori. Ciò che molti amano non è una persona, bensì l’esperienza di essere innamorati. Non appena le ghiandole cessano di reagire con il loro originario vigore, gli “innamorati” che hanno identificato l’emotività con l’amore asseriscono di non essere più innamorati l’uno dell’altra. In tal caso, essi non hanno mai veramente amato l’altra persona: hanno amato soltanto di essere amati, il che rappresenta la forma più alta di egoismo.

Abbiamo così trovato la radice del male dell’amore (e, per inciso, di tutti i mali): l’egoismo. E quanto più si nega la fede nel Giudizio Divino, in una vita futura, nel paradiso e nell’inferno, nonché in un ordine morale, tanto più saldamente l’ego si afferma sovrano come la fonte della propria moralità. In altre parole, ogni persona si erge a giudice di se stessa, così sprofondando nell’oscurità più fitta di una vita disperata perché sempre più insoddisfatta e senza senso.

 

Fonte: www.riscossacristiana.it

Libertà e Persona

 

 

 

Le campane

 

 

 

Tratto da Traditio Liturgica




 
 
Le campane sono un mezzo utilizzato dalle chiese cristiane per richiamare l'attenzione a momenti particolari della giornata.
Indicano, innanzitutto, un fatto evidente: il Cristianesimo, come ogni altra religione, non è un fatto individualistico e privato ma sociale. Il fatto che il suono delle campane si diffonda in tutto lo spazio circostante, richiama ogni realtà a qualcosa di ben preciso che appartiene all'universo religioso, un universo non confinato, dunque, nel solo spazio della coscienza individuale.
 
Nei paesi in cui si confessa la laicità dello Stato e che, parallelamente, confessano la religione come fatto privato, la presenza del suono delle campane è un po' una "contraddizione", un segno che testimonia tutto un diverso ordine di cose, dal momento che non esiste luogo in cui questo suono non possa penetrare.

In conseguenza di ciò, oggi si nota il tentativo di alcuni d'imporre un limitato scampanio mentre, nella grande campagna francese, molti crescono senza avere mai sentito il suono frequente d'una campana od essere entrati in una chiesa.


Oltre ad annunciare la presenza o l'imminenza di una funzione liturgica, le campane ne marcano i momenti salienti. Succedeva, così, che le campane suonassero in corrispondenza dell'elevazione dell'ostia e del calice (nel rito latino) e che continuino a suonare all'inizio della grande Dossologia e del grande Ingresso (nel rito greco-bizantino) quando il pane e il vino sono portati in processione; che suonino nella grande dossologia al sabato santo nel rito latino (gloria in excelsis Deo) e che, parallelamente, suonino all'inizio di ogni grande dossologia verso la fine del mattutino nel rito bizantino.


Il suono delle campane annuncia, altresì, la Resurrezione di Cristo.


Nei monasteri latini tradizionali, le campane segnano l'inizio del canto del breviario nelle varie ore liturgiche poiché la preghiera santifica lo scorrere del tempo e le campane stanno a ricordarlo particolarmente.


Nel famoso quadro l' "Angelus", si ritrova tale aspetto: una coppia di contadini, al suono delle campane, ferma il suo lavoro e recita la preghiera mariana.L'annuncio del tempo, prima ancora che indicare un'ora, indicava la santificazione della stessa. Certamente l'angelus non era come la preghiera liturgica delle ore, essendo solo un esercizio di pietà, ma voleva, in qualche modo, conservare ancora la santificazione di una particolare ora presso chi non era né chierico né monaco. Una pratica oramai totalmente dimenticata dalla massa della società.




A proposito di questo tema è stato scritto:
"Le campane oltre il normale incarico di segnalare l'ora dei servizi religiosi, ebbero anche altri uffici congeneri, tuttora vivi nelle chiese [l'autore scriveva decenni fa' e questa pratica oramai è morta]; come quello di avvertire dell'agonia e morte di un fedele, perché si preghi per l'anima sua, costume di provenienza monastica; di scongiurare i temporali o meglio gli spiriti maligni che, secondo la credenza medioevale, ne sarebbero i suscitatori; di preannunciare la sera precedente il digiuno del dì successivo; di segnare l'ora del coprifuoco; di imprimere una nota di gioia nelle circostanze solenni della chiesa; ed altri ancora di carattere civile (l'orologio), ma sempre per un interesse collettivo". (Cfr. Mario Righetti, Storia Liturgica, I, Marietti, p. 484).


Le campane, come ogni altro elemento della chiesa, sono benedette e consacrate con una funzione particolare presieduta dal vescovo. In questo modo il loro suono non è considerato come ogni altro ma, in qualche modo, gli viene attribuito il valore di una "benedizione" che si diffonde su ovunque lo ascolti e lo accolga con animo ben disposto.


Il rito tradizionale latino di consacrazione delle campane (che in qualche modo ha elementi simili a quello bizantino) è stato descritto da Mario Righetti come segue:


"Il rituale della cerimonia, che di regola è demandato al vescovo, si trova già sostanzialmente abbozzato nel [rituale] gelasiano del secolo VIII, e poi meglio rifinito nel Pontificale romano-germanico, dal titolo Ordo ad signum ecclesiae benedicendum. Esso comporta tre elementi principali:


1) La lustrazione della campana con acqua miscelata di sale ed olio.
L'olio più tardi (XIII secolo) venne omesso. La prima delle due formule relative enuncia in dettaglio gli scopi della benedizione, che non sono frutto di magia, ma effetto della virtù dello Spirito Santo:


Benedic, Domine, hanc aquam benedictione caelesti et assistat super eam virtus Spiritus sancti, ut cum hoc vasculum ad invitandos filios eclesiae preparatum, in ea fuerit tinctum, ubicumque sonnuerit ejus tintinnabulum, longe recedat virtus inimicorum... incursio turbinum... calamitas tempestatum... et credscat in eis devotionis augmentum ut festinanter ad piae matris Ecclesiae gremium, cantent tibi canticum novum in eclesia sanctorum, deferentes in sono praeconium tubae, modulationem psalterii...


Il pensiero della nota festiva che desta il suono della campana in chi ne ascolta la voce simbolica, ha suggerito a questo punto il canto dei sei salmi di Laudes: ps. 145-150. Nel frattempo il vescovo coll'acqua benedetta che ha confezionato, lava la campana entro e fuori, concludendo la lustrazione con una orazione a Dio, affinché al suono di quello strumento


... fideles invitentur ad praemium...; crescat in eis devotio fidei, procul pellantur omnes insidiae inimici... ventorum flabra fiant salubriter ac moderate suspensa, prosternat aereas potestas dextera tuae virtutis. Per.


2) Le unzioni sacre.
Astersa la campana, viene consacrata col Crisma. Il rito è d'origine gallicana, e, dato l'oggetto, non si presenta certamente ben indovinato; ma ci voleva per completare l'analogia col battesimo. Il vescovo pratica undici unzioni; sette sulla superficie esterna della campana, quattro all'interno. Negli Ordines più antichi, come nel Gellonense, le ultime unzioni soltanto sono compiute col Crisma; le prime con altro olio sacro senza distinguere fra quello dei catecumeni o degli infermi. Attualmente è prescritto quest'ultimo. Il Pontificale romano al secolo XIII dà la formula dell'unzione: Consecretur ut sanctificetur, Domine, signum istud in honorem S. Mariae Matris Christi, vel sancti illius, in nomine P. et F. et S.S. Amen.


La formula accenna ad una intitolazione della campana; l'uso infatti di darle un nome sacro in occasione del suo battesimo, è già attestato nel sec. X. Il Baronio riferisce che pp Giovanni XIII, nel 961, fu il primo a imporre un nome ad una campana, quella di s. Giovanni in Laterano, facendovi iscrivere il nome Joannes.

Anche le unzioni hanno carattere apotropaico. Risulta dal sal. 28 Afferte Domino filii Dei..., prescritto durante la cerimonia, che afferma la potenza sovrana della voce di Dio su tutti gli elementi, ripetendone l'alto concetto in sette versetti successivi. Per questo, il Pontificale romano-germanico portava in rubrica: Quot vicibus in psalmis dicit: Vox Domini... totidem (episcopus) signa faciat cum chrismate...


3) Le fumigazioni d'incenso.

Unta la campana, il vescovo le sottopone un incensiere fumante, thimiamate, thure et myrra, in modo che i vapori profumati si raccolgano e tutto riempiano l'imbuto campanario. L'incenso vuol essere innanzitutto un atto in onore allo strumento, divenuto res sacra; ma in pari tempo continua la linea esorcistica che compenetra tutto il rito. La Schola, infatti, durante la fumigazione, esegue gli ultimi sette versetti del sal. 76 Voce mea ad Dominum clamavi... nei quali si riafferma l'idea della onnipotenza di Dio sugli elementi. Dal canto suo il vescovo nella colletta che segue, dopo aver richiamato la forza taumaturga di Gesù nel sedare la tempesta sul lago di Cafarnao, prega il Signore che dum huius vasculi sonitus transit per nubila, Ecclesiae tuae conventum manus servet angelica, fruges credentium, mentes et corpora, salvet protectione sempiterna.


La pericope evangelica circa la visita di Cristo alla casa di Marta e Maria in Betania, la cui lettura chiude tutto il rito, fu un'aggiunta di Durando; ma non se ne intende bene il significato. Al suo posto il Pontificale romano del secolo XIII metteva la recita delle Litanie dei Santi". (Crf. Ibid, V, pp. 523-525).


Da quanto detto, risulta che la campana non è considerata come un oggetto funzionale ma, quasi, come una realtà vivente, come, d'altronde, l'intero tempio. Essa ha un nome, un rito simile a quello battesimale (ora inesistente in ambito latino) e le si attribuisce una forza che deriva dalla grazia divina.

E' esattamente questo che spiega l'atteggiamento devozionale nella liturgia bizantina di consacrazione delle campane di cui alleghiamo eloquente documentazione fotografica (patriarcato di Mosca). Un atteggiamento che l'Occidente cristiano ha praticamente dimenticato in seguito ad un vero e proprio rinsecchimento, in molti suoi ambiti, della sua stessa fede.








mercoledì 29 agosto 2012

La Dichiarazione sulla libertà religiosa del «Concilio Vaticano II»

 

 

 


di Michele Federico Sciacca

[Da Gli arieti contro la verticale, Marzorati, Milano 1969, pp.169-172]

Il testo della Dichiarazione sulla libertà religiosa è stato ampiamente e appassionatamente discusso in tre Congregazioni generali, come richiesto dalla delicatezza e importanza del tema. Esso costituisce una Dichiarazione distinta, la prima, annessa allo schema « De Oecumenismo », essendo Dichiarazione seconda quella sugli ebrei e i non cristiani.

Il concetto di libertà religiosa, molto complesso, include almeno tre problemi fondamentali: 1) libertà nei rapporti con Dio, tema di cui il Concilio nel testo in esame e dati i suoi fini esplicitamente dichiarati, di proposito, non si occupa; 2) libertà dell’atto di fede, che viene formalmente e decisamente ribadita sulla base della dottrina tradizionale e in conformità con il testo « De Fide » numero 2 del « Concilio Vaticano I », dove si legge che « è anatema » il dire che l’assenso alla fede non è libero, ma il prodotto necessario di argomenti dell’umana ragione; 3) libertà religiosa nei rapporti tra uomini, considerati o come persone singole, o come costituiti in comunità religiose. L’affermazione della libertà dell’atto di fede include dunque il diritto corrispondente di professare, ciascun uomo o comunità, una determinata religione; questo il concetto che i numeri da 25 a 31 della Dichiarazione s’impegnano ad approfondire, precisare e chiarire, non occupandosi essi dell’altro aspetto della libertà dell’atto di fede, cioè quello della liceità d’interpretare la Rivelazione.

Di qui la necessità di precisare la « natura della libertà religiosa », il cui fondamento, « radice dei diritti alla liberta religiosa », deriva dall’obbligo di rispettare la persona umana e la sua dignità e dal dovere di ciascun uomo di seguire la legge di Dio secondo il dettame della coscienza sinceramente formata, essendo la libertà di seguire la propria coscienza religiosa il maggior bene di ogni persona e perciò un autentico diritto personale, inalienabile e inviolabile. Tale diritto personale va esercitato nella convivenza sociale, fermo restando che non deriva dalla società o dallo Stato o da altra autorità mondana; anzi, il fine della società è creare condizioni di vita sociale, che non solo ne garantiscano l’esercizio, ma ne aiutino l’attuazione affinché ciascun uomo, come singolo e come socio, sia favorito per il pieno raggiungimento dl esso, dato che il fine supremo dell’uomo stesso e la perfezione in vista della sua destinazione soprannaturale, nella quale, come dice il Rosmini, è riposta l’altissima dignità della persona e, con essa, la finalità della creazione e della storia.

Di qui il compito della Chiesa, secondo il mandato di Cristo, e il suo diritto intrinseco e assoluto, di propagare la parola di Dio, di pregare per la salvezza di tutti, anche dei non cristiani e degli atei, esortando i suoi figli a diffondere la luce del Vangelo, perché solo Cristo è « la via, la verità e la vita », con la predicazione,che è autentica solo se è insieme dottrina fattasi esempio di vita, testimonianza alla verità fino al martirio, pur con il convincimento che « gli uomini ameranno più le tenebre che la luce », ma sempre con la fede e la speranza che « le porte dell’inferno non prevarranno »; e il tutto con il massimo spirito di carità.

Quest’ultimo, ben diverso dalla cosiddetta tolleranza che può essere suggerita dal relativismo e dall’indifferenza, proprio perché si fonda sulla verità oggettiva della legge naturale e della legge divina rivelata, per la quale è appunto disposto a testimoniare fino al martirio, proprio esso, dico lo spirito di carità, impone il principio che nessuno può essere costretto direttamente o indirettamente ad abbracciare la fede; infatti, qualsiasi forma di costrizione, contraddirebbe la stessa natura dell’atto della fede, secondo cui l’adesione alla fede stessa dev’essere pienamente libera. Consegue che la verità va « annunziata » essendo la Chiesa « apostolica » per mandato divino, 1′umana intelligenza illuminata e l’errore rigettato senza il minimo cedimento circa l’essenziale, ma il tutto, secondo la divina pedagogia di Cristo, con amore e pazienza, con fede e speranza, nell’astensione da qualsiasi coazione. Anzi, più il nostro simile è lontano da noi e più nega la verità del nostro Credo, più è bisognoso del nostro amore e della nostra pazienza sorretti dalla fede che muove le montagne e dalla speranza che sa sperare anche nelle situazioni più disperate; ma tanto amore da parte del credente è possibile proprio perché egli non concede niente all’errore e crede fermissimamente nelle verità rivelate; infatti, per amore di chi le nega e per non usargli alcuna costrizione, è disposto a testimoniarne fino al martirio, prova suprema di carità verso il suo prossimo, e di amore verso Dio, di fedeltà alla fede, di rispetto della sua dignità.

Ma proprio perché l’adesione alla fede deve essere pienamente libera e la coscienza religiosa inviolabile, la persona singola e ogni comunità religiosa hanno diritto nell’umana società alla libertà religiosa, fermo restando, val la pena ripeterlo: 1) che tale diritto è personale e non di derivazione sociale, è supersociale, indipendente da ogni legge positiva e autorità che hanno solo il dovere di riconoscerlo e di favorirlo; infatti lo stesso freno degli eventuali abusi si giustifica solo come uno dei mezzi che servono a confermarlo e a garantirlo e va mantenuto nei termini in cui sa limitare quanto è in contrasto con il fine della società, consistente nel complesso di quelle condizioni di vita sociale, con le quali gli uomini possono meglio conseguire il proprio perfezionamento; a) che il diritto di ciascun uomo di agire secondo il giudizio della sua coscienza anche se giunge ad un’interpretazione errata della legge divina, non è accettazione dell’errore e meno ancora riconoscimento che anche la sua è verità, anche se diversa od opposta alla nostra, soggettivismo che, se lo si accettasse, distruggerebbe la verità oggettiva e con ciò stesso renderebbe vano ogni discorso sulla fede e sulla stessa libertà religiosa. Perciò, dice espressamente la Dichiarazione, « è illecito alle autorità statali di fare discriminazioni di qualsiasi genere a motivo della religione » ed è « invece loro dovere di proteggere e fomentare la libertà religiosa », com’è diritto dei gruppi religiosi la propagazione sincera e onesta della loro religione, purché si astengano da un proselitismo che adoperi mezzi disonesti. «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio »; perciò le autorità civili non hanno alcuna competenza diretta a regolare i rapporti (lei loro cittadini con Dio e a sottomettere le comunità religiose ai fini temporali dello Stato, in quanto il rapporto con Dio è di competenza dell’autorità religiosa ed ha un fine soprannaturale. Ma proprio perché tale è il fine, anche i cattolici, e i credenti in generale, in ogni loro atto di vita quale che sia, anche nel più impegnato nel mondo, pensino e operino secondo la volontà di Dio e non secondo il mondo o per compiacere al mondo. Altrimenti mondanizzano loro la fede, la sottomettono a fini temporali e, con il suo fine soprannaturale, negano la dignità dell’uomo.

 

 

http://continuitas.wordpress.com/2012/08/26/la-dichiarazione-sulla-liberta-religiosa-del-concilio-vaticano-ii/


Pellegrinaggio presso il Santuario della Madonna di Montenero



Tradizionale Pellegrinaggio presso il Santuario della Madonna di Montenero 

Per il quinto anno consecutivo vari gruppi toscani legati all'antica liturgia, e federati in un coordinamento regionale, hanno organizzato per sabato 22 settembre 2012 un pellegrinaggio presso il Santuario della Madonna di Montenero (Livorno), Patrona della Toscana.

Oltre alla consueta processione in salita per raggiungere il Santuario, il Coordinamento annuncia la presenza, per il secondo anno consecutivo, del vescovo diocesano, mons. Simone Giusti, segno inequivocabile dell’attenzione e della cura pastorale di Sua Eccellenza per i fedeli legati all'antica liturgia e alla Tradizione della Chiesa cattolica.

Proprio su invito del vescovo Giusti, il solenne Pontificale in rito antico sarà celebrato da Sua Eminenza il Cardinale Raymond Leo Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
Il Coordinamento inoltre ringrazia per la preziosa collaborazione l’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote, che garantirà l’impegnativo servizio liturgico del Pontificale.

Ecco il programma definitivo del pellegrinaggio:

Ore 9,30 - Ritrovo dei pellegrini in Piazza delle Carrozze (Montenero Basso).
Ore 10,00 - Processione al Santuario con recita del Santo Rosario.
Ore 11,00 - SANTA MESSA PONTIFICALE in rito romano antico, celebrata da Sua Eminenza Rev.ma il Cardinale Raymond L. Burke, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, con assistenza di Sua Ecc.za Rev.ma mons. Simone Giusti, Vescovo di Livorno.

Alle solite condizioni, il Santo Padre accorda l'Indulgenza Plenaria ai partecipanti.

In seguito, sarà possibile fermarsi a pranzo, insieme a Sua Eminenza il Cardinale, presso la foresteria del Santuario.

Per quanti provenissero da lontano, ricordiamo che sarà possibile pernottare presso il Santuario al prezzo di 25 euro per una notte; 20 euro, se il soggiorno dura due o più notti.

Il Coordinamento toscano è una federazione, costituita il 22 novembre 2008, che attualmente comprende nove associazioni di fedeli laici (Associazione Cristo Re di Livorno, Associazione Madonna dell’Umiltà di Pistoia, Associazione Regina Sacratissimi Rosarii di Arezzo, Coetus Joseph Ratzinger di Bientina, Comitato lucchese Lucio III Papa, Comitato pisano San Pio V, Militia Templi-Poggibonsi, Una Voce Firenze, Una Voce Piombino), è in contatto con la quasi totalità dei centri di Messa in rito antico della Toscana e collabora costantemente con i Frati francescani dell’Immacolata di Firenze e con l’Istituto Cristo Re di Gricigliano.

Il Coordinamento ha per fine primario quello di favorire l'applicazione del motu proprio Summorum Pontificum, fornire informazioni e supporto logistico a quanti intendano formare coetus fidelium per promuovere celebrazioni in rito antico in Toscana.



Per ulteriori informazioni: coordinamentotoscano@hotmail.it

Con l’amore non si scende a compromessi



All’udienza generale il Papa parla del martirio di san Giovanni Battista


«Non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità»: è questo, secondo il Papa, l’insegnamento che viene dalla testimonianza di san Giovanni Battista, il quale affrontò il martirio mantenendo «la sua
Masaccio, «Martirio di san Giovanni Battista» (1426, Musei statali, Berlino)fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare». Benedetto XVI ne ha parlato all’udienza generale di mercoledì 29 agosto, nella piazza della Libertà di Castel Gandolfo, dove erano riuniti migliaia di fedeli giunti da diversi Paesi del mondo. A loro il Papa ha riproposto la figura del precursore come «uomo di preghiera» e come luminosa «guida» nel rapporto con Dio. La sua vicenda terrena, ha sottolineato, mostra che «la vita cristiana esige il “martirio” della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo a orientare il nostro pensiero e le nostre azioni». Questo può avvenire solo a partire da un solido legame con Dio. «La preghiera — ha spiegato Benedetto xvi — non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno».
Al termine dell’udienza il Papa ha salutato un gruppo di duemilaseicento ministranti giunti dalla Francia.


L'Osservatore Romano   30 agosto 2012

Corte europea e legge 40: chi tutela i diritti umani?







di Enzo Pennetta

La Corte europea per i diritti umani ha bocciato la legge 40 sulla fecondazione assistita. Ma a trionfare non sono i diritti umani, e sullo sfondo si intravede l’eugenetica.

La notizia è su tutti i giornali, sul Corriere della Sera è apparso col titolo “Fecondazione assistita, legge 40 bocciatadalla Corte europea dei diritti umani, su Avvenire invece leggiamo “Procreazione: la Corte europea piccona (male) la legge 40.

In sintesi è successo che una coppia italiana portatrice sana di fibrosi cistica ha chiesto di poter effettuare una fecondazione assistita seguita da esame degli embrioni per poter scartare quelli eventualmente affetti da malattia. La legge 40 che regola in Italia la materia prevede però che la fecondazione assistita sia riservata alla coppie sterili e non a quelle fertili per poter preventivamente selezionare gli embrioni.
Ma la Corte europea ha stabilito che la legge italiana è incoerente, riprendiamo al riguardo quanto riportato dal Corriere della Sera:
«il sistema legislativo italiano in materia di diagnosi preimpianto degli embrioni è incoerente» in quanto un’altra legge permette di accedere all’aborto terapeutico se il feto è malato di fibrosi cistica. La Corte ha quindi stabilito che la legge 40 viola il diritto al rispetto della vita privata e familiare…
Quello che in realtà la Corte ha appurato è che due leggi dello Stato italiano sono incoerenti tra loro, infatti la legge 40 vieta di eliminare un embrione che invece secondo la legge 194 può essere oggetto di aborto. Vero.
Ma qui accade qualcosa di significativo, una volta appurato che due leggi sono incoerenti, si decide senza alcuna spiegazione quale delle due rispecchia un principio corretto e quale no. In pratica quello che fa la Corte europea è stabilire che è la legge 194 a prevalere sulla 40.
In poche parole la Corte stabilisce che l’embrione non è una persona e che quindi a lui non vanno riconosciuti i diritti umani.
Ma qual è il fondamento scientifico di questa decisione? Semplicemente non c’è. Si tratta di un’affermazione arbitraria che non ha alcun supporto teorico o sperimentale.
Come già detto in passato, l’idea che l’embrione umano non sia da considerare un essere umano ma una forma di vita animale come i protozoi o i celenterati (ad es. i polipi del corallo) o i pesci, nasce dalle affermazioni del biologo tedesco dell’800 Ernst Haeckel che per sostenere la teoria di Darwin propose una serie di disegni di embrioni (serie che compare ancora spesso sui libri di testo) che mostravano come tutti gli animali attraversino le stesse identiche fasi embrionali, e che tali fasi altro non fossero che la ricapitolazione della storia evolutiva della specie in questione:


Gli embrioni disegnati da Haeckel



La “scoperta” di Haeckel si riassumeva con lo slogan “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi“. Una volta accettata questa affermazione si giunge inevitabilmente alla conclusione che un embrione umano non è un essere umano. O almeno “non ancora” in quanto rappresenta uno stadio primitivo dell’evoluzione.

Ma la scoperta di Haeckel era in realtà un falso, la prima serie di embrioni dalla quale si dovrebbe dedurre la loro uguaglianza, era in realtà il disegno sempre dello stesso soggetto.
Ma c’è di più, recentemente si è appurato che gli embrioni sono diversissimi nelle loro fasi iniziali, poi hanno una leggera convergenza allo stadio descritto da Haeckel, per poi tornare a divergere nuovamente, come riportato nella figura qui sotto:




Quindi se si volesse dare un giudizio scientifico sulla natura di qualunque embrione, ovviamente compreso l’embrione umano, si dovrebbe giungere alla conclusione che si tratta sin dall’inizio di un essere vivente differente dagli altri: un embrione umano è un essere umano sin dal concepimento.
E allora la sentenza della Corte europea, stabilendo che le due leggi italiane sono incoerenti tra loro, dovrebbe giungere alla conclusione che è la legge 194 a dover essere cambiata.
Ma in questi tempi caratterizzati dall’idolatria della scienza dimostrano che essa viene ascoltata e seguita solo quando fa comodo, se infatti l’embrione è un essere umano, la sentenza non lo tutela e così è la stessa Corte per la tutela dei diritti umani a diventare incoerente.
Ma anche volendo partire da posizioni più possibiliste, si arriva alla conclusione che quello che invece la sentenza fa è aprire le porte all’eugenetica, come spiega Eleonora Porcu, Responsabile del Centro di Infertilità e Procreazione Medicalmente Assistita dell’Università di Bologna, sulle colonne del Corriere della Sera:
La legge 40 e quella sull’aborto sono due leggi diverse: una cosa è pianificare a tavolino una gravidanza, decidendo deliberatamente quale embrione far nascere e quale no, un’altra è l’accettazione o meno di una gravidanza già in atto. Dal mio punto di vista non c’è contraddizione.
Anche decidere quando una diagnosi preimpianto è finalizzata alla salute dell’embrione e quando è invece eugenetica è molto difficile. Prendiamo la sindrome di Down: sappiamo che il bambino avrà molti problemi durante la vita, ma chi decide se è un motivo sufficiente per scartare l’embrione?».
Ricordiamo infine che la legge 40 fu confermata da un referendum popolare, e che quindi questa sentenza dimostra che, oltre alla scienza, anche la volontà popolare va bene solo quando fa comodo all’ideologia dominante.





martedì 28 agosto 2012

Colloquio col Cardinale Walter Brandmüller, storico ecclesiastico ed ermeneuta del Concilio, sul Giubileo d’oro dell’apertura del Vaticano II



di Guido Horst


Il Vaticano Secondo è stato un Concilio Pastorale che ha fornito anche spiegazioni dogmatiche. Vi era mai stata una cosa simile in precedenza nella storia della Chiesa?


In effetti sembrerebbe proprio che con il Vaticano II si sia inaugurato un nuovo tipo di concilio. Già il linguaggio in sé che è venuto ad espressione, nonché l’esaustività dei testi dimostrano che i padri conciliari non erano mossi tanto dall’intento di sentenziare rispetto alle nuove questioni controverse sul piano ecclesiastico e teologico, quanto piuttosto dal desiderio di volgersi all’opinione pubblica della Chiesa e al mondo intero nello spirito dell’annunciazione.


Se a distanza di cinquant’anni un Concilio non è stato recepito in maniera idonea dal popolo della Chiesa, non è il caso di dichiararlo fallito? Benedetto XVI ha ammonito da una ingannevole lettura del Concilio, nello specifico relativamente all’ermeneutica della rottura...

Questa è una di quelle domande ormai cliché/di repertorio, dettate dal nuovo sentimento esistenziale, da quel sentire convulso tipico dei nostri tempi. Ma cosa sono in fin dei conti cinquant’anni?! Riporti la mente al Concilio di Nicea del 325. Le dispute attorno al dogma di quel concilio – la natura del Figlio ovvero se questi fosse della stessa sostanza del Padre o meno – sono durate per più di cento anni. In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio di Nicea Sant’Ambrogio fu ordinato Vescovo di Milano e fino alla fine dei suoi giorni dovette lottare strenuamente contro gli ariani che rifiutavano l’accettazione delle disposizioni nicene. Di lì a breve un nuovo Concilio: il Primo di Costantinopoli del 381, resosi necessario per completare la professione di fede di Nicea, quando toccò a Sant’Agostino farsi carico delle ambasce e contrastare gli eretici fino a quando non si spense nel 430. Anche il Concilio di Trento - detto francamente - fino al giubileo d’oro del 1596 portò pochi frutti. Si dovette aspettare che una nuova generazione di Vescovi e di prelati maturasse nello “spirito del Concilio” affinché esso potesse espletare il suo effetto. Dovremmo concederci un po’ più di respiro.


Parliamo ora dei frutti che ha sortito il Vaticano II. Cosa Le viene in mente in proposito?


Prima di tutto ovviamente il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, in analogia con quello tridentino: a seguito del Concilio di Trento fu varato il Catechismus Romanus inteso a fornire a parroci, predicatori eccetera i parametri per la predicazione e l’annunciazione o evangelizzazione.

Anche il Codice di Diritto Canonico del 1983 può essere definito un portato del Concilio. Sarebbe appena il caso di enfatizzare che la forma di liturgia postconciliare con le sue distorsioni e i suoi stravolgimenti non è imputabile al Concilio o alla costituzione liturgica che detto Concilio ha statuito e che peraltro tuttora non è mai stata davvero attuata. La rimozione indiscriminata del Latino e dei Canti Gregoriani nonché l’erezione di altari popolari pressoché a tappeto non possono in alcun modo richiamarsi alle prescrizioni del Concilio.

Col senno di poi volgiamo lo sguardo indietro in particolare alla scarsa sensibilità con cui si è portata avanti la cura delle anime, alla noncuranza pastorale nella forma liturgica. Pensiamo solo agli eccessi consumatisi nella Chiesa che ricordano la Beeldenstorm (tempesta delle immagini) dell’VIII secolo, eccessi che hanno catapultato innumerevoli credenti nel caos più totale/che hanno fatto sì che innumerevoli credenti a un certo punto si siano trovati a brancolare nel buio.

Ma sull’argomento si è già detto di tutto e di più. Frattanto si è affermata la concezione per cui la liturgia è una esternazione speculare della vita della Chiesa, subordinata invero ad un’organica evoluzione storica, ma che non può, come in realtà è accaduto, essere decretata di punto in bianco per ordre de mufti. E tuttora ci troviamo a pagarne le conseguenze.

Vatican Insider  28/08/12



Santa Messa in latino e "actuosa participatio"


Ma poi è proprio vero che la Messa "in latino" impedisce la partecipazione dei fedeli? Secondo noi è vero il contrario! Vediamo perché



 di Giovanni Schinaia

 Una delle obiezioni più frequenti a una maggiore diffusione della Santa Messa “more antiquo”, è che essa non favorirebbe la partecipazione attiva dei fedeli, così come giustamente auspicata dai Padri del Concilio Vaticano II. I fedeli sarebbero solo degli spettatori più o meno muti e più o meno inconsapevoli rispetto ad una “actio” che riguarda il solo sacerdote celebrante.

 Nel 2007, al n. 52 dell'Esortazione Postsinodale “Sacramentum Caritatis” il Santo Padre Benedetto XVI, feliciter regans, così scrive: Il Concilio Vaticano II aveva posto giustamente una particolare enfasi sulla partecipazione attiva, piena e fruttuosa dell'intero Popolo di Dio alla Celebrazione eucaristica. Certamente, il rinnovamento attuato in questi anni ha favorito notevoli progressi nella direzione auspicata dai Padri conciliari. Il Papa ricorda la Sacrosanctum Concilium e ricorda che la partecipazione dei fedeli alla Messa deve giustamente essere actuosa, plena, fructuosa! Questo è l'auspicio dei Padri conciliari, e questo deve essere quindi il nostro impegno, la direzione che dobbiamo seguire.

 Prosegue dunque il Santo Padre: Tuttavia, non dobbiamo nasconderci il fatto che a volte si è manifestata qualche incomprensione precisamente circa il senso di questa partecipazione. Conviene pertanto mettere in chiaro che con tale parola non si intende fare riferimento ad una semplice attività esterna durante la celebrazione.

 E' importante la precisazione del Papa, quasi a prevenire una legittima domanda: cos'è questa "partecipazione attiva, piena e fruttuosa"? Anzitutto il Papa ci dice cosa NON è. Per "partecipazione" non si deve intendere un "fare" qualcosa mentre il sacerdote dice le sue orazioni o compie le sue abluzioni o quant'altro presso l'Altare. Ricordo che anni fa, i terribili, avvilenti, tristissimi, angosciosi, truculenti anni '80 - parlo ora da ex chitarraro/bonghista/applauditore - prima della Messa ci facevamo il nostro programmino: all'offertorio ci suoniamo "nebbia e freddo", alla comunione "servo per amore", ma a tre voci così viene meglio; se il prete si siede ci facciamo un bel "Dove sei perche non rispondi", che nel silenzio viene bene, tutti ci sentono perchè non sono distratti dal prete e poi ci dicono che siamo stati bravi; alla fine serve qualcosa di rumoroso perchè - sai - la Messa è la festa della comunità!.... Ci si ritirava a casa come se si fosse tornati da un buon concerto: avevamo fatto il nostro!! Ed eravamo convinti di aver partecipato!! E sì, più partecipazione attiva di così!!

 Chissà se i catechisti ci avessero detto che la Messa è il Santo Sacrificio di Cristo in Croce che si rinnova in modo incruento sull'Altare, nelle mani del Sacerdote, alter Christus.... Chissà se le cose sarebbe andate diversamente. Allora ce lo spiega il Papa cosa si debba intendere per "partecipazione", e cosa intendevano i Padri conciliari, nessuno dei quali, a dispetto di quanto in molti possano pensare, era un rockettaro, un alternativo o un hippy in partenza per woodstock.

Scrive Benedetto XVI, ricordando quindi il Vaticano II: In realtà, l'attiva partecipazione auspicata dal Concilio deve essere compresa in termini più sostanziali, a partire da una più grande consapevolezza del mistero che viene celebrato e del suo rapporto con l'esistenza quotidiana. Ancora pienamente valida è la raccomandazione della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, che esortava i fedeli a non assistere alla liturgia eucaristica «come estranei o muti spettatori», ma a partecipare «all'azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente».

 Ecco il punto centrale. Alla Messa, spiegano i Padri Conciliari e ribadisce papa Benedetto XVI, non si sta come estranei, come spettatori muti. Forse estranei lo eravamo un po' noi altri, che pensavamo - in buona fede - al nostro concertino domenicale, che ci preoccupavamo che le chitarre fossero ben accordate, che i bonghi si sentissero fino in fondo alla chiesa e che le maracas andassero a tempo. Per la comunione pazienza, non si poteva mica rischiare di non terminare il canto, di non fare la parte con le 3 voci, chè lì sì, facevamo una gran bella figura! Estranei lo eravamo un po' noi altri con tutte le comunioni saltate... del resto catechisti ed educatori, nella loro colpevole e bieca ignoranza, ci confermavano nella bestialità della nostra teologia da bar sport. Chissà se invece di quel libercolo indistinguibile da un fumettaccio disegnato male, chissà se avessimo avuto un libro "vero" di catechismo, un libro che, senza perdersi in chiacchiere, fosse stato in grado di rispondere in modo chiaro, preciso e inequivocabile alle 1000 domande di ogni giorno, senza lasciare che a farlo fossero la televisione, e poi la rete e i cattivi maestri in genere.

 Quanto all'essere spettatori muti, fin troppo facile e onestamente semplicistica la critica all'antico rito, nel quale i fedeli sarebbero stati solo degli spettatori quasi sempre muti. C'è da capirsi anzitutto sul senso della parola "muti". Dopo 2000 anni di Cristianesimo e dopo una schiera interminabile di Santi che hanno insegnato il valore del silenzio, davvero confondere il mutismo con il silenzio, e il silenzio con l'assenza di parole, sarebbe una leggerezza di imperdonabile superficialità. Cosa avviene sull'Altare? Si compie un mistero ineffabile: nelle Specie del Pane e del Vino, si rende presente Gesù Cristo. Non si tratta di un simbolo, non è una rappresentazione! Cristo è lì fisicamente, nelle mani del Sacerdote, è veramanete lì, presente in Anima, Corpo, Spirito e Divinità! E' un Mistero grande, indicibile, "scandaloso", così assurdo che nessun falsario avrebbe potuto concepirlo, così inaudito che l'unica possibilità che si offre all'intelligenza umana, la possibilità incredibilmente più ragionevole, è quella di ammetterne l'autenticità. L'unica possibilità accettabile. E' solo in relazione e al cospetto di cotanto e cotale Mistero, che dobbiamo chiederci cosa significhi essere spettatori "muti" e cosa significhi "partecipazione attiva, piena e fruttuosa".

E' evidente che che qui, il concetto di "partecipazione" può avere un valore esclusivamente relativo e non assoluto. Per un tifoso che assiste ad una partita, "partecipazione" significherà sbraitare e applaudire la propria squadra, magari inveire verbalmente contro l'arbitro, e smanarsi con bandiere e vuvuzelas. Pensiamo ora cosa succederebbe se lo stesso tifoso si recasse il giorno dopo in un'aula scolastica, e pensasse di "partecipare" alla lezione, allo stesso modo in cui ha partecipato alla partita.... A teatro, all'opera, a scuola, a una conferenza...: è sempre richiesta una partecipazione attiva; si partecipa col silenzio, con l'attenzione. Un silenzio che non è mai "mutismo". Il mutismo è l'arresto dell'intelligenza, la rinuncia per manifesta incompetenza, mutismo è la rassegnazione, è l'umiliazione del genio umano, della sua scintilla divina. Il silenzio è il contrario del mutismo: silenzio è ascolto, è adesione, è riflessione. Di fronte al Mistero, il silenzio è partecipazione; il chiasso può essere solo distrazione. E la distrazione può nascere solo dall'incomprensione, e quindi dall'umilante rinuncia a comprendere. Può sembrare un paradosso, ma di fronte al Mistero, se il silenzio è partecipazione, il chiasso è l'autentico mutismo, il mutismo dell'anima che si cela dietro la ridondanza e la rumorosità delle parole.
 La dotta ignoranza dei filosofi che ammettono di non sapere e di non poter sapere, quella produce il mutismo; nell'illusione della sconfinatezza delle possibilità dell'intelligenza, ci si scontra con la realtà che leva le parole, che lascia muti. Ecco cos'è il mutismo. Dall'altra parte, abbiamo invece l'intelligenza che si lascia illuminare dalla Grazia e nella consapevole percezione dei propri limiti sublima se stessa nel silenzio che è abbandono fiducioso in Dio, adorazione, preghiera. Ecco invece cos'è la partecipazione.
 Mi piace adoperare quel po' di latino che conosco, quel po' di linguistica e di retorica che ho studiato, per assaporare fino in fondo il gusto sublime di certi loci, soprattutto del Canone, il cui ignoto compositore attinge di certo alle alte sfere della divina ispirazione. Ma non mi illudo: quel po' di latino che conosco, non farà di me un cristiano migliore, nè un fedele più partecipe alla Santa Messa, che sia in latino o che sia in volgare. Anzi, la comprensione della lettera del testo rischia di creare l'illusione che la ragione possa comprendere finalmente il Mistero. E' l'illusione del giovinetto che pensava di raccogliere con una conchiglia l'acqua del mare nella buca che aveva scavato. L'intelligenza, si diceva, sublima se stessa non nella comprensione del Mistero, ma nella comprensione del proprio limite; e solo a quel punto che, illuminata dalla Grazia, nel filiale e olistico abbandono in Dio, può travalicare se stessa per porsi, di fronte al Mistero, non più in termini di illusoria e fallimentare comprensione, bensì di intuizione, contemplazione, adorazione.

 "Il latino non si capisce"! - sentenziano i pelandroni. Ma se sono i gesti, i segni, i simboli a parlare al cuore, cosa mai potrebbe aggiungere la lettera del latino che deve limitarsi a parlare alla testa? Non credo, in tutta onestà, che la Santa Messa con cui la Chiesa ha celebrato fruttuosamente per secoli e secoli, abbia tutti quei difetti che in tanti, forse per pigrizia, forse per il terrore di doversi rimettere in discussione, si ostinano ad appiopparle - certo che tanta pervicacia pare avere un non so che, una certa qual puzza di zolfo... - . Di sicuro ha un pregio: non si corre il rischio di abituarcisi: ogni Messa è come se fosse quella della Prima Comunione; come se fosse la prima, come se fosse l'ultima, come se fosse l'unica! Ogni singola Messa. Nessuna esclusa. Che grazia sarebbe se si potesse recuperare sempre questo senso del sacro anche nella Santa Messa nella forma "ordinaria", senza lasciarsi distrarre dallo one-man-show che troppe volte, si compie sull'Altare... Di sicuro nessuno dei Padri Conciliari avrebbe voluto che accadesse niente del genere. 

Prosegue il Papa, sempre al n.52 della Sacramentum Caritatis: Il Concilio proseguiva sviluppando la riflessione: i fedeli « formati dalla Parola di Dio, si nutrano alla mensa del Corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo Mediatore siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro » Il Papa, che anche qui richiama la Sacrosanctum Concilium, esorta i fedeli a formarsi alla Parola di Dio, a nutrirsi alla Mensa Eucaristica, quindi a imparare a offrire se stessi di giorno in giorno. Già al n. 51 il Papa aveva richiamato il legame intrinseco fra la Liturgia e la missione, la natura missionaria della Chiesa. Un legame che si offre all'immediata evidenza di chiunque nell'espressione di congedo: Ite, Missa est! Un'espressione di cui, per ragioni incomprensibili, si è imposta per anni una traduzione ingiustificata e fuorviante: La Messa è finita, andate in pace... come se la Messa potesse mai "finire"....
 Ma sul discorso della lingua sacra, il Latino, dovremo tornarci con più calma e attenzione…


 da Scuola Ecclesia Mater lunedì 27 agosto 2012

lunedì 27 agosto 2012

L'evoluzionismo modernista. Una sintesi del Convegno di Cremona su P. Tomas Tyn






di Mauro Faverzani 



Lo scorso 9 giugno si tenne a Cremona un convegno su P. Tomas Tyn e l'evoluzionismo modernista. Intervennero P. Giovanni Cavalcoli e P. Serafino M. Lanzetta. Moderava l'incontro il Dott. Mauro Faverzani, che in sintesi ora ci descrive l'evento e le relazioni.



Parlare di evoluzionismo modernista può spaventare il pubblico meno avvezzo a masticar temi filosofici, ma quando è Padre Tomas Tyn a spiegare, anche concetti in apparenza difficili diventano, in realtà, abbordabili. La riprova si è avuta lo scorso 9 giugno a Cremona in Cascina Moreni, sede del convegno promosso dal Gruppo Laico Canossiano “Giuseppina Ghisi”, dal Centro di Solidarietà “Il Ponte” e dal locale Centro Culturale “Padre Tomas Tyn”, D’eccezione i relatori: Padre Giovanni Cavalcoli, Vicepostulatore della causa di beatificazione di Padre Tyn e docente emerito di Teologia Sistematica alla Facoltà Teologica di Bologna, e Padre Serafino M. Lanzetta, docente di Teologia Dogmatica presso l'Istituto Teologico “Immacolata Mediatrice”.


Da sinistra: P. Serafino M. Lanzetta, P. Giovanni Cavalcoli e il Dott. Mauro Faverzani

Della critica mossa da Padre Tomas Tyn all'idealismo panteista si è occupato nello specifico Padre Cavalcoli, che ebbe modo di conoscere personalmente questo suo Confratello di origine cecoslovacca, oggi in odore di santità. Appartennero entrambi alla stessa comunità domenicana, quella di Bologna, dal 1972 al 1990:

“La parola modernismo è nota in relazione alla famosa enciclica «Pascendi» di San Pio X -ha spiegato Padre Cavalcoli- ma ad esempio già il Maritain nel 1966, nel suo famoso libro «Le paysan de la Garonne», segnalava con arguzia un ritorno di tale concezione. Egli ebbe anzi a dire che il modernismo dell'epoca di San Pio X sarebbe stato un piccolo raffreddore in confronto alla polmonite del modernismo di oggi”.

Il termine «modernismo» significa 'fare della modernità un assoluto', un idolo, senza esercitare su di esso alcun senso critico, alcun discernimento:

Cartesio, Kant, Hegel, lontani dall'esser ortodossi -ha proseguito l'illustre relatore- sono sullo sfondo di larga parte del modo di pensare di oggi, anche nella Chiesa, negli Istituti educativi superiori tanto quanto nelle Università Pontificie. E lo dico con sofferenza. C'è chi ritiene per questo che si sia giunti all'apostasia finale. No, il Signore non abbandona, abbiamo tanti soccorsi, però è bene tenere gli occhi aperti. Perché il rimedio c'è ed è quello di seguire il Santo Padre, di seguire il Magistero, il Catechismo, nonché di dare una retta interpretazione del Concilio Vaticano II”. Padre Tyn osservò come in Cartesio persista l'istanza idealistica. Scrisse Tyn: ”Di fatto non viene negata la consistenza obiettiva e reale dell'ente, ma avviene qualcosa di più significativo e, ci sia permesso di dire, di più grave. Anziché fondare l'idea della sostanza sulla sua realtà, al contrario l'obiettività viene dedotta dalla rappresentazione soggettiva, chiara e distinta che la mente ne ha. Nessun dubbio che la mente possieda l'idea della sostanza, dell'attributo e del modo. Ma nell'idea non c'è solo pura idealità, c'è anche corrispondenza all'oggetto. Di fatto, se all'idea nulla corrispondesse ed essa dunque fosse un mero pensato della mente, tutte le idee si equivarrebbero, giacché tutte sarebbero egualmente pensabili”. Dunque, “il realismo cartesiano -ha commentato Padre Cavalcoli- non è originario, ma derivato. Pertanto, che le cose esistano in sé e fuori di noi, per Cartesio non è evidente, ma va dimostrato. Il dato originario, ciò che è evidente per lui, è l'idea e fondamentalmente il cogito. Lo stesso uomo è ridotto a pensiero in atto”.

Padre Tyn ha però dimostrato come, se ciò fosse vero, non ci potrebbero più essere differenze tra le cose, perché sarebbero caratterizzate solamente dalla loro pensabilità, mentre la differenza proverebbe solo dal reale. Anche l'Io di Fichte è in fondo il cogito cartesiano. Esso pone il Non-Io in luogo della cosa-in-sé. Cartesio, insomma, ha posto le premesse, gettato i semi, da cui derivarono il panteismo di Spinoza ed Hegel -in cui l'uomo è assorbito in Dio- e, da esso, l'ateismo di Marx -in cui Dio si dissolve nell'uomo-, essendo ogni essere assoluto, quindi chiuso rispetto a Dio. Panteismo ed ateismo poi condannati dalla Chiesa, soprattutto col Concilio Vaticano I: “Soltanto Dio è il Suo essere -spiega Padre Cavalcoli- Lo dice San Tommaso in base a Es 3,14: 'Io sono Colui che è'. Il meccanismo di fondo dell'idealismo è la pretesa dell'uomo, che vuol sostituirsi a Dio con avidità empia e blasfema”. C'è una continuità dunque da Cartesio a Kant, poi Fichte, Schelling, Hegel fino a Nietzsche e Marx con una progressiva esaltazione di un soggettivismo che si fa immanentismo, nonché con l'autodivinizzazione dell'Io umano, che non sente più alcuna necessità di un Dio trascendente. L'esperienza raggiungerebbe la cosa, ma non l'intelletto speculativo. Esso non ne avrebbe peraltro bisogno con l'a priori, raggiungendo la forma dell'oggetto, che non è più la cosa, ma il fenomeno. Il conoscere vien pertanto divelto dall'essere.


D'estremo interesse ed attualità anche l'intervento di Padre Serafino M. Lanzetta dei Frati dell'Immacolata. Intervento, incentrato sulla critica di Padre Tyn all'impianto etico-esistenzialista del teologo gesuita Karl Rahner, perito al Concilio Vaticano II del Cardinale di Vienna, König.

“Padre Tyn gli rimprovera d'aver elaborato una nuova forma di etica della situazione –ha spiegato l'illustre relatore-. Per Rahner la vita morale di un uomo non potrebbe ridursi a dedurre dalle norme universali e naturali, quindi divine, i principii dell'agire particolare esistenziale nel determinato momento, in cui mi trovo ad agire, ciò che è il principio dell'esistenzialismo. La norma non riuscirebbe in ogni caso a darmi un indirizzo concreto, poiché il caso particolare sarebbe comunque e sempre più problematico”.

Rahner però non ha come riferimento il tomismo classico, bensì Heidegger, che rappresenta a sua volta, lo sviluppo concreto ed omogeneo della concezione cartesiano-kantiana-hegeliana, già presentata. “L'uomo è un esserci, che si pone il problema dell'essere”, ha aggiunto Padre Lanzetta. Ma, secondo San Tommaso, non potrei pormi tale questione, senza aver prima conosciuto qualcosa che abbia l'essere, quindi un ente finito, fatto di forma e materia, per ascendere da qui fino a Colui che è l'essere. Invece, in Rahner, l'uomo viene concepito come individuo, come esistente e non come persona, il che porta ad escludere un'essenza incarnata in un'esistenza, facendo viceversa perno sull'aspetto dell'uomo come atto di essere. L'essenza si confonde quindi con l'esistenza. Ma, se l'uomo non è più capace di risalire all'essere partendo dagli enti, necessariamente ciò che è universale nell'uomo viene totalmente assorbito in ciò che è particolare, in questo uomo:

“Quel che più dà verità al mio esserci nel mondo sarebbe la morte -ha spiegato il relatore-. Questo, tradotto in termini teologici, porta Rahner a ritenere che la legge universale possa dare un'indicazione, ma non possa dire la verità del mio agire, verità affidata alla libertà che si confronta con il caso particolare. Quest'etica, purtroppo presentata a volte anche nelle prediche, giunge a dire che, in effetti, sarebbero meramente orientativi anche i dieci Comandamenti di Dio, semplici norme insomma, astratte ed incapaci di soddisfare la mia esigenza concreta in un determinato momento, rispetto al quale sarebbe la mia libertà a doversi orientare. Questa è l'etica della situazione, che poi diventa anche un'opzione morale fondamentale”. Rahner non vuole negare l'oggettività della legge morale naturale e dei Comandamenti divini, quindi, ma pone le premesse nei fatti, affinché si arrivi appunto a quest'etica della situazione: “In questo modo cade la moralità dei nostri singoli atti, non si peccherebbe mai, in quanto si sarebbe comunque 'orientati' in qualche modo a Dio, pur dovendo fare i conti con la propria esistenzialità. Crolla l'impianto soprannaturale -avverte Padre Lanzetta- Morale per quest’etica è il mio orientamento universale a Dio. Sono cattolico? Bene. Ma poi cosa devo fare, in quest'ottica, non me lo dovrebbero dire la Chiesa e il Catechismo, bensì la mia coscienza, metro ultimo del mio agire morale. Oggi è questo il pensiero prevalente. In effetti, la coscienza mi deve orientare, però non è il giudice definitivo, non si sostituisce alla legge di Dio. E’ -direbbe San Bonaventura, citato da Giovanni Paolo II nella 'Veritatis Splendor'- l'«araldo del gran Re», è il giudizio morale sul bene che ho davanti e sul male che devo rigettare. Non crea il bene, lo indica. E' la libertà, che mi muove a scegliere il bene”. Quest'etica esistenziale formale porterebbe a conseguenze devastanti, condurrebbe a giustificare il male con il bene. Come nel caso dell'aborto, esempio citato da Padre Lanzetta: “Così facendo, stravolgiamo la stessa morale, rendendola soggettivismo. Come accade ai nostri giorni, in cui ognuno ha una morale propria. E' il relativismo etico”. Rahner pone il dubbio come metodo di ricerca: “Invece devo partire dalla verità, dalla realtà -ha affermato l'illustre relatore-. Padre Tyn critica Rahner, dicendo che in questo modo si afferma l'agnosticismo, per il quale io sarei incapace di conoscere la verità oggettiva -come Kant-, postulandola come un'esigenza del mio agire morale, contingente e necessariamente applicabile ai casi della mia vita. L'io diventa la norma definitiva dell'agire morale e ciò porta in definitiva all'antropolatria, all'adorazione dell'uomo ed alla negazione di Dio, allo scetticismo nei confronti della Sua capacità salvifica”.

Questa morale privilegia l'uomo come spirito, come libertà contro la verità. La libertà diventa in qualche modo, quindi, creatrice della norma morale. Un’etica, questa, riprovata dal Magistero, in particolare da Pio XII nel 1952, ed ancora condannata da Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor, nn.55-56. Non è quindi un'etica cattolica:

“Il rischio del soggettivismo etico -ha proseguito Padre Lanzetta- è quello di creare una società, in cui la morale è dettata dai bisogni individuali; invece con la Dottrina della Chiesa è dettata dalla necessità di adeguare la mia vita, la mia libertà alla norma di Dio, alla legge eterna, naturale e positiva, datami da Dio. E' un mondo autenticamente umano, in cui tutti si conformano alla verità e quindi tutti vivono la pace, non essendovi ragioni di sopraffare in base alle rispettive esigenze personali”.

Un chiaro insegnamento, che ha rivelato l’utilità del convegno promosso non solo per conoscere l’estrema attualità del pensiero di Padre Tyn e non solo per mettere in guardia dai rischi del relativismo contemporaneo, ma anche per fornire indicazioni, per suggerire possibili percorsi, che aiutino ad uscire dalle sabbie mobili dell’errore, per incamminarsi invece sul percorso tracciato da Dio. Ciò che il pubblico presente all’incontro ha confermato non solo con l’attenzione con cui ha seguito gli interventi dei due illustri relatori, ma anche con le domande, che hanno poi acceso un interessantissimo dibattito.



da Approfondimenti di Fides Catholica   sabato 25 agosto 2012