lunedì 27 agosto 2012

Finitezza ed infinità dell’uomo




di Padre Giovanni Cavalcoli

Al Meeting di Rimini, come è noto, è stato proposto il grande tema del rapporto dell’uomo con l’infinito. Su questo tema il Papa ha inviato una lettera molto stimolante, che richiede però una giusta interpretazione per non essere strumentalizzata da un’antropologia e una cristologia modernista, hegeliana e buonista, tanto per intenderci, sulla linea di Rahner.

Il Papa, quasi sulla linea della meditazione pascaliana dell’uomo come grandeur et misère, ha parlato di una nostra strutturale apertura all’Infinito con la I maiuscola, quasi a riferirsi a Dio stesso, ma poi ha chiarito che l’effettivo salvifico rapporto con Dio è legato al nostro libero arbitrio e quindi non è un qualcosa di scontato per tutti quasi sia un elemento costitutivo e necessario della stessa natura umana.

Nulla a che vedere dunque col diffuso irresponsabile buonismo che oggi infiacchisce e deresponsabilizza spaventosamente la vita cristiana, con l’illusione che “vada come vada, tanto tutti si salvano”.
Il Papa ha parlato sì di un bisogno innato di infinito, ma ha anche precisato che sta a ciascuno di noi scegliere il vero Infinito senza assolutizzare i beni creati, cosa che porterebbe al fallimento la nostra vita.

Parlando del mistero dell’Incarnazione, il Papa ha detto sì che è venuta meno la distanza fra l’infinito e il finito, ma ha pure ricordato la trascendenza di Dio rispetto all’uomo, quel Dio creatore dal quale l’uomo dipende ed al quale deve obbedire per raggiungere la propria salvezza.
Per questo, anche col mistero dell’Incarnazione e il dono a noi fatto da Cristo della divina figliolanza, noi restiamo finiti e Dio conserva la propria infinità. Nessuna confusione dell’uomo con Dio.

Se pertanto, con l’Incarnazione, Dio discende dal cielo e in certo senso lascia il suo cielo, ciò non va inteso nel senso hegeliano che con la venuta di Cristo venga meno il Dio trascendente, il Dio celeste, e Cristo sia il primo uomo che insegna all’umanità a prender coscienza della propria divinità, perché il vero Dio non sarebbe quello che “sta in cielo” o, come lo chiama Hegel, il Dio “astratto”, ma il Dio “fatto carne”, il Dio “concreto”, “fatto storia”, il Dio “immanente”, l’Infinito che si è finitizzato, ossia l’uomo, per cui non si tratterebbe di “diventare figli di Dio”, come pure è detto nel Prologo del Vangelo di Giovanni, ma semplicemente di prender coscienza del nostro originario esser figli di Dio, anzi della nostra stessa divinità. Somiglianza col panteismo indiano.

Sarebbe però somma stoltezza o inutile furbizia o vana fatica vedere nelle parole del Papa che evocano il mistero dell’Incarnazione e questa destinazione dell’uomo alla vita divina, la negazione delle famose “due nature” delle quali parla il Concilio di Calcedonia ed interpretare il “farsi carne” del Verbo alla maniera evoluzionistica propria di Hegel e di Schelling, per cui lo spirito si trasforma in materia, l’eterno diventa temporale, l’infinito diventa finito, la natura divina diventa natura umana.
Sarebbe il ritorno dell’idea di Eutiche, monaco precalcedonese, che appunto sosteneva questa eresia, già a suo tempo condannata dalla Chiesa, parlando di un mutamento della natura divina in quella umana (ciò che oggi chiamano il “divenire” di Dio), ed immaginare un Papa eretico sarebbe semplicemente ridicolo, anche se farebbe comodo a chi scambia l’eresia per la verità.

Oggi i principali errori in fatto di cristologia sono due: quello razionalista-illuminista-massonico che fa di Cristo un semplice uomo, “profeta escatologico” (Schillebeeckx), negandone la divinità, e quello più insidioso che riconosce la divinità di Cristo, ma solo perchè parte da una concezione panteistica dell’uomo, per la quale l’uomo è semplicemente un Dio che non ha preso coscienza di sé e Cristo conduce l’uomo a questa presa di coscienza. E l’uomo è, come dice Severino, l’“apparire finito dell’Apparire infinito”.
Dio non sta in cielo ma solo nella coscienza dell’uomo, perché, secondo il modulo idealista, non si dà un essere esterno e trascendente al pensiero, presupposto al pensiero e indipendente dal pensiero, ma l’essere è l’“essere pensato” (esse est percipi: l’essere è essere percepito, come diceva Berkeley). Alla trascendenza si sostituisce l’immanenza. L’infinito diventa finito e il finito diventa infinito.

Parlare di un Dio che “lascia il cielo” per venire sulla terra non è certo una frase molto felice, perché fa pensare ad una specie di viaggio spaziale come avviene nelle divinità pagane, anche se è nota l’espressione presente nello stesso Simbolo apostolico: descendit de caelis. Ma è evidente che qui non è in discussione l’ubiquità divina ossia l’attributo divino della sua presenza, come è detto nel Catechismo di S.Pio X, “in cielo, in terra e in ogni luogo”.

Inoltre, anche col mistero dell’Incarnazione, il cielo resta sempre il simbolo dell’ambiente divino. Per questo Cristo stesso ci insegna a dire: “Padre nostro che sei nei cieli”. Gesù stesso in più occasioni volge lo sguardo al cielo e se è sceso sulla terra, è per condurci al cielo.

Il Papa invece, col parlare di un Dio che scende sulla terra, evidentemente si è riferito all’opera del Figlio, il quale, come è noto dal Vangelo di Giovanni, parla precisamente di una sua “venuta nel mondo”, dopo esser “uscito dal Padre” e di un suo successivo “ritorno al Padre”. E’ chiaro che in questa visuale che va intesa in senso ontologico (le missioni trinitarie) e non spaziale, il Padre resta comunque in cielo, per cui, essendo Dio sia il Figlio che il Padre, è ovvio che parlando genericamente di Dio, è assurdo ipotizzare il fatto che possa “lasciare il cielo” sia pur per farsi uomo.

Eppure è questa la visione grossolana di Hegel, che pur è considerato un audace speculativo, poi ripresa da Feuerbach: per Hegel infatti il cristianesimo, come ho detto, è la religione che conduce l’uomo a prender coscienza della sua infinità, per cui la finitezza non corrisponderebbe alla profonda natura dell’uomo: la finitezza è un’apparenza empirica comportante una forma di umiliazione dell’uomo – la cosiddetta “alienazione” (Entfremdung ed Entäusserung) -, per la quale l’uomo alienato, ignaro della sua divinità ossia dei suoi attributi divini della coscienza, del pensiero e della libertà, li trasferisce in un immaginario dio trascendente al quale rende culto e si sottomette, anziché render culto a se stesso e prendere in mano se stesso, essendo l’uomo, come poi dirà Marx, “Dio per l’uomo”.

Così secondo Marx l’uomo, privato della sua essenza, con l’ateismo la recupera. Ricordiamoci che l’ateismo marxista non è l’ateismo volgare e animalesco dei materialisti francesi del ‘700 o dei positivisti dell’‘800, ma è per così dire una ateismo hegeliano, un ateismo panteista, per cui se in Hegel l’uomo è Dio e si dissolve in Dio, in Marx si ha un capovolgimento che però presuppone la “teologia” hegeliana: Dio è l’uomo: Dio si dissolve nell’uomo.

Ora dobbiamo dire che la finitezza dell’uomo, che si manifesta nella struttura stessa fisico-spirituale della sua natura, nei condizionamenti fisico-spirituali ai quali è soggetto, nonché nelle sue stesse debolezze e cadute morali, non esclude affatto una certa sua costitutiva almeno potenziale infinità, già presente in lui nella sua stessa natura di persona, ossia di essere capace di pensare, di esercitare l’autocoscienza e la libertà. Mens capax Dei, come dice S.Agostino.

Quando il Papa parla dell’Infinito come Dio, non parla di una condizione strutturale originaria come fanno i rahneriani, ma di una semplice possibilità: come a dire che sta all’uomo cercare l’infinito in ciò che è veramente l’Infinito.
Il peccato originale, dice il Papa, non ha del tutto distrutto questa dignità quasi infinita dell’uomo. Questa infinità naturale è data dal fatto che la mente umana è capace di compiere l’opera astrattiva del pensiero e della concettualizzazione, che le consente di concepire l’Infinito e quindi Dio stesso, seppure in modo assai imperfetto e servendosi della mediazione delle creature (per ea quae facta sunt, Rm 1,20). E’ capace quindi di desiderare e di amare come proprio bene quel Bene infinito che è Dio stesso, perché l’Infinito cristiano non è un infinito impersonale, indeterminato e privo di forme, ma è un Infinito personale e spirituale, Amore sussistente. Il Papa tuttavia sottolinea l’impotenza di fatto che l’uomo peccatore sperimenta in questo suo tentativo di unirsi all’Assoluto.

Ecco allora, continua il Papa, la presenza della grazia di Cristo, per la quale noi possiamo “aver coscienza” del nostro esser figli di Dio, fatti per partecipare alla vita eterna, ossia all’infinità di Dio, un prendere coscienza che però non esclude ma implica, come ho detto sopra, il fatto che noi non nasciamo ma diventiamo figli di Dio col Battesimo esplicito o implicito, da cui la possibilità della salvezza per tutti gli uomini, anche per coloro che in buona fede non conoscono il Battesimo e quindi non possono essere battezzati.
E se Dio può essere, come dice Agostino, intimior intimo meo, ciò si riferisce evidentemente a chi è in grazia e non a chi ne è privo, benchè anche nel peccatore non si cancelli del tutto l’immagine di Colui che lo ha creato.

La vera prospettiva dell’uomo dunque non è quella idealistico-panteistica di superare e cancellare i limiti umani per diventare infinito o per prendere coscienza della propria infinità. La prospettiva invece è quella di una perfezione umana nei limiti propri della natura umana, al che si aggiunge la vita di grazia frutto della figliolanza divina.
Se la natura umana non viene meno in Cristo che è Figlio di Dio, a maggior ragione non viene meno in noi, con la differenza che se in Cristo vi sono due vere nature complete, l’umana e la divina, alla natura divina in noi corrisponde la figliolanza divina e la vita della grazia soprannaturale, partecipazione della stessa vita divina.

Il Papa usa un linguaggio qua e là che si accosta in qualche modo a quello dei rahneriani non certo per dar corda ai loro errori, ma solo per una caritatevole accondiscendenza che deve favorire il dialogo e non essere strumentalizzata per tirare il Papa dalla propria parte, cosa assurda ed irriverente che finirebbe per separare il Papa dalla Scrittura e dalla Tradizione, ossia dalla stessa verità del cattolicesimo.
Il linguaggio del Papa, per essere ben compreso, dev’essere spesso contestualizzato, perché una frase che forse può non suonar bene per l’intento di allacciarsi ai non-cattolici, acquista il suo vero significato se messa in rapporto con un’altra a breve distanza che dice la stessa cosa, ma col linguaggio tradizionale onde evitare ogni rischio di equivoco e fraintendimento.


da Libertà e Persona  25 agosto 2012

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